Fischi di carta 23 (12/2014)

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Fischi di carta

Dicembre 2014 Numero 23

Poesia di cinque giovani fischianti

Usciremo dalla cava di pietra. Irromperemo nell'azzurro spalancato del cielo.

Vladimir Majakovskij, e su un muro dell'aula M di Via Balbi 4, Facoltà di Lettere e Filosofia

Editoriale

Il Metodo Umano

Mi è capitato spesso, in questi mesi, di incorrere in momenti “nostalgici”, malinconici e lacrimevoli, durante i quali l'attività preferita era quella di guardarsi metaforicamente alle spalle, e altrettanto metaforicamente spalancare gli occhi considerando quello che è successo in precedenza, il punto da cui siamo partiti, il nostro percorso di crescita. Oggi mi capita di scrivere l'editoriale del numero che segna i due anni di vita dei Fischi. A questo punto sorgono due necessità etiche, per così dire, che utilizzo questo spazio per risolvere: la prima è facile.

GRAZIE. Ecco fatto. Perdonate la schiettezza e la rapidità, ma sarò già abbastanza prolisso parlando del resto, credetemi. La seconda necessità etica è pressante quanto la prima, più difficile da risolvere, giacché mi pare doveroso, almeno un minimo, parlarne: si tratta della necessità, ancora una volta di guardare alle proprie spalle. Ma questa volta, avendo superato un traguardo che molte riviste (rimaste poi, infatti, sconosciute) non hanno sfiorato, e cioè i due anni di vita e di attività, credo che lo sguardo indietro debba essere seguito da una riflessione più profonda del solito, una riflessione che guardi avanti: se siamo qui, non possiamo dimenticarci della fatica che abbiamo fatto per arrivarci, né tantomeno è nostra intenzione sminuirla. Tuttavia è necessario, a questo punto, un salto di qualità, ed è stata proprio questa la tematica delle nostre ultime discussioni di “redazione”: ciò che è necessario è crescere con il tempo. Il nostro ultimo obiettivo, dunque, è quello di chiarirci le idee. Perché facciamo questa cosa? Le nostre motivazioni sono cambiate rispetto al 2012? E che dire degli obiettivi? Scrivo questo editoriale come punto di partenza, o di ri-partenza per voi, ma anche per noi. Ora: avere le idee chiare significa, in termini pratici, che il nostro pubblico, chi ci legge e ci segue deve averle chiare almeno quanto noi. In altre parole: siamo una rivista di poesia, da settembre con gioia anche di prosa, dunque di letteratura, che è una forma d'arte. Diciamo qualcosa sulla nostra idea di Arte, dunque: prendiamo una posizione netta, la nostra, e non abbandoniamola. Mi appoggio ad un episodio. Nel corso del mese di novembre ci è stata data la fantastica opportunità di creare e svolgere un ciclo di lezioni per una classe del Liceo Scientifico Fermi: “lezioni di poesia”. Ma che significa fare una lezione di poesia a dei ragazzi di

quindici anni? Può significare soltanto il tentativo di trasmettere loro la propria idea di poesia: ed eccoci al punto. Raccontare a quei ragazzi che cosa, per me e per noi, significa “vivere secondo poesia” e “vivere secondo arte” è stato come scrivere un lungo e divertente editoriale, e nello stesso tempo è stato la cosa più simile ad un'autobiografia: abbiamo parlato di noi, della nostra vita, del modo in cui ad essa applichiamo la nostra visione dell'Arte. Siamo partiti, due anni fa, dal principio, in cui continuiamo a credere, che se la gente non si avvicina più alla poesia, allora è la poesia che deve avvicinarsi alla gente, in ogni modo. Da qui derivano la distribuzione gratuita e massiva fondamentalmente in tutti i luoghi che ci balzano in testa (compatibilmente con la tiratura, certo), da qui deriva la nascita della rubrica “La poesia dei lettori”. Ma da qui deriva anche un'idea di poesia e di letteratura come di qualcosa che, prima di tutto, sia onesto e utile: in un progetto come il nostro, le opere dei singoli sono importanti solo relativamente. Ciò che importa è Il Fischio nella sua interezza, come entità collettiva e nel contempo individuale. Urlare e “fischiare” in giro per la città che la poesia è la più umana e “normale” delle pratiche, e anche dei mestieri, ecco qual è il nostro obiettivo principale. Partiti dall'ambiente accademico e dal nostro territorio di studio, ogni giorno lottiamo per non essere rinchiusi ed ascritti totalmente ad esso, cosa che, come un'equazione esatta e incontestabile, avrebbe l'effetto di allontanarci dalla gente, e di farci esplodere dall'interno. Allo stesso modo, non è nostra intenzione, e non lo sarà mai, rinnegare il nostro retroterra culturale: siamo consapevoli di ciò che ci ha dato i natali. La poesia deve uscire dalla nicchia che essa stessa ha contribuito, negli ultimi anni, a scavare, ecco tutto; noi naturalmente non penseremmo e non chiederemmo tutto questo, se non sapessimo che la poesia non è nata in una nicchia. Spiegare e raccontare ai ragazzi del Fermi che la poesia nasce come canto corale, indissolubilmente legata alla musica, oppure come preghiera, ma in ogni caso come una pratica collettiva e universalmente riconosciuta, è stato utile ed istruttivo anche per noi; così come ci è servito ricordarci l'etimologia della parola, un campo di fronte al quale di norma le persone storcono il naso, svogliate: ma il poeta è poietés, ossia colui che fa. Fa, e nient'altro. Creazione pura. Ecco quello che vogliamo fare:

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mostrare e dimostrare che il poeta è “poeta normale”, espressione che abbiamo scelto come titolo del nostro ciclo al Fermi. Fare la poesia è quasi un pleonasmo: letteralmente si potrebbe tradurre con “fare la cosa fatta”! La poesia, dunque, l'Arte, è uno stile di vita. Un modo di accostarsi e di guardare il mondo che ci permette di scovare ovunque tracce di umanità e di bellezza, senza fermarci al grigiore che spesso sta in superficie: e non si tratta di un modo difficile, personalmente lo definirei più come il nostro modo. Riflettiamo insieme. Ci sono due cose che ci rendono, così pare, differenti da ogni altro animale sulla faccia della terra: il pensiero e lo spirito, il ragionamento e l'anima, chiamiamoli un po' come vogliamo. L'importanza del “vivere secondo Arte” sta nel fatto che, contrariamente a ciò che il mondo sembra suggerire in ogni modo, questo atteggiamento di fronte alla vita non dà origine ad un conflitto, semplificando, tra la ragione ed il cuore, tra il razionale e l'irrazionale: con una terminologia cara a Hegel, lo si potrebbe anzi definire la sintesi che unisce e supera lo scontro tra tesi e antitesi. Continuiamo a riflettere insieme. La poesia non esisterebbe senza un pensiero razionale a sorreggerla, poiché è proprio in seno al pensiero che nasce il linguaggio, è dal cervello che si sviluppa la parola, anche se la parola è “amore”; allo stesso modo, tentiamo di immaginare una poesia che sia puro esercizio del proprio raziocinio, e scopriremo di non riuscirci. O meglio, potremmo anche riuscirci, ma penseremo a virtuosismi costruiti per intero a tavolino, per sbalordire o per “suonar bene”; di certo la nostra mente non correrà a Dante, e nemmeno a Leopardi, e nemmeno a Montale, e nemmeno a Fortini.

Storia della letteratura italiana in quattro cognomi, ecco fatto. E qui sta un altro punto di vitale importanza per noi: anche la cultura, e l'amore per la cultura, fanno parte dello stile di vita di cui stiamo parlando; ed è evidente che non si tratta di nozioni da

imparare a memoria. Anche in questo caso, se di Dante conoscessimo soltanto le date di nascita e morte e quelle di composizione delle sue opere, staremmo operando unicamente con il cervello, con la nostra parte meccanica. Ma ognuna delle due parti grida di continuo all'altra “ehi, c'è anche tutto il resto!”. È per questo che l'amore per la poesia diventa amore per l'Arte, e sempre per questo l'amore per l'Arte diventa amore per la Bellezza. Vivere di bellezza, di questo si tratta: scovare il bello anche nel dolore, nel grigio, nella paura, perché “bello” può anche essere, oggi, qualsiasi cosa muova in noi un'emozione, qualsiasi cosa ci faccia sentire vivi, o più vivi del traffico mattutino, dell'andare a lavorare, del rispettare rigorosamente le nostre scadenze e regole. Siamo uomini in quanto continuamente e per sempre ricerchiamo la Felicità e la Bellezza: ma forse non abbiamo che da guardarci intorno, quando non addirittura guardarci dentro. Questa è la nostra posizione: una posizione che non tiene conto, avrete notato, di quell'infinità di questioni riguardanti “lo stile”, “il linguaggio”, “la poetica”, e chi più ne ha più ne metta; non ne tiene conto per il semplice fatto che le nostre posizioni in merito sono varie e variamente belle, come vari e variamente belli siamo noi.

Il poeta è un uomo normale, e la poesia è una cosa normale, perché, come ogni altro essere umano e come ogni altra cosa umana, ha un'interiorità che completa la sua esteriorità, ed un'esteriorità che completa la sua interiorità: come gli atomi di cui è costituita ogni cosa, hanno un nucleo di protoni e neutroni e degli orbitali entro cui ruotano all'infinito gli elettroni. Se non ci guardiamo intorno, non troveremo mai la bellezza; ma se non ci guardiamo dentro, non troveremo mai le parole di cui, per descrivere la bellezza, abbiamo bisogno.

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Laurea

Alla festa c'erano tutti si può dire proprio “tutti quelli che contano” -contano nella vita mia di uomo neonato, no, nella vita di ogni uomo!- sono quelli che li inviti dappertutto, perché solo con loro andrai da qualche parte, con loro puoi andare dovunque:

ti servono solo quei volti, quei nomi che non riuscirai a ricordare -forse qualcosa- niente più spesso rimarrà poi di quelle facce incartate di sorrisi da pacchetto regalo, che hai comperato.

C'erano mamma e papà ai lavori forzati -necessità, altrimenti chi pensi che paghi?ma non erano la famiglia: erano lì a tener conti, il box office della serata, con i denti con le unghie strappano biglietti gialli senza scritte, tutte consumazioni gratuite -ed ecco che si fa qui, si consuma.

Si consuma con il portafogli il tempo senza pensare, finché si resta senza ricordi, finiti gli aneddoti da raccontare: ora è silenzio di parole, e giochi di occhi imbarazzati tra un drink e l'altro.

C'è solo musica a far tremare il muro tintinnare i vetri dei flûte, e tua madre nessuno l'ha vista appiccicare con lo sputo un'etichetta diversa allo spumante da supermercato -chè ha speso già troppo, quasi tutto nel suo vestito nel mio completoma poi si doveva fare, non si torna indietro.

Tanto solo ora ha il suo valore facciamo risplendere i crateri della luna con l'acqua delle bolle di fontana e piscina, con i neon colorati, i led del locale affittato in nero -le cameriere comprese.

Tanto solo ora ha qualche senso; continua il percorso, è un'altra tappa, il pedaggio è da casello d'autostrada: e andremo felici domani mattina via dalla festa, a cercar da mangiare.

Il doppio tredici

Ho vissuto il giorno due volte: il giorno 13. Mi sono svegliato uomo e artista, vivendo le pagine d’un libro di fiabe. Ho realizzato i sogni del mio io bambino, quando parlavo con i cuscini del divano cercando invano Marco, il mio amico immaginario.

La prima volta mi sono addormentato nel mezzo d’un tempo negro, ululando alla sorte infelice che non mi mostrava la Luna. Ho masticato le perle e i cetrioli udendo uccelli canterini svelarmi porzioni di futuro. Mi sono posato sulle pietre acuminate del paesaggio del mio animo Fenice.

Poi mi sono svegliato, ma non sono sicuro di averlo fatto con certezza. Il paesaggio vestiva ancora un insolito grigiore come in quel dì variabile, quando il tuo viso prese il colore delle nubi. Tra le righe del tuo volto irrigato, lucente come lo smeraldo, liscio come il rivo d’una sorgente, ho decretato d’essere in sogno.

Nella tua sagoma quel giorno vidi tutta l’incertezza di questo doppio tredici.

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Palpebre di pesco Dedicata a V.

Se penso alla foglia che giace rotonda, penso alle carezze del pesco che copre i tuoi occhi.

Il mio intimo mattino sveglio e buio risplende sui profili e tace, perché amo.

Un cumulo di teschi hai ammassato sull’unghie, io un torrente di pensieri tra le tue cosce.

Sei il mio chiodo fisso a me troppo caro... Finisce la tenebra sullo smalto che porti.

Dove sono mai cantiere azzurro uccello liso? Ciminiera cuoci il nostro pane e fai da armadio ai vanitosi spalle ai ritrosi casa di armoniosi venti nella spirale dei fuochi materni, sera, siamo occhi da ciminiera verrai ad abitare ancora e sognarci? Custode del parco, nonna, betulla: apriteci il prato, la mattina, troverò sole sul mio piatto, ieratico vascello d'ogni albero, muta in mare il maestro, la brina invocante alti amori, città sommerse chiuse dalle tue dita pennute che grazia

Sponda Est

Arrivo, la riva il lago i turisti i mesti volti dei vecchi sulle panche e le papere giocose si accontentano con le briciole sotto il picco austero, spina al fianco del cielo.

Un bacio sotto il ramo, foglia vinosa, la pace lussuriosa del secondo che ticchetta sulla piazza nei bar, tra le coppe dei gelati, è cristiana carità concessa all'oblio dei cimenti quotidiani.

Poi siamo acque coltivate ad alghe nascoste e spudorate come il senso dei colori oltre l'orizzonte. Noi siamo i bagnanti penitenti per le bracciate non ancora date e, per timore, ci facciamo domande da bambini: “Dove andrà a finire il sole? Accompagniamolo a dormire! E poi, domani...?” No.

A domani non pensare, resta qui a respirare il vento che rubiamo alle bandiere, sotto la luna che incede ondolando e il buio cieco in attesa al di là del monte.

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Alessandro Mantovani

Fantasma portuale; allegoria

Sporto dal pontile ho sputato nel Tirreno. «Sarebbe stato meglio incontrarci ora... Ho sputato perché quando mi sporgo poi vedo sempre i cerchi dei pesci che baciano la superficie e mi viene da sputare. CIK.

«Ci saremmo evitati due e più anni di litigi, e quanto ho pianto... La biosfera rende originale il porto, mi ci cade l'occhio seguendo la banchina da questa chiatta che forse gracida forse scricchiola KREEE-E-E-E.

«Ma se ci incontrassimo ora non saremmo quelli di ora perché fra ieri ed ora ne sono successe di cose SKREEEEEE. Ora sembra un lamento «e quindi se avessimo lasciato fare al ieri senza esserci incontrati ieri sarebbe diverso il fino a oggi da ieri e te più bambino, me più bambina vedo. Questo cielo basso è genuinamente marittimo, (non un marittimo da mare aperto, un marittimo portuale tirrenico. Postindustriale volendo.)

«Io non so cosa dobbiamo fare di noi ma di noi siamo fatti oggi noi come si può essere tu ed io senza più essere noi?» e la donna sulla banchina da là, mi viene incontro e mi sforzo sforzo ma non la riconosco, ma scommetto che lei ha quel viso seveno1 che salva la vita.

1 Seveno è portmanteau di severo e sereno, perché quel volto contiene due nature ad un tempo.

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Le poesie dei lettori

L'idea di Le poesie dei lettori è nata dalle richieste di collaborazione che abbiamo ricevuto da amici, conoscenti e sconosciuti che ci hanno fatto pensare ad uno spazio dove raccogliere tutte le loro poesie. Quindi, ringraziando coloro che senza timore si sono mostrati e si mostreranno, speriamo che la nostra idea possa farvi piacere ed invitiamo chiunque sia interessato a scriverci!

Giacomo Mora ci fa leggere questo mese un componimento tratto dalla silloge – omonima – premiata al quarto posto del Premio Letterario Città di Castello

Cosmo riempimi di stelle

Cosmo, riempimi di stelle. Guarisco lento e mi redimo, mio re. Mi chiarisci come non sia io il folle pur essendo loro me. Imperturbabile li mimo, loro orme su una costa.

Anni attende una domanda la risposta che non c'è. Non rinuncio e, spoglio, vago nudo, gli occhi al cielo. Loro. Loro sono a stendere un velo su davvero ciò che voglio quando cresce in me il germoglio.

È davvero ciò che voglio un rasoio ed il suo filo? L'ago infilo nella cruna del mattino. Cucio ore su quel telo il filo rosso e il suo destino. Stillo dubbi, poi, su loro e me, e strappo, poi ricucio e rompo poi, guardo dentro da bambino.

Nudo vago, gli occhi a un cielo in cui svanisce il nero velo, dove tira il filo rosso del destino che mosso è da voglia che lo svelle. A riprendermi il tempo mio ribelle cosmo aiutami, mio re, riempimi di stelle.

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Ilaria Caccia si presenta così:

«Vivo la poesia di Genova dalla primavera del 1992 e, viaggiando, anche quella di mondi oltre il mare e le colline che incorniciano questa terra di ulivi che amo - sia la Liguria sia le olive! Nel frattempo, per una carrellata di scelte e inclinazioni, mi sono ritrovata faccia a faccia con la poesia dei soffitti affrescati delle biblioteche della facoltà di Lettere; e, corteggiata dalla sue colonne e dai suoi alberi, mi sono innamorata di scritture e letture eterne. Vedo l'arte nell'odore estivo di terriccio bagnato ed in quello invernale di mandarino tra le dita: è la poesia degli odori visivi di cui è impregnata la memoria e dalla quale emerge un fiore d'ispirazione istantaneo. Affiora velato o portentoso come il calcio di un bimbo nel grembo di una gravidanza eterna, che non sfocerà né in una nascita né in un aborto: eppure continuerà ad essere nutrita e cullata nella placenta dell'amore più intimo e viscerale, quello sospeso tra dimensioni senza spazio e senza tempo. Ed il suo calcio odora di cosmico. Ed ora lascio che i segni di questa "creaturina", nata da uno dei miei incontri con la danza, generino in voi letture ed interpretazioni, toni di voce e di pensiero, che forse neanch'io ho ancora trovato. Eppure ne sento già un'eco, come la meravigliosa nostalgia di un altrove da esplorare.»

Calamita naturale

...Sipario. Alchimie d'incontri sospesi pause, e suoni accesi

Invisibili pesi di corpi distanti ora congiunti tra colori d'istanti

Si scuotono i ritmi di magnetici voli tra eterne euforie. Amplessi vitali sono gli antichi richiami: fuoco vento acqua terra che dal cielo paion ricami

Impatto tra muscoli, anatomici scontri creatori di tatti che urtano taciti

Ecco che scàlpitano, son nate: cullate e scalfite, le linee discrete!

Tra rumori, i frammenti di spazi e di tempi... il primordiale artificio è Bellezza che fonde Scoperta e Mancanza...

Nel mosaico infinito di rim

balzi la spuma del mare è la Danza

Sipario. Si distendono i fili dal soffitto dipinto: punte tese - mi ripetoche tessono nuove universali armonie

Teli scuri imbrattati di mani abbraccian sicuri corpi nudi con cura

Come leggiadri scalpelli questi scalpiccii di passi profondi - pas de chat, arabesque, ronde de jambe, grand jetéscolpiscon sussurri tenaci per teneri baci.

E così da palco a platea siamo avvolti all'unisono dall'amoroso arto dell'Arte.

Sipario...

Ilaria Caccia

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Interludio

Perché dopo le nostre e quelle dei lettori non una poesia di qualche autore conosciuto?

Poesie scelte da Emanuele: «In Raymond Carver la prosa, da cui lui proviene, fa un tutt'uno con la poesia: il racconto e le descrizioni regalano ai versi una purezza, una chiarezza ed una semplice e profonda onestà che di solito i poeti canonici non cercano, forse troppo impegnati a costruire.»

Il resto

Le nuvole sono sospese a casaccio sopra questa catena di monti dietro casa mia. Tra un po' la luce se ne andrà e s'alzerà il vento a disperdere queste nuvole, oppure altre, per tutto il cielo. M'inginocchio, rigiro il grosso salmone su di un fianco sopra l'erba bagnata e mi do da fare con il coltello con cui sono nato. Ben presto mi siederò al tavolo in soggiorno a cercare di resuscitare i morti. La luna e l'acqua scura le mie sole compagne. Ho le mani argentate di squame. Le dita s'immischiano nel sangue scuro. Alla fine stacco la testa massiccia. Seppellisco quel che c'è da seppellire e tengo il resto. Getto un'ultima occhiata alla luce azzurra lassù. Mi volto verso casa mia. La notte è mia.

Raymond Carver (da Orientarsi con le stelle, Minumum Fax; traduzione di Fulvio Ferrari)

La macchina

La macchina con il parabrezza incrinato. La macchina che ha sbiellato. La macchina senza freni.

La macchina con il giunto difettoso. La macchina con il radiatore bucato.

La macchina che ho raccolto le pesche per comprarla. La macchina con il blocco motore spaccato.

La macchina senza marcia indietro.

La macchina che ho barattato per una bici.

La macchina con problemi di sterzo.

La macchina con la dinamo rotta.

La macchina senza sedile posteriore.

La macchina con il sedile anteriore squarciato.

La macchina che bruciava olio.

La macchina con i manicotti marci.

La macchina che si è allontanata dal ristorante senza [pagare.

La macchina con le gomme lisce.

La macchina senza riscaldamento né sbrinatore.

La macchina con l'avantreno fuori asse.

La macchina in cui il bambino ha vomitato. La macchina in cui ho vomitato io

La macchina con la pompa dell'acqua rotta.

La macchina con la distribuzione a pezzi.

La macchina con la guarnizione della testata fusa. La macchina che ho abbandonato sul bordo della [strada.

La macchina con l'infiltrazione di monossido di [carbonio.

La macchina con il carburatore sporco.

La macchina che ha investito un cane e ha tirato dritto.

La macchina con la marmitta sfondata.

La macchina che la marmitta non ce l'aveva affatto.

La macchina che mia figlia ha distrutto.

La macchina con il motore rifatto due volte.

La macchina con i cavi della batteria corrosi. La macchina comprata con un assegno a vuoto.

Macchina delle mie notti insonni.

La macchina col termostato bloccato.

La macchina in cui andò a fuoco il motore.

La macchina con i tergicristalli che non funzionavano.

La macchina che ho dato via.

La macchina con problemi di trasmissione.

La macchina di cui mi sono lavato le mani.

La macchina che ho preso a martellate.

La macchina con le rate che non potevo pagare.

La macchina che mi hanno sequestrato.

La macchina con il perno della frizione rotto.

La macchina in ultima fila dal concessionario. Macchina dei miei sogni. La mia macchina.

Carver (da Orientarsi con le stelle, Minimum Fax; traduzione di Fulvio Ferrari)

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Raymond

Zona Franca

Da settembre 2013 a luglio 2014 avete letto in queste pagine conclusive quello che – fra di noi – usiamo chiamare “l'articolo”. Ebbene: abbiamo deciso di trasformare questo spazio, ed il titolo che vedete poco più in alto vi avrà già fatto capire. Vogliamo liberare quest'area e renderla una zona franca, dove fare apparire “l'articolo” piuttosto che una poesia più lunga del solito, un racconto o una qualche sperimentazione ancora da progettarsi. In ogni caso speriamo che l'idea, ma soprattutto quello che qui leggerete, vi piaccia!

Il Giovane Favoloso

Nonostante il ritardo che tocca il tema, riterremmo opportuno discutere di un tema che è stato -ed è- oggetto di discussione sulle colonne dei giornali e tra la gente: il film di Mario Martone, “Il Giovane Favoloso” uscito il 16 Ottobre scorso nelle nostre sale, che ritrae (quasi) per intero la vita del poeta di Recanati.

Premettendo a tutto che non siamo né intendiamo spacciarci critici cinematografici, in quanto rivista letteraria, abbiamo però da dire la nostra riguardo al film. Il lavoro di Martone è ben più di un film, è definibile come un evento e, anzi, un evento culturale. Spieghiamoci. In primo luogo è da sottolineare, al di là dell’interpretazione -a mio parere (giacché da profani si parla)- fenomenale di Germano, la resa eccellente di un’Italia d’ottocento ancora legata alla terra, al carro, alle grida per la strada e i muri a secco, dove infuriano ancora il colera e le processioni apotropaiche di cristi e santi; un’Italia di provincie che tendiamo troppo a relegare in un passato di non appartenenza e nella quale in realtà siamo -con le dovute diversità- ancora immersi, quasi senza accorgercene, troppo presi come siamo stati dalle speculazioni edilizie di calviniana memoria e da altri miti, pagati al dio cemento, fino ai sogni di rinascita e allori odierni (uno per tutti il mito latente dell’olimpiade romana che gravita in silenzio da anni). Forse in atto è un conflitto di tempi, dal momento che sembra, in buona sostanza, che il film di Luchino Visconti, Rocco e i suoi fratelli (ispirato ad un romanzo di Testori) ed uscito nel 1960, racconti gli stessi operai che abbiamo visto scendere in piazza in quest’ultimo mese. Il racconto e l’evidenza di un’Italia molto simile alla nostra, sebbene distante cronologicamente e nella nostra coscienza collettiva, sembra perciò già una vittoria assegnata al nostro poeta, così scettico contro “le magnifiche sorti e progressive”, quella strada lastricata di fiducia verso il futuro, la cui fine non abbiamo ancora visto e non vedremo. Ma veniamo al succo della materia senza dilungarci oltre: il personaggio.

Molto si è dibattuto tra la critica sull’avvento di questo Leopardi pop, definizione secondo la quale il poeta viene sminuito a fenomeno di cultura di massa, cosa a cui il sottoscritto si oppone fermamente. Se fare un film su una figura così grande come può essere un Leopardi o un Dante si scontra con l’impossibilità di ritrarre per intero questa poliedrica grandezza, risultando perciò necessario sacrificare qualche aspetto tra i tanti della figura che non si vedrà rappresentato a fondo quanto gli altri (per il film questo vale per il Leopardi “politico”), vero è che nel nostro caso le caratteristiche fondamentali sono ben trattate e rese palesi e chiare. Anzi, l’opera meravigliosa su cui puntiamo il fuoco è proprio la riabilitazione di un personaggio vessato da un immaginario collettivo deformato dai tempi, di un grande monolite della storia letteraria, precursore ma escluso dalla sua stessa società, perché cantore della disillusione e del crudo realismo, quando a nessuno, la mattina, piace smettere di sognare. L’operazione compiuta -da chi, si vede, conosce la materia al di là degli stereotipi, come chiunque si prenda la briga di studiare un poco più a fondo e con curiosità la figura di Leopardi- approda quindi ad una rappresentazione del personaggio che ricorre allo smantellamento del cliché e dell’etichetta di pessimista, brutto (sfigato, diciamolo), tramite l’uso di un altro “modello” che nessuno, però, ha mai pensato di trovare in Leopardi, così ingobbito da una falsa stratificazione concettuale concentratasi su di lui nel tempo, e cioè l’eroe romantico. Ciò che accade nella visione del film è il rendersi conto della profonda umanità del poeta, della sua normalità. Non solo perché mangia, è povero e soffre (fisicamente) come noi, ma perché, da giovane, ha la stessa potenza di sentimento dei giovani e, per di più, in un’età dove vige una castrazione degli animi da società arcaica, emerge trionfalmente ciò che Leopardi è ed è veramente stato: un rivoluzionario. Il desiderio di grandi cose, quello di sfuggire alla famiglia, di essere “al centro del mondo” dove le cose non si stanno a guardare, ma si fanno, è ciò che pervade ogni ragazzo

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di questa era, dove l’inter-connessione è tutto ed è la stessa cosa che emerge con prepotenza nella figura tratteggiataci durante il film. Ecco il merito dunque, averci reso un’immagine di Leopardi giovane e potente, dove la sua poesia non è altro che la trasposizione verbale del senso di costrizione di questa detta potenza nei confronti del mondo, dei tempi, della famiglia, dell’umana condizione. Ciò che ci viene restituito da questo film è una cosa importantissima per questi tempi e cioè l’idea che il poeta -uno tra i sommi, peraltro- non è il saggio brutto e sfortunato nella vita, rinchiuso nella torre d’avorio a piangere su se stesso e sui suoi mali, ma è un uomo come tutti, con le passioni di tutti e, anzi, forse tale proprio perché ha più profondità di sentimento e di visione dei suoi coetanei, e, per questo, anche in grado di comunicarle agli altri e di farli ritrovare in lui stesso. Leopardi così, ci aiuta a cercare la vita, a non rifuggire l’avventura e le

amicizie e portare avanti le nostre idee con pervicacia, nonostante gli ottusi dinieghi della vulgaris opinio; tutte cose che finora non ha fatto. È quindi solo un bene che una figura come la sua sia riabilitata al grande pubblico senza perdere la sua grandezza. Il film, peraltro, pur rifacendosi al modello dell’eroe di cui sopra, non ha certo i toni di un romanzo da quattro soldi, richiede attenzione ed empatia, come il suo protagonista. Dunque, sebbene ci sia qualche eccesso di troppo in questo senso (vedi la scena della fuga dal bordello napoletano), non possiamo negare a Martone il merito di aver messo Giacomo Leopardi sotto una nuova e più veritiera luce, specialmente per le nuove generazioni, con uno strumento che tocca le persone molto più che i libri di scuola. Questo è il cinema, signori.

L'Altra Metà del Libro, GenovaLegge

14/15/16 Novembre 2014

Il mese scorso si è tenuto, a Palazzo Ducale, il ciclo di conferenze e di incontri letterari “L'Altra Metà del Libro”, giunto ormai alla terza edizione. Ebbene, c'eravamo anche noi Fischi: ci è stata data la fantastica opportunità di portare la rivista nell'ambito di questo festival di letteratura, di proporci come “giovane realtà letteraria genovese”. Nell'atrio della Scala Cantoni, con il nostro banchetto, fischiavamo copie della rivista e anche qualche poesia, letta d'impeto, all'improvviso, tra una conferenza e l'altra: il pubblico che attendeva di entrare nelle sale, o che ne era appena uscito, un po' correva via veloce, intimorito dalle nostre voci... ma un po' si fermava. Ascoltava. Sorrideva. Nessuno ci ha mai fatto sentire anche solo un gradino più in basso rispetto a qualcun altro, e questo è straordinario. Ci siamo sentiti anche a casa nostra, in una delle case della cultura più belle di Genova, in uno degli eventi più importanti che alla cultura vengono dedicati dalla nostra città. Noi stessi ci affrettavamo, dandoci i turni, a seguire le conferenze una dopo l'altra. E' toccato a Michela Murgia aprire le danze, la prima sera: con lei abbiamo parlato, lasciandole un Fischio, pronti al confronto. Perché sì, “loro” sono “famosi”, noi meno o per niente: ma siamo pur sempre colleghi, ed è questo che loro, i famosi, hanno fatto sentire a noi! Il giorno dopo, sabato, il disastro: un'altra alluvione, un'altra volta una città post-apocalittica, tutte le conferenze del pomeriggio, cominciando da quella del serbo Doron Rabinovici, annullate. Ma anche in quel giorno terribile, c'è stato un bel siparietto: è stato

divertente ridere insieme al nostro Antonio Pennacchi tra i tavoli del MenteLocale, Fischi alla mano, nel sentirlo dire: “eh, ma la poesia... anch'io scrivo delle poesie: non mi piacciono le mie, figuriamoci le vostre!”. La domenica è stato il grande giorno: il giorno in cui il mondo della cultura genovese ha voluto e saputo reagire nel migliore dei modi al disastro. Tahar Ben Jelloun, in programma per il sabato (in cui era rimasto bloccato in macchina a Voltri), ha sostituito al mattino Juan Gabriel Vasquez, rimasto a Parigi. Abbiamo letto poesie per l'alluvione, dopo averlo sentito. Nel pomeriggio, è stato il turno di Daria Bignardi, accolta come una star: ci ha regalato dei sorrisi che non potevano non allargare il cuore. Infine, a chiudere la kermesse ci ha pensato il grande Michael Cunningham. Anche a lui abbiamo lasciato un Fischio, pur non sapendo quanto ci avrebbe capito, e abbiamo ricevuto una stretta di mano e un “that's great, guys!” Chiudiamo proprio con una sua frase, dedicata, per continuare a lavorare insieme, a tutti coloro che scrivono, ma anche agli organizzatori de “L'Altra Metà del Libro” e alla Fondazione per la Cultura di Palazzo Ducale, che cogliamo l'occasione per ringraziare di cuore. Cunningham, alla domanda, in merito alla situazione politica e sociale americana, “dunque lei non ha più speranza?”, risponde: “i think that everyone who writes has hope by definition”. “Penso che chiunque scriva nutra speranza, per definizione”.

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La Redazione

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