Fischi di carta
Settembre 2014 Numero 20
Poesia di cinque giovani fischianti
No, l'abisso è un sacerdote, e l'ombra è un poeta; no, tutto ha la sua voce, e ogni cosa ha il suo profumo; tutto dice, nell'infinito, qualche cosa a qualcuno
Victor Hugo
Editoriale
Raccolto di un Hugo di mezza estate
D'estate si cambia più di quanto si pensi, e siccome è toccato a me questo numero di Settembre (il mio mese) spetta a me raccogliere, e iniziare bene la nuova stagione, che già preannuncio carica di novità per la rivista.
Torniamo al raccolto. Ho parlato nel mio ultimo articolo sui Fischi (#18 di Giugno 2014) di persone che vivono “secondo poesia”. Ora, senza impegolarmi nel solito discorso moraleggiante che annoia e non scalfisce neanche un insetto (e non è proprio il massimo per chi è appena rientrato dalle vacanze), mi piacerebbe parlare dell'uomo. Senza retorica, senza etichette. Vedi un paesaggio, un tramonto, una scogliera sul nulla: va bene, Sturm und Drang, alleluia, ti senti un titano, un eroe, un mostro; ci scrivi sopra, suoni, ti scatti una foto? E va bene lo stesso. Il punto è quando tu uomo sei davanti a un altro uomo. Quando giri per una città che non conosci, magari da qualche giorno, e inizi a familiarizzare con le strade, la gente ti vede e ti rivede, magari ti riconosce e comincia a salutarti. Lì comincia tutto. Il gesto, la parola, e dunque la vita. Non puoi più nasconderti nel tuo “ah, faccio così, tanto non mi conosce nessuno qui e magari non ci tornerò mai più in vita mia”. L'avete pensato, lo so, tutti l'abbiamo pensato almeno una volta, su, diciamocelo senza smancerie. L'avventura prevale sempre, la casualità, il vedere gli altri come semplici scalini per arrivare a qualcosa o da qualche parte. Fretta? Qualunquismo? Noncuranza? Fierezza? Non mi piace mai giudicare a priori, senza prima approfondire. Forse è la paura che abbiamo tutti di entrare troppo nel cuore delle cose e nell'animo delle persone; donde il “meglio non affezionarsi se no si soffre”, o “meglio lasciar perdere” e così via. Perché l'Occidente è sempre stato generalmente legato a un concetto di amore, voler bene o affetto come sofferenza, impossibilità di staccarsi emozionalmente, dipendenza psicologica. Il risultato è un progressivo distacco dalla realtà, percepita come una giostra priva di conseguenze e di responsabilità. Il caos governa i comportamenti e le cose. Le quali cose si vedono e si provano da lontano, si osserva la gente sorridere o morire da una “buona distanza di sicurezza”, come recita una bellissima canzone dei Tool. L'uomo è oggetto di un culto carnefice, oblioso, mero tramite verso una qualche gloria, un involucro che contiene solo gelidi dati; non una storia,
l'oralità di una famiglia, il gusto di una discendenza forse antica, che si perde nei gorghi affrescati della memoria. Regna l'insensibilità. E uomo davanti a uomo non è più un incontro di vita, ma una mediata, pacifica indifferenza, oppure una assurda competizione formale. Rido quando mi dicono che non c'è più niente da scoprire, che abbiamo tutto, e abbiamo fatto tutto. C'è e ci sarà sempre da lavorare nell'uomo. Mi capita di accorgermi sempre più spesso che le cose, i fatti, gli eventi stanno cessando di essere storia: sono solo feticci, ricordi venefici, mostri da fotografare per potercisi abituare e per poi trattarli come banalità mai successe. Diventano “moda”. E come ci ricorda il caro Leopardi Moda e Morte vanno a braccetto. Non si accetta, si co-stringe l'esistenza, i rituali scoppiano e perdono valore; tracimano le arene, gli stadi, le piazze, non di persone ma di idee sperse, di Caos; “plodding and sordid crowds I see around me” direbbe Whitman. E dal Caos la distruzione. L'uomo è nudo e corrotta la dignità. E se oggi ci stupiamo, basta pensare che nel secolo decimonono (che è più recente di quanto si pensi) in un luogo di Parigi conosciuto come “place de Grève”, oggi Hotel de ville, si accalcava il popolo festante a veder fioccare teste. Avrete già capito di cosa si tratta: lo spettacolo della ghigliottina. Ci ho riflettuto ultimamente, e ho sentito tanto mentre leggevo. E in fondo, se Victor Hugo scriveva così profondamente dell'“ultimo giorno di un condannato a morte”, pur senza aver mai sperimentato di persona, vuol dire che lui sentiva eccome: quella disperazione da fondo di bottiglia, silenzio di sconfinata pietà che scivola a picco dentro l'intero genere umano. Lui che ha assistito a tutto ciò, lui che ha visto. E ci dice che la gente stava lì attorno, centinaia di persone esultanti al prossimo trapasso. Ma è come un vortice: chi si sporge troppo ridendo prima o poi ci cade e viene risucchiato. Questo grande scrittore francese parla di “un centro d'attrazione, una trappola”; gli uomini osservano curiosi, fremono, urlano, “vi girano attorno finché non vi sono dentro.” Ho un ricordo dell'estate appena passata, qui a Genova. Appena sotto casa mia, un grande relitto in mare, e greggi di gente assiepata attorno a guardare, fotografare, a intasare marciapiedi e strade (magari anche in zone molto pericolose), camminamenti che di solito rimanevano deserti e tristi. E poi i
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giornali, le polemiche, le contro-polemiche, il caldo e il sole che non ci sono mai stati e compagnia lamentando.
Ma girando un poco fuori città quest'estate ho anche visto posti nuovi, belli e dimenticati, ho parlato con uomini e con donne, ho chiesto la loro vita e loro hanno voluto la mia. C'era ascolto, contatto, vita. Ricordarsi il nome, chiamare per nome uno sconosciuto dopo la prima presentazione, trovo sia una gentilezza inestimabile, una grandissima dolcezza, oltre che un attestato di umanità.
Facendo un passo in campagna, poi, sono tornato nella bottega di un amico a cui piace definirsi un “barbaro” o “un artista del recupero”: ho visto delle belle sculture fatte di pietre brutte che nessuno mai raccoglierebbe, cocci di vetro sporco, e soprattutto orli di vecchi secchi di ferro da contadino, quasi dei collari arrugginiti. “Di chi sarà mai stato questo secchio?”... Quella domanda mi ha infuso la fiamma di questo nuovo senso. Una solidarietà che non è larva leopardiana, ma che è un segreto accordo della memoria, della memoria galoppante al di là di tutto, una implicita e muta impressione di amore per l'uomo che passa di cuore in cuore nei secoli, nei lustri, nei secondi, ora.
E si torna a noi, a questa rivistina che cresce come una pianticella, e che a Settembre torna a dare i suoi frutti, che sono le foglie e le poesie. E noi siamo contenti. Siamo contenti di tutti voi che continuate a tenerci in vita leggendoci e anche dei nostri nuovi affiliati prosatori, l'ultima grande novità che ha nome: Amelia, Carlo e Matteo. Chi sono? Prossa Nova: il nuovo inserto di prosa e racconti che abbiamo deciso di accogliere nei Fischi. Diamo quindi ufficialmente il benvenuto da questo numero in poi ai “prossanti”! Concludo il mio raccolto dunque: alla fine, ho capito che “vivere secondo poesia” acquista un senso speciale per ognuno di noi; non è una legge scritta, un codice di comportamento, ma è un “corpo a corpo con la Natura”, rubando le parole al pittore Renoir, una “concordia” oltre i sensi e i piloni del tempo. Significa impegnarsi spontaneamente nelle cose e con le persone, avere con loro un rapporto e uno scambio il più possibile equo e sentito, profondo, e se non del tutto corretto, almeno sincero. E se non sincero, comunque vivo! Perché se non possiamo essere solidali tra noi come uomini forse possiamo esserlo come poeti.
Silvio Magnolo
Sono il male che distrae e cura
Penso al bruciarsi delle stagioni sotto riflettori di ghisa la specola brulla dei sogni mi guarda ora crescere, quel castello lontano sulla vetta è rimasto, da quando sono bambino. Sul mare si consuma il movimento, si fermano scafi di luce sui pavimenti del porto si spandono circolari secoli di acqua.
Non vedo più il buio muoversi, la notte dirimersi in quella sua sagace tristezza. L’ebbrezza del tempo forte dei dieci anni in cui ci succhiavamo i pollici
come imbevuti di vino, o di un latte più eterno, perché i ricordi più fulgenti passano per la bocca. Sangue vomito sputo baci bestemmia.
In questi giorni color vendemmia realizzo cose simboli inganni, divine innocenze, e i malanni di chi non sorride più dagli occhi. Sento gli anni, e il pensiero che ci creò, una volta per tutte.
Sono il male che distrae e cura.
Silvio Magnolo
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Fluire nei tombini
1 am, Porto Antico, Genova
Piove piove sopra il porto - è lieve il ticchettio...ci nascondiamo sotto le giacche, l'acqua ci scivola addosso e ruba parti di noi. Io ho i capelli bagnati e per coprirci, ora, non ci sono ombrelli.
Quanto sei
bella!...
Ti stringerei non fosse per questa pioggia a bassa voce, a bassa voce come i tuoi tacchi tictac sull'asfalto: un orologio impreciso: il tempo dei nostri giorni.
Uno sguardo, e mi sorridi, e il tuo sorriso serenamente caldo mi sconvolge come allora. E penso ad oggi, e ad allora. - che bel rumore...Ma so che oggi non è più allora.
Federico Ghillino
La Barca Ferma
Calava l'ancora da sempre lì e quella barca di legno sempre sembrava ancora ferma, vicina alle rocce calme sulla riva, forse non s'era mai mossa; ma gli scricchiolavano le ossa gonfie d'anni passati a galla in marea, cigolavano come le assi e i remi della barca che nel dondolio lo portava: una sua parola sospesa ad ogni onda.
Così gli parlai all'osteria invecchiata del porticciolo -le reti consumate tristi alle pareti- chiesi solo perché lì l'ancora ad ogni alba come un rito -forse una preghiera per un altro giorno?
Disse che aveva una figlia, solo quei due occhi grandi vedeva nel mare quando affrontava la notte con la canna con l'arpione, solo quella piccola anima fatta di pancia buona e sogni da riempire; mi disse che era bello passare la vita aspettando il sorriso d'oceano allargarsi per lui ogni mattina, quando diceva “il tuo papà è un mago, non un pescatore ma uno stregone: non deve partire per portare i regali alla sua bimba, e la pappa; schiocca le dita quando si sveglia il sole, e per magia li fa apparire pronti per colazione”.
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Guardando una barca all'ancora, a Favignana
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Emanuele Pon
Genova
Buio nelle calate portuali le barche lasciate a pendere. Tutto, sotto l’alito della salsedine, s’alza e poi ripiega.
Una risacca cadenzata e libera bagnata dalla prima luna che cade tracimando tra le stelle. Un’altra s’intravvede incastonata nell’ascensore della torre, secoli di risveglio pendolare e riposo delle gambe legnose delle galere e dei loro rumori. Genova oggi è il diretto partito in ritardo e il suo capotreno consumato dal ritmo costante e quotidiano. È la cadenza cantilenante del pescatore nodoso prosciugato dalla tassa sul petrolio. È il tassista Caronte e le sue notti a combattere con gli sbronzi sperando di bere l’ultimo chilometro che lo donerà alla pensione. È l’autista che chiude un occhio al passeggero senza biglietto. Genova e le sue lune, Genova e i suoi passanti, Genova e le sue creature, Genova immobile e seduta sulle panchine limacciose e increspate del suo stesso sale. Genova basta e avanza non occorre altro che io vi dica.
Andrea Pesce
Sensazioni
Ho la calce alle ossa e non intravvedo lo spiraglio della prossima tappa in cui tenterò di lanciare la boccia nella buca della fortuna. Sono una boa incrostata di muscoli e sale a chilometri lanciata dalla terra che mi ha visto crescere. Il tempo del ritorno mi aggiunge alla cerchia degli uomini esuli e lontani. Una corda a penzoloni resta a ciondolare alla brezza ed io sto male sul ponte mattutino a vedermi nel mare, col rischio di dimenticare il sapore del pane. Ripenso a chi ara il campo cresce i figlioli, ama e gusta il bacio della terra sua e nuda. Questa mia vita è la polpa d’una patella cruda, ha il profumo del meriggio con la sua meraviglia, ha il colore delle nubi che calano nella sera, ha il rumore della pioggia dell’orto di casa, ha la forma della carne quella che non si spegne nella gola. Una pelle che sfiora il viso della cena, la doccia fresca che venendo rasserena il gemito unisono e la palpebra che cala.
Andrea Pesce
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Casa Pirandello Contrada Caos, Agrigento, Sicilia
La casa è piccola e arroccata, c'erano i tavolini e le tazze per i té a cui non sono ancora invitato, c'erano i tappeti e le cianfrusaglie, manoscritti e lettere e libri fasti intecati di un'altra vita naftalina sugli abiti, sulle dita.
C'erano i quadri di famiglia: un bosco, ritratto, mare, conchiglia, di olio, cere e di pastelli e poi quelli senza nome che paiono i miei. Le foto poche, di una gioventù che mi è da specchio per vedermi ora, vedermi da vecchio.
Fuori poi era il tuo Caos oggi fatto di camper ed edilizia abusiva. Ho percorso la collina, inzaccherato di sale turchino, e al fondo c'era il pino bruciato, tronco intagliato da anni cinerei e poi quello giovane: insieme veglian funerei tra viole fiorite su una roccia di scoglio, di morte tuo soglio che mi perdo a fissare per mano ai miei “voglio”.
Alessandro Mantovani
Lettera Isolana1
Caro Amore non ti preoccupare che se strada ne avremo ancora da fare non saranno i gatti che miagolano alla luna nostri compagni di viaggio senza fortuna.
Amore importante non smettere di vedere queste valli e templi e cose sacre: l'onore di miele che sta in uno schiudersi di labbra. 1 A Marta J.
Amore bello non ti puoi sedere sulla punta che ci indica il meridione: davanti all'aquilone già grigia incede la nube invernale.
Amore tremolante non temere puniche navi -vento tra le travi: batteremo il remo senza sosta, più in là di Scilla ci faremo.
Dolce amore ascolta il borbottio del vulcano dal raffreddore incandescente starnutire i suoi malesseri: bruciamo icastiche malvagità nel crepitio della lava.
Amore piccolo sali la scala bianca e anche da stanca tienimi la mano per non cadere sola tra le rive.
Amore sognato: il castello fatato è normanno, non disegnato; la volta di stelle son mille facelle, enormi chili di spazio vuoto, il mare non è un dio, ma tocca profondo il cuor della terra così come il mio e né il monte né il profeta muovono alcun passo per insegnarti la meta.
Amore indispensabile sii fragile e rompiti pure: saprò come incollarti ancora.
Amore malleabile dalla forma poliedrica, malattia endemica che mi sta nel cuore, cresci forte, spezza i muri: duri rami reti ami.
Amore umano niente vedrai vano per la tua lunga via. Amore amore amore mio se lo vorrai, ergiti alto contro le valanghe del tempo.
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Alessandro Mantovani
Le poesie dei lettori
L'idea di Le poesie dei lettori è nata dalle richieste di collaborazione che abbiamo ricevuto da amici, conoscenti e sconosciuti che ci hanno fatto pensare ad uno spazio dove raccogliere tutte le loro poesie. Quindi, ringraziando coloro che senza timore si sono mostrati e si mostreranno, speriamo che la nostra idea possa farvi piacere ed invitiamo chiunque sia interessato a scriverci!
Il primo autore che vi presentiamo questo mese è Matteo Cambiaso. Chi è Matteo Cambiaso? Un ragazzo di 23 anni che vive a Genova Pra'. Dopo aver concluso gli studi scientifici al Liceo, decide di iscriversi alla Facoltà di Ingegneria. E cosa ci frega di tutto questo? Con calma... Dalla seconda liceo ha iniziato a scrivere poesie per gioco. Questo gioco negli anni si è evoluto nel suo personale metodo per somatizzare ciò che gli capitava intorno, quasi un modo per comprendere la realtà. Fino a quando nel novembre 2013 decide di raccogliere le sue poesie in un libro dal titolo Fondi di Bottiglia, edito da Habanero edizioni Questo libro, che si può trovare nelle librerie di Genova, contiene una settantina di poesie di vario genere che vogliono essere le spesse lenti attraverso le quali Matteo vede il mondo. La sua produzione letteraria prosegue con la speranza di poter pubblicare in futuro una nuova raccolta.
Caramelle
È arrivata l'ultima caramella.
Ricordo ancora quando mi imboccasti la prima insaporita del tuo dolce odore. Quante ne sono passate tra le tue mani?
Quante le mie ne hanno perse? Consumate una ad una dalla tua bocca, ingurgitate brutalmente dalla mia?
E adesso? ora che sei fuggita? Ora che la sedia a fianco a me è vuota? Cosa mi rimane?
Solo quest'ultima caramella che consumerò, lentamente.
E poi?
Quando anche l'ultima caramella sarà svanita?
Forse solamente il suo sapore ti ricorderà zuccherina e leggera.
E quando anche il sapore sarà fuggito? Solo il ricordo di quelle dolci pepite colorate, morbide e formose ricorderà la tua soffice sagoma rigogliosa la tua abbondante anima.
E alla fine?
Quando il cullante pensiero sarà lontano? Ti rincontrerò, sazierò la mia vista con quelle tue sinuose forme. A gran voce implorerò nuovamente quei preziosi bottoncini gommosi che tanto bramo di riavere.
Matteo Cambiaso (da Fondi di Bottiglia)
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Questo mese vi presentiamo – differentemente dal solito – il testo di una canzone: Martin Basile, classe '92, rapper, regista, impositore, si distacca dalle tendenze del momento, incoraggiando la nascita di una corrente colta nella canzone rap. Come regista, sta attualmente dirigendo due cortometraggi, uno dei quali in collaborazione con un noto “poeta professionista vivente”. Il brano che riportiamo è tratto in anteprima da Kalokagathia, il suo album in uscita a settembre. Altre informazioni su: martinbasile.it facebook.com/martinbasile.it instagram.com/martinbasile.it
Anche se
Canzonato a più riprese da una stella variabile, il domani in divieto di sosta. Poi il nullaosta del capostazione postpone la risposta a una domanda mal posta all'imperscrutabile.
Questo tramonto trascurabile si adagia ai piedi del ritratto di un amore tascabile. Io declino l'invito ad abbandonarmi stordito ad un sedile reclinabile.
Una cosa ho imparato e forse neanche quella: puoi fotografare il cielo, misurarti coi gabbiani, ma guarda nelle tasche degli esseri umani e, a parte qualche rivoltella, cos'hai nelle mani?
Così penso, assistendo al rituale di uomo pneumatico dall'aria autorevole a cui vorrei insegnare che il reale sarà anche razionale, ma quasi mai ragionevole.
Torna alla mente una vecchia poesia, il congedo di un anziano ai suoi compagni di viaggio. Sicuramente non è roba mia: io, che non vedo l'ora di dire addio a questo mucchio selvaggio,
ho le quattro frecce e la mia vita in doppia fila, dopo una serie di incidenti sgradevoli e ormai non sono più disposto alla trafila che profila la rovina delle constatazioni amichevoli.
L'esistenza è delicata solo con chi assapora la dolcezza di un calcio. Per questo ad ogni stralcio è preferibile la marmellata ed ogni ottica limitata è d'intralcio.
Dal mondo accetto domande, null'altro, che solo quelle sono giuste o sbagliate. Le risposte, sempre provvisorie e improvvisate: una scommessa su vecchie vivande pronte inscatolate.
È una valigia pesante, anche se, tutto sommato, non contiene un gran che: tanto ch'io mi domando perché l'ho recata e quale aiuto mi darà averla con me.
Martin Basile (dall'album Kalokagathia
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Interludio
Perché dopo le nostre e quelle dei lettori non una poesia di qualche autore conosciuto?
Poesia scelta da Federico: «Lewis Carroll (1832-1898) nel romanzo Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò (che è il seguito del celeberrimo Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie) inserisce questa poesia che racconta del Jabberwock e della sua sconfitta. La particolarità è talmente evidente che non occorre spiegarla. Se mi chiedete il personale motivo – motivi – della mia scelta vi dirò che: 1. la trovo divertente; 2. anche i poeti sanno essere simpatici, a modo loro; 3. il nonsenso (che non è vanità!) è la perfetta panacea all'eccessiva e, spesso, opprimente sensatezza di ogni cosa e caso delle nostre vite.»
Jabberwocky
'Twas brillig, and the slithy toves Did gyre and gimble in the wabe; All mimsy were the borogoves, And the mome raths outgrabe.
Beware the Jabberwock, my son! The jaws that bite, the claws that catch! Beware the Jubjub bird, and shun The frumious Bandersnatch!
He took his vorpal sword in hand: Long time the manxome foe he sought So rested he by the Tumtum tree, And stood awhile in thought.
And as in uffish thought he stood, The Jabberwock, with eyes of flame, Came whiffling through the tulgey wood, And burbled as it came!
One, two! One, two! And through and through The vorpal blade went snicker-snack! He left it dead, and with its head He went galumphing back.
And hast thou slain the Jabberwock? Come to my arms, my beamish boy! O frabjous day! Callooh! Callay! He chortled in his joy.
'Twas brillig, and the slithy toves Did gyre and gimble in the wabe; All mimsy were the borogoves, And the mome raths outgrabe.
Lewis Carroll
Il Ciciarampa
Era cerfuoso e i viviscidi tuoppi Ghiarivan foracchiando nel pedano: Stavano tutti mifri i vilosnuoppi, Mentre squoltian i momi radi invano.
«Rifuggi il Ciciarampa, figliuol mio! Ganascia sgramia e artiglio scorticante! Sfuggi all'uccello Ciciacià, perdio. Guardati dal Grafobrancio ch'è friumante!»
La spada bigralace ei strinse in pugno; L'omincio drago cominciò a cercare –Infin che stanco sotto il pin Tantugno, Fermossi un poco per poter posare.
E mentre egli broncioso ponderava, Il Ciciarampa come d'ira spinto, Sbruffando sortì fuor dalla sua cava, Di schiuma e bava sbiascico e straminto.
L'un colpo appresso all'altro si raddoppia: Scric-scrac trinciava il bigralace brando! Lo lasciò morto, e la sua testa moppia A casa riportava galonfando.
«Il Ciciarampa! E lo uccidesti tu? Ti stringo al petto, mio solare figlio! O gioiglorioso giorno! Ippioh! Ippiuh!» Ansante, ei ridonchiava in suo giupiglio!
Era cerfuoso e i viviscidi tuoppi Ghiarivan foracchiando nel pedano: Stavano tutti mifri i vilosnuoppi, Mentre squotian i momi radi invano.
Lewis Carroll (traduzione di Milli Graffi)
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Zona Franca
Dal numero di settembre 2013 vi siete abituati a vedere in queste due pagine conclusive quello che – fra di noi – usiamo chiamare “l'articolo”. Ebbene: abbiamo deciso di trasformare questo spazio, ed il titolo che vedete poco più in alto vi avrà già fatto capire. Vogliamo liberare quest'area e renderla una zona franca, dove fare apparire “l'articolo” piuttosto che una poesia più lunga del solito, un racconto o una qualche sperimentazione ancora da progettarsi. In ogni caso speriamo che l'idea, ma soprattutto quello che qui leggerete, vi piaccia!
Poesia a puntate: prima parte
Cantare su alcune persone che vivono nel mio quartiere tra cui me
Io sono come Arnaldo che non può raccogliere il vento.
Ragazze da oriente battono anche nel sole estivo delle diciotto; poco più in là, alla fermata una donna s'aggiusta il rossetto. Ma ha un rovinato viso di donna. Lo vedo.
Chi si vende lo ha complesso il volto, ed io non lo riesco a capire. Le puttane non sono tristi. Non sono nemmeno malinconiche. Sono in un modo che tu che leggi se non sei una puttana non lo puoi sapere. E neanche io lo so anche se vorrei cantare di loro.
Noi viviamo di notte ma loro conoscono la notte perché quando si stendono non è mai per dormire.
Gli anziani su al cimitero stanno seduti e parlano a voce bassa, seduti fuori dai bar aperti dagli anni settanta.
Hanno un bicchiere di vino bianco ed un pacchetto di sigarette morbido perché gli ricorda dopo la guerra.
Loro fumano ma la gola è fresca e la voce tersa.
Loro fumano e bevono fino all'ultimo sorso ma i polmoni sono in fasce come dei bambini.
Il fruttivendolo arabo consegna gratis a domicilio.
Gliela vedi negli occhi la speranza di tornare fra i palmeti grassi di datteri maturi, ne sente l'odore. Il colore dei suoi deserti gli si riflette negli occhi. Io lo posso capire che non ami le anziane della via a cui porta la frutta, che confondono sempre i 2 e i 5 centesimi, ed anche i 10 ed i 20, ma è giovane, ha già una moglie e vuole tornare da lei, e sa che la vita un giorno sarà davvero come la voleva se si impegna a costruirla consegnando sacchetti di frutta. E lui lo fa, e va bene, poteva capitare peggio. Suo padre vendeva vestiti dentro grossi sacchetti di plastica azzurra. Mi sono sempre apparsi robusti. Lui ha il portamento del faraone giusto quando guarda il figlio lavorare. Lui ha l'aspetto di avere attraversato più di un mare, ha l'occhio antico di chi si riposa dopo il lavoro che stanca le mani.
I Ragazzi si baciano sull'autobus, per strada, in piazza.
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Anche io la bacio la mia ragazza, quasi ovunque. La cosa quasi divertente è che nessuno di noi l'ha fatto apposta, ma poi quando si vive questa giustificazione non vale mai. La cosa è che davvero nessuno l'ha mai fatto apposta, ma poi ne nascono drammi o gioie che un non l'ho fatto apposta non vale mai. É un po' come il compagno di banco al primo giorno di scuola se sei arrivato tardi. La cosa è che mai nessuno l'ha fatto apposta di finire a baciare chi si bacia, ma ne avevamo tutti davvero bisogno.
Gli anziani che stanno seduti ai bar vicino al cimitero sono gli stessi che vivono sulle colline, nelle crose a tratti asfaltate, nel resto mattonate di rosso. Sono persone semplici e ignoranti, a cui non interessa molto di tante cose. Sono le persone che amano i loro animali, che hanno i cani e che quando muoiono non piangono ma dentro sì. Che probabilmente gli parlavano in dialetto come a tutti gli altri tranne al fruttivendolo straniero che sennò non capisce. Sono le persone che ogni volta che fanno la spesa per tornare a casa loro è un'ascensione fra le viuzze strette e silenziose. E gli interessa del futuro dei figli e dei loro pranzi, e poi del futuro dei nipoti e dei loro pranzi, e poi di andare al cimitero a venerare i parenti.
I sudamericani si incontrano sotto casa, lavati profumati e ben vestiti, poi vanno alle feste a casa di amici in tanti nelle auto e fanno tanto rumore che qualcuno chiama la polizia. Ed arriva la polizia, e fanno zittire gli stereo e sfollano gli appartamenti. Trovo strano – e posso anche permettermi di trovarlo divertente visto che io non ci sono –il fatto che serva la polizia per placare chi vuole fare festa.
Poi la domenica sono in piazza ad urlare preghiere con un microfono ed un cavo ed una cassa attaccata al cavo. La cassa gracchia come cestelli di bottiglie d'acqua, ma l'importante alla fine è che si beva. Io li invidio quasi se passo di lì, perché mai nessuno ho visto coniugare meglio festa e fede.
Prima la fiera del fumetto la facevano nel mio quartiere, parecchi anni fa, quando la sfilata era ancora piccolina, ora la fanno in centro perché è giusto che sia così. Arrivano cosplayer da tanti quartieri, forse anche da fuori. I cosplayer non si accontentano di leggere e guardare i racconti delle vite degli altri, reali o immaginarie che siano, loro provano anche a mettercisi dentro. È encomiabile avere la forza di calarsi nei panni di qualcun altro, ma ho paura che ad essere qualcun altro si corra il rischio di mettere da parte se stessi. Loro comunque sfilano bene, con abiti belli e fatti con molte ore di lavoro, ma tornati a casa si spogliano di quelle altre vite che restano solo costumi sulle grucce, e parrucche sulle teste finte che sono ovali senza volto. E loro sono nudi, come lo sono anche io, ed è sempre difficile, ma è così.
Federico Ghillino (continua sul prossimo numero)
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Contatti
fischidicarta@gmail.com
Per lodi, insulti, consigli, proposte, domande e quant'altro potete contattarci a questa mail. Usiamo un solo indirizzo in comune, perciò se qualcuno volesse contattare uno soltanto di noi deve semplicemente specificarlo. Grazie! www.facebook.com/FischiDiCarta www.twitter.com/FischidiCarta
Tutti gli arretrati sono liberamente consultabili all'indirizzo www.scribd.com/FischiDiCarta
Fischi di carta è fondata ed animata da:
Federico Ghillino
autore di Rintocchi d'ombra (Habanero, 2011) e Corrosione (Habanero, 2013)
Silvio Magnolo autore di Guglie di vento (Ibiskos Editrice, 2013)
Alessandro Mantovani
membro della Società dei Masnadieri (www.facebook.com/SocietaDeiMasnadieri) autore di Dalla Parte della Notte (Noirmoon, 2013)
Andrea Pesce autore di gebEnut (Ibiskos Editrice, 2013)
Emanuele Pon
membro della Società dei Masnadieri (www.facebook.com/SocietaDeiMasnadieri) autore di Dalla Parte della Notte (Noirmoon, 2013)
Fischi di carta è illustrata da: Sara Traina per contattarla direttamente scrivete all'indirizzo sara_traina@hotmail.it
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