INTRODUZIONE
Harold Pinter, Girls
SEZIONE TRISTE
1. Scena muta
Ci teniamo vicini all’urlo, mentre passa il dodici e l’attimo separato dal suo vortice resta qui, nel cuore buio dell’estate, nell’annuncio di una volta sola. Tu non ci sei. Resta la tua assoluta voce nella segreteria, questa morte che non ha luogo.
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L’essenza della carne ferita vagava tra due muri, l’amore usciva dal presente e il lenzuolo dei volti era lì, ed era cemento tra le dita ed era buio tutta la luce era chiusa nel petto, tutte le parvenze della rosa, tutta la forza dell’ora persa.
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Sotto i cavi sospesi chiedemmo una costanza, tra gli allucinogeni chiedemmo di sapere il codice terrestre, il canto sotterraneo che bussava alle vertebre. Vattene nulla morente, vattene ferita dei minuti che tornano qui.
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Dove ondeggiava il sangue, dove il perfetto insieme era più nostro, c’è l’ombra del geranio, le sostanze crocifisse, un metro d’asfalto e di nulla e il respiro è d’asfalto, le labbra d’asfalto, il silenzio e l’andarsene sono d’asfalto. L’ultimatum, anche quello,
ce l’ha dato l’asfalto, l’asfalto.
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Un improvviso ci porta nel dolore che tutto ha preparato in noi, nell’attimo strappato al suo ritmo, nel suono dei tacchi, nel respiro che si estingue: era un pomeriggio d’agosto tra le ombre della tangenziale, il nostro niente da dire, filo di voce, scena muta.
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Eri l’ultima donna della vita, eri il temporale e la quiete, il luogo dove la luce è insanguinata e il sangue fiorisce: pochi minuti, pochi metri, sempre lì, nel cemento che parla, nella città degli amanti, nel silenzio dei lavandini, il bacio avvenne e noi non abbiamo voluto più uscire. Si muore così, all’ingresso di una scuola, un cerchio perfetto.
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Lungo una strada di Roserio e di ombra, cammino, resto accanto a te, ai tuoi sandali che l’asfalto bruciava, l’asfalto di ogni estate, l’asfalto che penetra nel seno, finché appare la ferita, finché la vista è silenziosa come la sua fine.
*
Noi che abbiamo conosciuto il cuore di ogni giorno e il cuore senza età, l’idea che illumina la carne, la sapienza delle misure e il lampo, noi ci lasciamo qui, in due metri di cemento, con un atto di presenza, un battito estivo, uno scambio di persona.
Milo De Angelis
La Bovary c’est moi
IV
Lontano come la luna mi domando come puoi dirmi se è stata quella davvero l’ultima volta. Ma prima di cancellarti devo saperlo. In verità non è stata una volta speciale come altre che a lungo mi avevi guardata perché nei tuoi occhi restassi – dicevi, mentale inerme immagine presto dimenticata. Toccare è più che vedere, sentire è più che pensare, ti rispondevo – non mi guardare. La fine vera non è la fine aspettata. Dovessi tornare alla scuola e mi dessero un compito in cui si ordinasse “descrivi l’ultima volta” potrei raccontare soltanto che “dunque a fra poco” mi disse – ma non sospettavo che fosse l’ultima volta. Se è stata proprio l’ultima seppellisci il nome della strada e la bocca che ti sfiorava. Non dovrò più cercarti in chi ti ha veduto nè ascoltare chi ti ha ascoltato – non tenterò di toccare parole che ti hanno parlato. Ma se non è stata l’ultima vieni a dirmelo.
VI
La cosa che affastello per molte notti nel sonno che s’interrompe frequentemente e più nel dormiveglia dell’alba fastidiosa che domani è già oggi e porta una nuova cosa. Eppure la certezza è che tu non sei presente nell’attimo a noi ben noto – il NO di altra cosa che altro non può aggiungersi: la verità del dubbio che tu sia niente pensiero della mia mente ma veri i giorni gli anni che per sempre non ti avrò. Inerme contro il niente m’interrogo se tu sei gioco burla o passione irrevertibile o un disegno sottile che mi sfianca o il vuoto di tenerezza reciproco che è da riempirsi: aspetto tue parole ma è luce di astro già spento. Vorrei poterti abolire abolendo me stessa come abolendo te stesso tu mi potresti abolire per fare a tutti dire – di cosa mai parla questa pazza senza pudore senza il coraggio di morire per amore.
Giovanni Giudici
2.
3. Gli uomini che si voltano
Probabilmente
non sei più chi sei stata ed è giusto che cosí sia. Hai raschiato a dovere la carta a vetro e su noi ogni linea si assottiglia. Pure qualcosa fu scritto sui fogli della nostra vita. Metterli controluce è ingigantire quel segno, formare un geroglifico più grande del diadema che ti abbagliava.
Non apparirai più dal portello dell’aliscafo o da fondali d’alghe, sommozzatrice di fangose rapide per dare un senso al nulla. Scenderai sulle scale automatiche dei templi di Mercurio tra cadaveri in maschera, tu la sola vivente, e non ti chiederai se fu inganno, fu scelta, fu comunicazione e chi di noi fosse il centro a cui si tira con l’arco dal baraccone. Non me lo chiedo neanch’io. Sono colui che ha veduto un istante e tanto basta a chi cammina incolonnato come ora avviene a noi se siamo ancora in vita o era un inganno crederlo. Si slitta.
Eugenio Montale
In due
«Aiutami» e si copre con le mani il viso tirato, roso da una gelosia senile, che non muove a pietà come vorrebbe ma a sgomento e a orrore. «Solo tu puoi farlo» insistono di là da quello schermo le sue labbra dure e secche, compresse dalle palme, farfugliando.
Non trovo risposta, la guardo offeso dalla mia freddezza vibrare a tratti dai gomiti puntati sui ginocchi alla nuca scialba. «L’amore snaturato, l’amore infedele al suo principio» rifletto, e aduno le potenze della mente in un punto solo tra desiderio e ricordo e penso non a lei ma al viaggio con lei tra cielo e terra per una strada d’altipiano che taglia la coltre d’erba brucata da pochi armenti. «Vedi, non trovi in fondo a te una parola» gemono quelle labbra tormentose schiacciate contro i denti, mentre taccio e cerco sopra la sua testa la centina di fuoco dei monti. Lei aspetta e intanto non sfugge alle sue antenne quanto le sia lontano in questo momento che m’apre le sue piaghe e io la desidero e la penso com’era in altri tempi, in altri versanti.
«Perché difendere un amore distorto dal suo fine, quando non è più crescita né moltiplicazione gioiosa d’ogni bene, ma limite possessivo e basta» vorrei chiedere ma non a lei che ora dietro le sue mani piange scossa da un brivido, a me che forse indulgo alla menzogna per viltà o per comodo.
«Anche questo è amore, quando avrai imparato a ravvisarlo in questa specie dimessa, in questo aspetto avvilito» mi rispondono, e un poco ne ho paura e un po’ vergogna, quelle mani ossute e tese da cui scende qualche lacrima tra dito e dito spicciando.
Mario Luzi
4.
5. Distributore
un distributore automatico della coca - cola scagliato lontano dall’onda d’urto mi squarcia il torace lasciandomi in un vicolo riverso ad aspettare la fine del mondo riapro gli occhi nel buio e avrei voglia di chiederti se puoi tornare nella tua metà del letto ma non ho più le forze
Roberto di Egidio
Riadattamento teatrale da Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, Raymond Carver
Paolo Conte, Via con me
SEZIONE ALLEGRA
1. Ti cercherò sempre sperando di non trovarti mai mi hai detto all’ultimo congedo Non ti cercherò mai sperando sempre di trovarti ti ho risposto Al momento l’arguzia speculare fu sublime ma ogni giorno che passa si rinsalda in me un unico commento ed il commento dice due imbecilli
Michele Mari
Luigi Tenco, Lontano lontano
2. Passasti con quella luce in pugno,
dissi: “Non so, so molto poco dell’amore. Giù c’è un abisso, lo conosco bene”.
Tu mi prendesti per la giacca, metà del mio viso era già in ombra. Abbiamo corso, volato, qualche volta.
Di certo ci sono foglie secche, qualcuno le calpesta, stridono in fondo al cuore.
Di certo la stanza è un rettangolo d’angoscia e il buio completa la sua opera. Ogni tanto sprofondo nel cappotto, accelero il passo come fossi atteso. Più spesso una voce mi precede. Sono in ritardo, penso, hanno già chiamato!
Allora vorrei che mi afferrassi per il bavero, che mi tirassi via, dove c’è luce.
Roberto Carifi
3. per caso mentre tu dormi per un involontario movimento delle dita ti faccio il solletico e tu ridi ridi senza svegliarti così soddisfatta del tuo corpo ridi approvi la vita anche nel sonno come quel giorno che mi hai detto: lasciami dormire, devo finire un sogno
Antonio Porta
4. Alla beatrice
Beatrice sui tuoi seni io ci sto alla finestra arrampicato su una scala di corda affacciato dal fuori in posizione precaria dentro i tuoi occhi celeste vetro dentro i tuoi vizi capitali dentro i tuoi tremori e mali
Beatrice sui tuoi seni io ci sto a spiare ciò che fanno seduti intorno a un tavolo i tuoi pensieri su sedie di paglia ospiti appena arrivati sul punto di partire raccolti sotto la lampada gialla uno che ride uno che ascolta e uno che parla
Beatrice dai tuoi seni io guardo dentro la casa dalla notte esteriore superstite luce nella selva selvaggia che a te conduce dalla padella alla brace estrema escursione termica che mi resta più fuoco per me tua minestra
Beatrice - costruttrice della mia beatitudine infelice
Beatrice dai tuoi seni io vengo a esplorare com’é la stanza dove abitare se convenienti vi siano i servizi e sufficiente l’ordine prima di entrare se il letto sia di giusta misura per l'amore secondo natura.
Beatrice dunque di essi non devi andare superba più che dell’erba il prato su cui ci sdraiamo potrebbero essere stracci non ostentarli per tesori da schiudere a viste meravigliate i tuoi semplici beni di utilità strumentale mi servono da davanzale
Beatrice ~ dal verbo beare nome comune singolare Giovanni Giudici
5. da che cosa (mi chiedo) mi cerco che mi scappo, così scappando, galoppando sempre? da me, lo so: (dal mio essere morto): (un molle morto): (scappo da una mia mala morte): (che non è mica che mi insegue, poi): (e che non è che mi sta già alle spalle, adesso, probabilmente, nemmeno): scappo dalla mia vita (da te, cioè, che sei tu, la mia vita): (se tutto questo ha così poco senso, che farci allora?): scappo in me, scappo in te: nel mondo tuo, nel mio: (io che ho pensato, persino, una volta, che, dalla vita, ho avuto tutto, avendo avuto te): quando si arriva, c’è un grido: si dice tana: (è la fine, sul serio):
Edoardo
Sanguineti
Guglielmo Cassinelli, Vorrei tanto dir
TERZA SEZIONE
– Claudia – Gaia – Federico – Umberto – Giacomo CONCLUSIONI