Il circondario - Emanuele Pon (12/2015)

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IL CIRCONDARIO EMANUELE PON

Ifyouwanttofeelalive thenlearntoloveyourground Well,loveyourground Sister,Mumford&Sons AFrancesca,Lorenzo,Federico,Alessandro: achi,vicinoolontano,condivide conmeilcircondario.

PROLOGO

Come i muri della città più lenta mi trovi senza età senza padrone stare qui come alla finestra: con ogni tempo, lo stesso il mio nome.

Son Paco il cane bianco e nero, magro simbolo di terra sul vicolo di tutti – e di tutti io, rotondo con gli altri, un altro ciottolo.

E soltanto so i miei ciottoli levigati da ere di corse di zampe, ho strade di odori incastonati, voci sulla pelliccia a farsi trasportare, venti nuovi nel calpestato umido porto di mare.

Tra urla un po’ troppo umane, risate, restano segni i miei giochi – richiami di festa eterna i latrati – sommessi saluti a chiunque qui muova i suoi passi.

Patrono di queste saracinesche proteggo chi qui di giorno trova rifugio: solo, dovrà indossare un collare stretto di strade, e rispondere al mio stesso guinzaglio: il circondario.

IL LUNGO CANNETO

Battono queste pietre diverse le mie zampe, di rettangolo in rettangolo sconnesse, quando dal mattino scivolo seguendo la discesa di una palla verso i portici e il mare lanciata da chi passa per giocare.

Con lei rimbalzo tra i muri stretti correndo contro la ripa, con noi fin qui gli echi del porto di chi parte chi arriva – gli urli navali.

La corsa incontra le voci del caruggio le più vere di qui, dove un rio una volta scorse tra le canne scoscese, alla foce: rilanciano la palla mani morbide d’acqua dolce di besagnino– la stringono la cullano come pomodoro ciliegino; poi dita riarse asciutte di sale di chi la vita la dà in pescherie, umide appiccicate di pinne di squame del mare che non fa, qui, nostalgia.

Trovo le rullele reschegentili in ogni pesciaio, e i loro gridi uno sull’altro a coprirsi ridendo nel carnaio.

1.

Sono piccole le mani del droghiere, calde come l’orto di odori stipati in bottega aspettando il cielo dei nasi di tutti, come le lettere di nomi che ricordano vecchie imprese di altri – «Sì, c’è la canfora giapponese!».

La palla s’annida tra le rughe di tempo dei vecchi nei bar – in mano le carte ingiallite, e ricordi in tasca come assi buoni da giocare – passa con l’ombra la serranda a mezz’asta dei caffè sul sole: sento macaia, e il vento di un ventilatore.

Canta il suo canto il gabbiano tra le guglie delle case arrampicate, più forte delle onde di radio e panni e tele tese tra balconi gemelli fino a notte – il suo richiamo è al mare come il mio: la palla tocca piano la ripa sotto i portici, vecchi scudi per l’acqua viva: non la vedo, e ritorno al canneto, in cima alla salita.

AGLI ASINELLI

Vedo scorza di limone da mangiare masticando con calma tra i discorsi – assemblee di politica internazionale sugli scacchi di carta rossa e bianca delle vecchie tovaglie – parole a sorsi rubati alle bottiglie; nel buio zona franca.

Quando, decisi, di qui a una parallela anche stasera si trinca il non-essere, ha già alzato le imposte intorno la più vera delle notti, per noi avventori di bottega per brindare ai futuri rotti ai ricordi a quello che initinereci lega.

Allora in alto i calici dolci d’Asinello e facile scorre in gola a buon mercato il fresco dolceamaro del Corochinato: sono vivi di bicchiere in bicchiere i mondi sulle stampe al muro, parlano piano i ritagli di giornale, con la voce di Adriano.

Saggio, per il vicolo, forte ancestrale disegno tribale di quanto e come l’uomo può non essere, all’altro, animale:

2.

ora riunisce vetro e plastica andata sul bancone, non cede allo sporco di comodo neanche un bicchiere: vecchio, china fino a terra la schiena – tesa a rialzarlo, la mano della Marchesa insegna avvizzita al locale perché si deve amare.

È tardi, a bassa voce «Si chiude.»: domani chi avrà capito potrà ritornare.

INCROCIO

Alla «Stampa» della piazza quadrata c’è chi ha annerito le lettere giuste sulla targa di sole fissa al muro: resta il nome di una squadra di pallone di gente di città – vecchio gioco puro; qui passa – pietra miliare – il crocevia dei canneti, da marinai c’è da navigare tra le insegne: tabacchi frutta macelleria s’inseguono – ognuno la sua voce rigogliosa –puntuali dall’alba, ché il vicolo non si riposa; tavoli di plastica, sedie d’umido rigate di pioggia danno stazione al bar «Paradiso» a chi cammina la viacrucissempre viva delle compere, del trattare col sorriso ciò che il mondo fuori – strade larghe – non offriva: odia la verdura, testardo, il macellaio, e chi non mangia carne per morale, mentre trita ortaggi nel mortaio del fruttivendolo algerino, e spezie africane; la madre del tabacchi è vecchia e buona, sbaglia i resti senza il figlio a contare e non ha vergogna: a una donna d’altra storia s’insegnava ad agire, mai a calcolare;

3.

c’è chi urla chi s’assopisce in osteria all’angolo – nutre il rosso sfuso più del pane –o di fronte, un avanzo di trippa di rosticceria quando alla sete risponde – sola – la fame.

Sono all’anima gli acquisti, non al corpo – occhi parole di chi qui piange ride prega – : per il quadrivio di parlate del porto non c’è merce di scambio, o moneta ma la storia di chi passa, scritta in volto.

QUI ARABIA

Quando hai preso al volo quel barcone forse non volevi un’altra casbah che ti piovesse dal cielo sul cuore: sognavi, forse, roba di marca, plastica in tasca; poi la rotta ti porta qui – o a Marsiglia malafama– e nel quartiere la famiglia – Campetto, Maddalena, Macelli di Soziglia –dice nomi nuovi, ti impone e ti proclami.

Impari o muori presto sotto i colpi dell’ecclésia popolare – non hai paura: a noi più simile di quanto sogni, sai che oggi al sopravvivere preferisci l’imparare.

Così ti assorbe ti accoglie il nostro gomitolo, trovi profumi e volti già vissuti nei bazar – pane azzimo o focaccia, basilico e coriandolo –: non più solo Allah – con lui i «belìn», i «manimàn».

Sa di baccalà e bianchetti il tuo negozio strano di odori, turbanti, Corani già letti e brucia il tuo incenso, il tuo olio su squame d’orata, gusci di gamberetti.

4.

Non cercare con la manopola la stazione giusta per la radio frusciante di Levante se senti brutte notizie di passato e presente a casa tua, dal satellitare d’informazione: alla nuova tua Mecca del vicolo stretto fa la genuflessione, alla sua pietra vecchia tagliata al tramonto da lame di sole.

DELL’AMORE QUI INTORNO

Dirò dell’amore qui intorno ovvero di liti tra donne al sexy shop, tra uomini al cinema porno.

***

Qui di cuore si parla al buio sotto tegole strette di bucato: non c’è vergogna nel mio fiuto per l’amore in bilico del vicolo – sudato.

A questo regno di carne la boutìque di lussuria è sovrintendente: tra gli spazzini il lusso – lì dove il cielo a malapena si sente; la matrona è procace rotonda vestale del culto di vestirsi di poco – di pizzo di seta di rete, a chi guarda mostrare da lontano la posta che è in gioco; terrena ad un passo dalla vetrina, la merce è celeste, un nume di pregio: fa di te – uomo – euforia e rovina, a te – donna – dà rabbia o rifugio. ***

5.

Ad un vicolo storto dal trono sensuale di donne che fanno le carni divine, sta il cinema porno su puzza umorale – onesta bottega per la carne che vive; stazione triste di viandanti riarsi asciugati dal sole – pellegrini scalzi non in cielo, non in terra, ma tra le pellicole cercano qui le vie dell’amore: qui è pastore l’uomo attempato – di nastri di rulli umano motore sulla soglia della sala proiezione –per chi coltiva lo sguardo proibito, pastore all’anima che si sa alla deriva – così la messa dice, in televisione, così dicono le buone signore in boutìque, torcono il naso dalla vetrina. *** Persi a contare a spartire il ricavo su chi compra migliorie per il cuore o u sogno usato per non faticare, non sentono – forte – il mio latrato: troppe le urla – ognuno dei due è legislatore di leggi incrociate sulla via per amare.

«Vergogna!» «Matrona!» «È droga a luci rosse che dà la tua grotta, immagini false!» «E tu vuoi la fuga per l’uomo stregato da fate perverse!» «Non sai che dar lustro a una fogna!» «Tu fai dell’amore faccenda di classe!» ***

Non sentono chiamare, o la voce che ride del prete che passa, si sfrega le mani, e disegna una croce.

IL CIELO DI QUA

Si sfrega le mani e disegna una croce di sollievo il sacerdote del quartiere, ché molti ancora pendono dalla sua voce; rapiti, fedeli al suo vecchio mestiere di contare ad ogni angolo l’unico Vero che sta anche per gli ultimi in fondo all’altare, gli ultimi arrivati o rimasti per il cielo da educare – chi qui continua a credere che questo buio non sia così nero: vecchi e vecchie – futuro di cenere –lo seguono in chiesa, in mente la ressa sui posti in guerra, sul cibo – la polvere –; per loro Don Paolo dice la messa, a chi va a piedi nudi nel dialetto antico degli stracci dà aegua e fugassa; poi scrive righe per missione e diletto sul giornale di città al popolo commosso, a quelli che il mondo gli va sempre stretto.

6.

Di fronte a lui ha casa il prete ortodosso, la barba come la chiesa dura scurita diversa – tempio di pena e trapasso, d’incenso e olio e carne affumicata per i russi dell’alimentari a fianco a scaldare di birra un’altra giornata.

Qui nella puzza di piscio il cielo è stanco: nel sudore di chi non ha acqua né verità né altro, il cielo è lontano è bianco, i preti camminano nell’Al-di-Qua.

SAN BERNARDO

Leggo appiccicati appena allo sporco dei muri – poco più che straccia la carta –«Sabato c’è il mercatino delle pulci: venite ai banchi che svegliano la piazza».

Come da un grammofono di polvere venduto a quei banchetti, gira e si leva per me – spettatore in attesa per fame –odor di San Bernardo nel mattino autunnale: scodinzolo alle pietre ai ristoranti che portano qui il mondo al tavolo – nei piatti oceani altipiani tramonti d’India e Sudamerica, in birreria i fusti fumanti; sorridono le donne di trattoria al mio fiuto, traggon doni dal grembiule: sul pane secco pesto e noci – fiume stretto di cuccagna – e danno il resto di una tripperia al pellegrino sulla via.

E alla fine la piazza del mercato: allo scarto s’impila il sogno rubato sui banchi che sanno di vecchia cantina dal respiro di formalina – all’angolo sono il suo guardiano coccolato;

7.

le mani bianche della piccola libraia dicono la vecchia carta pulita amata sul mio pelo, dicono la vita solitaria superba di quei libri, quei robivecchi che da San Bernardo non cambiano mai aria.

JAMILA

Ho le mani bianche – a tenermi in piedi –della piccola libraia, le avevo ieri: oggi, di una parallela più giù dalla cinta muraria trovo le mani di Amadou, i dorsi neri.

Il neon spento non dà segni di vita ancora, quando mi racconta tra le carezze del suo paese, e finge con le dita quel che sa dire solo in senegalese; sussurra il resto a muso stretto – che le tasse sono alte, ma c’è Jamì, dice di studiare da tanto il dialetto, che nessuno li porterà via di lì.

Poi Jamila torna a casa dalla scuola, legge il suo nome nell’insegna che risplende ancora spenta a mezzogiorno come nuova, alle mie zampe dà lo scarto di un cliente.

«Restiamo»

Sulla strada lastricata risuona presente tra le pietre vecchie ammorbidite la voce di papà Amadou, sorridente.

8.

TABACCHI

Su questa salita ripida e stanca di pietre messe male alla rinfusa sta la saracinesca del Tabacchi – alta –alzata su quella calca mai chiusa:

scorre la folla veloce implacata una dopo l’altra via via, e con le ore scorrono le sigarette della giornata gettate a terra senza nostalgia a manciate contro la notte che incombe su chi al lavoro dà sudore, su lacrime di chi troppo ricorda o nasconde – su chi del tabacco respira anche l’odore.

Il Tabacchi in salita sa il vizio la noia che danno il gusto alle cicche a mezz’asta sulle labbra del suo padrone – profumo senza filtro di paglia – sa che non basta la luce del giorno a scoprirne il sapore:

così quella noia la mastica e fuma severo, e non pensa alla pausa festiva quando lo guardo dal fondo del Canneto, non ascolta il salire di buio di luna, non i saluti – vizi di forma – di chi arriva alla bottega, ma lì dov’è rude – da lontano lo vedo –è lì che batte il suo cuore segreto.

9.

IL CONTE E L’ALARBARDIERE

Leggo con gli occhi di un vecchio del circolo del dopolavoro a San Bernardo parole gialle di resa – «Affittasi» – sul vicolo all’insegna del Conte che al jazz, all’amore, a chi vive tra i sorsi la notte fu ricettacolo:

il legno è sbiadito – ha disfatte le suole l’effigie del locale, bruciata la sigaretta, il basco che pende calato, un mazzo di viole appassite nel taschino – fossile da erbario –la mano ancora tesa a quella grotta perfetta; e ancora si sente tra gli antri il pianoforte poggiar note ai muri sbilenchi di pietra viva: è la padrona che, stanca, alle candele ritorte fuse sul vetro dà il suo lamento impastato di Jack e Sandemàn, col pianto rassegnato cerca il brindisi che stasera non si farà. ***

Preme altra ruggine il ferro dello stemma d’alabarda della Taberna Medievale, polvere e muffa di tempo danno alla fiamma la caccia – alla fiamma dei ceri che, soli, come una volta fanno luce al locale;

10.

soffiano a nessuno cetre e cornamuse d’altro sapore – di vin caldo d’idromele –distillati di sogni antichi di cammini affaticati dal contado al borgo – le cambuse danno l’eco del vuoto, non voci di pellegrini. ***

Ed ecco i vecchi osti scendere per mano la salita del Tabacchi, fin giù a Ferretto, dall’apertura ingollare la plastica di un chupito per non sentire più – ora quasi senzatetto –che altro tempo è iniziato, il loro è finito.

FERRETTO O PIAZZA SHAMIM

Andiamo – ci piace – come gocce mute di pioggia anche stasera sottili nel mare cadremo in onde tanto piene da essere vuote, anche stasera affogheremo per farci notare; tra plastica e carta di bicchieri annaspiamo per fare quel che ci pare selvaggi – lo sballo di chi è nato quasi ieri, chi si vuole senza tregua riversare sulla pietra miliare del finesettimana a ricucirsi da capo – nuovo codice d’automa da imprimere alla tabularasa.

E allora s’affastellano i cartelli dei locali come tane alle formiche, gli annunci di chi offre appigli tutti uguali sul nulla di questa folla – amici amiche chi offre di meno alle scie detersive di bottiglie senza etichetta? Non importa chi o cosa, è solo troppa la fretta;

11.

ma fretta di cosa? Tra l’invisibile di una gonna – falsa lascivia di sbronza – e un discorso artefatto urlato a passare quel nostro muro di gomma, si dimentica tutto nel colpo d’accatto: due spicci ancora e ce ne andremo a letto, ma prima due spicci ai re nuovi di Piazza Ferretto.

AMIU: DELLA PURIFICAZIONE

Alla fine di ogni luce o rumore a portare i passi vicini sulla strada di qui, il vicolo è deserta, mistica rada dove niente c’è, adesso, che muore; sono rimasugli al campo di battaglia della sera passata i muri di sudore, il vomito a terra, cocci di bottiglia opachi che graffiano d’orrore,

muti scarti della guerra dell’Io in cui è mutata ora ogni giornata – del fiume in piena in cui era cominciata scorre, madido nel vicolo, il piscio in un rio.

Non ha più spazio la città, né tempo per cantare ad occhi aperti il giorno – c’è il soffio caldo di farina nel forno a portare il gusto del pane nuovo nel vento; è l’ora, questa, del mio guaire di cane – per i canti lontani affievoliti c’è spazio, fuori dalla finestra per il ronfare di chi all’alba riaprirà il negozio.

12.

Questo è il tempo del sussurro muto che alza la saracinesca agli spazzini, del lamento di camionetta che porta il fiuto di sporco – come il mio – dei netturbini:

il loro mestiere è la notte da nettare, fosforescenti tra il ruvido e il pietrisco ramazze trascinare, chiamandosi col fischio attraverso quelle strade – pietre da spazzare.

Vago scodinzolando anche con loro a ricordare infine il bello in questo porto vario di vicoli in intrico lastricati di scuro: con loro preparo a domani il Circondario.

IlCircondarioè stato composto tra il Luglio ed il Novembre 2015 Grafica a cura di Federico Ghillino pon.emanuele@gmail.com

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