Prossa Nova 5 (01/2015)

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Inserto di prosa della rivista poetica Fischi di carta

Prossa Nova Gennaio 2015 Numero 5

‒ Editoriale ‒ Lucky Red lo aveva già detto a maggio del neoscorso anno che avrebbe distribuito in Italia il film d'animazione "Il Piccolo Principe", ma solo a dicembre (con l'uscita ufficiale del trailer) Paramount Francia e Lucky Red hanno fatto abbastanza rumore sui social da farci interessare alla nuova costosissima creazione di Mark Osborne. Ibrido CGI/stop motion, James Franco e Marion Cotillard tra i doppiatori, l'annunciata trasposizione dell'opera di Antoine de Saint-Exupery è comunque un'occasione buona per riprendere in mano il secondo libro più tradotto al mondo: scritto qualche millennio dopo il suo unico better seller, la Bibbia, durante la permanenza nuiorchese dell'autore in esilio, Il Piccolo Principe vede la sua prima edizione francese nel 1946, postuma, per Gallimard. La favola è dolcissima, la storia è quella di un bambino adulto che parte dal suo pianeta alla scoperta di un universo che in realtà conosce bene, quello dell'uomo e delle sue contraddizioni, e una volta finito sulla Terra dovrà ricevere il morso di un serpente per liberarsi dal peso del suo corpo e tornare a casa. Diversamente da certe interpretazioni un po' strumentali, il libro più famoso di Saint-Exupery non ha un vero e proprio intento moralizzatore: al morso del serpente il piccolo protagonista non diventa un bambino vero, un pinocchio francese, e il suo corpo non rimane realmente sulla sabbia la-

sciando libera la buonanima sua di volare in cielo. Non mancano però alcune impronte cattolicomoderne, lo scrittore crede in una sorta di poetica dell'asceta fedele alla sua regola, come la "consegna" del lampionaio alienato che il piccolo protagonista giudica "utile" e "bella", o la lezioncina sui piccoli obblighi quotidiani che trascurati diventano ingombranti Baobab di cui è impossibile disfarsi. L'autore non è religioso eppure sente il fascino della religiosità, l'amore secondo Saint-Exupery è forse troppo una questione di fede ("tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato" dirà la volpe al principe) ma in fin dei conti Le Petit Prince parla del dovere semplicemente in quanto scelta affettiva, sociale, e le sue immagini quasi asimboliche ne fanno un libro puro, scritto da un uomo che crede in sentimenti profondi e coltivati con dedizione. All'opposto di una modernità che allontana l'uomo dall'uomo, che crea l'illusione del viaggio come evasione, che vende pillole dissetanti per risparmiare tempo sul bere e accumula "stelle" per non poterle usare, per riporle in una cassaforte. E adesso, a distanza di settant'anni, vedremo cosa ne dicono 80 milioni di dollari sul grande schermo, di questo piccolo capolavoro. Carlo Meola

Domenica di pioggia ...Ma ora sai come questo si dimentica: perché hai davanti, colma e inobliabile, la coppa delle rose che gli estremi ha in sé dell'essere e del declinare... Die Rosenschale, R. M. Rilke Un, due, tre… scivola la maglia sui ferri… quattr, cinq, sei… non devo perdere il conto… sette, otto, e nnnove… sollevo lo sguardo, forse per un rumore, solo per un attimo i miei occhi ripercorrono la stanza odiata, quel che basta per notare una ragazza ossuta, malamente accomodata nella poltrona a roselline, chiaramente sulle spine. Ecco, che sciocca, per un istante ho sperato fosse Andrea. So che è ridicolo, ma non ho potuto evitare

di pensarlo. Otto… nove… ero a otto o ero a nove? Ho perso il conto. Del resto, non mi stupisco che la ragazza appaia così a disagio, quella vecchia poltrona è tremendamente dura e scomoda. Le roselline sullo sfondo color senape sono come svaporate, il colore dilavato, restano sagome scialbe come pallidi fantasmi sull’imbottitura quasi inesistente. Comunque, in assenza di rose vere, rose fresche, altro non mi resta: queste sbiadiscono


Prossa Nova forse, ma non appassiscono. La ragazza è un’adolescente goffa, con gambe e braccia troppo lunghe, tutta gomiti, gli incisivi un po’ distanziati rendono il suo poco spontaneo sorriso vagamente ebete. È davvero a disagio, così, per garbo, le chiedo: «Com’è oggi il tempo? C’è il sole?» ma non ascolto la risposta, perché in fondo non mi interessa poi tanto. È così spossante ricevere visite e trovare argomenti di conversazione… solo se venisse Andrea mi importerebbe, ma so che lui non verrà. O forse verrà. Ma, davvero, è meglio non pensarci, o resterò troppo delusa. Poi mi dico che se il giorno è bello forse lo vedrò entrare insieme ad un raggio di sole, con un mazzo di rose rosse, e lui dirà: «Andiamo, sono qui per portarti via!». Rimpiango di non aver ascoltato la risposta della ragazza ossuta, e poi non sono neppure certa di aver davvero posto la domanda, non lo ricordo. Così chiedo: «Com’è oggi il tempo? C’è il sole?». Quanto vorrei vedere Andrea. Perché ci tengono separati? E perché non fa qualcosa, non si ribella? Forse non mi vuole più bene? Non devo pensare a lui, a quel suo modo di scompigliarsi i capelli quando è imbarazzato, o provo una fitta di dolore e piacere quasi incontrollabile. Andrea è così alto, così bello! Mi ricordo l’ultima nostra uscita insieme, una splendida giornata, c’era una rosa rampicante con tanti piccoli fiori bianchi e io al suo braccio mi sentivo leggera come una sposa. Ero più felice, davvero, della sera in cui uscii con quel ragazzo dal ciuffo nero, che pure mi piaceva tanto, quando pensai: “Questo è il giorno più bello della mia vita, non lo scorderò mai!” e infatti non l’ho scordato, anche se non rammento più il nome del ragazzo col ciuffo, che strano. Ma con Andrea, nel parco, ero più felice, e lui era affettuoso e gentile e si scompigliava molto i capelli. Andrea ha un sorriso speciale, per via di quei denti irregolari e un po’

aguzzi, un sorriso incantevole. Ma ho completamente scordato la ragazza ossuta. Non ho voglia di far finta di nulla, di mostrarmi allegra, di chiederle con tono leggero ed ipocrita come si chiama. «Com’è oggi il tempo? C’è il sole?» le dico. Dal suo sguardo turbato capisco che devo averle già posto la domanda, forse due volte, forse tre, di certo una volta di troppo. È chiaro che vorrebbe essere lontana mille miglia. Si volta nervosa verso i suoi volenterosi compagni, armati di tombole e mazzi di carte, che se ne stanno stretti attorno alla poltrona di Germana, quella vecchia bugiarda. Lei sì che ha la lingua sciolta e una storia per tutti. A sentir lei la sua vita è stata piena di avventure, di traversie fantasiose prima e dopo la guerra, di partigiani, di ville e personaggi famosi che, a suo dire, le inviano fiori e regalie tutt’ora, in omaggio al suo charme. Ma io so bene che era sola, nel suo appartamento buio, che puzzava di chiuso, quando l’hanno portata alla casa di riposo, e non c’è un nipote, un parente, che venga qui a trovarla. E poi, quando meno me lo aspetto, la mia taciturna compagna sussulta, sorride – è un sorriso sincero, questo – e mi dice: «Signora, io vado, credo sia arrivato suo figlio, vi lascio soli» e dilegua. Eccolo, Andrea. È meraviglioso. Se mi convinco che non verrà, e poi viene, sono ancora più felice. Ha il viso rannuvolato, gocce di pioggia gli rigano i capelli, non ha le rose ma brandisce l’ombrello con aria determinata. Il mio bambino! So che dovrei mostrarmi allegra e spensierata, altrimenti Andrea si arrabbierà e non tornerà. So che dovrei fare conversazione, chiedere com’è il tempo, se fuori c’è il sole, invece non resisto e supplico: «Ti prego, portami via di qui». Amelia Moro

Un meccanismo fruttuoso Il sole di lì a poco si sarebbe immischiato tra gli alberi della SemeDiMela, l'azienda produttrice di frutta che dava lustro all'industrioso centro di Campedola, e per la città operaia la giornata non sarebbe iniziata, perché lo aveva già fatto due ore prima. Immigrati bianchi, gialli, neri e caffelatte, in schiera, avevano già abbandonato i ruderi su tre piani che l'azienda affittava loro, si erano già stropicciati i vestiti addosso, a manate, per asciugare l'umidità di inizio settembre, erano già stati trasportati dai caporali ai campi, ognuno al proprio, e mentre Paolini pensava tutte queste cose, sbracato nel sedile dell'auto di pattuglia, avevano già due ore di raccolta nelle braccia. Paolini stava accanto al suo collega, Vuolo, che tene-

va il volante con la mano sinistra e con la destra reggeva un pacchetto aperto di prugne secche, in cui affondava prepotentemente il muso. Ogni tanto, Vuolo rompeva il silenzio nella vettura e chiedeva a Paolini se ne volesse uno, di quei frutti molli e raggrinziti come il corpo di una vecchia e Paolini sceglieva con attenzione quello più piccolo, stando accorto a non confondere l'olio di cui era ricoperta la prugna con la saliva del collega. Pur essendo le cinque del mattino, il sudore appiccicava la divisa al corpo dei due carabinieri, soprattutto a quello di Vuolo, che era il più grasso, e colava sulla fronte liscia di Paolini percorrendola dall'attaccatura alta dei capelli biondi, scartando le sopracciglia sottili, fino


Prossa Nova alla punta del naso diritto ed ossuto. «Ti ci hanno mai portato qui, Vuolo?» «Non mi pare, no. Che posto è?». Erano delle residenze per braccianti e operai costruite dalla SemeDiMela nel 1956, in pieno boom economico, in pieno trionfo del razionalismo. Il piano era stato di fornire un alloggio ai dipendenti dell'azienda, così che fossero ben raggruppati, ben trasportabili e ben controllati. All'inizio dei '60 quello era diventato un vero e proprio quartiere satellite, con gli alimentari, le edicole e i bar. I dirigenti della SemeDiMela erano riusciti a portarci perfino una scuola. Poi il padrone era morto e il figlio si era rivelato una vera delusione: uscito dall'Università, il Contino in un paio di anni era riuscito a bersi e a giocarsi gran parte dei milioni paterni. La SemeDiMela continuava bene o male a produrre, soprattutto grazie ai traffici poco chiari del Contino, ma la città operaia era in sfacelo. Dalle palazzine l'intonaco si era quasi del tutto staccato, lasciando a vista il solo mattonato, e la strada che divideva le due ali del quartiere era diventata un terreno misto di asfalto, pietrisco e fango. Per la maggior parte degli appartamenti le finestre erano rotte o divelte e per ripararsi dal freddo rimanevano solo le tapparelle. Altrimenti, le aperture erano tappate con pezzi di telone blu, usato per coprire i cassoni della frutta, mentre le porte erano state sostituite sistematicamente da bancali di legno chiaro. Solo l'affitto era restato pressapoco quello di un tempo. Vuolo annuiva facendo scrollare i riccioli neri e conduceva la volante sulla strada dissestata. «Vuolo, non t'infilare qua dentro con la macchina, rischi di bucare le gomme. Tanto, tutti i braccianti sono nei campi da almeno due ore. Ecco, gira lì.». In quel momento, Paolini vide un'arancia slanciarsi da uno dei teloni blu e finire nei grani d'asfalto, a pochi metri dal muso dell'automobile. Un'altra arancia si spiaccicò sul parabrezza e un ananas fece saltare uno specchietto retrovisore. Vuolo, spaventato, ingranò la prima facendo gracchiare dolorosamente il cambio e schizzò via, con altra frutta che cadeva da tutte le parti e Paolini che gli strillava di fermarsi im-me-dia-tamen-te. Quando la polvere sollevata dalla sgommata si diradò, la volante ormai non si vedeva più. Al suo posto, mucchi disordinati di frutti presidiavano la strada principale, i vicoli, le traverse e le parallele dell'ex città operaia. «È iniziata la rivolta della frutta», così esordiva il conduttore del tg nazionale nel televisore di Paolini, bombato sulle spalle e con i capelli riportati, decisamente ben ristrutturato. No, non il televisore, quello era nuovo, era stato appena vinto coi punti delle brioches, né Paolini, quello era seduto al contrario sulla seggiola e, divaricando le gambe, mostrava i calzini di spugna. Il conduttore si appoggiava disinvoltamente alla scrivania e teneva in mano un foglio, il comunicato dei ribelli dell'ex città operaia, che lesse: «Nel-

la giornata di ieri l'azienda SemeDiMela ha deciso di aumentare ancora l'affitto delle baracche senza elettricità né acqua in cui ci costringe a vivere: siamo stufi! Stufi di lavorare dalle 3 del mattino alle 7 di sera. Stufi dell'euro e mezzo all'ora. Stufi dei caporali aguzzini che ci fanno pagare il trasporto fino ai campi. Stufi dei contratti falsi, non registrati, che non permettono il diritto di soggiorno. Per alloggi con acqua, luce e servizi igienici, per orari di lavoro umani e retribuiti come tali, per la fine del regime dei caporali, per contratti regolari ed equi, noi occupiamo ad oltranza la città operaia e blocchiamo la produzione di frutta di Campedola. Firmato: Ribelli della Frutta». Paolini mutò il televisore e si girò verso la tavola apparecchiata, su cui una pentola di alluminio rilasciava un forte odore di cavolo bollito. Se ne servì con parsimonia, odiava il cavolo bollito, e attaccò a mangiare in silenzio con sua moglie a fianco. Quando ebbe finito, fece per alzarsi da tavola ma lei lo bloccò appoggiandogli la mano sul braccio: «Non vuoi un po' di frutta?». Paolini la guardò per un attimo e, nonostante quella sera fosse molto bella nel suo grembiulino a strisce, si alzò definitivamente e se ne andò, solo, a letto. Nei giorni seguenti la situazione si sviluppò in maniera non prevedibile. I ribelli ogni cinque minuti gettavano dalle finestre un frutto, che andava a spantegarsi per terra, marciva ed esalava un odore dolciastro, che arrivava fino al centro di Campedola e attirava api, vespe, calabroni, moscerini e mosche. I cittadini, esasperati per l'odore, gli insetti e il caldo, formarono un comitato ed andarono a protestare dal Sindaco, che subito dichiarò lo stato di emergenza per la zona dell'ex città operaia e vi spedì un manipolo di carabinieri. Paolini era in questo manipolo. I ribelli avevano formato una linea di barricate, costituita per lo più da bancali impilati, alta due metri e qualcosa, che lasciava vedere solo il terzo piano di ogni palazzo, ma non impediva di sentire gli splat dei melograni, i thund delle mele, i cop dei cocchi. L'odore di marcio era soffocante e i carabinieri stavano a parecchia distanza dalla cittadella. Dopo qualche mezz'ora di finta ricognizione, tornarono a casa, ognuno alla propria. «Ha inizio la contromanifestazione dei raccoglitori statali di zolfo, che dichiarano immorale la protesta dei Ribelli della Frutta in quanto “distrugge chili e chili di cibo in barba a quelli che, pur lavorando, soffrono la fame”». Paolini mutò il televisore e sentenziò: «Qui il governo si è messo d'accordo con i sindacati. Hanno trasformato la faccenda in pubblicità gratuita contro i braccianti e in valvola di sfogo per gli zolfari». Sullo schermo gli zolfari, che sullo stomaco avevano un pelo più lungo di quello dei carabinieri, avanzavano fino alle barricate senza curarsi dell'odore, abituati a quello infernale delle cave in cui


Prossa Nova lavoravano. Il loro slogan, silenziato dal telecomando, era scandito dai colpi che menavano sui bancali, con i loro cesti doppi da raccolta ancora gialli di zolfo. Uno sciame di vespe, annidato in una delle fessure del legno e disturbato dall'intrusione, li disperse. Paolini spense la tv e, anche quella sera, andò a letto solo e senza frutta. Dalla mattina successiva in avanti, non c'era giornale che in seconda pagina non avesse una firma importante a parlare dell'argomento. Le sere erano occupate da talk show, a loro volta occupati da schiere di opinionisti che si azzannavano come bestie sull'eticità della protesta dei Ribelli della Frutta e, in generale, sulla protesta dal punto di vista filosofico, sociale, politico e generazionale. Qualcuno fece una fiaccolata di solidarietà verso i braccianti, a cui si rispose con una veglia in appoggio agli zolfari. «Tutti continuano a guardare il dito e non la luna» spiegava Paolini a Vuolo in una delle loro pattuglie vicino all'ex città operaia. Il problema era la SemeDiMela che lucrava sui lavoratori per riempire le tasche del Contino. No, il problema era la Grande Distribuzione Organizzata, quella dei supermercati a catena, che imponeva i prezzi alle piccole e medie aziende, costrette poi a rifarsi sulla pelle dei dipendenti. No no, il problema era l'aumento del prezzo del petrolio,

che incrementava i costi e diminuiva il consumo: cosa ne poteva la Grande Distribuzione Organizzata dell'aumento del petrolio? Macché, il problema era il solito meccanismo per cui tutti si sentivano schiacciati e a loro volta schiacciavano. Di solito, a questo punto il monologo si spegneva in un ronzio borbottante, perché Paolini, giunto al meccanismo, non sapeva bene come districarsi, mentre Vuolo si dimenava in assensi, con i riccioli che scappavano da tutte le parti e con tanto vigore da sembrare un indemoniato. Col passare dei giorni, le discussioni nei talk show cominciarono pian piano a farsi sempre più confuse, gli editoriali meno roventi. Tutto il vespaio si era trasformato in uno stanco, ripetitivo, ronzio borbottante. Nel frattempo, un tale aveva deciso di “staccare la spina” al figlio in coma irreversibile da dieci anni e un altro grande tema si profilava all'orizzonte del giornalismo, la bioetica. Un giorno, i bancali vennero rimossi da una squadra di amici poco chiari del Contino, la città operaia venne ripulita con gli idranti e il meccanismo tornò a funzionare come prima e nessuno se ne accorse, nemmeno Paolini. Matteo Valentini

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