Prossa Nova 6 (02/2015)

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Prossa Nova

n° 6 Febbraio 2015 Genova

INSERTO DI PROSA DELLA RIVISTA POETICA Fischi di carta

EDITORIALE

Fu un professore ad incuriosirmi, qualche mese fa: «Possiamo considerare Ezio Comparoni, meglio conosciuto come Silvio D’Arzo, uno dei più grandi romanzieri del Novecento italiano». Un gelido imbarazzo cadde sulla classe, il professore lo avvertì e, con garbo, deviò il discorso sulla poca fortuna editoriale dell’autore, acidamente respinto da Pavese e apprezzato da Montale «con quell’insopportabile abitudine che aveva di parlare bene degli scrittori solo dopo morti». La curiosità mi ha spinto a leggere e a parlarvi di Casa d’altri, il racconto perfetto di D’Arzo, almeno a sentire Montale. Montelice è un minuscolo e isolato paese dell’appennino romagnolo. Il suo vecchio prete racconta in prima persona, borbottando quasi sbrigativo, indolente o intimidito verso una platea immaginaria di ascoltatori. Compaiono pastori, funerali, giovani curati e Zelinda, sola e vecchia quanto il protagonista, ma più misera e con certezze meno salde. La paratassi ordinata, la linearità

della diegesi, le metafore, le similitudini che non si innalzano al di sopra del contesto e riguardano sempre elementari fenomeni naturali, tutto è percorso dal ritmo del decasillabo, capace di mostrare che l’abbandono della letterarietà non significa sciatteria e la semplicità non è per scemi. Il decasillabo fa indovinare un’inquietudine, una trama di significati detti solo a mezza voce: da una parte l’appartenenza del protagonista a una comunità claustrofobica e primitiva, in un luogo condannato all’immobilità delle stagioni, dall’altra la palese inadeguatezza di fronte ad un’aspettativa, la colpa di “bere dallo stesso bicchiere” e non poter vuotare il fondo. Alla fine dei neorealistici anni Quaranta, Casa d’altri già si libera dalla tensione all’affresco sociale: la bioetica, il suicidio assistito, sono i temi che Silvio D’arzo ci propone. E dico ci propone perché lo fa davvero, chiamandoci in causa, sfondando con delicatezza la quarta parete, quando ci chiede: «Ma che altro potevo fare, mi dite?»

Matteo Valentini

DANIA

lo, ho pensato fosse pazzo e che mi avrebbe fatto volare via da tutti.

“Tutte le più belle storie iniziano da una finestra di mondo”; senza la tenda mai. Non mi eccita l’idea che qualcuno possa vederci. Chiudo la porta a chiave. Chi sa se qualcuno anche loro da qualche parte nell’edificio stanno facendo l’amore. Mentre mi svesto mi guardo allo specchio e il mio corpo è lungo, sensuale, il mio viso è candido, dicono tutti che ho un viso candido, ispira fiducia, ispiro bianchezza. La mia pelle è bianca. Nuda. Come la finestra che non dà fuori ma sul vuoto squadrato che attraversa gli appartamenti conchiuso ai lati dal cemento di altre stanze, coperto in alto da una vetrata, e la luce si assottiglia prima di cadere giù. Milo sul letto mi guarda, è così bello. Quando l’ho conosciuto ho pensato fosse bel-

China. All’inizio lo trovavo arrogante, ma è così fragile, non sa cosa vuole dire amare davvero. Milo pensa che l’uomo si sia eretto per errore nel processo evolutivo, dice che il pensiero è disonesto e la logica una bugia rassicurante. Io so che l’amore è un bisogno della mia coscienza, una parola che vola leggerissima mentre lo sento sulle labbra, sul palato duro, l’amore va baciato intensamente senza paura di soffocare o di affliggere. Affermazione o negazione, dentro o fuori il sentimento puro, Milo questo non lo capisce ma io ne ho bisogno fino in fondo. Ad occhi chiusi. Le mie emozioni sono profonde, le mie emozioni sono sincere. Gli voglio bene, a volte lo amo davvero,

Prossa Nova

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