Fischi di carta
Giugno 2014 Numero 18
Poesia di cinque giovani fischianti
La vera poesia può comunicare anche prima di essere capita
Thomas Stearns EliotGiugno 2014 Numero 18
La vera poesia può comunicare anche prima di essere capita
Thomas Stearns EliotPer inaugurare l'estate che avanza, mi è venuta un'idea. Ho pensato di utilizzare queste righe scrivendo un editoriale che definirei “aperto”. Aperto nel senso che non si conclude qui, o almeno questo sarebbe il mio intento. Io ci metto la mia parte, ma poi intervenite voi. Esatto, è un dibattito quello che sto lanciando; un dibattito su un tema che, a chiunque si interessi di letteratura in ogni sua forma, dovrebbe stare molto a cuore. Qualche mese fa mi sono imbattuto, leggendo il Venerdì di Repubblica, in un'intervista ad Aldo Busi, scrittore italiano noto sin dagli anni novanta, ma noto più che altro per la sua personalità istrionica e mediatica, che lo ha portato spesso, e in modo spesso eccentrico, davanti alle telecamere. In questa intervista Busi lanciava la riedizione di una sua operazione risalente al 1990: si tratta della sua “traduzione” del Decameron di Boccaccio, tornata alla ribalta nel settimo centenario della nascita dell'immenso scrittore. Ora, Busi afferma (tralasciando le battute più consone al suo smisurato ego, quali “oggi il mio Decameron è meglio dell'originale”) di combattere una battaglia culturale, e di inserirsi in un gruppo di scrittori italiani che, occupandosi di altri testi capitali, hanno avuto la stessa idea. Dunque, questo è il tema, il dibattito che vorrei proporvi; e potrei serenamente chiudere qui con un sondaggio (“che cosa ne pensi?”, “l'idea mi piace”/”l'idea non mi piace”/”non sa, non risponde”), ma vorrei provare ad esprimere la mia opinione in merito, e ad evidenziare quello che secondo me è un problema sotteso alla vicenda.
Busi sostiene che l'italiano del 2014 non abbia quasi più niente dell'italiano del '300. State sereni, non ho intenzione di dargli torto, non vedo come si possa: fin qui è tautologia. Ma la questione, innanzi tutto, è linguistica: da che cosa è composto un romanzo, un testo teatrale, uno zibaldone o un compendio di poesie? Da parole che veicolano un messaggio, un'idea, quella dell'autore; parole poste nel modo e nel luogo stabiliti dall'autore e da lui soltanto. E' lecito modificarle, quale che sia il fine che si intende raggiungere? E' lecito, in nome della comprensibilità immediata del testo, concentrarsi esclusivamente sul messaggio veicolato, sull'atmosfera e sul tono generali, senza tenere ugualmente conto del modo particolare in cui quel testo è stato scritto? Questa domanda è la stessa che
si pone chiunque abbia quella che chiamo “nevrosi da traduzione”: una traduzione non riprodurrà mai esattamente l'originale, dovremmo tutti farcene una ragione. Per stare nella letteratura di estremo consumo, ormai Silente è Silente, Dumbledore è Dumbledore, anche se sono la stessa persona. Se si pretendesse la perfezione, non esisterebbero traduzioni. Detto questo, qui il contesto, a mio avviso, non è lo stesso: qui parliamo di qualcosa che è stato tradotto dall'italiano all'italiano, con l'obiettivo di rendere accessibile anche al grande pubblico contemporaneo un testo che, alla sua epoca, fu un vero e proprio best-seller. L'intento, naturalmente, è dei più nobili: chiunque in Italia, anche soltanto per quel senso di appartenenza alla nazione (che NON è, per favore, nazionalismo), dovrebbe conoscere, saper raccontare ai propri figli o ai propri amici, qualche novella del Decameron, così come qualche Canto della Commedia, o qualche Sonetto del Canzoniere (le tre corone, suvvia!). Nessuno si è permesso di toccare, anche solo minimamente, le terzine dell'Inferno: quella è Poesia. Ma io mi chiedo: perché con la prosa l'atteggiamento deve essere diverso? Personalmente sono convinto che Boccaccio abbia cesellato le sue parole (anche, forse soprattutto le sue scurrilità) con la stessa cura di Dante: la differenza? Ebbene, Dante ha cercato di dipingere in versi per noi l'ineffabile, Boccaccio ci ha raccontato, per bocca di dieci ragazzi della sua epoca, come funzionava la vita “vera”, quella terrena, allora. Ma non per questo Boccaccio ha bisogno di essere attualizzato linguisticamente. Senza stare qui a chiederci se la lingua italiana di oggi sia solo evoluta o, piuttosto, anche impoverita, rispetto al volgare fiorentino, ci dovremmo concentrare sul fatto che noi e i personaggi del Decameron parliamo la stessa lingua, abbiamo le stesse radici, la stessa cultura. Soltanto, lo abbiamo dimenticato: pensandola così, ci si accorge che il problema evidenziato da Busi (o da chi si occupa di “tradurre” Machiavelli, Ariosto, perfino Manzoni e così via) c'è eccome. Ciò che è discutibile non è il problema in sé, ma la soluzione che è stata scelta. Non si è scelto di promuovere letture esegetiche del Decameron in piazza (Boccaccio lo faceva con Dante, nelle Chiese, Benigni lo fa ancora), non si è scelto di imbufalirsi e sollevarsi contro i professori liceali che non curano abbastanza la parte linguistica della
letteratura italiana: abbiamo scelto di abbassare il tono e il livello, di cercare la scorciatoia, di eliminare la difficoltà senza affrontarla direttamente. Chi poteva farlo, non ha insegnato il Decameron: lo ha semplificato, modernizzandolo, rendendolo meno “una rottura di palle” (sono parole di Busi).
Credo che questo sia solo un altro esempio di una mentalità che è tipicamente italiana: approssimare e raffazzonare per meglio, e soprattutto più velocemente, riuscire. Ed è qui che si trova, a mio parere, la famosa questione sottesa: abbiamo un problema con la nostra concezione della comunicazione. E' sempre qui che si torna, alle parole, a quella frenesia di informazioni che, senza più nessun filtro, ci scambiamo ogni giorno: ciò che conta è il messaggio, l'input inviato da un cervellomacchina ad un altro cervello-macchina, poco importa il modo in cui le idee e le emozioni sono
trasmesse. Ma secondo me leggere un romanzo, o una poesia, in questo caso il Decameron, è come fare un viaggio, e credo che lo scopo di ogni viaggio non sia quello di arrivare il prima possibile alla fine, alla meta. Ecco, le parole sanno far viaggiare, e le parole di Boccaccio fanno viaggiare in un modo, in un tempo e in un luogo precisi; le parole di Busi fanno sì viaggiare, ma in un altro modo, in un altro tempo, in un altro luogo. Basta esserne consapevoli. Finito il mio sermone, trattandosi nelle mie intenzioni di un intervento come un altro in un dibattito, aspetto, tutti noi aspettiamo di conoscere il vostro parere, perché credo, e crediamo, che di questa tendenza alla “traduzione” dei classici italiani si debba discutere insieme. Sapete come trovarci.
Emanuele PonIl Moulin Rouge non è poi granché di giorno, ferme lamiere con una ruggine un po' più colorata, tende spesse e poi vetri oscurati -come le macchine lunghe di chi ha i soldi e se ne sta al sicurodove s'appiccicano senza sosta i nasi gommosi di ogni turista che passa, senza vedere attraverso, nulla, nulla che valga la pena.
Forse da dentro, come in quei film di spari al succo di pomodoro -che cosa ne sanno loro!decine di paia d'occhi truccati stanchi forse ci guardano passeggiare dall'altra parte e si stringono sghignazzano, ci hanno in pugno, mentre studiano il riflesso impacciato del nostro desiderio sul depliant di serata, come fa la polizia nel nostro interrogatorio.
Ma tiro dritto, sto tornando a casa: sto costruendo un mulino lì vicino, il mio mulino.
Casa e chiesa chiesa e casa: è un ciclo di marmo e pareti sonore, in quel profumo cerchiamo tra le volte sicurezza e un po' più di noi -un po' di più ogni volta- risposte alle domande che ci hanno detto è bene farsi -è umano-.
E ognuno mi prende per mano, ognuno ha la sua parola invincibile nella sua chiesa intoccabile -chi a piedi nudi sente la terra chi in drappi porpora e oro- ma credo di non sapere proprio a cosa fare la genuflessione.
Emanuele PonUn vortice di colore nella mia mano, con l’occhio un poco baro non è colpa mia se hai messo te stessa come posta di scambio. Sei sempre stata timida nel chiedere il mio colore. Getto il primo carico e seguono due briscole oggi non c’è bisogno di lanciare l’euro del destino. Il tuo sguardo sopra al ventaglio e la piccola pila di carte che si consuma è un messaggio troppo chiaro. Chiudo con l’asso ci vestiamo di carte.
Andrea PesceMi sento in un limbo di carte mischia maledetto mazziere ! Attrice bugiarda vuoi vincermi in sorte ? Il mio mazzo di carte è senza un signore io il joker tu la regina, colore diverso desiderio uguale, ma altra speranza annega nel mio dolore.
Andrea PesceCi guardano dalle finestre al Ponte Vecchio e sento in me i raggi di questo tramonto neonato al piè di San Miniato, ed il monte tagliato con il David di bronzo.
Mi distendo con il ponte come rossiccio gatto stiracchiato pregustante già la cena; conto le mattonelle sospese sopra i gorgoglii dell'acqua verde lambente i pilastri calcificati; faccio giochi di aritmetica oramai dimenticati.
Mi connetto tra le sponde ed in te che stai accanto elimino le mie rivalità. E le ombre si allungano e il tracciato è luminoso e dritto sulla pancia del fiume, mentre mi ritrovo a scorrere di nuovo flutti che pensavo vecchi: ora mi avvolgono nella frescura primaverile ed io mi ricreo verso la foce.
Alessandro MantovaniConosco bene l’odore Di corallo marcito La sabbia entrava ululando Nel mio letto, la notte, E correvo in lacrime Dai genitori. Ricordo una bellezza Inquieta circondarmi Il piacere di avvelenarmi Di dolce oleandro, Le passerelle di legno Sulla spiaggia…
Giocavo a uccidere Gli insetti, in cima A un formicaio la vespa. Un calcio nell’acqua. Salì il ginocchio E mi diede il pungiglione. Mi rimase solitaria afa, Che è la febbre del sole. Mi rimase un dolore Che avevo cercato. Come il cardo secco A fil di naso.
La mia infanzia È un mare che travaso Con cura, Sogni compatti del caso. Ho sempre amato I ciottoli, i confetti, Le cose delicate levigate Le impronte dilavate Dei piedi nell’acqua, Subito, ratto Di un bianco orlo di raso Spuma di altri fecondi dolori.
Silvio MagnoloFossi la Morte vestirei un cappotto lungo, per nascondere le ossa nude, mai consumate. Coperto così passeggerei lento, mani scarnite nelle tasche, perché non mi si veda: e mai mi si vede.
Troppi passanti – loro mani fredde in tasca perché fa freddo, davvero freddo – hanno tanta paura, ma non capiscono, ma loro non sanno, non osano, ma raschiano l'asfalto con lo sguardo e loro bramano, bramano ma non possono, non sanno e non possono sapere. Più lesta del momento, sono un – il – sempre, l'unica a cogliere l'istante, inesauribile, più inesorabile del tempo. E
il rumore sarebbe quello della cicca, della sigaretta fumata – tutte le sigarette sono, dopo, una cicca non spenta ma fumata –che lanciata cade a terra fumando l'ultima fumata.
Federico GhillinoL'idea di Le poesie dei lettori è nata dalle richieste di collaborazione che abbiamo ricevuto da amici, conoscenti e sconosciuti che ci hanno fatto pensare ad uno spazio dove raccogliere tutte le loro poesie. Quindi, ringraziando coloro che senza timore si sono mostrati e si mostreranno, speriamo che la nostra idea possa farvi piacere ed invitiamo chiunque sia interessato a scriverci!
Il primo autore che vi presentiamo questo mese è Luca Oliva. Luca nasce nel 1990 in una poco ridente cittadina del sud Italia. Diplomatosi al liceo classico si trasferisce a Bologna per studiare al D.A.M.S., finendo a impratichirsi più che di cinema, di tariffe telefoniche e fibra ottica lavorando in un call-center. Non ha mai vinto un premio ma il suo cane sì.
Esitare, agli angoli dell’intestino tenue, dove le voragini giocano a nascondersi e le idee echeggiano annichilite. Stanchi, risalire la china del mio capo e piantarne bandiera. Fiera la mia brama di decoro post-industriale, di elettrocodici criptati che vaneggiano verità. Io, che solo io, potrei sputarmi e riprendere ciò che ho lasciato, cado e il naufragar, che tutti sapete, mi viene dolce.
Con la poesia che segue vogliamo presentarvi la poetessa Katia Romeo Katia si presenta così:
«Mi chiamo Katia Romeo, sono laureata in Scienze pedagogiche e dell’educazione presso l’Università degli studi di Genova, ho 22 anni e attualmente faccio la cameriera e sono tutor di orientamento presso la medesima Università. Gran parte degli anni della mia adolescenza e quelli successivi a quest’ultima, sono stati dedicati al volontariato. Sono nata e cresciuta in una cittadina della riviera ligure, Rapallo. Amo viaggiare ed esplorare, perciò quando ne ho la possibilità scappo dalla noia che accomuna un po’ tutti i piccoli borghi di mare; ma allo stesso tempo mi rendo conto di tutti quei piccoli dettagli che nelle grandi città spesso non si possono cogliere o amaramente sfuggono. Per tale ragione ho scelto questa mia poesia. In realtà è solo una serie di pensieri che ogni tanto mi attraversano la mente quando mi perdo negli angoli di quella che in parte, sento essere anche casa mia.»
«Sono nata con addosso il tuo profumo. Crescendo, ho continuato a raccogliere, ciò che ai miei piedi, lasciavi e riprendevi.
Dei miei occhi conosci la profondità, delle mie labbra il sapore, dei miei passi il rumore, dei miei capelli la trasformazione. Ho cavalcato i tuoi malumori, a volte l’ho fatto ridendo, altre temendo.
Ti ricambiavo le carezze, quando tu eri la pace, ed io appoggiata a te, mi lasciavo trasportare.
Le lacrime delle mie sconfitte, le hai portate a fondo.
Le lacrime delle mie vittorie, le hai condivise con il sole.
E come cristalli, le hai fatte brillare, sul tuo corpo e nel mio sguardo. Ragione e irrazionalità mi legano a te.
Fra le tue braccia ardono i miei sogni. L’enfasi dei tuoi respiri, mantiene in vita i miei. I tuoi colori, sono la spiegazione, ai miei mille umori.
La prima volta che ti toccai, mi prendesti la mano. Accogliesti con te, l’anima mia, che con tutta l’ingenuità, a te , aveva scelto di raccontare.
Universo delle mie riserve, sempre il tuo orizzonte guarderò, perché tu sarai in grado di leggere parole, che io non saprò spiegare.
Mai, del tutto, conoscerò i tuoi segreti. Ma so per certo che se guarderò, dentro e di fronte a me, più vedrò te.
Arcano mare, che al mio primo pianto, mi donasti un manto di sobrietà, eleganza ed ebbrezza, destinando ai miei occhi, la libertà e l’essenzialità, che solo il varco del tuo infinito può offrire.»
Katia RomeoNel quarto canto dell'Inferno dantesco vediamo la torre degli Spiriti Magni, dove i grandi della storia non battezzati vivono nel loro mondo di idee, di bellezza; nel Decameron la lieta brigata si chiude in un castello a fare la vita di corte e parlare d' amore. C'è un momento in cui si realizza che l' esistenza è stata raccolta in scrigni senza che noi neanche ce ne accorgessimo: le case, certo, ma ancor di più gli ostelli, i rifugi, gli alberghi, gli hotel. Entità viventi costituite da tante piccole micro-vite ognuna delle quali assolutamente unica nel suo genere. Ampolle che custodiscono viaggi, passati e futuri. Così vivere diventa partecipare a un tutto; gestire un hotel, portarlo avanti nel tempo, spesso significa preservare un ideale, coprirlo dal vento innovatore, lasciandone bisbigliare solo quel poco che basta a rinfrescare un po' le lenzuola e ribattezzare il tutto, sforzarsi affinché esista una armonia e al contempo difendere qualcosa che forse neanche esiste davvero, difendere una torre d' avorio
Un pianeta affezionato Dal pernicioso lavorio Del tempo umano, già mutato, Non appena pronunciato.
L' hotel ha spazi vuoti da riempire, Timidi da ubriacare.
I suoi corridoi e le sue storie Vanno a capo come il verso Del poeta e stanno le stanze Incastonate come immerso Setaccio nel mare immenso Foglie finite sul fiume, Su tappeti di pietre Vorticose, ascose le cetre Tra le bibbie d' ordinanza, Asciugamani, fughe d' acqua E fughe d' alba i minibar, Potiamo i letti che ricrescano E poi moriamo un attimo, Per vedere come va L' incendio in bellezza. Trovata la chiave E gettato come un numero L' amore dalla camera, Svegliarsi ancora
Un giorno chiuso tra morbide Pareti prese chissà quando, un giorno. Così ecco, vedete che torno alla prosa, anche se a parer mio la natura di quella sfaccettata placenta chiamata hotel si può cantare solo in versi. Perché negli hotel è riprodotta in miniatura l' umanità più varia e più colorata. Tutti i sentimenti umani racchiusi in camere, ognuna con un proprio numerino assegnato per sorte o per il libero arbitrio della prenotazione, ognuna con una chiave da custodire, perché l' anima è preziosa. E la poesia lo sa, si sprigiona necessaria dalle pareti: chi si confida, chi racconta in un solo boccone tutta la sua vita, chi piange in disparte o si pente del viaggio intrapreso e nasconde il viso tra le carte appiccicose della hall, fingendo di giocare in modo scaltro. Tutti gli abitanti dell'hotel sono poesia; ognuno ha un ruolo, deve apparire e poi capitolare, andare a capo, come fosse un verso, e ognuno davvero "contribuisce con un verso". È un po' metafora della vita, ma con in più l'estatica meraviglia e preziosità di una bomboniera. Una boccia d' acqua coi coriandoli scossa da qualcuno più grande e più annoiato di noi, che per un istante ci fa vivere, vivere in modo bello, estetico. Ecco, vivere secondo poesia; ogni cosa al suo posto certo, ma lasciare che la poesia viva, questo è l' hotel. È il caso di due bellissimi film che hanno segnato la mia immaginazione, non meno della mia più commossa memoria: Grand Budapest Hotel e Million Dollar Hotel. Simili già i titoli, quasi delle trinità
parlanti. Hotel in fondo, e solo altre due parole prima a distinguerli. Perché non occorre qualcosa in più: già la parola hotel custodisce in sè un abisso di sensazioni, di realtà, di vita già vissuta e da vivere. In Grand Budapest Hotel è un continuo succedersi di eventi, due persone si incontrano, non sappiamo chi siano. Sappiamo solo dove sono, e un contesto che li crea e li contiene che nutre e li assorbe e che al contempo li valorizza. Siamo all' interno di un ecosistema psicologico perfettamente equilibrato, in cui l' azione prende forma da una rottura. Nel lungo flashback in cui Zero, ormai avanti con l' età, racconta alla voce narrante la storia della sua vita, si susseguono visioni estatiche, accostamenti estetici, gesti e decisioni in funzione della loro bellezza cromatica, caratteri che sono dipinti e accorte caricature, più che persone parlanti. Il "Ragazzo con mela", fatidico quadro dal valore inestimabile, ne è l' esempio più perspicuo. È lo specchio di Narciso in cui il padrone del Budapest si è così tanto scrutato in tutti quegli anni, è il quadro cui Dorian Gray ha commissionato la sua immortalità. Arte, quindi poesia, e dalla poesia il vero sentimento umano. Così il cerchio si conclude: ci sono state mutilazioni, angherie, inseguimenti, balli, assassinii, ma tutto si è svolto secondo poesia, nessun particolare è stato così grossolanamente realistico da essere volgare. Il vero c'è stato, la vita si è srotolata in tutta la sua pletorica, inestinguibile varietà. Senza omissioni, ma senza neanche morbosi o voyeuristici indugi. Ciò su cui si poggia delicatamente il focus della narrazione è il contorno, l"aura" degli eventi, la brezza che li lega, i colori che li accomunano o per contrasto li dirimono.
E se è vero, come dice il Boccaccio, che "sempre i poeti furono rarissimi" non sono però assolutamente rari i motivi di ispirazione, e la poesia si può cogliere in ogni dove. Così fa il proprietario del Budapest Hotel, Gustave H, in una immaginaria repubblica dell'est europeo agli inizi del '900: questi, anche nei frangenti più critici, dove è addirittura in ballo la vita o la morte, si mette a declamare versi, o si sforza di trovarne di più adeguati alle situazioni. Riviviscenze romantiche, con un po' di nostalgia per il decadentismo appena decaduto tra le balze di una guerra che si sente già nell'aria? Quasi una propensione zen al vivere il qui e ora, senza curarsi della negatività contingente? Sta di fatto che se la polizia è forte, vince però l' ostinazione della volontà umana più pura e nobile. L' eccentrico seduttore di grinzose e facoltose anziane infonde questa arte del bel parlare, questa “inestimabile distrazione”, anche al suo protetto, il galoppino senza padre nè madre, Zero Moustafa, che, accompagnando il padrone nelle sue rocambolesche avventure, impara la vita. Il fortunato trovatello infatti si innamora, si responsabilizza, e di lì inizia a capire le cose, e quindi anche la poesia delle cose; tutto accade per una ragione, e anche quando le cose sembrano non avere un senso, bastano un paio di versi raccolti dalla memoria per tornare centrati e presenti a se stessi, per ricordarsi esseri umani, o per salvarsi da una situazione critica. In Million Dollar Hotel l' universo è quasi ribaltato. Siamo in un condominio distopico, un hotel fatiscente dal glorioso passato. Chi vi abita? Gli angeli reietti di Los Angeles. I senza-Dio che, vuoi per condizione sociale, vuoi per povertà o per pazzia, si ritrovano a condividere la stessa sparuta torta. Ognuno ha un ruolo ben preciso: c'è il matto, c'è il saggio, l'amico, il traditore, l' amante, l'assassino. C' è di mezzo un misterioso omicidio. Uno scaltro agente dell'FBI, senza cuore ma mai così totalmente cinico da ignorare i sentimenti, si mette a indagare. C' è la Bella, la timida Eloise, e c' è la Bestia che la ama, Tom Tom, un ragazzo molto speciale, che vede il mondo attraverso gli occhi di un bambino. Lei ha un trascorso a dir poco tragico e dalle sue poche tremebonde parole riusciamo a capire che ha avuto più violenze che amore nella sua vita. Lui è un personaggio di cui subito ci affezioniamo; lo vediamo e lo sentiamo parlare per primo, al principio di tutto, nello stupendo incipit: "Wow! Dopo aver spiccato il salto, ho capito tutto. La vita è perfetta." Tra inquadrature commoventi, sotto le note di "the first time" degli U2 capiamo già di che stoffa è fatto il film. Bellezza e meraviglia nascono da ogni angolo, basta saperle vedere, e di questo Tom Tom è consapevole, lui che non ha cattiveria, lui che ha il coraggio di "amare il nulla", quella ragazza sciupata dalla strada eppure ancora così dolce. Egli ama forte e lo fa attraverso le parole di un poeta: "L’ amore non potrà mai essere descritto alla maniera del cielo, o del mare o di un altro qualsiasi mistero... è l’occhio con il quale vediamo... è il trasgressore nel santo, è la luce all’interno del colore."
Il nodo di tutto è l' amore, nonostante lo sterco in cui la vita a volte costringe a immergersi. L'amore senza passato, l' amore malgrado la disperazione, le esistenze stroncate, distrutte; l' amore folle che non guarda
indietro, che si tortura come un asceta e scruta la più profonda essenza dell'essere. L'amore che nella sua infinita dolcezza cura l' anima e dà per "la prima volta" senso alla vita.
"I have a lover, a lover like no other She got soul, soul, soul, sweet soul And she teach me how to sing.
Shows me colours when there's none to see Gives me hope when I can't believe That for the first time I feel love."
Al di là delle contingenze, degli accidenti umani, si può trovare un luogo in cui vivere felici, nel proprio mondo dentro il mondo, per scoprire veramente se stessi e non semplicemente trascinarsi dietro un' eredità di soldi o di dolore che si crede essere una dannazione del destino, un marchio definitivo per tutta la vita. Solo allora si è pronti a lasciare andare, a lanciare via tutto, a spiccare il salto:
"My father is a rich man, he wears a rich man's cloak. He gave me the keys to his kingdom (coming) Gave me a cup of gold.
He said <<I have many mansions And there are many rooms to see.>> But I left by the back door And I threw away the key And I threw away the key."
L'amore si è compiuto, come un battito d' ali. La poesia si è realizzata nella sua interezza, completando ogni azione, colmando il vuoto d' aria di un suicidio fatto col sorriso sulle labbra. L'ironia della contraddizione. Chiaro-scuro. La giusta melodia, la bellezza irripetibile del singolo dettaglio, il colore, l'insegna spenta, diruta ma irrorata di azzurro albore; la camera d' albergo da cui tutti siamo nati, isolati dagli altri e dal mondo, nelle coperte del nostro segreto, staminale dolore, pronti prima o poi a parlare e alzarci in volo.
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membro della Società dei Masnadieri (www.facebook.com/SocietaDeiMasnadieri) autore di Dalla Parte della Notte (Noirmoon, 2013)
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