Fischi di carta 26 (03/2015)

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Fischi di carta

Noi siamo liberi, liberi di vivere, proprio come ci piace, e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo. ”

Tucidide, La Guerra del Peloponneso

Luca

I mille risvolti della parola contraria - A. Mantovani Poesia del mese

Poesia senza titolo - E.Canfora Poesie dei lettori

Poesia senza titolo - M.Rosagni Zona franca

Biografia (in prosa) della Poesia - M.Croce Prossa Nova Editoriale - A.Moro Gramsci a Turi - M.Karoli À bout de sauce - M.Valentini

www.fischidicarta.it
n° 26 Marzo 2015 Genova
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IN QUESTO NUMERO Editoriale
Erri de
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nostra libertà di “dire”, cosa che, lamenta Jelloun, non vale allo stesso modo per gli scrittori in medio oriente, la cui professione è certo più ostacolata. La questione di De Luca affonda dunque le radici nella storia della parola censurata: nel novecento, ad esempio, furono molti gli imputati (Pasolini, Moravia, Busi), ma tutti condannati per accuse di oscenità; per ottenere un caso simile infatti bisogna ridiscendere fino agli intellettuali del Manifesto Antifascista, al Montale che a Firenze si occulta dalle brigate nere, o ancora più indietro a Silvio Pellico. Ma oggi tutto il nostro mondo culturale tace, la notizia entra sgomitando all'interno dei quotidiani, ma oltre non va. Assurdo. Talmente assurdo che persino il Guardian, alla vigilia del processo, decide di parlare della faccenda. Nel suo opuscolo De Luca, recitando per filo e per segno la storia della sua vicenda (allegando anche documentazioni), si definisce, proprio all'inizio della sezione centrale chiamata appunto '' Istigazione '', istigatore di un “sentimento di giustizia che esiste, ma che non ha ancora trovato le parole”. Citando a modello l'Orwell dell' Homage to Catalonia , l'animo dello scrittore vorrebbe ricoprire la sua stessa carica di valore paradigmatico attraverso la parola scritta e trasmessa alle generazioni di ''combattenti pi ù giovani'', ma il suo

è del tutto escluso che, salito alla ribalta col titolo di istigatore, De Luca non possa godere di quel riconoscimento letterario ancora mancante alle fila della sua carriera e di cui il lamento, sotto sotto, si sente anche tra le pagine del libro. Gli accusatori, dal canto loro, tentano di intessere un filo tra le dichiarazioni dell'autore e i concreti atti di sabotaggio, sostenendo che la risonanza pubblicitaria alla vicenda derivi proprio dalla strage francese, i cui fatti hanno provocato il risveglio del dibattito sul tema della libertà e numerosi articoli, che, come questo, identificano analogie tra le due situazioni. Maurizio Bufalini, il leader dell'LTF in Italia, ha dichiarato che “De Luca è una persona importante, i cui commenti possono avere conseguenze pericolose. È libero di pensare ciò che vuole e di chiamare a protesta, ma il sabotaggio è un'altra cosa”, senza evidentemente pensare al risvolto semantico della parola usata dallo scrittore: ''impedire'', ''ostacolare''.

La questione che torna sotto il riflettore, dunque, è la potenza della parola detta, per chi la prende nel suo senso ideologico, ispirante, e chi, come gli accusatori, nel suo senso più concreto e pragmatico. Ciò che delude di più non è tanto l'attacco del mondo del profitto, del mondo del sì Tav, di chi ci lavora, quanto la decisio

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ERRI DE LUCA

MILLE RISVOLTI DELLA PAROLA CONTRARIA

“Che cosa deve fare uno scrittore di meglio nella sua vita se non affermare le sue convinzioni, difenderle, difendere la parola sua e anche quella degli altri?” “ C 'è una frase nei Proverbi dell' Antico Testsamento che dice: apri la tua bocca per il muto. Ecco, questo credo sia il compito di uno scrittore.” così brilla il volto di Erri de Luca il 28 gennaio, giorno della sentenza per la frase rilasciata all'Hufflington Post il primo Settembre 2013, accusato dalla LTF, azienda in capo ai lavori Tav, di istigazione alla violenza. Si indigna lo scrittore napoletano, poi rinviato a giudizio proprio il 16 di questo mese, nel sentirsi paragonato alle vittime del Charlie francese, morte il 7 Gennaio, sostenendo che la strage avvenuta non potrebbe essere comparabile con qualche anno di carcere. Eppure, se il punto su cui si dibatte non è la conseguenza, ma il movente, allora qualcosa in comune c'è davvero. Sia i vignettisti francesi che lo scrittore

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EDITORIALE

animo battagliero tradisce dei legami con un tempo interiore ancorato ad un tempo storico che non è questo. Le due questioni (Guerra di Spagna e Tav) non sono evidentemente la stessa cosa e il momento storico è differente a tal punto da non permettere confronti. Nonostante ciò il problema permane in quanto lo scrittore napoletano è stato incriminato in quanto ha detto , non fatto. Fino a quando dunque, la parola contraria e la parola carica, potente, dovrà subire una repressione? Fino a quando, nell'era delle marce solidali, dovremo ancora temere di dire ? Fino a quando, i valori di libertà ed espressione, riscoperti solo sotto il segno della morte, dovranno essere acclamati a parole (ossequiose), ma negati con i fatti? Fino a quando la libertà di parlare, anche in maniera responsabile, verrà accusata di produrre fatti che non la riguardano? Se il logos (parola, ragione, pensiero) è ciò che ci rende umani, impedirne l'espressione significa snaturare il pensiero libero di cui, specialmente negli ultimi giorni, ci imbellettiamo, ma che dobbiamo difendere nella pratica, per non diventare semplicemente latori di un'idea muta. Alessandro Mantovani

ne di processo senza assoluzione e il mancato sostegno da parte di chi, come l'imputato, si trova ad essere custode della parola, parlante per i muti: nessuno scrittore o presunto tale ha ancora imbracciato la penna su qualche quotidiano o in maniera autonoma, in ausilio all'imputato e al mestiere di libertà nel dire, che ogni uomo di lettere ha il dovere di perseguire. È questo dunque anche un altro grosso problema: quello della caratura morale degli scrittori, della parola osannata finché corretta, ossequiosa, retta, ma quando essa diventa sghemba, fuori dalle convenzioni, contraria, ecco sollevarsi le polveri dei fuggitivi: quanti, anche nel loro (anche nostro) piccolo, sono in grado di assumersi il peso di ciò che dicono? E quanti scrittori, richiamati al loro dovere di coscienza, prendono posizioni nette su determinati temi?

Tahar Ben Jelloun ha giustamente detto, durante la manifestazione letteraria ''L'altra metà del libro'' a Genova, che il compito necessario di ogni scrittore è affrontare la crisi morale (ben peggiore di quella economica) che tocca i tempi moderni, svincolandosi dalla bandiera dell'ignavia (che ricordiamo, per Dante, non esser neppure degna dell'Inferno); ha affermato che proprio noi occidentali dovremmo ritenerci fortunati per la

partenopeo sono colpevoli di aver detto , sebbene con le dovute differenze, riguardo temi differenti, ma che hanno certamente colpito l'opinione pubblica: i primi ispirati da quella critica irriverente, intrisa di pansessualismo vitalista, volta alla distruzione di tutti i simboli, il secondo prendendo posizione su un preciso tema politico-sociale. Entrambi accusati, chi da una parte, chi dall'altra, di istigare: istigare il sabotaggio, istigare gli estremisti religiosi. I primi, impantanati nel ginepraio degli assiomi religiosi, il secondo, nella responsabilità di un'affermazione libera e laica. Riluce ampiamente come, fatte le dovute differenze, ci sia un sostrato comune alle vicende e come l'apparente misura di De Luca nelle dichiarazioni forensi (non poi così tanto trattenuto, invece, nel suo libro) non sia che il riflesso di una più o meno genuina modestia. De Luca, di cui, specifico, parlo in elogio, ma senza un particolare amore, ha affidato la sua difesa a un piccolo pamphlet, La parola contraria , suo j'accuse personale, tradotto e uscito l'8 gennaio, per l'appunto, anche in francese per Gallimard; in Italia, il 15 per Feltrinelli; queste le sue vere dichiarazioni, nient'altro da aggiungere, nessun ricorso. Certo, essere condannati, lo dice lui stesso,

come vincere un premio letterario, e non

è

Sotto l’albero in fresche indipendenze i rami neofiti di generazioni allungose ombreggiavano luci; la tovaglia in-quadrata, i corpi ammollati, il torpore aulente delle foglie staticizzate e caldezzanti.

Il sole terico2 incuriosiva nel guardare quel piccolo amore coltivato a muscoli inesperti, bovari inaspettati per la mandria della vita. -Il lavoro mi manda sei mesi in Pianuraesordisce lui, mortolento in tensioni brachicardiche, ed è poi lo sciorinare mordicchioso delle paure osteorosive il pianto di lei.

-Ma no, non piangere- la assale delicatamente lui, ercolico e benigno -il tempo invecchia facilmente come acqua va via lieve. Tu non versar lacrime per fecondare queste zolle dissodande, a quel compito penserà qualcun altro, ciò che è nostro non gettiamo alla terra.-

Fu al termine del discorso ottimizzatore e rassicurando che comparve una nube silenziabonda e insospettabile, e sulle palme aperte che lei fissava, come quelle di chi confessa pentificato, come di chi accetta la grazia cristologizzato, cadde fredda la prima goccia, antica di apocalisse.

LA BANDIERA (O CRONACA DELLA LIBERTA’)

È sicuro – dal porto! –ecco cosa viene: un mugghio forte lontano, boato per due volte fra gli arbusti tramontanti

la mia testa verso il Nord: gli occhi bianchi come le Alpi, ancora bieco soffonde il mare un rossore nascosto di terre ombre

sì che non si vede sole, né vedo io le strade reclino come la mia vita un gelido giardino metà del mio corpo al cielo chino, l’altra ancora qui, tra ulivi e navi e l’ancipite boato della terra, bestia dei giorni; tra i picchi aguzzi – senza fiato –si gusta questa libertà rapace foglio caldo araldo famiglia tremula rossa bandiera – una spiaggia d’infanzia che muore e vegeta

Silvio Magnolo

1 Le poesie Piovane, sono frammenti di una storia tra un Lui e una Lei irrimediabilmente separati per cause ignote in uno stato che si chiama Italia, in cui forse il governo è una dittatura e in cui, di certo, piove sempre. Questo componimento ne è il preludio.

2 “Primaverile’’, da ‘theros’ – ‘stagione calda’ in greco. Fischi di carta

4 PLIC Piovane1

OCCHIO BIONICO

Per una rifondazione steampunk della critica leopardiana 1

«Ranieri mio, sapete quant’io abbia in dispregio le sorti progressive.» «Giacomo, so bene.»

«E pur vorrei contarvi l’insolita cagione che porta l’occhio – morto –rinato nel vapore.»

«Ebbene dite, avanti!» «Sedevo al mio caffè, e sempre in via Toledo, non molto in là da me, m’apparve la bottega – pensai fosse francese…» «...A vender qualche arnese da franchi affeminati!»

«Antonio, dite bene! Ma posso qui giurarvi: giammai moda francese fu tanto bene accolta quanto a aprir la porta la femmina olandese.» «Dunque, amico...! Bene! Sento che voi entraste... dite... che faceste? Potremmo andarvi insieme?» «Antonio, no! Che dite?! Smettetela di fare di queste scortesie: fu donna assai virtuosa, lontana dalle vostre erotiche manie!» «...»

«Dicevo: la fanciulla m’accolse gentilmente e il volto sì suadente a me fu gran conforto. Molto seppe dirmi sul male di mia vista: mostrommi le conquiste

di nuova scienza nostra.»

«Ma quindi che faceste?» «Fecemi firmare e fecemi pagare» «Dunque mi mentiste!»

«Ah! Ranieri basta! Lasciatemi finire!» «Leopardi, siate chiaro!» «Chetate per capire. Fuvvi un gran rumore di macchine a vapore: forgiarono quest’occhio, mi tolsero il mio vecchio, fu messo a punto tutto, e apposero uno specchio facendomi indicare il numero seriale.

Vedete Antonio caro che non vi faccio burla: nell’iride notate le ruote dentellate.»

«Il vostro dir nuovissimo mi giunge, inusitato: pensavo ingenue cose del luogo visitato, pensavo ingenti petti di pulcre femminette pensavo voi sì dotto un poco circospetto, e invece l’occhio bionico! Un meccanismo logico! Vedo grande luce nell’occhio ingranaggissimo!»

«Antonio mio carissimo, da oggi fisso il sole! Ahi superbe fole del tempo eccellentissimo!»

Federico Ghillino

1 Mi giunge notizia di una pagina sconosciuta dello Zibaldone (l’ultima), ritrovata per caso dall’agenzia di pulizie che si occupa di Casa Leopardi a Recanati, dove Giacomo racconta del dialogo avuto con Ranieri riguardo al suo nuovo occhio. Sotto una gamba dell’imponente ed antico tavolo della sala da pranzo, pare fosse stata posta la suddetta pagina ripiegata in quattro. Tutto fa pensare che il padre Monaldo, innervosito dal traballio del tavolo, necessitasse di uno spessore, e trovasse nello scritto del figlio il supporto più adatto. Ora possiamo solo porre fiducia nella baldanza ed audacia della nostra folta schiera di filologi italiani.

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BUCATO

A volte può essere che siamo solo i panni che stendiamo fuori ad asciugare un poco a gocciolare dalle corde tirate tese per nessun altro – nessun equilibrista cerchiamo –ma per noi, in equilibrio noi tra un giorno ed un altro, le spalle senza niente a tenerle.

Siamo anche profumati lucidati ammorbiditi, forse sarà bello tenerci addosso quando l’aria avrà finito d’asciugarci: ma adesso siamo del vento del tempo, somigliamo a bersagli – girato l’angolo del palazzo alto di fronte, ci troverà anche il sole.

E uno di fianco all’altro altro non aspettiamo che i suoi raggi, aspettavamo in silenzio appesi ad asciugarci, un’altra bella giornata, appesi senza conoscerci.

Non più bagnati, siamo rattrappiti spiegazzati, non siamo pronti ad essere indossati, ad uscire: manca una mano che ci accarezzi, come un regalo ci dia la forma.

Aspettiamo fino ad allora appallottolati in un cesto: da soli non ci possiamo indossare.

Emanuele Pon

ANIMA CARSICA

Oggi non posso pensare né scrivere, né mangiare tutto è un vago ricordo un vano status di piombo. La loro morte una scheggia caduta tonante metri in basso. Pezzi del selciato a fare massetto corpo dopo corpo, tonfo dopo tonfo, sparo in fronte e pulizia fatta. La pietra che frana, il pozzo che si ingrossa, la guerra che festeggia. Tutto ragione e costrutto nell’occhio d’un carnefice azzurro come l’inverno. L’uomo non è la firma su d’un trattato, l’uomo è stato la morte che avete infoibato, la pietra che nel pozzo avete dimenticato.

Andrea Pesce

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ra tutte le poesie che ci avete inviato per mail abbiamo deciso di farne emergere una in particolare, di mese in mese, che ci abbia colpito per originalità o interessato per qualsiasi altro motivo, staccandola da Le poesie dei lettori . Per scoprire l’iter che ha portato a questa rubrica andate a leggere la Zona Franca dello scorso numero, a pagina 10. Chiunque abbia voglia di inviarci le sue poesie lo faccia senza timore, leggeremo e vi risponderemo!

POESIA SENZA TITOLO

Nella condizione in cui sono Vedo il celeste immenso Regnare sul verde tremolante Nella condizione in cui sono Immagino il canto di quel gabbiano Risuonare sul sibilo tagliente Nella condizione in cui sono Sento le stagioni passare Assieme al tempo che non torna più Nella classe in cui sono Vedo, sento, immagino Ma non vivo Che il bianco d’un lavagna.

FLA POESIA DEL MESE

Emanuele Canfora

mo 01001101.

Crea suoni elettronici, a tempo perso, con lo pseudoni -

di Farmacia. Autore su pyrgi-piantedellasalute.eu.

articoli a carattere scientifico per Mercurio, periodico

Ama viaggiare e ascoltare musica. Ha collaborato con

tumblr.com. È Redattore presso sampdorianews.net.

e Amore”, dove pubblica propri scritti: matteorosagni.

blog (con relativa pagina Facebook) chiamato “Psiche

sempre, il comporre versi valvola di sfogo. Gestisce un

della sua città natale. La scrittura è sua passione da

lo stesso anno si iscrive alla Facoltà di Farmacia

1988. Nel 2007 si diploma al Liceo Classico e

Matteo Rosagni nasce a Genova, nel

LE POESIE DEI LETTORI

spiavano di soppiatto

strane brezze perlacei spiriti annidati in rotti anfratti

che si facevan lunari

paesaggi bucolici

o nulla è e ancora echi lontani

buco nero che tutto

materia inesplorata

cos’era? da dove veniva?

un rintocco lontano

si stagliava vigoroso

tra le fila del tempo

POESIA SENZA TITOLO

Matteo Rosagni

cos’era? da dove veniva?

e poi un rintocco lontano

vortici e sensazioni sperdute nel crepuscolo

e ancora moti impazziti

felice nell’inganno

strozzata dall’affanno

troppo leggero per vederlo

troppo pesante per toglierlo

ebete e apatica chiusa in un velo

del proprio tempo

non più padrona

timidi e curiosi spaventati dall’esistenza il formicolante agire d’un’umanità impazzita

ed invitiamo chiunque sia interessato a scriverci!

more si sono mostrati e si mostreranno, speriamo che la nostra idea possa farvi piacere

spazio dove raccogliere tutte le loro poesie. Quindi, ringraziando coloro che senza ti -

abbiamo ricevuto da amici, conoscenti e sconosciuti che ci hanno fatto pensare ad uno

L’

idea di Le poesie dei lettori è nata dalle richieste di collaborazione che

INTERLUDIO

Perché dopo le nostre e quelle dei lettori non una poesia di qualche autore conosciuto?

LE ROSE VERDI DEL POETA

Lo vidi seminava il vento con fare stupendo come un fiore che spande i semi

Andandosene non raccolse tempeste ma una bracciata di rose e ciascuna era verde.

Tadeusz Rozewicz (Il Guanto Rosso e altre poesie, Scheiwiller, traduzione di Carlo Verdiani)

LA PORTA

I muratori andandosene hanno lasciato nel muro un’apertura verticale

A volte io penso che il mio appartamento sia convenzionale troppo ci entrano come niente i tipi più diversi

Se i muratori non avessero lasciato quell’apertura nella parete io sarei un eremita purtroppo

trascorro il mio tempo uscendo e rientrando ultimamente mi hanno messo una porta girevole attraverso quella porta

Poesie scelte da Emanuele:

«La prima poesia per il fulminante ritratto di poeta, del poeta che contiene. La seconda è un esempio dello stile di questo grande poeta polacco, ingiustamente dimenticato rispetto ai due grandi Nobel di quel paese (Milosz e Szymborska): una semplicità scarna e meditata, una ricerca quasi ungarettiana sul valore primo della parola, che con la sua forza primordiale può scavare per far emergere da qualche parte quella verità che il Male (la guerra in specie) e la Malinconia tendono a nascondere.»

entrano le faccende di questo mondo non ci si è fermato mai un melo in fiore né un puledrino dall’occhio umido né una stella né un’arnia d’oro né un torrente con i pesci e i ranuncoli

tuttavia non murerò quella porta chi sa non ci si fermi un uomo buono e mi dirà chi sono.

Tadeusz Rozewicz (Il Guanto Rosso e altre poesie, Scheiwiller, traduzione di Carlo Verdiani)

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ZONA FRANCA

In seguito alla pubblicazione del numero di dicembre 2014, un lettore, Massimo Croce, ci ha contattati ed inviato una risposta all’editoriale Cos’è la poesia? scritto da Federico. Avendo trovato il suo scritto interessante abbiamo deciso di condividerlo con tutti, perché si legga e si rifletta e, perché no, si dica la propria.

BIOGRAFIA (IN PROSA) DELLA POESIA di Massimo Croce

La poesia è un medium comunicativo che si distingue dalla prosa per il fatto di essere maggiormente estetizzato, cioè studiato e lavorato in modo da apparire più bello rispetto a ciò che è reale e naturale. Non è facile stabilire cosa sia bello, ma è abbastanza facile stabilire cosa è prossimo alla realtà e cosa no. Nella poesia si allontanano dalla realtà (dall’uso quotidiano):

1. Il suono; la poesia cerca la musicalità, usando versi, metri e figure retoriche; la prosa non lo fa, limitandosi a replicare le strutture del parlato; la prosa procede come un flusso continuo, e se ha delle suddivisioni, queste sono tematiche, non sonore;

2. La sintassi; spesso alterata per soddisfare il punto 1.; non a caso nelle poesie in cui il metro è più libero anche la sintassi si normalizza; per contro, la prosa impiega quasi sempre l’ordine regolare;

3. Le parole; si impiegano parole poco comuni per soddisfare la metrica (magari più lunghe o più brevi delle parole standard), ma non di rado si ricercano termini inconsueti per un gusto tutto poetico del raro, dell’antico, del sorprendente, del suggestivo o dell’evocativo; la prosa impiega più spesso parole d’uso comune;

4. Il contenuto; sia che il testo sia narrativo sia che non lo sia (e consista quindi in una descrizione, un’analisi dei sentimenti, un ragionamento filosofico o morale, ecc.), esso àltera le forme classiche dell’esposizione (cioè quelle della prosa, finalizzate ad avere ordine gerarchico, chiarezza, sintesi e semplicità), con un allontanamento dalla linearità in nome di un “abbellimento”, che si realizza di solito nelle figure retoriche di contenuto (in primis la metafora e la similitudine).

Nelle culture antiche (in primo luogo quella greca, radice prima dell’odierno Occidente) la differenza tra prosa e poesia era intesa innanzitutto come il punto 1.

Gli antichi scrivevano in versi quasi tutto; non solo l’analisi dei sentimenti o i bozzetti descrittivi, ma anche la narrativa (poemi epici), la satira, la Storia, i trattati filosofici, ecc., forse perché la musicalità rendeva i generi piú graditi al popolo (quando erano declamati) e agli aristocratici cólti (quando erano letti in privato).

Nell’Evo Antico e nel Medioevo il tipo di lettura più diffuso era quello ad alta voce, non quello silenzioso, e ciò permetteva alla poesia di essere goduta al massimo della sua sonorità. Se declamati, molti testi poetici erano accompagnati dal suono degli strumenti: il confine tra musica e poesia non era ben definito. Col passare dei secoli la prosa guadagnò terreno, “strappando” alla poesia varî generi, soprattutto tutto quelli di argomento pratico ed oggettivo (scienza e tecnica, Storia, filosofia: la prosa permetteva di esporle con chiarezza). Ciò andò di pari passo coll’aumentato rigore delle discipline scientifiche.

Fino al XIX secolo il numero di persone in grado di lèggere restò sempre molto basso, e l’élite dei letterati era sufficientemente istruita per apprezzare il raffinato e complesso genere poetico.

Quando un ceto intellettuale diviene sufficientemente cólto può succedere che la poesia perda il suo accompagnamento musicale e si trasformi in un genere tutto scritto, o vocale; era già accaduto nel mondo ellenistico, ma in Italia avvenne nel XIII secolo, quando la Scuola Siciliana abbandonò la tradizione dei poeti-cantori provenzali e cominciò a comporre per la sola lettura. Da lì in poi la poesia italiana fu un genere quasi esclusivamente scritto. Se la letteratura diventa appannaggio dei borghesi (il che avviene quando essi prendono il potere), succede invece che il modello poetico degli aristocratici sia rigettato e prevalga la prosa. I borghesi sono generalmente meno istruiti dei nobili e, per la loro mentalità produttiva, più pragmatici; preferiscono dunque una letteratura semplice e immediata come è quella in prosa. Ciò spiega il successo della novella nei comuni italiani del Basso Medioevo, e spiegherà poi la fioritura del romanzo nel XIX secolo.

Nel frattempo (grazie anche allo sperimentalismo barocco) la poesia aveva accumulato su di sé numerosi strati di “estetizzazione”; cioè i punti 2., 3. e 4. Nonostante l’espansione della prosa, la narrativa, la satira, la descrizione bozzettistica e l’analisi dei sentimenti erano ancóra saldamente controllate dai poeti. Tutto cambia colla Rivoluzione Industriale e l’ascesa definitiva delle classi borghesi. La scomparsa della lettura ad alta voce aveva fatto sì che la poesia avesse perso molto della sua musicalità (almeno nella fruizione), e il nascente positivismo reclamava un realismo che la poesia non poteva più soddisfare. Su una pagina scritta il bel suono della poesia pare poco necessario; scrivere in versi sembra ora macchinoso, e d’ostacolo a una chiara espressione. La prosa infligge così alla poesia un colpo “mortale” e le strappa la narrativa: la novella in versi e il poema epico scompaiono, sostituiti dalla novella in prosa e dal romanzo.

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I maggiori responsabili di questa trasformazione sono Alessandro Manzoni, che impone il romanzo come forma narrativa per eccellenza, e Giacomo Leopardi, che afferma il primato della lirica sulla poesia narrativa, condannandola così all’estinzione.

La poesia entra così in una crisi testimoniata dal fatto che essa impiega molto più tempo della prosa a riformare (con Pascoli) il suo linguaggio.

Intanto, nel tentativo di rinnovare le strutture, i poeti sperimentano il verso libero; la metrica tradizionale si disarticola e la poesia perde gran parte della sua musicalità: il verso non è più un’unità sonora, ma varia di ritmo e lunghezza assecondando il suo contenuto. La poesia si avvicina molto più alla prosa di quanto non abbia mai fatto nei secoli precedenti.

E questo la porta in un vicolo cieco: è tormentata da un bisogno di prosaicità, ma non può diventar prosa a meno di non sparire. Manca, insomma, di una propria identità. Cosí sarà anche la poesia del Novecento, cosí è la poesia odierna. Queste, nella maggior parte dei casi, le sue odierne caratteristiche:

1. Ha perso quasi tutta la musicalità (il metro classico è sentito come una prigione, non come un meccanismo sonoro), ma mantiene la scansione in versi (irregolari) e gli a capo per mettere in risalto le singole parole o frasi,

2. Dissolto il verso, la sintassi si è fatta più regolare;

3. Ha mantenuto un gusto elitario per le parole inconsuete, anche se oggi meno che in passato;

4. Ha conservato molte figure retoriche. Quale che sia il suo contenuto, lo esprime sempre in modo vago, evocativo (eredità di Leopardi?) più attento a creare impressioni che a comunicare messaggi; il suo andamento non è raziocinante e quando narra o descrive, impiega simboli, dettagli o figure enigmatiche.

Altri caratteri:

A. È breve. Ogni poesia è spesso non più lunga di una pagina, e molto più breve di un racconto;

B. Non si occupa quasi più di narrativa, se non per descrivere situazioni molto semplici, e raramente fa satira. Tratta ancóra di morale, descrizioni e analisi sentimentale (che per molti coincide colla poesia), ma non può farlo in modo lucido perché è “offuscata” dal peso delle figure retoriche e dal gusto per l’indefinito. I poeti preferiscono suggerire, piuttosto che dire, sognare, piuttosto che ricordare.

Riguardo al punto B., va detto che non è sempre stato così. Le poesie del Dolce Stil Novo, ad esempio, avevano spesso l’aspetto di riflessioni filosofiche in versi a proposito dell’amore.

La poesia è oggi dunque un genere difficile, cólto, spesso ambiguo ed enigmatico, povero di contenuti e non di rado più attento alla forma. In una parola: elitario.

E questo è un problema: non solo perché avendo pochi lettori, è poco lucrativo e non dà la fama, ma anche perché essendo coltivato da pochi cervelli ha scarse possibilità di evolversi. Non c’è nulla di quanto si dice in poesia che non possa essere detto anche in prosa, e viceversa. La differenza è nel modo: semplice e razionale vs. musicale ed ornato. Nella società di massa attuale la maggior parte delle persone non ha una cultura sufficiente per apprezzare un testo poetico. Il proletariato e l’aristocrazia sono scomparsi: siamo tutti borghesi, e i borghesi non hanno mai veramente capíto le poesie. Amiamo le storie, e come si è detto, la poesia di storie non ne racconta più. I temi non-narrativi attirano poco. Anche i testi in prosa che se ne occupano (per esempio le prose d’arte; artistiche e non-narrative) godono di scarso successo.

Aggiungasi a ciò il fatto che i media narrativi dominanti di quest’epoca non sono più romanzi e racconti, ma i loro omologhi visivi, film e telefilm.

La narrativa in prosa non sembra correre il rischio di esser soppiantata dal cinema (la distanza tra film e romanzo è maggiore di quella tra romanzo e poema), ma è indubbio che oggi molti scrittori tendano a scrivere romanzi simili a film. Il pubblico non vuole più che la storia gli sia raccontata, vuole vederla, e lo scrittore fa il possibile perché il lettore abbia quest’illusione. Per esempio dando l’impressione che il narratore sia invisibile, che i fatti siano raccontati in diretta, minuto per minuto (l’uso del passato è ormai solo un vezzo tradizionale, e infatti esistono autori che scrivono al presente).

In questo scenario l’eventualità che rinasca una narrativa in versi (lontanissima dal cinema!) è quasi impossibile. La poesia è dunque condannata a esser scritta da pochi e letta da pochissimi?

In parte, sí.

Certamente la poesia potrebbe recuperare qualcosa del suo significato se ripristinasse un’attenta musicalità del verso. Riadottando antichi metri, o inventandone di nuovi (purché rigidi e sistematici); per fare ciò i poeti dovrebbero smettere di modellare i versi in base al contenuto, e studiare invece come “snaturare” il contenuto in modo da renderlo musicale. Ma non basterebbe.

Al popolo piacciono le storie, come si è detto, ma non solo: al popolo piace anche la musica. Era così ai tempi dei Greci, è così ancóra oggigiorno.

In conclusione, l’unica poesia che non è mai entrata in crisi è la canzone. Essa non è diventata libro, è rimasta accompagnata dal canto e dallo strumento, gode ancor oggi di popolarità, specialmente in a quegli autori che dedicano al testo una forte attenzione, come Fabrizio DeAndré, Francesco Guccini, Bob Dylan, i Cantacronache ecc. ecc.

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