Fischi di carta
Novembre 2014 Numero 22
Poesia di cinque giovani fischianti
Massa è tutto ciò che non valuta se stesso – né in bene né in male – mediante ragioni speciali, ma che si sente “come tutto il mondo”, e tuttavia non se ne angustia, anzi si sente a suo agio nel riconoscersi identico agli altri.
Josè Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, 1930
Editoriale
Umanità tra luoghi e non-luoghi
Scrivo questo editoriale con l’angoscia nel cuore. Non sono mai stato una persona che si lascia impressionare dagli avvenimenti, ma lo scorso ottobre non mi ha lasciato indifferente. Ci tengo a precisare subito: non sono qui in veste di folle predicatore e nemmeno di politicante dell’ultima ora, per il fatto che questa rivista non è un talk show o una bacheca di Facebook su cui scagliarsi contro chiunque e qualunque cosa. Il nostro pensiero va a tutte le persone colpite da questo ennesimo disastro che si è abbattuto sulla nostra meravigliosa città. La speranza che nutro è che tutte le istituzioni, abbassando i toni, cerchino la via della ragione e del buon senso, affinché alla prossima occasione non si debba assistere a simili devastazioni o peggio piangere altre vite umane. Per finire questa introduzione voglio ringraziare tutti coloro che con pala e buona volontà si sono prodigati nell’aiutare il prossimo in questi momenti di difficoltà. È anche con questi piccoli gesti che si ricostruiscono le città e la civiltà nella sua accezione più alta e nobile.
Questo mese mi sono soffermato a riflettere sul tema dei non-luoghi. Il termine è stato introdotto dal sociologo francese Marc Augé nel suo libro Non-lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité. Un non-luogo è un sito costruito per fini ben precisi su cui non poggia l’interesse del singolo ma quello della collettività, ad esempio stazioni, centri commerciali, marciapiedi e così via. Al di là del concetto pratico ho riflettuto sul rapporto che intercorre tra l’individuo e questo spazio, e tra gli individui nel medesimo luogo. Per citare sempre Augé: “I non-luoghi sono i prodotti della nostra surmodernità (supermodernismo), che, per concetto, sono spazi in cui milioni di individualità si incrociano senza entrare in relazione, sospinti o dal desiderio frenetico di consumare o di accelerare le operazioni quotidiane o come porta di accesso a un cambiamento (reale o simbolico).” Dagli studi del sociologo escono immagini che mi fanno rabbrividire: relazioni interpersonali effimere, mediate e oltremodo superficiali, totale disinteresse per gli spazi e ciò che li rende particolari e diversi gli uni dagli altri. Partiamo dall’analisi dell’individuo in relazione con il non-luogo: sembra che – sostiene Augé – gli individui a contatto con una realtà monotona e identica a se stessa reagiscano sentendosi a loro
agio. Questa sensazione porta gli uomini a superare il senso di inadeguatezza proprio della realtà con le sue differenze e novità. Oggettivamente il nonluogo serve a omologare il substrato sociale creando una serie di brand, sia commerciali che infrastrutturali, al fine di strutturare e disincentivare la personalità dell’individuo in una società funzionale, identica a se stessa ad ogni latitudine ed economicamente produttiva. Soggettivamente credo che il risultato porti ad un concreto isolamento dell’essere umano. Per agevolare la comprensione trovo ferrato dividere questo concetto di solitudine in due categorie simili ma talvolta contrastanti: L’isolamento e l’alienazione. Partiamo dall’isolamento: esso in questo frangente non è una ricerca consapevole di se stessi, ma un comportamento compulsivo a cui portano in maniera autoindotta i non-luoghi. Prendendo la possibile reazione riportata da Augé, direi che il sentirsi a proprio agio in una realtà omologata sia una diretta conseguenza del sentimento di inadeguatezza e non la sua cura. Una persona isolandosi, a mio parere, mette in discussione sia il proprio rapporto con l’ambiente, sia la relazione con i suoi simili. Quindi sentirsi a proprio agio nel rinunciare alla propria personalità, a fronte di rifarsi ad un target uniformemente omologato, non diventa la soluzione dei propri problemi, ma l’inizio di quella che chiameremo alienazione. Quando si dice che i non-luoghi portino alla spersonalizzazione dell’io, non posso che esprimere un parere favorevole. È altrettanto chiaro che passare dall’isolamento all’alienazione, nella maggior parte dei casi, fa sorgere nell’individuo una situazione di fragilità psicologica che, nella fase peggiore, può degenerare in stati psicotici o nevrotici. Con ciò non voglio dire che frequentare un non-luogo porti necessariamente a quanto ho elencato, ma senza dubbio non agevola un rapporto disteso, profondo e costruttivo tra gli individui. In questi spazi l’individualità si estremizza tanto da perdere il connotato personale e, acquisendo il volto di un’unica categoria di soggetto/individuo, genera il risultato pratico di persone intrinsecamente isolate e non comunicative. Ovviamente nella realtà non esistono luoghi e nonluoghi in maniera pura, difatti le categorie tendono a mescersi in una realtà più che multiforme. Nonostante ciò, il fatto sta nella presenza di zone su
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cui, non posandosi l’interesse privato del singolo individuo, non destano automaticamente interesse, producendo una sensazione di precarietà e perpetuo passaggio. A riguardo vi racconto un aneddoto: un giorno d’estate passai per un sentiero, (ero con i miei cari compagni fischianti e stavamo facendo una scampagnata), transitato per un piccolo pendio mi accorsi che scritto su di una pietra vi era la seguente frase: “Perché ci ricordiamo di salutare solo sui sentieri?”. Io mi chiedo: salutiamo poiché seriamente ci sentiamo a nostro agio o perché è anch’essa una consuetudine impostaci dalla società?
Certamente l’obiettivo di un sentiero di montagna non è uguale a quello di un camminamento di una stazione cittadina (non-luogo), ma il problema non
cambia. Gli individui si sentono veramente sollevati nei non-luoghi oppure è una sensazione indotta dal cliché autoimpostoci dalle circostanze? Io credo fermamente nella seconda ipotesi. Penso infine che spetti agli individui il monopolio di decretare ciò che sia o non sia un non-luogo, perché basta che un paio di persone ritengano interessante un determinato non-luogo, che esso immediatamente si tramuti in un luogo. A riguardo trovo molto azzeccato l’esempio di Augé: “Qualche forma di legame sociale può emergere ovunque: i giovani che si incontrano regolarmente in un ipermercato, per esempio, possono fare di esso un punto di incontro e inventarsi così un luogo.”
Andrea Pesce
Sulla strada di casa
Per oggi ho finito anche il lavoro della giornata. Rincaso al solito portone credendomi sicuro. Le pareti mentono. Devo ungere il divano per farmi sedere e riposare, le sedie scricchiolano gemendo d’indifferenza nei miei riguardi. Allora mi trascino sul piatto sperando almeno di avere una cena povera come il mio animo, ma il piatto è rotto sotto allo sguardo. Forse sono io la chiave di volta della mia miseria ? Questo pensiero mi rimane sugli occhi come una soluzione di ripiego, mentre osservo il silenzio delle bocche chiuse dalle pietanze nella comune situazione del pallore da cenacolo. Striscio le mani sul tavolo
e scontrando della mollica la butto giù per la gola arsa. Questo sipario di assurdo cala quando se ne accende un altro smagliante e profondo. Lo spettacolo del tubo catodico è fare anche della famiglia il luogo in cui il solo dovere è sorridere e tacere.
Andrea Pesce
Cade
10 ottobre 2014
Cado come il cervo ferito scorre un rivo d’intenso colore, macchiata giace la terra. Curiosa vicino t’accosti e l’odor dell’orrido senti. Mentre lento il mio cuore procede in alto gli sguardi incrociamo amaro giunge il rimorso tardi tenti rimedi dal dolor il mio sguardo, Cade.
Andrea Pesce
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Cori
Tra la pala ed il rame sciolto per la poltiglia il mio limes1 limaccioso si mescola a quello degli altri, le parole sono una di conforto, ch'è di tutti, tra detriti ed i badili tacciono i campanili degli egoismi personali. Nella terra accanto l'asse di legno chiodato rimane un momento di corali suoni di vanga: il segno della fatica che grida verità.
Mantovani
Il treno idrofobo
2 9-10/10/2014
Affrettiamo la cena, chè fuori è come Tre anni fa, sul ponte Dell’oceano O vvero...
La città piatta splende piatta E non hai nulla da lasciare Sul fondo, è una chiatta qui Neanche una pietra d’infanzia ci lasci Benedetto clangore di monumenti Colonnati, tuo-nati amici Di mare indumenti; Contate la chiarità di questa not-te Fonda le latebre ai fiumi, terrorizzati dalle voci Nostre di idrofobi treni, di paura novella, Di stra lucide strade, Di parole rassicur' anti tanti vivi, tanti precoci.
Il Jazz corre in macchina (chiuso) veloci Con noi come un treno idrofobo E abbiamo la Nausea di noi,
Corrotti trofei, a me succede così, sai, Non me ne accorgo, “mi sopravvivo”? Bomb e Luce al cielo e nell’Uomo una bara Dello Spirito un La M Po
Silvio Magnolo
2 In memoria della notte tra 9 e 10 Ottobre 2014, Genova gravemente allagata e un morto, noi in macchina siamo sopravvissuti.
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Alessandro
1 Latino: ''confine''
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Gli Scolapasta
Ad Alberto Calderòn, Ad Alessandro
Oggi dirò di noi, chi siamo cosa siamo diventati, quello che forse dopo tutto il tempo saprà restare.
Non siamo più fatti d'acqua, niente ora è liquido, e i giorni scivolano scivolano addosso: siamo quasi diventati come scogli spigolosi, pietre d'angolo per altre pietre.
E respiriamo scrivendo buchi -i buchi che abbiamo nell'animae lasciamo che in noi si allarghino a dismisura, fino a fondersi: per la felicità non c'è più pelle.
Colmiamo i buchi da noi tra di noi sempre a cercarne di nuovi per capirci per riempirci; siamo vivi così a macchie come un cielo di nuvole trapassato qui e là da raggi di sole, di luna.
Oppure noi siamo solo la pioggia che crivella il cielo -soltanto possiamo aspettare di diventare pozzanghere per essere schizzati calpestati per caso per gioco -insieme.
Un poco vuoti, senza paura dei buchi neri, siamo un poco più vivi tra noi nei nostri silenzi o negli sguardi che colano lacrime sull'asfalto a lasciare qualcosa di noi sulla strada per riempire con ancora un po' di noi quelle spiaccicate pozzanghere
che siamo diventati -siamo un poco più vivi di chi corre di fretta, e senza vedere inciampa in noi, ma non si volta: non è per lui ciò che sta a terra, lui che vola sui missili ciechi di sogni aspirazioni, vede la meta e dimentica il viaggio, ignora i buchi neri che gli sfrecciano accanto.
Non ha lo spazio non ha il tempo. Non ha il tempo e dice parole una dopo l'altra -tante ne conosce, studiate nelle scuole migliori viste sopra i migliori vocabolari-
una dopo l'altra di fretta, ma ancora non sa chiamare mai ogni cosa con il suo nome vero: parla per vivere o per esser vivo, teme il nascondiglio del silenzio -il nostro rifugio quando non ci son più parole da dire d'amore di rabbia quando da dire c'è niente che valga la pena o il suono della voce di noi che parliamo già tanto che il silenzio è un ricordo.
Non siamo mai veloci, mai corriamo chissà dove, è qui il nostro mestiere dietro ogni angolo, filtrare la luce dal cielo e farla annusare toccare, discernere il buio, dire che è reale; sono nemiche a questo tempo umano le nostre anime lente silenziose pesanti come macigni sulle spalle voltate del mondo che prosegue, che di noi non può che prendersi gioco.
Ma siamo ancora noi gli scogli a frangere la corrente, regalarle direzione: con lei facciamo curvi gli spigoli per non fermarla mai per sempre e solo i sassi ci restano, s'infrangono
nel nostro muro, come fossimo ferme barriere per i giorni, o scolapasta infaticabili, e anche oggi soltanto non dobbiamo arrugginire -e si sopravvive: ci dobbiamo accontentare dei sassi.
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Emanuele Pon
Le poesie dei lettori
L'idea di Le poesie dei lettori è nata dalle richieste di collaborazione che abbiamo ricevuto da amici, conoscenti e sconosciuti che ci hanno fatto pensare ad uno spazio dove raccogliere tutte le loro poesie. Quindi, ringraziando coloro che senza timore si sono mostrati e si mostreranno, speriamo che la nostra idea possa farvi piacere ed invitiamo chiunque sia interessato a scriverci!
Stefano Gualco dice di sé:
«Compongo poesie quando mi viene, non a comando o a tempo perso. Se ho le parole che mi rimbombano in testa prendo un foglio e le scrivo, ma non sto a cercarle. Le parole sono quelle che sono, non le lavoro, non mi danno per trovare le migliori, le più complicate o le più melodiose. trascrivo semplicemente i miei pensieri.
Studio medicina a Genova, dove mi sono diplomato e dove, per altro, sono nato, nel 1993. per quanto riguarda la mia carriera da poeta, dunque, non ho fatto nessuno studio letterario in nessuna prestigiosa università, non ho vinto concorsi, non ho fatto pubblicazioni, né ho frequentato scuole per giovani artisti talentuosi! L'unica esperienza extra-ordinaria che ho fatto è stato passare un anno a Dublino, per poter imparare un inglese non da manuale. Poi sono tornato a Genova per studiare Medicina e fare quello che tutti fanno, il nulla. Ma nel nulla più assoluto troviamo inaspettatamente il nostro tutto, e se per molti sono considerato uno fra tanti per qualcuno sono unico. L' unicità ci fa battere i cuori all'unisono e in questa sinfonia ci sento, la amo, e scrivo.»
Traccia 01
Lievi fruscii silenziosi fanno vibrare i miei timpani, che come punte, incidono nel disco della mia mente, questi piccoli attimi.
Stefano Gualco
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Irene La Piana si presenta così: «Sono Irene, ho 21 anni e sto facendo di tutto per diventare pasticcera. La poesia è per me una novità e qualcosa che, devo ammettere, non credevo potesse fare parte di me! Ma starà a voi lettori decidere davvero se scrivere fa per me. Ringrazio i fischianti per avermi dato questa possibilità e... buona lettura!»
Verso Berlino
Le vette: scogli in un oceano artico che, non di ghiaccio, si estende lontano; osservo distese di neve che non è tale. C'è pace qui. Ora penso come mai prima, spinta da moto ignoto e nuovo.
Il pensiero si perde alla vista della grandezza della natura, sebbene essa sia un granello di sabbia nell'immensità dell'universo.
Cos'è dunque l'uomo? Essere insignificante capace di grandi catastrofi; autodistruttore e demolitore della vita che, preziosa, gli è stata donata.
Come riesce egli a ignorare i suoi sbagli?
Come a non capire la portata del suo errore? Miopia autoindotta affligge lo stolto.
Quanto è piccolo l'uomo nei confronti della natura, la quale presto riprenderà ciò che ingiustamente gli è stato sottratto. Forte e dirompente tornerà la natura e forse la mitezza abbraccerà di nuovo la Terra quando egli cesserà di esistere. L'equilibrio spezzato vivrà ancora ed esso non ne godrà perché estinto.
Ma l'uomo teme la morte. Oh come non sopporta egli il dolore! Solo colui che nulla ha da perdere in questa vita ne è immune.
È per questo che entrambi io temo.
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Irene La Piana
Interludio
Perché dopo le nostre e quelle dei lettori non una poesia di qualche autore conosciuto?
Poesia scelta da Alessandro: «Perché la poesia deve ricordarsi la concretezza della materia e non essere pura idea, ma ogni materiale ha le sue ragioni da soddisfare in maniera differente. Poi, perché molti -compreso me- ignorano la poesia Norvegese di cui Hauge è un ottimo esponente novecentesco.»
Versi
Se riesci a comporre un verso che soddisfa un contadino devi esserne contento. Un fabbro non lo capirai mai. Il più difficile da accontentare è il falegname.
Olav H. Hauge (da La terra azzurra, traduzione di Fulvio Ferrari)
Non navighiamo sullo stesso mare
Non navighiamo sullo stesso mare, eppure così sembra. Grossi tronchi e ferro in coperta, sabbia e cemento nella stiva, io resto nel profondo, io avanzo con lentezza, a fatica nella tempesta, urlo nella nebbia.
Tu veleggi in una barca di carta, e il sogno sospinge l’azzurra vela, così dolce è il vento, così delicata l’onda.
Olav H. Hauge (da La terra azzurra, traduzione di Fulvio Ferrari)
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Zona Franca
Da settembre 2013 a luglio 2014 avete letto in queste pagine conclusive quello che – fra di noi – usiamo chiamare “l'articolo”. Ebbene: abbiamo deciso di trasformare questo spazio, ed il titolo che vedete poco più in alto vi avrà già fatto capire. Vogliamo liberare quest'area e renderla una zona franca, dove fare apparire “l'articolo” piuttosto che una poesia più lunga del solito, un racconto o una qualche sperimentazione ancora da progettarsi. In ogni caso speriamo che l'idea, ma soprattutto quello che qui leggerete, vi piaccia!
Poesia a puntate: terza parte (seconda parte sul numero scorso)
Cantare su alcune persone che vivono nel mio quartiere tra cui me
[...]
Alle superiori quelli che studiano meno ma sono intelligenti e se la cavano sempre hanno tante cose da dire sul mondo, sfornano teorie e visioni e sono tutti un fervore. Poi ti accorgi dopo che era la famosa aria fritta ed è stato come saltare sul fango, quello che sembra possa reggerti, quello che spingi e le gambe ti sprofondano fin sopra le ginocchia senza nemmeno staccarti da terra. E allora la smetti, se no poi cosa mangi? Ma qualcuno che ci crede anche dopo - e ci mangia - c'è e alla fine in base a cosa e come lo dici diventi filosofo scrittore intellettuale... Così le teorie le fai davvero, belle serie, belle congruenti. E sono tutti molto belli questi pensieri e queste teorie, ma quando sono in giro penso che la migliore teoria sia quella silenziosa della pratica, quella che se non sei cieco ce l'hai davanti alla faccia, la teoria che è fare la coda alle poste con gli stranieri che non capiscono l'impiegata, la teoria che è avere le mani arrossate dai sacchetti della spesa, che sei a casa e ti arrivano le bollette da pagare quando aspetti l'autobus e un ragazzo ti chiede una sigaretta, quando bevi alla fontanella e dopo di te un barbone ci si lava la frutta, le mani, la faccia e i vestiti, quando vedi i ragazzi sbronzi che dopo le teorizzazioni c'è la settimana di lavoro e poi il fine settimana ci divertiamo, perché alla fine un buon mal di testa ed i soldi per l'alcool è quasi economico per una bella serata.
[...]
Federico Ghillino (potete leggere il Cantare integralmente online, all'indirizzo www.fischidicarta.it/poesie/fischianti/24/312)
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Da Bologna con la pala.
Tradisce il titolo una verità da fiction che non intendo mescolare a questa lettera: la pala l'ho presa una volta arrivato a Genova, domenica 12 Ottobre, direttamente dalla casa della nonna sampierdarenese (di quelle che ''se non stai buono, ti prendo a badilate!''), una volta volto alla città natale a due giorni dal disastro. Dopo un fallimentare tentativo di raggiungere Genova il venerdì seguente l'alluvione, giorno in cui le ferrovie dello stato tentavano di far fronte ad una crisi sul tratto Ronco Scrivia-Genova, in cui era deragliato un Freccia Bianca, fui costretto a riparare nuovamente nel capoluogo Emiliano, tentando nuovamente la traversata la domenica mattina all'alba. Partito alle 6.28 da Bologna, mi trovavo alle 11.30 all'interno del Museo di Storia Naturale a portare via detriti e fango dai sotterranei dello stesso, insieme a decine di altri ragazzi ed amici, e solamente nel pomeriggio ebbi il tempo di osservare lo stato genuflesso della mia città superba.
Tuttavia, senza dilungarmi in quanto di spiacevole e tragico ha caratterizzato questa vicenda, voglio dire in breve dello stupore che ancora una volta mi ha colpito nel vedere frotte di giovani lavorare alacremente e senza compenso ad ogni angolo di strada, molti di più che nel 2011. Si sa e non è un mistero che, oramai, con le nuove tendenze sociali, essere un “Angelo del Fango” sia diventata una moda, quindi non c'è da stupirsi se l'affluenza di volontari, rispetto a tre anni fa, si è elevata in maniera esponenziale, ma senza addentrarci nelle polemiche tra più o meno giuste motivazioni d'intervento, vorrei che fosse colto il vero spirito di un'attività volontaria che, vivendo ora fuori dalla Superba, mi rendo conto essere nostra peculiarità. In proposito perciò vorrei dire: non definiteci come Angeli. Non siamo creature dotate di divina intelligenza o di poteri superiori, e meno che mai siamo mossi dalla bontà di un dio. Siamo giovani (e non!), italiani e stranieri, di ogni strato sociale che fanno del loro senso civico un'azione concreta, che superano la barriera vacua che separa facta e verba dimostrando di saper trarre i primi dai secondi. Oggi, nel momento in cui le belle parole sono andate progressivamente scollandosi dai fatti, noi diventiamo gli scolari di ieri, che possono dimostrare di aver imparato la lezione studiata e che, silenziosamente e senza
Riflessioni dall'alluvione.
scomodare i grandi concetti, si mettono al lavoro dove e come pochi avrebbero il coraggio di lavorare. Ovviamente non voglio fare di noi nemmeno dei martiri del dovere; intendiamoci, ci si diverte anche a faticare, con gli amici e le conoscenze, per giorni interi nelle cantine o in mezzo alla strada, ed è questa la bellezza somma che, da partecipante, amo ritrovare dietro le azioni di ciascun volontario. L'esperienza fangosa è in primo luogo un'esperienza di crescita e condivisione, di un particolare tipo di fatica con cui noi giovani abbiamo troppo poco spesso avuto a che fare (quanti hanno o avevano mai vangato prima d'ora?); eppure è certo, e ne sono convinto, che questa opera e questa azione, unica nel suo genere, non sarebbe potuta venire da nessuno se non dalla gioventù, incosciente e bruciante, criticata e bacchettata (anche giustamente), non formata, a volte ignorante, a volte inconsapevole, ma potente e carica di un'energia vitale unica, in grado di poter spazzare via il nero e far tornare il sole. Perciò voglio anche dire: guardiamoli questi giovani, che vengono da Torino, Milano, Bologna, per aiutare la propria terra, guardiamoli mentre abbandonano le lezioni all'università per unirsi agli amici e trasportare detriti con i sorrisi sulle facce sporche, pensiamo a quanto hanno voglia di fare e di dare in questa vita e in questa società che si dimentica costantemente di loro, lasciandoli schiacciati dai propri pesi e dalle proprie colpe, relegandoli ad una vita dalle scarse prospettive, loro che le angolature, invece, le trovano sempre, stupiamoci della loro pervicacia nell'esser presenti nel momento del bisogno. E infine riflettiamo su ciò: la spontaneità di questo moto.
In questi giorni a Genova si è realizzata la perfetta catena umana e solidale in grado di dimostrare che, oltre ad essere spregevoli e fangosi si può essere addirittura così diversi e radicalmente opposti alle tendenze bieche del mondo da venir definiti “Angeli”. E allora ribadisco, no, non angeli, ma uomini. Ed è bene che da questa vicenda si impari ben più che snellire la burocrazia che blocca ed incatena il paese: è bene imparare che nel 2014, noi, nel nostro medioevo postmoderno, siamo in grado di ridare una luce angelica a quella creatura bistrattata e infangata che è l'uomo, a farlo rialzare nel suo essere dignitoso.
Il fango della burocrazia, che ha impedito e che
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impedisce, è un fango di portata più ampia, che trascende la politica e i meccanismi dello stato: è il fango umano che ognuno di noi si porta addosso nelle parti più intime e incondivisibili. Di questa umana sporcizia concretizzata, noi (e chi con noi) appariamo come mondatori, angeli di dio, provenienti da un mondo che è proiezione di quel mondo interiore costruito con l'ideale del senso civico e dell'appartenenza che noi dimostriamo coi fatti esistere. Angeli di un altro mondo dunque, umani irriconoscibili, che dilavano l'inferno della realtà, fatta di politica, sotterfugi, soldi e grettezza. Noi mostriamo come la volontà sia potenza e come, riconoscendo un valore fattuale e concreto nell'astrazione di valori imparati fin dall'infanzia, si possa tener fede alle proprie idee e a se stessi. Questa gioventù dimostra di essere all'altezza del compito di cambiamento e rinnovamento che le viene richiesto oggi, come è sempre stato chiesto ad ogni gioventù; a modo nostro siamo all'altezza del
nostro tempo buio e difficile, abbiamo voce per rispondere e mani per agire. Queste persone chiedono di essere considerate di più, in un paese vecchio e incancrenito, perché sono le stesse persone che a tarda sera sfilano ancora oggi per le vie genovesi, con aria stanca e sorridente, mostrando sul loro corpo quel fango sporco e puzzolente, che attira tanto gli sguardi dei passanti, così intenti a chiedersi dove sia nella loro vita quella melma incrostata che vedono sulle magliette. C'è chi si ferma e ringrazia, chi ha voci per loro di conforto, chi resta in silenzio e medita e chi sa che non avrebbe mai avuto il coraggio di mettersi in gioco fino a questo punto, ma tutti ugualmente turbati e impensieriti alla vista di questa umana gente: la gioventù che conosce il male e, nel mondarlo, lo mette in mostra. Pensiamoci bene.
Alessandro Mantovani
Ad un turista, il 10 Ottobre
Stamattina chiedi alla polvere, chiedi a lei il perché del tempo mentre cade su tutto qui intorno nel vento, se il tempo passa, se è uno scherzo.
Poi incrocia alle nostre la pala trovata per strada, conficcala a terra e guardala respirare con noi, come dopo una battaglia incerta:
sii per noi un fratello straniero, fai con noi la guerra al cielo di sabbia e pulisci l’asfalto e te stesso -ne parleranno in tutto il paese;
pulisci finché ci sarà da pulire insieme a tutti, nel fango fratelli per mano, soldati della nostra salvezza per poi camminare a testa bassa.
A testa bassa torneremo a vivere: e quando tornerai a casa dirai di una giornata diversa, che siamo tanti qui a sentire male: dirai così: che quando siamo insieme, dirai che il fango non tiene.
Emanuele Pon
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Contatti
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La mail principale è cambiata, ma sappiate che la vecchia non è stata disattivata, perciò scrivendoci a fischidicarta@gmail.com riceveremo le vostre mail e vi risponderemo!
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Fischi di carta è illustrata da: Sara Traina
Fischi di carta è fondata ed animata da: Federico Ghillino Silvio Magnolo Alessandro Mantovani
Andrea Pesce Emanuele Pon
Prossa Nova è fondata ed animata da: Carlo Meola
Amelia Moro Matteo Valentini
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