Inserto di prosa della rivista poetica Fischi di carta
Prossa Nova Novembre 2014 Numero 3
‒ Editoriale ‒ Questo editoriale ha inizio con la decisione di Carlo Repetti di abbandonare, dopo quindici anni, la carica di direttore artistico del teatro Stabile di Genova e di affidarla ad un bando pubblico. Se l'aggettivo “stabile” sta ad indicare l'imperturbabilità di fronte al tempo e la sicura fissità da opporre ai cambiamenti, la stagione 2014-15 del teatro, appunto, Stabile può ben fregiarsi di tale titolo. L'idea che un'istituzione come questa sia legata ad una certa tradizione “da antologia” è riconosciuta ed accettata: nessuno, né quest'anno né mai, avrebbe preteso di vedere sul palco della Corte un rappresentante del teatro sperimentale. Nonostante tutto, vedere in programma cinque drammi di Luigi Pirandello sconforta già semplicemente per la scelta incomprensibile ed esagerata. Se poi si affianca questa decisione a quella di proporre due testi contemporanei (Rinoceronti in amore e Il caso della famiglia Coleman, scritti rispettivamente nel 1999 e nel 2005) attraverso una promozione all'ingrosso “due in uno” e per sole quattro serate, si riscontra un certo timore nei confronti di quella drammaturgia che non ha ancora avuto tempo e
modo di diventare antologica o di essere conosciuta dal grande pubblico, e che quindi non può assicurare rilevanti entrate monetarie. I cinque drammi di Pirandello sono adatti, invece, ad un progetto che vede i principali referenti nelle scolaresche e nei fedelissimi abbonati, i quali sono avvicinati anche dalle scenografie ricche e descrittive, care al teatro Stabile e tipiche del caro teatro borghese, che veicolano un robusto diaframma tra pubblico e attori e, sulla scena, una mimesi completa, rassicurante, della realtà. La sensazione generale non è che manchi la qualità negli spettacoli proposti ma, ancora una volta, il coraggio. Al prossimo direttore artistico del Teatro (dal 2015) Nazionale di Genova chiedo, dunque, di compiere un cambio di passo per quanto riguarda il confronto con la drammaturgia contemporanea e, perché no, sperimentale ed evitare così l'imbalsamazione di un teatro dalle enormi potenzialità attoriali con a disposizione un tanto vasto bacino di pubblico. Matteo Valentini
Il nodo Racconto dedicato agli amici perduti per fatalità, o per egoismo, o per distrazione, mia o loro. Al primo sparo, Andrea rimase imperturbabile e distaccato. Che cosa c’era mai di tanto interessante, perché la gente ogni anno pretendeva di andare a vedere i fuochi. Si era messo alle spalle di tutti i soliti amici, non voleva dar dispiacere a Silvia e agli altri, che lo vedessero così rabbuiato. Jack non c’era. Andrea sbirciava sbuffando le sagome delle coppie, con i maschi che tenevano un braccio protettivo sulle spalle delle ragazze, e baci e smancerie a non finire, come se ci si dovesse sentire innamorati proprio mentre si guardano i fuochi, e tra cinque minuti sarà finito lo spettacolo e riprenderanno a litigare. Se ci fosse stato Jack, lo sapeva, lui gli avrebbe appoggiato il braccio sulla spalla, gli avrebbe sussurrato qualcosa di sconcio in un orecchio e poi avrebbe preso a ridacchiare come
un idiota, Andrea gli avrebbe tirato un calcio negli stinchi e tutto quell’esasperato romanticismo sarebbe stato un po’ più sopportabile. Poi, via via che gli scoppi si susseguivano, si fece sempre più insensibile a quello che avveniva intorno a lui, ai commenti sussurrati sotto voce, allo scatto nervoso della ragazza con macchina fotografica, ai festoni pacchiani da sagra di paese, e non distolse più lo sguardo dall’alto. Si sentiva concentrato ed assente al tempo stesso, tutto preso a guardare eppure percependo che non avrebbe saputo ricordare o descrivere cosa avesse visto appena l’istante prima, perché ogni immagine si sovrapponeva all’altra troppo rapidamente per poterla cogliere: cascate d’oro restavano per un lungo attimo sospese sul fondo nero, e forse
Prossa Nova scomparendo si lasciavano dietro qualcosa, almeno un fruscio, ma impossibile da avvertire, perché già altre spirali di luce si avvolgevano impazzite, crepitando, e poi tuoni e boati e instabili barbagli. L’aria era carica del fumo che si volgeva in pigri mulinelli, levandosi da altre fiammate, altri scoppi. – Ci hanno dato merda, quest’anno. – sussurrò un tizio di un paese vicino e rivale. Il rimbombo continuo dei fuochi, di colpo, gli riportò alla mente il concerto a Milano l’anno precedente, – ma non durante lo spettacolo, non mentre Jackie si sbracciava e urlava spaventando le due fan stagionate che gli stavano accanto, non mentre si sgolavano fianco a fianco, le due maglie del tour, identiche e zuppe di sudore – ripensava a ben dopo, alle tre di notte, quando si erano finalmente messi a letto, ancora vestiti, gli occhi rossi di sonno e quel nodo da qualche parte nello stomaco, o chissà dove, che voleva dire: scuola, domani, cioè oggi, otto del mattino, ti prego, non farmici pensare. Andrea aveva detto solo “notte” e aveva chiuso gli occhi. Poi l’aveva sentito, forte, persistente, distinto, l’eco del concerto, quel rimbombo che veniva dalle casse gli riecheggiava ancora nelle orecchie, proprio come se fosse stato ancora là. E Jack, in un sussurro : – Ou, tu lo senti? – così erano rimasti lì, svegli ancora per un’eternità, a riascoltare il concerto, a fissarsi nel buio, provando l’eccitante sensazione di ascoltare una musica che nessun altro poteva sentire, di avere un sonno indescrivibile e non poter dormire.
Sandy lo sapeva che i fuochi – altro che per le feste – sono pieni di malinconia, sono come, non so, come le rose, come l’estate, stanno lì a dirti che la bellezza non dura niente, la aspetti la aspetti e poi quando arriva ti travolge a tal punto che non te ne rendi conto, e poi è passata, in un attimo è passata e tu non hai neppure le parole per descriverla, per riviverla. E risuona l’ultimo scoppio, poi arriva il silenzio, denso che quasi si può toccare, non un vuoto, ma un pieno, prende consistenza nell’aria ancora carica di elettricità. Ma dopo tanto frastuono, la calma mette a disagio, e tutti ringraziano con sorrisi distesi il primo che applaude, il battimani dilaga, si cercano con gli occhi, si scambiano commenti, per un istante si sono sentiti così soli di fronte a quel cielo nero ed incombente e vuoto, così è bello riprendere consapevolezza del lampione e della chiesa, dell’albero e della macchina fotografica. Silvia vorrebbe chiamarlo, lo sa, per questo si gira e prende ad incamminarsi giù per il sentiero. – Ma che ha? – li sente sussurrare, e gli par di percepire anche senza vederlo il gesto di Silvia, un’alzata di spalle. Andrea stringe i pugni nelle tasche, deve solo respirare, contare fino a dieci. Poi potrà girarsi e dire qualcosa di stupido e divertente, così smetterà di sentirlo, di pensare a quel nodo da qualche parte nello stomaco, o chissà dove, che voleva dire: scuola, domani, otto del mattino e tu, Jack, stronzo, perché non mi parli, che cosa ti ho fatto, maledizione, Jack Amelia Moro
Che poi Bruce aveva capito tutto, quando ha scritto
Eunice Mattina. Quelle mattine bigie bigie che sai bene, quelle mattine che la luce si entra debole debole nella stanza: a strisce nere e bianche. E ti svegli zebrato. Il suo corpo è grande caldissimo, e del vostro abbraccio dalla notte è rimasta solo una mano che ti sfiora il fianco. Non mi vuole, pensi guardando ciò che resta della vostra stretta, disfatta tra le lenzuola intatte. Ma tu la ami e ti stringi a lei come un pupetto. Forse, ti dici, è la più bella ragazza del mondo e le tue dita provano il naso all'insù e la fronte calma, la accarezzi e la tua mano asseconda i fianchi i più morbidi e la pelle la più dolce. Decidi inoltre di pettinarle i capelli addormentati, sistemi con cura le piccole frange dorate cadute sul viso e accompagni dietro le orecchie i ciuffi stonati.
Ecco, l'ho svegliata. Ricordi quando vi siete messi a letto la sera prima: come ogni sera i tuoi baci cercavano la sua bocca ed ella girava e rigirava la testa cercando di dormire. Così le tue mani cercavano il suo corpo ma avevano dovuto arrendersi: la ragazza più bella del mondo era insensibile alle tue carezze. Ma ora che apre gli occhi sei deciso a tentare di nuovo, come ogni sera, come ogni mattina. Di nuovo, Eunice si schermisce dai tuoi baci come se sono velenosi, pochi minuti e si alza, la senti già in cucina, di nuovo, ti ha lasciato solo. Pantaloni, camicia, ti vesti al buio, non aprire! la gente potrebbe vederci! Eunice crede che sia meglio tenere le imposte chiuse. La timida luce della lampada del corridoio vìola la penombra della camera da letto e ne svela indizi di insofferenza: i
Prossa Nova mobili polverosi, le tende sempre chiuse davanti alla finestra inerte, decine di specchi ingialliti che moltiplicano all'infinito gli spazi stretti della stanza nera. Fuggi, ti ritrovi davanti alla cucina e attraverso il vetro della porta puoi vedere la ragazza più bella del mondo illuminata da un bagliore gelido che goccia dal lampadario. Entri, quel lume freddo che ti brucia gli occhi assonnati, Eunice che fa il caffè, le imposte chiuse irrimediabilmente. Ti stropicci. Bevete in silenzio, al buio della lampada. Il tavolo tarlato le tazzine informi le posate logore, ogni oggetto in quella cucina ti appare lontano; solo le piccole ombre che ogni cosa disegna qua e là per la stanza le diresti reali. Grazie per la colazione, di niente, sparecchi e lavi i piatti e come ti muovi presso il lavello desideri (o sogni) di aprire la grave finestra, immagini (o credi) di prendere una boccata d'aria. Ma da dentro il vetro opaco il tuo riflesso ti guarda e suggerisce che la persiana è ancora bloccata. Ti volti verso Eunice che ti porge un pacchetto morbido, la sua è già accesa e il fumo bianco bacia le sue labbra dolcissime, prima di involarsi. Ora, fumate insieme le mille volute che viaggiano verso il soffitto; noti che alcune lottano contro il vetro della finestra serrata, altre contro la porta ben chiusa: Eunice lei non ama che i vicini possano spiare l'interno della casa, né che il fumo s'insinui nel corridoio. L'appartamento di Eunice era grande, i vani ampli e numerosi. Nel salotto, due finestre smisurate occupavano per intero le pareti laterali: parallele, una dava sul giardino interno al condominio, l'altra sulla strada. Dall'ingresso, una porta si apriva sul corridoio che metteva in tutte le stanze. Come in molte vecchie case, l'arredo ostentava un gusto studiatamente esotico e sfarzoso, santini e riproduzioni di stampe giapponesi presenziavano sulle pareti non meno dei geroglifici su finto papiro, i mobili in stile liberty e gli stessi pavimenti erano costellati, o meglio popolati, da una fauna fittissima di ninnoli e suppellettili dall'eleganza tanto vanesia quanto presunta: vasi, fiori, uova, tazze, teste, sculture, animali, portacenere, portasigaret t e , p ortaombrelli, p o r t a f o t o , appendiabiti, tagliacarte, temperini, borse, cappelli, modellini, presepi, bottiglie e imbarcazioni, i soprammobili i più inimmaginabili abitavano come in un mare l'appartamento, e chi si fosse provato a metterci piede avrebbe faticato a non inciampare su una tartaruga, su un piccolo contadino cinese o su San Giuseppe. I muri, dove le innumerevoli cornici non divoravano lo spazio erano disseminati di specchi: la moltitudine di oggetti e la tua stessa immagine riprodotta ovunque ti guardavano con indifferenza
da ogni angolo. Sulla soglia di casa, introdotto da Eunice, dovevi aspettare prima di accomodarti: ella, macchinalmente, disattivava i numerosi allarmi antifurto e bloccava la porta con giri e rigiri di chiavi. Adesso, potevi avventurarti nel corridoio e sfidare su ogni lato il tuo volto arrossato dal freddo. Ogni volta, di fronte a un qualche specchio, scoprivi la tua inquietudine: quel posto, quelle stanze, tutte quelle cose ti agitavano e sentivi l'ansia eccitarti il polso. Ti sforzi di rimanere calmo, Eunice sta poco bene oggi e ha bisogno di te. Cerchi di tranquillarla, profondi carezze le più calde, hai braccia che si allungano sulla sua schiena seduta e lente lente le tue parole sfidano i tuoi baci: a stento ti escono di bocca. Hai vomitato? Sì. Quante volte? Due. Ora come ti senti? Ora che sei arrivato mi sento meglio. Ti preparo un tè. Non lo voglio. Ci vediamo un film? No. Cosa facciamo? Non lo so. Mi hai chiesto tu di venire. Mi sentivo male. Allora andiamo a letto? La ragazza più bella del mondo fa di sì con la testa e accende una sigaretta. Contempli il volto pallido e la stanza grigia attraverso il fumo denso dello sconforto. A letto. La sua bellezza accende ancora una volta il tuo desiderio, sai che non è ricambiato ma tenti comunque di accendere il suo. Pochi baci rubati e già senti il respiro del suo sonno scaldarti il collo. Ma tu non vuoi dormire non puoi dormire aneli alle carezze negate. Sei logorato avvilito lacerato e in tutto il tuo corpo senti le ferite acutissime di una lotta intestina che si agita convulsamente: amore e frustrazione egoica modellano spasmodicamente la debole argilla della tua mente. Tra sonno e veglia grondi lacrime e sudore, sei stanco ora, non puoi più sopportare. Apri gli occhi. Mattina. Quelle mattine bigie bigie che tutti sappiamo, quelle mattine che la luce si entra debole debole nella stanza: a strisce nere e bianche. E ti svegli zebrato. Ma tu non hai dormito e la stanchezza ti immobilizza. Il suo corpo grande caldissimo, il naso all'insù, la fronte calma, i fianchi morbidi e la pelle dolce, ne contempli il sopore sforzandoti di tenere le palpebre aperte. La stanza anche lei dorme ancora, le lenzuola intatte e le imposte chiuse. Non dev'essersi mai svegliata pensi. Nulla in quella casa dev'essersi mai svegliato. Avverti come un sibilo sottile pungerti l'orecchie, rapisce i tuoi pensieri. Cresce si avvicina ingrandisce, è acutissimo ora e non lo puoi soffrire. Di scatto il tuo busto insonne si alza: pantaloni, camicia, ti vesti al buio ma il fischio non ti dà pace. Confusione. Afferri la maniglia e come che apri la finestra senti i mugugni di Eunice che si
Prossa Nova sveglia. Spalanchi le imposte, i suoi gemiti diventano parole ma non le indovini, sordo ti dirigi in salotto e apri le tende smisurate. Collera. Corri in cucina e le grida di lei ti corrono dietro. Il raggio che ti ceca ti dice che hai aperto finestra e persiane. Fuggi! Sorvoli mobili, soprammobili sopra i mobili, quadri specchi vasi fiori uova tazze teste sculture
animali bottiglie e imbarcazioni, inciampi su un contadino cinese e per poco non cadi: ansante ti aggrappi alla porta d'ingresso. Giri e rigiri la chiave: uscendo puoi sentire, dalla cucina, la ragazza più bella del mondo singhiozzare alla luce. Carlo Meola
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