PRIMORDIALE
Nel settembre 2014, è nata la nostra rubrica sulla rivista Fischi di Carta. Adesso, dopo un anno e mezzo di racconti ed esperimenti, proponiamo un estratto dei pezzi pubblicati durante questo percorso. Per presentarci, abbiamo scelto di aprire la raccolta con il nostro primo editoriale, scritto da tutti e tre insieme, in cui esponevamo il nostro progetto: Prossa Nova è un messaggio. È uno spazio dedicato alla narrativa, il progetto di tre ragazzi che propongono racconti e brevi rifessioni. Prossa Nova è nata per mettere a fuoco il nostro punto di vista: un'angolazione imperfetta, lacunosa, non esauriente, ma nostra e quindi “nova”. Non siamo intellettuali, non abbiamo nulla da insegnare, né trionfanti dichiarazioni programmatiche da esporre, tutto ciò che vogliamo offrire è una prospettiva, anzi tre (anzi, forse tante quante i racconti che su questa rivista pubblicheremo) senza pretendere che si tratti della migliore. Il gioco di parole con il genere musicale della bossa nova non è dovuto al fatto che facciamo prosa a ritmo di samba: è solo uno scherzo, ispirato forse al concerto di Caetano Veloso («a bossa nova é foda») che abbiamo ascoltato insieme al Torino Jazz Festival 2014, in una freddissima notte di musica gremita di bandiere brasiliane e di saudade. Dedichiamo un grazie alla rivista che ci ospita, il cui fschio ci ha in un primo momento disturbato, forse quasi assordato, per poi diventare il pungolo che ci ha spinto a tentare questo esperimento e che ci ha offerto gli spazi e la disponibilità per metterci alla prova. “Prossa” diverte e stempera, “Nova” testimonia, una volta ancora, la nostra volontà di comunicare e di rimanere, nonostante tutto.
Milo Karoli
Nasce a Pedona, in provincia di Grosseto, nel 1982. Si laurea in Filosofe Ermeneutiche Digitali a Urbino e dal 2002 è attore residente presso il Piccolo Teatro di Pedona. Dal 2014 collabora con la rivista letteraria Fischi di Carta per la quale ha pubblicato, in qualità di curatore della rubrica Prossa Nova, numerosi estratti della sua raccolta di racconti intitolata Persona (Quercia Nera Libri, 2008).
Dania
«Tutte le più belle storie iniziano da una fnestra di mondo»; senza la tenda mai. Non mi eccita l'idea che qualcuno possa vederci. Chiudo la porta a chiave. Chi sa se qualcuno anche loro da qualche parte nell'edifcio stanno facendo l'amore. Mentre mi svesto mi guardo allo specchio e il mio corpo è lungo, sensuale, il mio viso è candido, dicono tutti che ho un viso candido, ispira fducia, ispiro bianchezza. La mia pelle è bianca. Nuda. Come la fnestra che non dà fuori ma sul vuoto squadrato che attraversa gli appartamenti concluso ai lati dal cemento di altre stanze, coperto in alto da una vetrata, e la luce si assottiglia prima di cadere giù. Milo sul letto mi guarda, è così bello. Quando l'ho conosciuto ho pensato fosse bello, ho pensato fosse pazzo e che mi avrebbe fatto volare via da tutti. China. All'inizio lo trovavo arrogante, ma è così fragile, non sa cosa vuole dire amare davvero. Milo pensa che l'uomo si sia eretto per errore nel processo evolutivo, dice che il pensiero è disonesto e la logica una bugia rassicurante. Io so che l'amore è un bisogno della mia coscienza, una parola che vola leggerissima mentre lo sento sulle labbra, sul palato duro, l'amore va baciato intensamente senza paura di soffocare o di affiggere. Affermazione o negazione, dentro o fuori il sentimento puro, Milo questo non lo capisce ma io ne ho bisogno fno in fondo. Ad occhi chiusi. Le mie emozioni sono profonde, le mie emozioni sono sincere. Gli voglio bene, a volte lo amo davvero, stare con Milo è come una droga e non so farne senza. Ma una volta ricordo abbiamo litigato ed io lo ho odiato così tanto e sono uscita di casa e ho preso il treno; quel giorno ho sognato che forse andavamo troppo a largo. Milo alzava un muro di mattoni rossi. Magari una scala, dei pioli, un incantesimo. Ho pianto. Anche lui ricordo mi faceva arrabbiare, litigava sempre. Così ci siamo lasciati ma adesso siamo amici e ci vogliamo bene davvero. A volte mi sento come fossi inseguita da un treno. Io corro forte, corro verso il mare, e mi viene sonno.
Stesa. Ieri ho aggiunto una piccola parola di piuma al mio viso, per tutti diventerà poesia, mi affermerà, mi sottolineerà. Lo devo fare se voglio esistere, se voglio scappare dal treno. Correre è
così romantico, come una piuma nei capelli, come la pioggia. Anche se mi stanca da morire. Milo è la persona migliore che conosco ma non capisce niente di poesia, dice che il linguaggio è disonesto e che l'unica verticalità ammissibile è il nostro corpo, l'erezione che penetra il mondo e si fa orizzontale, che oscilla tra te e il mondo e ne fa una cosa sola. E parla come parlano gli amanti. Ti amo, Dania, portami a casa con te, mi piaci, alza la musica, Dania, Milo, non ti stancare, alza la musica, sì, non venire dentro, mi piaci, anche tu, Dania, com'è bello, amore, piccolo, ti amo tanto; tanto tanto. Io invece vorrei parlargli nella lingua dell'amore, Ich küsse Dich in der regen. A volte vorrei andare con Milo su una bicicletta sola in una mattina di pioggia, per sentire sulla bocca l'aria bagnata di mare. Altre volte penso che Milo sia un vampiro che mi succhia il sangue. E il mio sangue è prezioso, il mio sangue è bianco. Lui invece questo lo capiva, viveva come me, amava come me. Non è giusto che ci siamo lasciati. Ho tanto sonno, non ho voglia di prendere Milo tra le braccia, voglio solo dormire, voglio che tutti mi lascino in pace ora. Mi addormento.
Dentro. Io e lui siamo seduti a un tavolo. Non bevo caffè. Mi sento bene, cammino sull'erbetta umida del mattino e quando squilla il telefono mi spavento, è Milo, dice che vuole che ci vediamo cinque minuti. Mi spiace, mi ero sbagliata, credevo che anche Milo fosse come me. Forse il problema è che sono stata sempre troppo sincera. Fuori. È così bello Milo, ma non si può più recuperare niente, io non accetto questi compromessi, non ci si può amare sempre: sarebbe ipocrita. Mi parla così in prosa, sorrido, lo mando via perché i cinque minuti sono fniti e sono stanca adesso e ritorno a sedermi.
L'ultima sera con Milo ho trovato un biglietto sul mio letto con quella frase; mi ha regalato una tenda per la mia fnestra. È dolcissimo, è una bella persona e non avrebbe bisogno di fare il cucciolo, fare il cucciolo... c'est pas erotique. Io ho il diritto di mandarlo via. Non sono sua mamma, trovo sempre persone che vogliono una mamma, perché si attacca così. Sono sola nel vuoto che attraversa gli appartamenti e dalla vetrata la luna non ci passa, non posso più fare l'amore con Milo. Gli dico vattene o ti mando fuori a calci. Io e lui abbiamo riscoperto il nostro sentimento ed io sono una purista del sentimento. Milo non sa cosa vuole dire. Mi guarda. Si è
calmato. Ancora un bacio. Sola. Ho tanto sonno ed ho paura di incontrare lupi e non si vede nessuna luna, sento odore di anice stellato. Tremo, mi sento violata, dormiveglio, una volpe astuta vuole mordermi il labbro e cerca di strapparmi il naso, forse sto ancora sognando ma c'è qualcuno fuori che preme la maniglia. Un muro di mattoni rossi, magari una scala, dei pioli, ho fatto un incantesimo alla porta per proteggere il mio sangue puro, la mia piuma, il mio viso candido, la bianchezza, il treno, il mare, la pioggia, la bicicletta, il volo, lui. Io. Ho. Chiuso. A. Chiave.
Eunice
Mattina. Quelle mattine bigie bigie che sai bene, quelle mattine che la luce si entra debole debole nella stanza: a strisce nere e bianche. E ti svegli zebrato. Il suo corpo è grande caldissimo, e del vostro abbraccio dalla notte è rimasta solo una mano che ti sfora il fanco. Non mi vuole, pensi guardando ciò che resta della vostra stretta, disfatta tra le lenzuola intatte. Ma tu la ami e ti stringi a lei come un pupetto. Forse, ti dici, è la più bella ragazza del mondo e le tue dita provano il naso all'insù e la fronte calma, la accarezzi e la tua mano asseconda i fanchi i più morbidi e la pelle la più dolce. Decidi inoltre di pettinarle i capelli addormentati, sistemi con cura le piccole frange dorate cadute sul viso e accompagni dietro le orecchie i ciuff stonati. Ecco, l'ho svegliata.
Ricordi quando vi siete messi a letto la sera prima: come ogni sera i tuoi baci cercavano la sua bocca ed ella girava e rigirava la testa cercando di dormire. Così le tue mani cercavano il suo corpo ma avevano dovuto arrendersi: la ragazza più bella del mondo era insensibile alle tue carezze.
Ma ora che apre gli occhi sei deciso a tentare di nuovo, come ogni sera, come ogni mattina. Di nuovo, Eunice si schermisce dai tuoi baci come se sono velenosi,
pochi minuti e si alza, la senti già in cucina, di nuovo, ti ha lasciato solo. Pantaloni, camicia, ti vesti al buio, non aprire! la gente potrebbe vederci! Eunice crede che sia meglio tenere le imposte chiuse. La timida luce della lampada del corridoio vìola la penombra della camera da letto e ne svela indizi di insofferenza: i mobili polverosi, le tende sempre chiuse davanti alla fnestra inerte, decine di specchi ingialliti che moltiplicano all'infnito gli spazi stretti della stanza nera. Fuggi, ti ritrovi davanti alla cucina e attraverso il vetro della porta puoi vedere la ragazza più bella del mondo illuminata da un bagliore gelido che goccia dal lampadario. Entri, quel lume freddo che ti brucia gli occhi assonnati, Eunice che fa il caffè, le imposte chiuse irrimediabilmente. Ti stropicci. Bevete in silenzio, al buio della lampada. Il tavolo tarlato le tazzine informi le posate logore, ogni oggetto in quella cucina ti appare lontano; solo le piccole ombre che ogni cosa disegna qua e là per la stanza le diresti reali. Grazie per la colazione, di niente, sparecchi e lavi i piatti e come ti muovi presso il lavello desideri (o sogni) di aprire la grave fnestra, immagini (o credi) di prendere una boccata d'aria. Ma da dentro il vetro opaco il tuo rifesso ti guarda e suggerisce che la persiana è ancora bloccata. Ti volti verso Eunice che ti porge un pacchetto morbido, la sua è già accesa e il fumo bianco bacia le sue labbra dolcissime, prima di involarsi. Ora, fumate insieme le mille volute che viaggiano verso il sofftto; noti che alcune lottano contro il vetro della fnestra serrata, altre contro la porta ben chiusa: Eunice lei non ama che i vicini possano spiare l'interno della casa, né che il fumo s'insinui nel corridoio. L'appartamento di Eunice era grande, i vani ampli e numerosi. Nel salotto, due fnestre smisurate occupavano per intero le pareti laterali: parallele, una dava sul giardino interno al condominio, l'altra sulla strada. Dall'ingresso, una porta si apriva sul corridoio che metteva in tutte le stanze.
Come in molte vecchie case, l'arredo ostentava un gusto studiatamente esotico e sfarzoso, santini e riproduzioni di stampe giapponesi presenziavano sulle pareti non meno dei geroglifci su fnto papiro, i mobili in stile liberty e gli stessi pavimenti erano costellati, o meglio popolati, da una fauna fttissima di ninnoli e
suppellettili dall'eleganza tanto vanesia quanto presunta: vasi, fori, uova, tazze, teste, sculture, animali, portacenere, portasigarette, portaombrelli, portafoto, appendiabiti, tagliacarte, temperini, borse, cappelli, modellini, presepi, bottiglie e imbarcazioni, i soprammobili i più inimmaginabili abitavano come in un mare l'appartamento, e chi si fosse provato a metterci piede avrebbe faticato a non inciampare su una tartaruga, su un piccolo contadino cinese o su San Giuseppe. I muri, dove le innumerevoli cornici non divoravano lo spazio erano disseminati di specchi: la moltitudine di oggetti e la tua stessa immagine riprodotta ovunque ti guardavano con indifferenza da ogni angolo. Sulla soglia di casa, introdotto da Eunice, dovevi aspettare prima di accomodarti: ella, macchinalmente, disattivava i numerosi allarmi antifurto e bloccava la porta con giri e rigiri di chiavi. Adesso, potevi avventurarti nel corridoio e sfdare su ogni lato il tuo volto arrossato dal freddo. Ogni volta, di fronte a un qualche specchio, scoprivi la tua inquietudine: quel posto, quelle stanze, tutte quelle cose ti agitavano e sentivi l'ansia eccitarti il polso. Ti sforzi di rimanere calmo, Eunice sta poco bene oggi e ha bisogno di te. Cerchi di tranquillarla, profondi carezze le più calde, hai braccia che si allungano sulla sua schiena seduta e lente lente le tue parole sfdano i tuoi baci: a stento ti escono di bocca. Hai vomitato? Sì. Quante volte? Due. Ora come ti senti? Ora che sei arrivato mi sento meglio. Ti preparo un tè. Non lo voglio. Ci vediamo un flm? No. Cosa facciamo? Non lo so. Mi hai chiesto tu di venire. Mi sentivo male. Allora andiamo a letto?
La ragazza più bella del mondo fa di sì con la testa e accende una sigaretta. Contempli il volto pallido e la stanza grigia attraverso il fumo denso dello sconforto.
A letto. La sua bellezza accende ancora una volta il tuo desiderio, sai che non è ricambiato ma tenti comunque di accendere il suo. Pochi baci rubati e già senti il respiro del suo sonno scaldarti il collo. Ma tu non vuoi dormire non puoi dormire aneli alle carezze negate. Sei logorato avvilito lacerato e in tutto il tuo corpo senti le ferite acutissime di una lotta intestina che si agita convulsamente: amore e frustrazione egoica modellano spasmodicamente la debole argilla della tua mente. Tra sonno e veglia grondi lacrime e sudore, sei stanco ora, non puoi più sopportare. Apri gli occhi. Mattina. Quelle mattine bigie bigie che tutti sappiamo, quelle
mattine che la luce si entra debole debole nella stanza: a strisce nere e bianche. E ti svegli zebrato. Ma tu non hai dormito e la stanchezza ti immobilizza. Il suo corpo grande caldissimo, il naso all'insù, la fronte calma, i fanchi morbidi e la pelle dolce, ne contempli il sopore sforzandoti di tenere le palpebre aperte. La stanza anche lei dorme ancora, le lenzuola intatte e le imposte chiuse. Non dev'essersi mai svegliata pensi. Nulla in quella casa dev'essersi mai svegliato. Avverti come un sibilo sottile pungerti l'orecchie, rapisce i tuoi pensieri. Cresce si avvicina ingrandisce, è acutissimo ora e non lo puoi soffrire. Di scatto il tuo busto insonne si alza: pantaloni, camicia, ti vesti al buio ma il fschio non ti dà pace. Confusione. Afferri la maniglia e come che apri la fnestra senti i mugugni di Eunice che si sveglia. Spalanchi le imposte, i suoi gemiti diventano parole ma non le indovini, sordo ti dirigi in salotto e apri le tende smisurate. Collera. Corri in cucina e le grida di lei ti corrono dietro. Il raggio che ti ceca ti dice che hai aperto fnestra e persiane. Fuggi! Sorvoli mobili, soprammobili sopra i mobili, quadri specchi vasi fori uova tazze teste sculture animali bottiglie e imbarcazioni, inciampi su un contadino cinese e per poco non cadi: ansante ti aggrappi alla porta d'ingresso. Giri e rigiri la chiave: uscendo puoi sentire, dalla cucina, la ragazza più bella del mondo singhiozzare alla luce.
Maria Maddalena
«È appropriato andare a messa il giorno di Natale, in mezzo a tutti quei pacchetti, insegne, colori. Sono vere e proprie anche le famiglie che escono di chiesa, e il calendario che ricorda a tutti di vestirsi bene per la festa e consumare bene per l’economia del paese. Dovete sapere che Magdala era diventata il centro di una forente attività di lavorazione del pesce, e Maria potrebbe avere ereditato una delle grandi ditte conserviere che producevano salamoia (da qualche
familiare o dal marito) e in questo modo permettersi di fnanziare la missione itinerante di Gesù. Donna generosa, devota, Maria di Magdala non ha mai smesso di viaggiare: dopo la morte di Gesù fuggì per mare dalle persecuzioni in Terra Santa e sbarcò infne a Saintes-Maries-de-la-Mer, vicino ad Arles. Successivamente arrivò a Marsiglia, da dove intraprese l’evangelizzazione della Provenza, per poi ritirarsi in una grotta (La Sainte Baume) dove avrebbe vissuto una vita di penitenza per trent’anni. Quando arrivò l’ora della sua morte fu portata dagli Angeli in Italia, e il suo corpo fu seppellito in un oratorio costruito nella regione di Villa Lata, dove si racconta fosse una grande quercia nera secolare.
Maria gli strinse la mano sinistra: salute alle tue mani, disse. Durante i suoi viaggi, Maria aveva appreso questo tipo particolare di saluto, da rivolgere a coloro che di lavoro usano le mani soprattutto. Di lavoro in effetti faceva il facchino, o vuoi portaborse, per una società che aveva in appalto gli allestimenti di un piccolo teatro a Pedona in provincia di Lata. Diceva il contratto, Operaio di 6olivello. E quando non portava borse andava porta porta, quartiere quartiere a vendere accessori per il cucito. Vendeva forbici, forcine, spazzole, spoline, aghi, rocchetti, bottoni, bobine, spilli e spille, ferri e fbbie, chiusure, alamari, mussole e ditali, tutto il necessario: diceva il contratto, Procacciatore di Affari. Aveva lasciato la casa del padre il settimo giorno prima di Natale, 18 Dicembre 2014, e solo la solitudine, sapeva, lo avrebbe aiutato a scacciare i demoni: tanto è che una notte, quando Maria gli apparve, gli prese una paura del diavolo. In verità non capiva se fdarsi di lei, in particolare aveva tatuate dietro le mani delle linee allungate. Maria, lei, veniva da un paese chiamato Mondsee, Lago di Luna, a tracciare una retta sullo schermo da Pedona facevano 511.07 km, e da quando era ragazza non aveva mai smesso di viaggiare lungo quei percorsi che aveva voluto tatuarsi, sbarcata quella notte a quella stretta di mani. Posso leggere i segni del mondo, rispose: intendeva dirle, che intuiva il signifcato di quelle linee, e ancora in qualche modo domandarle, se era all’altezza, o se anche lei lo avrebbe fatto solo che soffrire. L’apparizione di Maria comunque lo segnò, si scambiarono il telefono a celle (+43 il prefsso straniero) e il secondo giorno volle rivederla per essere certo di non avere sognato.
Gioverà sapere che nel 1896 il Museo di Berlino acquistò un papiro proveniente da Akhmim, poco più a nord di Nag Hammadi (Egitto). Alla vendita seguì il ritrovamento di alcuni fogli del perduto Vangelo apocrifo conosciuto come di Maria. Qui (pregiabile testimonianza!), Maria di Magdala ricopre il ruolo di discepolo prediletto: si era a Cafarnao, a Nord del Mare di Galilea, e giunti a Compieta Gesù istruì i suoi discepoli con queste parole: Il Sogno è oltrepassare il sogno delle frontiere, le frontiere sono la sofferenza perché la sofferenza è il Tu e l'Io che si sognano come essendo due. La separazione è un gioco, come la sofferenza, e la sofferenza nasce dall'orgoglio fondamentale che gioca a separare. La Materia, vi dico, è un sorriso dell'Eterno.
Si raccolsero sulla cima di una altura. Avevano risalito una ferrovia a cremagliera lunga 1130 m, una delle più antiche di Italia, costruita nel 1901 per iniziativa di una società privata che intendeva promuovere la lottizzazione dei terreni siti sulla collina. Maria, lei, non aveva il biglietto. E una volta seduti gli raccontò di quando da ragazza aveva rubato in un negozio di scarpe. Disse, la commessa correva fottutamente veloce. In quel tempo infatti, la commessa fu veloce abbastanza da raggiungere Maria fuggitiva, ma per dirle una frase che non avrebbe dimenticato fno a giunta l’ora della sua morte: se non hai i soldi per le scarpe be’, le disse, amen, vai a farti fottere. Dall’alto guardavano Pedona affacciarsi, precisamente la cittadina si estendeva per alcuni chilometri lungo il Mediterraneo, a formare una specie marina di parentesi che cessava risalendo le colline della regione circostante. A circondarla la si direbbe il sorriso infnito del mare, quella materia che non ha frontiere e nasce dall’acqua che sta in mezzo alla terra. Così, sulla cima di un’altura, cessava nel mondo il gioco della separazione e della sofferenza: il Tu e l’Io furono una sola carne. Non sei il mio tipo comunque, disse Maria.
Quella domenica Maria di Magdala e Maria di Cleofa si recarono alla tomba di Gesù, e videro che il Santo Sepolcro era stata profanato. Corsero ad avvertire l’apostolo Pietro che assieme a Giovanni entrassero nella tomba del Signore, per scoprire che era vuota, e che, per giunta, bende e Santa Sindone erano state ripiegate in un angolino. Alle tiepide indignanze dei due uomini, le due Marie non potevano rassegnarsi, e stettero a piangere vicino alla Tomba fno all’arrivo dell’Angelo. Gesù, anche lui, arrivò, e quando che lo
ebbero riconosciuto esclamarono: Rabbunì! che in ebraico vuole dire ‘maestro buono’. Erano soli ora, formavano un triangolo sull'erbetta umida del mattino, le due Marie e Gesù, a dire loro di lasciarlo, per fare di corsa ad annunciare la buona notizia.
E com’è il tuo tipo? rispose. In effetti Maria, lei, un tipo lo aveva: era innamorata di una ragazza del suo paese. E da Mondsee, Lago di Luna, Maria sapeva che l’avrebbe raggiunta a Pedona, ultima tappa di un lungo viaggio che aveva toccato Norvegia, Francia, Saintes-Maries-de-la-Mer, giù fno a Città del Capo e poi ad Akmihm, in Egitto, a raggiungere quella cittadina estesa tra il mare e le colline e lei e quel camallatore di borse, venditore di accessori per il cucito. E Maria, lei, avrebbe attraversato su un cammello la cruna di un ago pur di rivederla. Sta arrivando un’amica, annunciò. Si chiama Maddalena.
Mentre parlavano di queste cose un grosso animale, come un oscuro presagio, raggiunse la cima dell’altura, scodinzolando, dove per 70 volte sette secondi la sola carne di due giovani aveva infranto il gioco della separazione e della sofferenza: quel giorno, infatti, un esemplare raro di Pastor Theotiscus Niger lasciava di corsa la casa del padrone, nella speranza di rompere quel celibato che da tempo lo rendeva agitato sul lavoro e disattento, senza appetito e rimproverato dal vecchio datore, il capraro. Ma poiché il senso, diremmo così, letterale di un cane è l’odorato, e poiché, si direbbe scherzando, la sola carne odora meglio che quella anche di una sola capra, quel giorno corse dal piccolo gregge sul piccolo pascolo dritto in cima, per la sua voglia di conoscere alla lettera una femmina pastora.
Affascina il racconto di un celebre prelato ligure, Jacopo da Varazze agiografo, che nel santorale duecentesco noto come ‘Legenda Aurea’ tramanda un giorno Maria di Magdala bagnarsi sulla riva del mare per la purifcazione del corpo, ma il Diavolo scatenò un forte vento e ne venne in mare una tempesta tale che le onde avrebbero risucchiata la santa donna: a salvarla per miracolo fu la visione del Risorto, che proprio in quei lidi si dice fosse morto una volta per tutte, in ascesa. Apostola Apostolis, Maria eccitata raccontava ai discepoli l’accaduto e Simone, detto Pietro, la interrogò con queste parole: tu che sei una Sorella per ciascuno di noi, diceva, insegnaci ora secondo le parole che il Maestro ti ha
affdato, dicci ciò che la tua memoria privilegia. Maria allora incominciò: l’Insegnante, disse, mi ha amata in modo diverso. Apparve in sogno durante la tempesta. Parlò così. Come parlano gli amanti: In verità, non vi è frontiera. Soltanto gli occhi non vedono il Dentro che sta nel Fuori. Il fglio dell’Uomo crea il Mondo, che fa i mondi: bisogna uscire dal sogno dei mondi perché la gioia nasce nell’Io che ha concepito il gioco dell’errore. Per questo il Bene ti ha salvata, perché ogni cosa torni all’essenza che sta sul limite. Gli uomini amano la loro realtà costruita ed adultera, è questo il motivo per cui muoiono e si ammalano: la Morte arriva e dice loro: ”È troppo tempo che vivete nei sogni e nei mondi, dorma in eterno chi si compiace nel lamento!”. In verità ti dico, fatti coraggio, il Figlio dell’Uomo è dentro di te. Lamentarsi non è affatto attraente, disse Maria. È tutta la vita che le donne vogliono insegnarmi come essere attraente, rispose. Si lamentava in effetti di quel cane che ora, comodamente si lasciava attraversare il pelo dai di lei tatuaggi sulle di lei dita. A tracciare una retta sullo schermo da Mondsee facevano 511.07 km, pensava, e lei, Maria, non aveva mai smesso di viaggiare lungo il mare che sta in mezzo alla terra, per l’Africa e l’Europa fno a quella loro stretta, sulla cima di una altura che guarda Pedona. E adesso, pensava, un cane pastore si prendeva tutte le carezze: per i cani, diceva, al mondo c’è amore. Per i cani c’è cibo, c’è spazio, c’è verde, c’è lavoro, affetto e comprensione. Gli uomini non sanno darsi affetto a vicenda, così lo danno ai cani. Ma se si vietassero i cani, diceva, la gente andrebbe nel panico, dovrebbe fare i conti con le risorse, con la natura, con la gente.
Bisognerà che il lettore, certamente amante dei cani, perdoni questo sfogo all’apparenza insensato: dovete sapere infatti che da quando aveva lasciato la casa del padre, il 18 Dicembre 2014, si era sentito molto solo. Durante il primo mese, ad esempio, gli capitava spesso di abbandonarsi sul pavimento di casa, stremato dal lavoro, e lasciarsi andare ad un pianto dirotto. Ebbene l’animale, esso, com’era arrivato lassù capiva di averlo solo mal annusato, il calore di una cagna, e, a consolazione, volle accomodarsi tra i due amanti che prendevano il sole, a prendersi le coccole. Odio i cani, continuava, non sono cani veri, non esistono davvero: sono solo un’intenzione d’amore, sviata dal mondo per vigliaccheria.
A queste parole Odino (era questo, infatti, il nome dell’animale), che fno a quel momento aveva trascurato i suoi impegni, si voltò indietro verso il pascolo lasciato, perché avvertiva che qualcosa di inatteso sarebbe accaduto.
Ecce homo, disse Maria.
Il padrone di Odino era un ometto grigio e minaccioso, 40 anni di contributi da salumiere, un anziano signore ben rasato che veniva da oltremare, e in particolare da Olbia (Sardegna) che un tempo, diceva, si chiamava Terra Nùa. Una volta lasciata l’attività si era ritirato in collina, trascurato dal parentado, per trascorrere gli ultimi anni della sua vita umilmente, da eremita. Quel giorno, però, aveva perso la pazienza con quel cane tanto inetto e montava sulla cima, e su tutte le furie, aiutandosi con il bastone. Disse il pastore, sei qui fnalmente. Il cane, agitato, fece per andargli incontro, ma il vecchio capraro lo colpì con la mazza duramente e lo sgridava e lo calciò sul muso, e sulle costole per insegnargli la lezione. Odino zoppicava ora, guaiva leggermente mentre sanguinava sul prato. Così, quel giorno, guardavano il sangue nero come il petrolio sull’erba umida del mattino. Maria, lei, piangeva e piangeva e guardava il mare: voglio vedere i posti più assurdi del mondo, gli disse, lavorare su una piattaforma petrolifera. Una piattaforma petrolifera? Sì, voglio stare su una di quelle cazzo di piattaforme che trivellano l’oceano.
“Poiché ti dici messaggero e interprete, degli elementi e dei fenomeni di questo mondo, dicci dunque, come possiamo seguirti rispettando la legge di Mosè e dei profeti? Gesù disse: Fate agli altri tutto quello che volete che essi facciano a voi: così comanda la legge di Mosè e così hanno insegnato gli altri profeti”. Kaarl Ahadamson, psicologo e neuroscienziato, presentava nel 2004 un tesi di laurea all’università di Magonza dal titolo: Ontologia, Ermeneutica e Semiotica nei Vangeli Canonici della Chiesa di Roma. Secondo le sue teorie, questa cosiddetta ‘regola d’oro’ (Matteo 7,12) non sarebbe altro che una translitterazione del principio psicologico secondo il quale “proiettiamo la nostra sfera psichica sul mondo che ci circonda e interpretiamo i fenomeni e la personalità degli altri secondo quello che è il nostro orizzonte semiologico-percettivo.” Per Ahadamson, Cristo aveva intuito “l’importanza della nostra psicologia nel determinare gli eventi della
nostra vita, tanto da poter compiere quelli che venivano interpretati come miracoli, e che derivavano dalla profonda conoscenza di Gesù del ‘linguaggio del mondo’, la realtà determinata dalla nostra stessa psiche: ‘parlare’ questo linguaggio gli consentiva di ottenere notevoli effetti e cambiamenti sul mondo contingente, perché linguaggio e materia sono in fondo due facce della stessa medaglia”.
Maddalena bussò un giorno improvviso alla porta di casa. Questa, in verità, era iscritta al Catasto come Magazzino C2, e il commercialista avevo detto che non era tra le spese deducibili alla fne dell’anno da un venditore di accessori per il cucito. Nel frattempo Maddalena, lei (la ricorderete), era giunta a Pedona dopo un lungo viaggio tra Norvegia, Francia ed Egitto, quella cittadina estesa tra il mare e le colline e Maria e quel camallatore di borse, che insieme abitavano in un magazzino. Dissero, chi sei?, da dietro la porta, e quando capì che si trattava di Maddalena, Maria scoppiò in un riso infnito. Maddalena, lei, era molto bella, stava sulla soglia e lasciava educatamente che Maria girasse e rigirasse la chiave, prima di accomodarsi. Era silenziosa, distratta, i capelli biondi: adesso, so com’è il tuo tipo, disse alle due amiche.
Non si parlavano da tempo, ridevano, giocavano a carte, e quando che arrivò il Vespro Maddalena, anche lei volle fermarsi a dormire nella casa degli amanti. E poiché il senso, diremmo così, geometrico di una donna è la curiosità, e poiché, dice il proverbio, ‘numero dispari numero sacro’, ella volle quella notte giacere nel letto con la sacra coppia, per la voglia di conoscere in triangolo la carne sola. Durante l’amore ebbe modo di pensare lungamente alla sua vita. Pensava a quando aveva lasciato la casa del padre ed aveva smesso di essere fglio, allo spirito santo che aveva ad affrontare il lavoro e le facce della gente. Pensava ai tatuaggi di Maria, ai segni del mondo, al suo odio per i cani che non esistono davvero, i cani che esistono e basta. Tutto esiste, si diceva, tutto quello che puoi immaginare esiste, non vuole dire che sia vero. Dio, ad esempio, esiste eccome, ecco perché non ci credo. Se la smettesse di esistere sarebbe vero. La verità esiste, e quindi è una bugia. Ma quando una verità è mia allora diventa vera, diventa Dio, diventa cane: Dio è un cane vero. L’essenza sta nel limite, il limite dell’uomo è Dio, io sono il mio unico limite, io sono il mio unico Dio. Io sono la via, la verità, la vita,
e ognuno di noi è l’Io e il Tu e l’Egli, e in eterno il Padre, e il Figlio, e lo Spirito Santo. Amen.
Uno splendido esempio di semiotica dell’immagine sacra è rappresentato dall'Assunzione di Santa Maria Maddalena, dipinto ad olio e tempera su tavola (209,5x166,2 cm) di Antonio del Pollaiuolo, databile intorno al 1460 e conservato nel Museo del Pollaiuolo a Staggia Senese (frazione di Poggibonsi). Quattro angeli sollevano Maria dalla grotta dov’ebbe vissuto una vita di penitenza per trent’anni, mentre un quinto le porge l'eucarestia. La santa donna, i cui lunghi capelli coprono il corpo nudo, giunge le mani in segno di preghiera, rivolgendo lo sguardo alla meta celeste. Qui, il moto ascensionale è superbamente evidenziato dalla veduta ‘a volo d'uccello’ del paesaggio, ottenuta con un orizzonte ribassato, verso il quale il cielo schiarisce come all'alba.
Il treno di linea partiva da Pedona alle 05:18. Donna educata, distratta, Maddalena di già era partita il giorno prima per continuare i suoi viaggi mentre Maria, lei, sarebbe tornata a Mondsee dopo che per una vita non aveva mai smesso di viaggiare. In quel tempo, in verità, non aveva il biglietto. Guardava il treno allontanarsi, superbamente in linea retta verso l’orizzonte ribassato, e da dietro il vetro opaco poteva vedere lei e le sue mani augurare salute. Così, le inviò un messaggio di testo (+43 il prefsso straniero): mi hai fatto sentire un ragazzo ‘appropriato’, la persona giusta al momento giusto, disse. Mi hai fatto sentire più che una ragazza, rispose. Quando aveva lasciato la casa del padre, da solo era andato a messa il giorno di Natale, il calendario gli aveva ricordato di vestirsi bene per la festa e consumare bene per l’economia del paese e adesso, Operaio di 6o livello, Procacciatore d’Affari, era solo in stazione a guardarla da lontano, lei, che non avrebbe più rivisto perché in effetti, pensava, tutte le linee portano fuori mano. Amen, anche se non sei il mio tipo, gli aveva detto, mi piaci comunque. Rispose, e perché ti piaccio?
Be’, sei un ragazzo appropriato, disse Maria».
Amelia Moro
Nasce a Genova nel 1992.
Umano
Lo storpio all’angolo grida: “Nichelini, per carità” e i ragazzi, in centro, parlano da veri duri. È così diffcile essere un santo in città.
Bruce Springsteen, It’s hard to be a saint in the city
È un giorno di mezza primavera e, tanto per cambiare, sei in ritardo. Cammini a passo spedito per via: sai che un autobus ti farebbe risparmiare tempo, ma quel tempo guadagnato non vale il piacere di godersi un po’ di sole, ora che si è deciso a far capolino, o un po’ d’aria, fosse pure quella senz’altro inquinata del centro. Mentre cammini una mano prende la tua: “Signore, la prego, signore… ho bisogno d’aiuto, signore…” qualcuno una volta ti ha detto che ai poveri non si dà un pesce, gli si dà una canna per pescare, perché i tuoi spiccioli non aiutano nessuno, bisogna risolvere il problema alla radice e non rendere qualcuno dipendente dalla tua sudicia carità. Vero, verissimo. C’è però un fatto: quando una persona ti guarda negli occhi e ti chiede aiuto, e tu non hai nessuna canna da pesca…
È inutile starci a girare intorno: spesso ti volti e passi oltre, come se quella mano tesa fosse invisibile, o altre volte, più rare, guardi la tua ragazza, che ha il cuore più tenero, e speri che li dia lei: questo ti fa sentire molto meglio. Dopo tutto, com’era quella storia che tuttociòcheèmioètuo tuttociòcheètuoèmio? Però, è innegabile, la maggior parte delle volte passi oltre. La maggior parte, non oggi… forse perché ti ha toccato, e, tuo malgrado, non sai resistere alla tiepida malinconia di quel contatto umano. Apri il portafoglio, sperando di non avere, come di solito, pochi centesimi: non vuoi sembrare avaro. Ecco una bella moneta da due euro, lucente, orargento. Gliela darai guardandola negli occhi, per farle capire che sai bene che è una persona, non un oggetto o una pianta o una bestia sporca, poi passerai oltre e sarai un po’ più leggero, un po’ più libero. “Signore, signore, la prego, è per il latte in polvere, è per il mio bambino, davvero, non li uso per nient’altro, vieni con me signore, vieni e te lo faccio vedere” non ti tocca (forse un altro contatto ti avrebbe spaventato, ti saresti ritratto) ma quell’esile nenia ti seduce,
la segui. L’insegna verde della farmacia è così vicina, così vicina che raggiungerla in due passi ti sembra semplice. E va bene, vediamola mentre compra questo latte in polvere; magari è orgogliosa, magari ci tiene a farti sapere che userà bene i tuoi soldi. La guardi davvero per la prima volta: è bassa, ha i capelli scuri, un po’ unti, non è bella, spinge la carrozzina con il bambino che dorme, sereno. Non lo stai facendo perché ti attrae, o meglio, ti attrae forse, ma non nel modo che farebbe ingelosire la tua ragazza: è un misto di curiosità e pietà. Un’altra delle teorie sull’elemosina che hai collezionato (tutti hanno una teoria sull’argomento, ma nessuno sembra mai davvero convinto) riguarda l’aspetto delle persone: ad un vecchio è giusto farla, perché non potrebbe guadagnare altrimenti, mentre un giovane dovrebbe cercarsi un lavoro. Anche questa soluzione ti sembra buona, non c’è nulla di sbagliato, a parte il fatto che ti chiedi: che diritto ho io di giudicare una persona, di valutare, con un solo sguardo distratto, se quell’uomo vale i miei due euro, o non li vale? Eccoli davanti alla farmacia: “Signore, signore, entra tu, chiedilo tu per me, la marca è Lattebimbo”. Ecco, c’era qualcosa sotto. Avrà rubato in questo negozio, forse l’hanno riconosciuta, non può più entrare e manda avanti te. E sia. Entri, chiedi il Lattebimbo, niente da fare, fnito. Esci fuori, smarrito, ma c’è un’altra croce verde, solo pochi passi, e camminate ancora fanco a fanco. Siete come una strana, sconclusionata famiglia: mamma, papà, bambino. Ormai ti pare che tanti passi debbano instaurare tra voi una certa confdenza. Le chiedi il nome, quanto ha il bambino, come si chiama lui; la ragazza risponde e ti dice anche altro: che suo marito è giovane come lei, che non lavora… ha solo diciannove anni. Ti chiede cosa fai tu e come ti chiami, ti chiede l’età. Neanche nell’altra farmacia hanno il Lattebimbo e, come in un brusco risveglio, ti rendi conto che non ci sono altre croci verdi nelle vicinanze e che ti sei spinto ben più lontano di quanto volessi. Hai ripercorso quasi tutta la via, il tuo ritardo si fa considerevole. Sai che devi fare: “Scusa, io adesso devo proprio andare…” “No signore, signore ti prego, il latte per il mio bambino, sono solo venti euro, venti euro, signore…” e cosa fai? Sei andato troppo oltre, l’hai accompagnata, sai il suo nome, hai visto il suo bambino, siete stati, per un attimo, una specie di famiglia. Le metti in mano la carta azzurra, sperando che taccia. “Signore, signore, costa venticinque euro, signore!”, le tiri una moneta qualsiasi
e fnalmente scappi “Grazie grazie signore grazie”. Le volevi dare due euro, e alla fne sono stati dieci volte tanto. “Dieci volte tanto”, suona un po’ biblico, ma tu non ti senti un santo, solo un po’ più vigliacco, una volta ancora.
Domenica di pioggia
...Ma ora sai come questo si dimentica: perché hai davanti, colma e inobliabile, la coppa delle rose che gli estremi ha in sé dell'essere e del declinare...
Die Rosenschale, R. M. Rilke
Un, due, tre… scivola la maglia sui ferri… quattr, cinq, sei… non devo perdere il conto… sette, otto, e nnnove… sollevo lo sguardo, forse per un rumore, solo per un attimo i miei occhi ripercorrono la stanza odiata, quel che basta per notare una ragazza ossuta, malamente accomodata nella poltrona a roselline, chiaramente sulle spine. Ecco, che sciocca, per un istante ho sperato fosse Andrea. So che è ridicolo, ma non ho potuto evitare di pensarlo. Otto… nove… ero a otto o ero a nove? Ho perso il conto. Del resto, non mi stupisco che la ragazza appaia così a disagio, quella vecchia poltrona è tremendamente dura e scomoda. Le roselline sullo sfondo color senape sono come svaporate, il colore dilavato, restano sagome scialbe come pallidi fantasmi sull’imbottitura quasi inesistente. Comunque, in assenza di rose vere, rose fresche, altro non mi resta: queste sbiadiscono forse, ma non appassiscono. La ragazza è un’adolescente goffa, con gambe e braccia troppo lunghe, tutta gomiti, gli incisivi un po’ distanziati rendono il suo poco spontaneo sorriso vagamente ebete. È davvero a disagio, così, per garbo, le chiedo: «Com’è oggi il tempo? C’è il sole?» ma non ascolto la risposta, perché in fondo non mi interessa poi tanto. È così spossante ricevere visite e trovare argomenti di conversazione… solo
se venisse Andrea mi importerebbe, ma so che lui non verrà. O forse verrà. Ma, davvero, è meglio non pensarci, o resterò troppo delusa. Poi mi dico che se il giorno è bello forse lo vedrò entrare insieme ad un raggio di sole, con un mazzo di rose rosse, e lui dirà: «Andiamo, sono qui per portarti via!». Rimpiango di non aver ascoltato la risposta della ragazza ossuta, e poi non sono neppure certa di aver davvero posto la domanda, non lo ricordo. Così chiedo: «Com’è oggi il tempo? C’è il sole?». Quanto vorrei vedere Andrea. Perché ci tengono separati? E perché non fa qualcosa, non si ribella? Forse non mi vuole più bene? Non devo pensare a lui, a quel suo modo di scompigliarsi i capelli quando è imbarazzato, o provo una ftta di dolore e piacere quasi incontrollabile. Andrea è così alto, così bello! Mi ricordo l’ultima nostra uscita insieme, una splendida giornata, c’era una rosa rampicante con tanti piccoli fori bianchi e io al suo braccio mi sentivo leggera come una sposa. Ero più felice, davvero, della sera in cui uscii con quel ragazzo dal ciuffo nero, che pure mi piaceva tanto, quando pensai: “Questo è il giorno più bello della mia vita, non lo scorderò mai!” e infatti non l’ho scordato, anche se non rammento più il nome del ragazzo col ciuffo, che strano. Ma con Andrea, nel parco, ero più felice, e lui era affettuoso e gentile e si scompigliava molto i capelli. Andrea ha un sorriso speciale, per via di quei denti irregolari e un po’ aguzzi, un sorriso incantevole. Ma ho completamente scordato la ragazza ossuta. Non ho voglia di far fnta di nulla, di mostrarmi allegra, di chiederle con tono leggero ed ipocrita come si chiama. «Com’è oggi il tempo? C’è il sole?» le dico. Dal suo sguardo turbato capisco che devo averle già posto la domanda, forse due volte, forse tre, di certo una volta di troppo. È chiaro che vorrebbe essere lontana mille miglia. Si volta nervosa verso i suoi volenterosi compagni, armati di tombole e mazzi di carte, che se ne stanno stretti attorno alla poltrona di Germana, quella vecchia bugiarda. Lei sì che ha la lingua sciolta e una storia per tutti. A sentir lei la sua vita è stata piena di avventure, di traversie fantasiose prima e dopo la guerra, di partigiani, di ville e personaggi famosi che, a suo dire, le inviano fori e regalie tutt’ora, in omaggio al suo charme. Ma io so bene che era sola, nel suo appartamento buio, che puzzava di chiuso, quando l’hanno portata alla casa di riposo, e non c’è un nipote, un parente, che venga qui a trovarla. E poi, quando meno me lo aspetto, la mia taciturna compagna sussulta,
sorride – è un sorriso sincero, questo - e mi dice: «Signora, io vado, credo sia arrivato suo fglio, vi lascio soli» e dilegua. Eccolo, Andrea. È meraviglioso. Se mi convinco che non verrà, e poi viene, sono ancora più felice. Ha il viso rannuvolato, gocce di pioggia gli rigano i capelli, non ha le rose ma brandisce l’ombrello con aria determinata. Il mio bambino! So che dovrei mostrarmi allegra e spensierata, altrimenti Andrea si arrabbierà e non tornerà. So che dovrei fare conversazione, chiedere com’è il tempo, se fuori c’è il sole, invece non resisto e supplico: «Ti prego, portami via di qui».
Tutta mia la città
Potevo ancora tornare indietro. Ma poi la porta si spalancò e apparve Anastasia. Anastasia, Ottavio, Ottavio, Anastasia.
Studiare all’estero-vantaggi esclusivi. Imparare a parlare fuentemente una lingua straniera. Diventare una cosiddetta “persona di mondo”, caratteristica molto apprezzata da tutti, in particolare dalle grandi aziende di successo. Capacità di relazionarsi con gli altri e acquisire una certa dose di leadership. Fine, fregato già al momento delle presentazioni. Mi illustrava la casa e una serie di informazioni inutili e prosaiche (le bollette, la luce, il gas, la differenziata…) e io intanto pensavo ai suoi occhi scuri ed enormi, alla sua voce cinguettante e a quell’accento spagnolo che rendeva cangiante e luminosa ogni sua parola. Già la amavo.
Un’esperienza di studio all’estero ti mette in contatto con molte persone e amici che stanno facendo anche loro un’esperienza simile alla tua e magari hanno voglia di condividere esperienze ed impressioni.
Cercavo di immaginare come avrebbe potuto reagire se le avessi detto la verità, ma l’unica battuta che riuscivo a metterle in bocca suonava da telenovela, qualcosa di simile a: «Tu sei pazzo, Ottavio» e dopo, ovviamente, il bacio.
Imparare a reggersi sulle proprie gambe. Studiare all’estero ti costringe per certi aspetti ad allontanarti da casa e questo, ti assicuro, è solo un bene per la tua persona.
Certo è bello immaginarmi in uno di quei college inglesi, così massicci e severi, con un prato verdissimo intorno e la nebbiolina… ma non so l’inglese e non ho abbastanza coraggio. O forse sto solo cercando una scusa per lamentarmi. Io, io, io, voglio stare qui. Ma poi gli amici partono, ma poi tu parti, ma poi lei parte e io, io, io, mi sento come se mi stessi perdendo qualcosa. I segnali che non ho colto, le occasioni che ho lasciato passare, la Fortuna è calva, ha un solo lungo ciuffo, devi afferrarlo prima che ti sfugga dalle dita. Forse sarei più felice in un college inglese. Ma perché non potrei essere felice qui? Non sono come Anastasia, che ha lasciato la Spagna per venire nella mia città. Io (io io io) non sono che un bugiardo venuto per un giorno a spiare la sua vita, a guardare come se la cavano le persone che acquisiscono una certa dose di leadership e sanno reggersi sulle proprie gambe. Un Erasmus di un giorno, così mi sono detto. Volevo solo vedere davvero che cosa mi stavo perdendo. Ho visto l’annuncio e ho chiamato, sembrava divertente, non ho pensato ad altro.
Nell’appartamento vivono tre spagnole, due tedeschi, due portoghesi e una messicana. Dietro ogni porta c’è una camera, dietro ogni camera c’è una persona, ma io non ne vedo nessuna. Posso solo immaginarli, basandomi su quel poco che mi dicono le loro porte: la locandina di un festival di musica elettronica, una cartina del mondo, un poster con una tigre e una farfalla. La cucina è in comune, “dopo cucinare, pulire - siamo in tanti” dice il cartello. «E la casa è tutta qui! Che ne dici, la prendi la camera… Attilio? Oh, scusa, Ottavio. Ma tu, esattamente… da dove vieni?».
(Per fare un prato occorrono un trifoglio e un’ ape. Un trifoglio un’ape e il sogno. Il sogno può bastare, se le api sono poche.)
Anastasia ed io giriamo tutta la città, una città stranissima, che non conoscevo affatto. Lei si immobilizza davanti ad angoli a cui non ho mai fatto caso, che mi sembra di non aver mai visto. Si ferma di fronte ai lampioni, ai pappagallini verdi, ai cavoli, alle statue senza naso. E fotografa tutto, e tutto fltra, fltro giallo antico, fltro blu freddo, fltro bianco e nero contrasto, fltro seppia malinconia. E sotto scrive frasi così adorabilmente retoriche: “La mia nuova casa. La grande bellezza. Superba. Sweet sunset”.
Dalla fnestra della mia classe del liceo vedevo una statua di Atena. Svettava da qualche tetto, apparsa come dal nulla, dritta come una lancia nelle rigide pieghe del chitone. Le rivolgevo ardenti preghiere, che mi aiutasse, che ispirasse la mia traduzione, ma lei -con un atteggiamento che mi sembrava flologicamente corretto- mi volgeva le spalle, severa e invincibile. Non so come Anastasia nel suo vagare tra scale di ardesia e corridoi sbucò su una terrazza da cui si vedeva tutto il porto, una scena da cartolina, da turista, e subito si applicò con diligenza nella sua arte del fltro. E fu lì che di fronte a noi rividi Atena, svettava da qualche tetto, apparsa come dal nulla, riemersa dai miei ricordi del liceo, e allora, per la prima volta, la fssai nelle sue pupille dure, bianche.
«Ottavio, ma tu sei troppo serio! Sei troppo serio e nascondi qualcosa. A penny for your thoughts.»
«Anastasia, secondo te è possibile che Ulisse dopo la guerra sia tornato subito ad Itaca, con un viaggio breve, una traversata tranquilla? Dopo dieci anni di guerra, dieci anni di strage (how my brave young life was for ever changed) quello scoglio perso nel mare gli doveva sembrare insopportabile. Forse era anche un po’ uscito di testa. Te lo immagini, mentre si volta di scatto perché gli sembra di aver sentito uno sparo? O la notte, quando si sveglia con le mani che brancolano nel buio, cercando il fucile? E forse quegli altri dieci anni famosi vagò come un pazzo per Itaca, inventando storie folli, scambiando mulini per giganti -come fece quel vostro Don Chisciotte- ma lui li chiamò Ciclopi, e se stesso chiamò Nessuno. (Darlin’ give me your kiss, only understand, I am the nothing man). Dieci anni a girare su stesso, da una parte all’altra di uno scoglio grande come un pugno.»
«Uhm… è una bella storia, Ottavio, ma non ci ho capito niente.»
«Forse allora hai letto L’amico ritrovato. No? Male, è un classico.»
«Allora lo comprerò»
«No, non farlo, è orribile. Comunque, l’unica cosa che devi sapere è che i genitori del protagonista lo convincono a partire per l’America e salvarsi. Loro invece restano in Germania perché non possono andarsene. E si uccidono con il gas. Ma perché? Perché Anastasia non possono andarsene?»
«Tu sei pazzo, Ottavio» e dopo, ovviamente, il bacio.
Anastasia non l’ho più rivista. Mio amore di un giorno, forse mi aspetti ancora, fedele come una qualsiasi penelope, rigiri tra le dita il post-it col numero che ti ho dato, ma che non è il mio. Molto si perdona agli egoisti, perché molto perdonano a se stessi: e così fai anche tu con me.
Matteo Valentini
Nonostante si ostini a dichiarare, con grande sconcerto delle istituzioni, di essere nato a Torriglia, Matteo Valentini è stato partorito il 19 maggio 1992 all'ospedale San Martino di Genova.
Un meccanismo fruttuoso
Il sole di lì a poco si sarebbe immischiato tra gli alberi della SemeDiMela, l'azienda produttrice di frutta che dava lustro all'industrioso centro di Campedola, e per la città operaia la giornata non sarebbe iniziata, perché due ore prima lo aveva già fatto. Immigrati bianchi, gialli, neri e caffelatte, in schiera, avevano già abbandonato i ruderi su tre piani che l'azienda affttava loro, si erano già stropicciati i vestiti addosso, a manate, per asciugare l'umidità di inizio settembre, erano già stati trasportati dai caporali ai campi, ognuno al proprio, e mentre Paolini pensava tutte queste cose, sbracato nel sedile dell'auto di pattuglia, avevano già due ore di raccolta nelle braccia.
Paolini stava accanto al suo collega, Vuolo, che teneva il volante con la mano sinistra e con la destra reggeva un pacchetto aperto di prugne secche, in cui affondava prepotentemente il muso. Ogni tanto, Vuolo rompeva il silenzio nella vettura e chiedeva a Paolini se ne volesse uno, di quei frutti molli e raggrinziti come il corpo di una vecchia e Paolini sceglieva con attenzione quello più piccolo, stando accorto a non confondere l'olio di cui era ricoperta la prugna con la saliva del collega. Pur essendo le cinque del mattino, il sudore appiccicava la divisa al corpo dei due carabinieri, soprattutto a quello di Vuolo, che era il più grasso, e colava sulla fronte liscia di Paolini percorrendola dall'attaccatura alta dei capelli biondi, scartando le sopracciglia sottili, fno alla punta del naso diritto ed ossuto. «Ti ci hanno mai portato qui, Vuolo?» «Non mi pare, no. Che posto è?».
Erano delle residenze per braccianti e operai costruite dalla SemeDiMela nel 1956, in pieno boom economico. Il piano era stato di fornire un alloggio ai dipendenti dell'azienda, così che fossero ben raggruppati, ben trasportabili e ben controllati. All'inizio dei '60 quello era diventato un vero e proprio quartiere satellite, con gli alimentari, le edicole e i bar. I dirigenti della SemeDiMela erano riusciti a portarci perfno una scuola. Poi il padrone era morto e il fglio si era rivelato una vera delusione: uscito dall'Università, il
Contino in un paio di anni era riuscito a bersi e a giocarsi gran parte dei milioni paterni. La SemeDiMela continuava bene o male a produrre, soprattutto grazie ai traffci poco chiari del Contino, ma la città operaia era in sfacelo. Dalle palazzine l'intonaco si era quasi del tutto staccato, lasciando a vista il solo mattonato, e la strada che divideva le due ali del quartiere era diventata un terreno misto di asfalto, pietrisco e fango. Per la maggior parte degli appartamenti le fnestre erano rotte o divelte e per ripararsi dal freddo rimanevano solo le tapparelle. Altrimenti, le aperture erano tappate con pezzi di telone blu, usato per coprire i cassoni della frutta, mentre le porte erano state sostituite sistematicamente da bancali di legno chiaro. Solo l'afftto era restato pressapoco quello di un tempo.
Vuolo annuiva facendo scrollare i riccioli neri e conduceva la volante sulla strada dissestata. «Vuolo, non t'inflare qua dentro con la macchina, rischi di bucare le gomme. Tanto, tutti i braccianti sono nei campi da almeno due ore. Ecco, gira lì.». In quel momento, Paolini vide un'arancia slanciarsi da uno dei teloni blu e fnire nei grani d'asfalto, a pochi metri dal muso dell'automobile. Un'altra arancia si spiaccicò sul parabrezza e un ananas fece saltare uno specchietto retrovisore. Vuolo, spaventato, ingranò la prima facendo gracchiare dolorosamente il cambio e schizzò via, con altra frutta che cadeva da tutte le parti e Paolini che gli strillava di fermarsi im-media-ta-men-te. Quando la polvere sollevata dalla sgommata si diradò, la volante ormai non si vedeva più. Al suo posto, mucchi disordinati di frutti presidiavano la strada principale, i vicoli, le traverse e le parallele dell'ex città operaia.
«È iniziata la rivolta della frutta», così esordiva il conduttore del tg nazionale nel televisore di Paolini, bombato sulle spalle e con i capelli riportati, decisamente ben ristrutturato. No, non il televisore, quello era nuovo, era stato appena vinto coi punti delle brioches, né Paolini, quello era seduto al contrario sulla seggiola e, divaricando le gambe, mostrava i calzini di spugna. Il conduttore si appoggiava disinvoltamente alla scrivania e teneva in mano un foglio, il comunicato dei ribelli dell'ex città operaia, che lesse: «Nella giornata di ieri l'azienda SemeDiMela ha deciso di aumentare ancora l'afftto delle baracche senza elettricità né acqua in cui ci costringe a vivere: siamo stuf! Stuf di
lavorare dalle 3 del mattino alle 7 di sera. Stuf dell'euro e mezzo all'ora. Stuf dei “caporali”aguzzini che ci fanno pagare il trasporto fno ai campi. Stuf dei contratti falsi, non registrati, che non permettono il diritto di soggiorno. Per alloggi con acqua, luce e servizi igienici, per orari di lavoro umani e retribuiti come tali, per la fne del regime dei caporali, per contratti regolari ed equi, noi occupiamo ad oltranza la città operaia e blocchiamo la produzione di frutta di Campedola. Firmato: Ribelli della Frutta».
Paolini mutò il televisore e si girò verso la tavola apparecchiata, su cui una pentola di alluminio rilasciava un forte odore di cavolo bollito. Se ne servì con parsimonia, odiava il cavolo bollito, e attaccò a mangiare in silenzio con sua moglie a fanco. Quando ebbe fnito, fece per alzarsi da tavola ma lei lo bloccò appoggiandogli la mano sul braccio: «Non vuoi un po' di frutta?». Paolini la guardò per un attimo e, nonostante quella sera fosse molto bella nel suo grembiulino a strisce, si alzò defnitivamente e se ne andò, solo, a letto.
Nei giorni seguenti la situazionetrovò un modo complicato di svilupparsi. I ribelli ogni cinque minuti gettavano dalle fnestre un frutto, che andava a spantegarsi per terra, marciva ed esalava un odore dolciastro, che arrivava fno al centro di Campedola e attirava api, vespe, calabroni, moscerini e mosche. I cittadini, esasperati per l'odore, gli insetti e il caldo, formarono un comitato ed andarono a protestare dal Sindaco, che subito dichiarò lo stato di emergenza per la zona dell'ex città operaia e vi spedì un manipolo di carabinieri. Paolini era in questo manipolo. I ribelli avevano formato una linea di barricate, costituita per lo più da bancali impilati, alta tre metri e qualcosa, che lasciava vedere solo il terzo piano di ogni palazzo, ma non impediva di sentire gli splat dei melograni, i thund delle mele, i cop dei cocchi. L'odore di marcio era soffocante e i carabinieri stavano a parecchia distanza dalla cittadella. Dopo qualche mezz'ora di fnta ricognizione, tornarono a casa, ognuno alla propria.
«Ha inizio la contromanifestazione dei raccoglitori statali di zolfo, che dichiarano immorale la protesta dei Ribelli della Frutta in quanto “distrugge chili e chili di cibo in barba a quelli che, pur lavorando, soffrono la fame”». Paolini mutò il televisore e sentenziò: «Qui il governo si è messo d'accordo con i sindacati. Hanno trasformato la faccenda in pubblicità gratuita contro i braccianti e in valvola di sfogo per gli zolfari». Sullo schermo gli zolfari, che sullo stomaco
avevano un pelo più lungo di quello dei carabinieri, avanzavano fno alle barricate senza curarsi dell'odore, abituati a quello infernale delle cave in cui lavoravano. Il loro slogan, silenziato dal telecomando, era scandito dai colpi che menavano sui bancali, con i loro cesti doppi da raccolta ancora gialli di zolfo. Uno sciame di vespe, annidato in una delle fessure del legno e disturbato dall'intrusione, li disperse. Paolini spense la tv e, anche quella sera, andò a letto solo e senza frutta.
Dalla mattina successiva in avanti, non c'era giornale che in seconda pagina non avesse una frma importante a parlare dell'argomento. Le sere erano occupate da talk show, a loro volta occupati da schiere di opinionisti che si azzannavano come bestie sull'eticità della protesta dei Ribelli della Frutta e, in generale, sulla protesta dal punto di vista flosofco, sociale, politico e generazionale. Qualcuno fece una faccolata di solidarietà verso i braccianti, a cui si rispose con una veglia in appoggio agli zolfari. «Tutti continuano a guardare il dito e non la luna» spiegava Paolini a Vuolo in una delle loro pattuglie vicino all'ex città operaia. Il problema era la SemeDiMela che lucrava sui lavoratori per riempire le tasche del Contino. No, il problema era la Grande Distribuzione Organizzata, quella dei supermercati a catena, che imponeva i prezzi alle piccole e medie aziende, costrette poi a rifarsi sulla pelle dei dipendenti. No no, il problema era l'aumento del prezzo del petrolio, che incrementava i costi e diminuiva il consumo: cosa ne poteva la Grande Distribuzione Organizzata dell'aumento del petrolio? Macché, il problema era il solito meccanismo per cui tutti si sentivano schiacciati e a loro volta schiacciavano. Di solito, a questo punto il monologo si spegneva in un ronzio borbottante, perché Paolini, giunto al meccanismo, non sapeva bene come districarsi, mentre Vuolo si dimenava in assensi, con i riccioli che scappavano da tutte le parti e con tanto vigore da sembrare un indemoniato.
Col passare dei giorni, le discussioni nei talk show cominciarono pian piano a farsi sempre più confuse, gli editoriali meno roventi. Tutto il vespaio si era trasformato in uno stanco, ripetitivo, ronzio borbottante. Nel frattempo, un tale aveva deciso di “staccare la spina” al fglio in coma irreversibile da dieci anni e un altro grande tema si proflava all'orizzonte del giornalismo, la bioetica. Un giorno, i bancali vennero rimossi da una squadra di
amici poco chiari del Contino, la città operaia venne ripulita con gli idranti e il meccanismo tornò a funzionare come prima e nessuno se ne accorse, nemmeno Paolini.
Benvenuti
Italo si alza dal letto che il gallo ha appena detto la sua. Si muove nella semioscurità del corridoio, impreca scontrando contro lo spigolo di qualcosa e si infla in bagno. Confuso dalla luce elettrica che fa a botte con le palpebre, manca la tazza e, dopo essersi inumidito la faccia, confonde l’accappatoio con l’asciugamano. «Ti lavi come i gatti», lo aveva sempre rimproverato sua madre. Inzuppa uno o due biscotti nel caffelatte, tanto per dirsi di aver fatto colazione- fn da piccolo non era mai riuscito a mangiare la mattina presto, neanche quando l'alba gli era ormai diventata famigliare. Chiusa la porta dietro di sé, va a prendere nella rimessa la zappa per preparare il terreno alle patate e intanto respira l'aria ferma, ancora fredda e umida, che sa di bosco. Il lavoro oggi è più duro di ieri: Enrico, che abita cento metri più in basso, ha da fare con le bestie -sta per nascere un vitello- e non può aiutarlo a dissodare il terreno. A mezzogiorno si fa vivo.
– Ou, Italo!
– Arrivi che è ora di andare a mangiare.
– Eh è nato che è poco, ma è magro: peserà sui sedici chili.
– Eh... – fa Italo continuando a zappare.
– Ora vado a casa che quell'altra mi ha fatto lo spezzatino, arrivo alle tre?
– Fai pure, io alle due sono qua.
Enrico è un brav'uomo, ma è pigro quando si tratta di mettere patate: un passo una patata, un passo una patata un passo una patata passo patata passo... certo, è noioso, ma dopotutto quel campo lo hanno in comune ed è giusto che ci lavorino entrambi, allo
stesso modo, dato che poi si fa a metà. «Lo diceva papà, pensa Italo mentre la minestra si scalda, "le società sono belle dispari e in tre si è già troppi"».
La giornata fnisce infruttuosa. Nel cortile comincia ad alzarsi un vento freddo e non è bene restarci con la cena sullo stomaco: Italo controlla che Speck, il cane, abbia da bere, fa per rientrare- intanto il vento si è fatto più audace e muove con furia le fronde- ma si blocca. Due luci, sconosciute, si scorgono attraverso gli alberi. Sono ferme: non possono essere due viandanti tardivi che han perso il sentiero, e dovrebbero comunque essere troppo alti per tenere una torcia a più di due metri dal suolo. «Enrico!» chiama Italo, supponendo che l'amico stia armeggiando lì intorno. Le due luci perseverano nella loro splendente immobilità e non fanno motto. Il vento ormai rischia di ribaltare la cuccia di Speck: Italo decide di non perdere più tempo e andare a letto.
La mattina, il contadino esce di casa per darci una botta con quelle patate: vorrebbe iniziare a lavorare sui pomodori, ma lo steccato che chiude il giardino sta marcendo e in casa c'è un punto in cui il tetto fa passare l'acqua. Certo, siamo a maggio, non dovrebbe piovere più tanto spesso ma... una goccia gli cade senza ritegno sulla guancia. Poi un'altra picchietta sulla cuccia del cane. Una sullo stivale. Il vento di ieri, anziché spazzare il cielo, lo ha annuvolato: Italo spera che il campo non si allaghi, ma lo steccato non potrà che marcire di più e sotto la perdita in casa c'è già un pentolino. Immusonito sulla sedia, dopo aver dato da mangiare alle bestie, apre un libro, mette su il caffè e non perde d'occhio la pioggia che sferza la terra e le patate.
Verso le tre il cielo smette di fare cagnara e il contadino si sveglia di colpo: il suo testone ha spiegazzate le pagine del libro e ne ha danneggiato il bordo. Pulendo in fretta la tavola dal caffè versato e mettendo da parte i libri, si dirige verso la porta: il sonnellino fuori programma gli ha lasciato la bocca impastata e lo stomaco pesante. È quasi abbagliato, stordito, dalla luce del sole rifessa dagli alberi; l'aria frizzante è riempita da un corvo sul tetto e da indistinte voci lontane che vengono dal bosco. «Enrico!» le voci, imperterrite, continuano,
aumentano e solo ora Italo ricorda che Enrico è andato con la moglie e il fglio a scegliere le sementi in paese, dall'altra parte della valle, e non sarà di ritorno prima di sera. Nessun altro abita nei dintorni. Se fossero persone a piedi o a cavallo, Italo le avrebbe già viste sbucare dal sentiero di fronte a casa sua. Sembra invece che si accontentino di restare invisibili dietro la barriera di alberi. Ad un tratto, quello che sembra un colpo di clacson le zittisce. «Un clacson? Ma se lassù non ci arriva nemmeno la strada».
Quella della strada asfaltata era stata una battaglia di Enrico contro il Comune, che non intendeva farla costruire per due sole persone, due “matti” che vivevano ancora come gli antichi. Poi uno dei due matti si era sposato e il sindaco aveva ceduto per mettere l'asfalto non oltre l'ingresso al campo di Italo. Questi aveva sempre accompagnato l'amico nei vari uffci, ma lo aveva sempre fatto spolmonare da solo: a lui vivere “come gli antichi” andava, e va, più che bene. Intanto ricomincia a piovere: l'orizzonte di nubi grigioviolette, che circondavano l'occhio di cielo sopra la casa e i campi, ha smesso di essere orizzonte. Poi viene la nebbia e Italo lascia Speck nella cuccia a mugolare; una nebbia opaca, che cancella le fgure e smorza i suoni.
Una luce arancione fltra tra le persiane e lo sveglia. Italo lava via in modo approssimativo il sonno dalla faccia e mangia qualche biscotto secco, pur non avendo fame, come al solito. Prende la porta deciso prima di tutto a riparare la falla nel tetto: il temporale di ieri ha fatto un macello e il pentolino non ha tenuto. A dispetto della luce che lo ha svegliato, lo sorprende una pioggerellina fne e silenziosa. Non c'è nessun'alba. A svegliarlo è stato un lampione sistemato di fronte alla fnestra di camera sua, dall'altra parte della strada che si inerpica, nera, liscia, fno a chissà dove. C'è un'edicola al posto della sua rimessa e, lì davanti, due uomini scaricano da un furgone acceso pacchi di giornali e riviste, illuminati dalle lampadine accecanti di una lavanderia a gettoni aperta tutta la notte. L'insegna luminosa della farmacia dice che sono le 4, i gradi 12 e oggi è il 19/05/2014. E dice Benvenuti.
Parola di bugiardo
La stracciatella si stava sciogliendo e gocciava sulle scarpe di Michele che, dietro la porta chiusa del tinello, ascoltava la sua famiglia parlare di lui. Si sentiva vecchio di mille anni; avvertiva il sangue nelle vene fermo, di piombo. Il cappello gli comprimeva la testa mentre le gambe, stufe di insudiciarsi, sembravano aver deciso di prendere e andare lontano, a farsi un giro.
Dal leggio pronuncio parole che imbarazzano tutti: «Ci sono tante belle corone qui, ma Michele oggi fa parte di una corona più grande. Come farete quando tornerete a casa e quella sarà vuota? Come farai, Livia? E voi, Roberto, Silvia? Tuo marito, vostro padre, veglierà su di voi dal cielo per non farvi smarrire nell'abisso che lui stesso ha creato andandosene al Padre». Sento i piedi muoversi per la noia e vedo bocche irritate e stirate dal disagio. È diffcile fare il lavoro del prete, devo sempre cercare poche pratiche cose da dire con delicatezza e convinzione, senza patetismo né freddezza. Certo, ai funerali il protagonista è il morto, ma il prete deve comunque garantire un marchio di autorialità, altrimenti al suo posto andrebbe bene un qualsiasi necrologio. Il prete deve essere un tecnico, non un amico. Un tecnico della consolazione. La gente è piena di amici, specie ai funerali, ma il prete è uno, solo. Quanto sarebbe meglio, anziché parlare di case, strade, abissi, alzarsi in piedi e dire: «Niente. Michele Murgia è morto».
Nel tinello illuminato dalla lampadina a basso consumo saltò su Livia e sbottò che Michele aveva sempre raccontato un sacco di balle. Era quello il suo vero problema. Non la testa dura, non l'attaccamento ai soldi, né il bere, cose che con l'età vanno e vengono, ma le balle. Le balle ai clienti. Che fgure con i clienti. Roberto, il fglio più grande, la interruppe dicendo che raccontare qualche bugia al cliente è il modus operandi del commerciante e che il problema era quando le balle le raccontava a loro, i suoi fgli . Un corno, Roberto, c'era da aver vergogna, ribattè Livia e raccontò delle volte in cui Michele, in negozio, si appoggiava con i gomiti sul tagliere ancora sporco e diceva a voce alta: «Che lavoro ieri. Io tanto lavoro come ieri non l'ho mai visto fare a nessuno». Poi aspettava
che qualcuno rispondesse «Tanta gente?» e allora riattaccava: «Gente? No no, macché. Quella non è gente, le persone non fanno così: lupi, leoni, coccodrilli forse. Allucinante. Non facevo in tempo a servirne uno che l'altro saltava su e diceva “Michele, un chilo di macinata” e allora un altro “Ma signore, c'ero prima io! Vorrei sei fettine” e ancora uno “Che dite, è il mio turno!” e fuori una coda, una coda sempre più lunga, fno al piazzale» A questo punto Michele si fermava un secondo e guardava di sottecchi chi aveva di fronte per la stoccata fnale: «Guardi che banco mi hanno lasciato, ho più due petti di pollo e questa lingua qua. Ieri li avrei anche potuti vendere (tutta roba freschissima del resto), ma cosa vuole, io a una cert'ora devo andare a casa. Non mi puoi arrivare in negozio alle sette e mezza di sera e pregarmi di venderti quella bella lingua. Torna domani!» Il cliente allora sorrideva e diceva «Buon per lei, arrivederci». E Livia, nel retro, che puliva i contenitori di plastica, rossa peggio del sangue che lavava. Lo sapeva lei quanta carne aveva dato ai gatti lì in giro, e mancava poco che la scansassero pure loro, tanto era marrone. Roberto disse che suo padre mentiva per scappare in un qualche locus amoenus lontano dalla sua stessa famiglia, che gli aveva sempre sparlato alle spalle. Livia, incarognita, tirò una sberla al fglio. Che stesse ben attento, perché le cose che aveva detto in quel tinello, a Michele avrebbe potuto dirle anche sulla faccia.
Davanti ai fedeli venuti per il funerale continuo la mia omelia: «Nel passo di oggi Gesù dice ai suoi discepoli Non si turbi il vostro cuore. Credete in Dio, e credete anche in me. Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore; se no, vi avrei forse detto che vado a prepararvi un posto? E quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò presso di me, affnché dove sono io siate anche voi. E dove io vado voi conoscete la via. Al che Tommaso chiede ingenuamente al Maestro come possono percorrere la via verso un luogo che non conoscono. E Gesù risponde Io sono la via e la verità e la vita. Nessuno va al Padre se non attraverso di me. Se voi mi aveste conosciuto, anche il mio Padre conoscereste, e fn d'ora voi lo conoscete e l'avete visto.» Faccio una pausa per osservare la platea. Chi ha ascoltato? «Livia, Roberto, Silvia, lasciatevi rincuorare da questo passo: esso ci assicura l'esistenza della vita dopo la morte. Testimonia che la vita terrena è solo un passaggio, che Gesù è pronto
ad accoglierci nel suo amore per sempre. Basta la nostra fducia». Annuiscono come scolari al catechismo. È giusto, non ascoltate queste parole di speranza, non serve: ripetetele, ripetetele e basta. Credo in un solo Dio... è così potente, sembra uscire dalle colonne. Da milleseicento e rotti anni qualcuno ritiene giusto tramandare il Credo, per il suo comodo, per inerzia, perché pensa sia giusto. In un paese è lo stesso: al bar, al campo o dal parrucchiere, l'imbonitore di turno racconta di quando Paolo è scappato da casa in mutande e cappello o della rissa gigantesca con quelli di Trensasco. Di ogni storia c'è un canovaccio e infnite varianti, su cui si discute in liti da coltello fno a che ne vale la pena. Un funerale come questo è terreno fertile per l'epica del paese. Quando uno come Michele Murgia muore, appena la bara esce dalla chiesa si inizia a elaborare la sua storia per unirla all'enorme ciclo in cui il paese si riconosce. Anche se certo, lo so, Michele è un personaggio diffcile da raccontare.
Roberto si toccò la guancia e disse alla madre, se era tanto spavalda, di rivelare a papà quella sera stessa tutto ciò che pensava. «Non c'è bisogno di aspettare stasera» disse Michele entrando nel tinello con le scarpe che sciacquettavano nella stracciatella. Era, quello, l'unico rumore nella stanza. «Allora, Livia, non ti stavi vergognando di me?». Ancora silenzio. «Sei una meschinetta. Anzi, tutti voi tre lo siete. Dei meschinetti che non hanno neanche il coraggio di affrontare un vecchio. Cosa avete da dire sul mio negozio? Ci avete mangiato per anni, continuate a mangiarci e non ci avete mai messo un piede. Ho un bel giro, vendo mezza bestia alla settimana, cosa volete? Alessio, il fglio del tabaccaio, oggi mi ha supplicato di venderglielo ed io ho rifutato, proprio così. Allora mi ha chiesto almeno di affttarglielo. Ho accettato così possiamo goderci la vecchiaia, sì, ma intanto i muri restano in famiglia. Ho comprato il gelato apposta per festeggiare con voi, ma guardate che schifezza avete combinato». Disse tutto con calma, abbassando la voce a mano a mano che proseguiva il discorso. Roberto chiese al padre se fosse proprio certo di avere affttato la macelleria ad Alessio, che era un suo amico appena laureato in ingegneria: gli sembrava strano che si fosse dato alla mercatura sordida. «È lui». Alzando un po' la voce, Roberto invitò il padre a rifetterci bene perché gli pareva di aver sentito che Alessio avesse già frmato
un contratto con un'azienda del Sud e che si stesse per trasferire. «È lui, ti stai sbagliando» ribattè Michele. Il fglio guardò la madre, come in cerca di un'autorizzazione, e lei annuì. «Cosa fate voi due? Cosa sono queste smorfe?». Roberto gli spiegò che aveva dato un'occhiata ai libri contabili della macelleria e che le cose non andavano come diceva lui. Era vero, non aveva mai capito molto di matematica, ma sui libri c'era scritto che nell'ultimo anno aveva speso trentamila euro di forniture e ne aveva guadagnato cinquemila. E un buisness così non si cede, si chiude. «E la carne, caro il mio ragioniere? La mezza bestia alla settimana cosa faccio, me la mangio io?». No, intervenne Livia, erano anni che i randagi ringraziavano lei per il fletto andato a male e le bistecche con i vermi. La dimostrazione era lì davanti, e gli mise sotto il naso i libri che lei stessa compilava. Non erano vere le code chilometriche dalla piazza della chiesa fno al negozio, non era vero l'affare con Alessio, né esisteva l'adorato zio John a Los Angeles che li avrebbe ospitati come sultani, né era mai stato ordito un complotto dalla Ferrari per soffargli il progetto della Testarossa. Quante voci si sarebbero rincorse quando le sue bugie fossero venute a galla? Come avrebbero potuto andare in giro e parlare di lui? Che dicesse chi era, solo quello, porco mondo schifoso, che dicesse chi era, cosa aveva costruito, che districasse il vero dal falso, solo quello, per il bene della famiglia e del suo nome. Michele si sedette per terra, vi si rannicchiò, mentre il gelato gli macchiava il vestito.
Prosa Nova è un mesagio.
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Questi raconti sono stati scriti tra setembre 2014 e febraio 2016 Redato nel'aprile 2016
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