In due_antologia (03/06/2016)

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Daleth nasce nel 2015, per iniziativa di un gruppo di studenti universitari e giovani artisti già attivo dall’anno precedente. Si tratta di un’associazione culturale no-profit volta a promuovere le forme d’arte che, al di fuori e all’interno della scuola, sono meno valorizzate rispetto alle altre: prima fra tutte, la poesia – ma non solo. Soci e collaboratori si impegnano a organizzare eventi ad “arti miste” che coinvolgano teatro, musica e letteratura in molteplici forme, creando un’originale interazione tra di esse. La nostra visione della cultura è dinamica ed e g u a l i t a r i a ; i l c o i n vo l g i m e n t o a r t i s t i c o d i organizzatori e spettatori mira ad arricchire entrambe le parti, allontanandole dal sapere statico, inerte e elitario portato avanti dalle istituzioni.

▵ Raccolta redatta in occasione dell’evento

IN DUE il linguaggio dell'amore nella poesia contemporanea

__ Claudia Calabresi Gaia Cultrone Federico Ghillino Umberto Morello Giacomo Simoni

IN DUE

svoltosi al Teatro Altrove di piazzetta Cambiaso. Genova, 3 giugno 2016.

Tra figure angolari e piovane che offuscano uno scomodo risveglio, e non credono che aprire gli occhi sia chiudere uno strumento sbagliato, due porte non sempre s’innamorano di una distanza.

Che bella questa storia di noi, Cortana. Che tanto piccola è perché tanto piccoli siamo. Così piccoli che, in mezzo a tutti, solo noi. Tu cerchi e cerchi ma poi cosa cazzo vai cercando? Che sicuro niente sai, di poter trovare. Allora soltanto siamo, noi appunto, eccoci. E quindi ci chiudiamo col parlare fitto fitto a fare muro mentre tu cerchi e cerchi e solo verbi trovi. Tanto tutto è troppo, introvabile, un trambusto di niente, tranne noi. Ma non noi due due, noi soli dico, come viandanti, di notte. Persone in una piazza. Due per caso, appena arrivati su una spiaggia. Gente inferma. Gente che viaggia.

di Umberto Morello

di Federico Ghillino

Sola suite

Guardiamoci


L’arto mancante

Senza titolo (per ora)

di Giacomo Simoni

di Claudia Calabresi

Non avevo probabilmente bisogno ulteriore di comprendere il discorso, su un divano ricolmo di sassi che ti uscivano dai capelli, dove dicevi della tua esperienza nella guerra in Vietnam, tra i morti che camminavano a pelo dell’acqua e il turbinio delle mosche nel fango. «Sai, ho perso una gamba laggiù e mi manca da morire, non credo sia giusto inseguire una vita mozzata, in continuo ricordo di quanto fin da bambina mi è stato tolto.» Forse avevi davvero ragione a digrignare le palpebre umide poiché connaturata senza scampo, fin nella cartografia complessa delle tue vene, da quel vuoto rovente che ti dorme accanto. Credo di averti detto quella sera sul divano che quello che ci manca è quello che in realtà noi siamo. Nell’abisso proiettiamo d’istinto il calore evaporato di un volto, nella traiettoria d’ogni gesto estinto il grandangolo infranto di un abbraccio, finché questa vita espunta non entra sottopelle come accade quasi sempre, in modo drastico e deciso, al moto lineare difforme dei bambini che perseguono l’infinito. Ora anche io sono reduce e privo d’un pezzo importante, benché acquisito. Sparita nella palude del tuo privato teatro di guerra e di rimpianto – in questa eterna segregazione di specchi dove la notte non ti sazia – non volgerai mai più le labbra per accogliere nella voce un accento vibrato in cui ballare triste col sorriso, un cenno infantile che illumini le scale, crocevia di mani che scavano il buio al fuoco incrociato dei visi, nel silenzio degli androni… Il varco si allargherà di norma ancora, o forse solo si riscoprirà presente e vivo più di quanto ci si illude serva a riempirlo. Il cammino prosegue nel suo deserto perfetto alla ricerca dell’arto mancante. Il passo è malsicuro, claudicante.

«Ti sto guardando talmente in fondo che non vedo più neanche gli occhi.» «Cosa vedi?» «Vedo te, vedo me, vedo il nostro andare avanti.»

Cose che non riesco mai a fare di Gaia Cultrone Mi piacerebbe tenere il mio petto integro, da non sentirci sopra le frane di oggetti a cui hai dato un valore, di parole che hai lasciato qui di fronte che arrivano contro il mio petto come lo schiocco di una frusta, dolore di un attimo teso e poi lasciato andare. Mi piacerebbe tenerlo integro poi perché dietro c’è un cuore che potrebbe servire: niente più squarci di sorta fatti con la carta, che taglia poco ma sanguina di più. Infine, mi piacerebbe tenere il mio petto integro, non avere il tuo capo posato qui sopra a sentire il mio cuore battere, da non poterti lasciare parole lì di fronte, o squarciarti il petto a mia volta. Solo non poterti nascondere cosa ci sia qui dentro, non poterti mai chiedere, piano: «Ti prego, ti prego, richiudimi.»


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