IL MECCANISMO DEL MARE EMANUELE PON
Per Federico Ghillino, sia mare o sia terra.
Per Federico Ghillino, sia mare o sia terra.
Gli occhi sul porto a più non posso sono gonfi di sfreghi di sonno già dal mattino – il senso perso stretto sul fondo dell’ultimo calice di una sera come altre, cercando un che da passare: il confine di un bicchiere.
Gli occhi lucidi di luce sulla spianata la panchina a mezzogiorno, si stringono – quel giorno da dove è arrivato? –precipitando con noi dal sogno che, poco a poco, ci ha riempito – del cielo non vedono più con il mare il tutt’uno: ora qui è movimento – colpo di scena soffiato in fretta dal vento.
A guardarlo, il vento non lo vedi insinuarsi tra i capelli – la pelle si scotta screziata a questo sole fresco embrionale; il vento non lo chiedi e ritorna tutto abbozzo, con il mare che si fa indeciso – non sa che vuole quando s’alza e trema forte di marea, muove dalla stasi la sabbia sul fondale: fa tremare diventare fluidi, l’acqua stessa che dava barriera e direzione ci nutre ora, ci abbevera di risacca e corrente
– naviganti inesperti sull’andare tra le onde – forse troppo forte: ma adesso è scavalcato anche il temporale dei nostri muri, attraversate le paure c’incontriamo – di là ritorniamo increspature. È tutto il resto che ora con gli altri guarda dal porto noi baratri di meraviglia, flutti senza tempo, e l’ondivagare: tutto il resto resta indietro da noi increspati dal vento, increspati dal mare.
Non è mai stato facile sguazzare così come adesso, fino a ieri tra la fanghiglia creduta corrente che scorre sui muri di locali da girare col passo veloce, lo sguardo distante;
è stato semplice essere onde, un refrain di schiuma di alta marea; facile fingersi, rapido, un orizzonte da puntare, con le creste d’acqua irrequiete – fasci di nervi da assecondare: a seguire quel miraggio da deserto non si poteva trovare che sabbia – dove si era partiti; ora è coperto di piombo l’urlo del mare – la spiaggia riguadagnata fredda, è quasi bagnata ancora di noi – ma è vecchia: fatica a ricordare i flutti vivi a scandire, a colpi di risacca cambiare la riva: ora detriti restano da raccogliere, come fila di un discorso incominciato appena: un passo storto, infermo, e l’occhio adesso arriva a terra, fissa ogni nuova pietra portata, che non porti un’altra ferita.
S’era qui che si pensava al mare dall’altro lato rispetto al litorale che ci crebbe – è il fiato dell’Adriatico salmastro di palude che lo tocchi a perdita d’occhio o di passo oltre il frangiflutti, oltre i rumori, i passi incerti di tutti i giorni del tempo che abbiamo come venduto al miglior offerente –e senza un come un perché, camminiamo avanti in bilico sulla secca costante della fonda adriatica, cercando la fine tra il verde e le alghe (il non toccare più, la cognizione del fondale che ci accompagna, tesori come scarti da scandagliare); tu forse la ami la meccanica di quest’acqua strana che almeno non ti sprofonda – io solo spero di discernere, alla fine, un’altra sponda.
Per arrivare, siamo arrivati: ci ha trovati quel limbo bagnato di sale – la riva ha per sé I ricordi che ha tenuto, e lo stantio inumidito delle cose (forse) nuove – qui il già stato ha quasi solo memoria del suo nome.
È stata relativa, nel mare senza occhi per guardare, la deriva – ora affonda il piede intirizzito nella sabbia, la terra incerta si incolla, ora, ai passi ma si ritrae, di schiuma – è risacca.
Ti vedo esultare, la fronte imperlata, la fatica dice la guerra che è stata guardare, trovare una sponda qualunque, un punto immobile da guadagnare; ma passato il confine della riva più in là una casa sicura, una collina su cui stendersi ad asciugare: è un’altra battaglia, anche questa battigia.
È stato così facile essere mare, darsi il movimento con le onde – quel rollio senza forma né fine né colpe, una deriva da saldare come un debito – ma anche tu, solo sei una crepa in un sistema che è chiuso, falla sciocca nel meccanismo dell’acqua che ti inganna, ti risputa o ti sprofonda.
Se sei la terra, non hai una scusa: se è la pietra nei suoi angoli storti e naturali – onde ferme – a scolpire, a scandire il tuo giorno sul finire, mai scuse potrai pensare di avere – solo scelte a cui dar nome –se la terra nel suo fisso ti appartiene; non certezze o derive, non onde: raggiungimi – ho lasciato gli inganni del mare: ora la terra mi tiene.
Il meccanismo del mare è stato composto tra l’Aprile e l’Ottobre 2016
Grafica a cura di Federico Ghillino pon.emanuele@gmail.com