Prossa Nova 2 (10/2014)

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Inserto di prosa della rivista poetica Fischi di carta

Prossa Nova Ottobre 2014 Numero 2

‒ Editoriale ‒ «Guarda che nel giro di 10 anni non li stamperanno più i libri.» Col tono tipico dell'imprenditore lungimirante, un bocconiano mi suggeriva così di passare all'unico possibile futuro dell'editoria: l'eBook. Ma a prescindere dall'idea distorta di progresso che tanti che fanno impresa dimostrano di avere, una simile profezia mi ha comunque interessato. Quando, 2060 anni fa, Cicerone parlava ad Attico del suo note-book di pergamena, l'amico editore forse non immaginava che in pochi secoli il codice membranaceo avrebbe soppiantato il rotolo di papiro, mutando per sempre composizione, fruizione e ricezione del testo letterario. Alla fine del 1400 poi, erano molti i nostalgici che si opponevano all'avvento della stampa, che nel tempo ancora una volta avrebbe trasformato, assieme alle sue forme, l'idea stessa di letteratura. Mentre oggi la videoscrittura sta apportando novità ancora maggiori: si pensi alla lettura di un testo su schermo, dove il contatto tattile con il libro o la visione completa della pagina - oramai scorrevole, un po' come nel papiro - vengono a mancare. Queste trasformazioni non sono per forza negative, semplicemente è chiaro che testi pensati e creati per un tipo di supporto, riportati su un altro vengano letti e recepiti diversamente. Penso al De Grammaticis (in cui Svetonio dà l'esatta definizione di "letterato", colto, distinto dal "letteratore" soltanto alfabeta): composto probabilmente su rotolo, una volta trascritto su codice non può che arrivare al lettore in modo diverso: e così I Promessi Sposi, letti da eReader, devono per forza essere un altro testo che non quello pensato e scritto da Manzoni. Un

bell'esempio di letteratura che va conformandosi alle modalità dell'editoria digitale penso sia rappresentato dalle fanfiction. Si tratta certamente di paraletteratura, ma navigando su siti come EFP o Archive of Our Own è sorprendente scoprire come sia organizzata la fruizione di questa enorme mole di testi. Si viene reindirizzati ai vari archivi a seconda di categorie a scelta, quali Genere (Angst, Comico, Dark, ecc.), Ratings (Verde, Giallo, Rosso; mutuata dalla televisione), Tipo di Coppia (Etero, Gay, Lesbo, Lesbo-Manga, Gay-Manga, ecc.), Personaggi (che permette di scegliere i protagonisti) e alcune altre, tra cui spiccano Lunghezza Storia (la scelta è tra testi inferiori o superiori alle 500 parole; un rotolo di Omero ne conteneva circa 4000) e Stato Storia (si tratta spesso infatti di scritti "incompleti", aggiornati continuamente). L'impaginazione stessa di questi testi, modulare e frammentaria, può suggerire alcune delle modifiche che la letteratura subirà nel corso del tempo. E anche se in diversi settori il cartaceo è destinato a sparire presto, anche se l'email ha portato all'estinzione definitiva del carteggio, ritengo che il genere romanzo e il genere lirico come li conosciamo siano troppo radicati nella nostra cultura liberal-friendly per subire grandi cambiamenti nel breve giro di 10 anni. Nel frattempo, noi continueremo a proporre le nostre storie prossando qui sulla carta, e da questo mese anche sul nostro sito web. Da bravi letteratori digitali. Carlo Meola

Storia di storie Appena sveglio, il ragazzo provò a rizzarsi in piedi dal divano color panna su cui era steso. Le gambe non lo ressero e lo fecero ripiombare violentemente al suo posto: una delle costole mandò un gemito. Sorpreso dalla reazione del proprio corpo e dal luogo sconosciuto in cui si trovava, volle esaminare attentamente la situazione: sollevò la testa dal morbido cuscino e subito una sorta di fune sistemata tra la nuca e il coccige si tese, come se fosse lì per spezzarsi. Si limitò, allora, a sbirciare.

Il ginocchio destro non sembrava rotto, ma era occupato da una sbucciatura che pareva un cratere in fermento, arginato da un carnevale di asciugamani, salviette e stracci. Vedeva i suoi vestiti ammonticchiati sopra una vecchia sedia di legno, mentre era avvolto in un accappatoio di spugna rosso, liso ma dignitoso. Dentro una conca per il bucato qualcuno aveva riposto del cotone e un bottiglino di acqua ossigenata. Con gli uomini del villaggio mi muovo veloce e


Prossa Nova sicuro in cerca di altro cibo. La lancia insanguinata, stretta nella mano destra, freme ogni volta che la batto sul terreno sassoso, segnando il passo. Protetti dal gruppo, due di noi procedono con sulle spalle la carcassa del cervo. Isolarlo dal branco, inseguirlo, circondarlo e abbatterlo ci ha stremati, ma il capo vuole tornare a casa con almeno un'altra bestia e intende cercarla nei sentieri stretti, così che le sia più difficile fuggire. Gli alberi, che fiancheggiano il sentiero dai due lati, uniscono sempre più di frequente i rami e mi ritrovo a chiudere la fila. All'improvviso, il segnale: tutti ci abbassiamo fino a sporcarci la faccia di terra. Un cervo solitario è a pochi metri da noi, forse ha perso gli altri, forse è zoppo. È molto più massiccio di quello che abbiamo catturato e il suo pelo è splendido sotto la luce che sgomita tra le foglie. Non c'è tempo per preparare una strategia, disporsi a raggiera o controvento: l'animale scappa. A quel punto tutti gli uomini spronano le proprie gambe ad un ultimo sforzo, tranne i due in mezzo al gruppo ed io, che restiamo a far la guardia alla selvaggina che già c'è. Probabilmente non aspettavano altro: una freccia maldestra sorvola le nostre schiene per sparire nella foresta e, subito, ci atterrisce un urlo spaventoso. Non sono meno di dieci e avanzano tutti con un ghigno e un'ascia. La lampada da terra illuminava la stanza a giorno, le persiane di legno erano chiuse e per lui era impossibile indovinare che ore fossero. Allungò il braccio per afferrare una riproduzione in similmarmo del Mosè di Michelangelo, scala 1:30, che occupava il tavolino al centro del salotto insieme ad altre cattedrali, torri, forti, templi, castelli, mausolei "Saluti da...". Dopo aver coperto con l'indice le due piccole protuberanze sulla testa della statuina, si accorse di avere il palmo della mano sinistra fasciato e dolorante, non adatto a giocherellare con un gingillo come quello: Mosè precipitò sul parquet e si ruppe le corna. La Lanterna svela regolarmente le incrostazioni di sporco della piccola finestra. L'atmosfera nel locale è piuttosto rilassata e, davanti ad una jam, i pochi clienti bevono in bicchieri intellettuali un vino rosso guastato dall'umidità. I veri aficionados sorseggiano whisky senza ghiaccio, ben sapendo che il whisky è l'unica cosa che in quel posto abbia successo ed è, quindi, quasi sempre di discreta

qualità. Ne ho un bicchiere accanto alla custodia del contrabbasso, ma col ghiaccio: sono un aficionado con bruciore di stomaco. Questa sera, come quasi sempre, non ci sono campioni. Il batterista è vivace, scenografico, ricco di idee e di passaggi mandati a memoria, ma non c'è verso che vada dritto. Il chitarrista, al contrario, sembra nato per marcare pedantemente il ritmo. C'è anche una tromba, ma si inserisce a sprazzi e non si capisce mai che cosa abbia intenzione di fare. Il pianista, che conosce il suo mestiere, alla fine del giro mi fa un cenno: inizio con l'improvvisazione, seguendo in modo approssimativo quella di Ron Carter in un qualche pezzo di Once upon a summertime. I miei occhi, abituati alla penombra del locale, reagiscono male ad una luce venuta da chissà dove: perdo il filo dell'improvvisazione e il conto delle battute, fermandomi quando tutti aspettano almeno un altro giro. Il piano mette una pezza al mio strafalcione e ripartiamo dal tema. La stessa luce mi abbaglia per la seconda volta e distrugge la linea corposa che stavo preparando. Abbandono la mia tradizionale posa accasciata e individuo immediatamente il problema: uno stronzetto si è seduto da solo vicino alla finestra e con un piccolo specchio rimbalza sulla mia faccia le intermittenze del faro, mentre sghignazza soddisfatto. Il turn around non fa in tempo a concludersi che ho già lanciato il mio acqua e whisky contro il tipo, che però è veloce e schiva il bicchiere. Ci catapultiamo sotto al palco. Io provo a colpirlo con l'archetto, ma per la rabbia lo manco e gli faccio volare via il cappello. Lui, lucido, prende una bottiglia di vino e me la spacca sulla mano. Mi accascio a terra, il tipo raccoglie il cappello, se lo appoggia in testa ed esce, ridendo. Un gatto molto grasso gli stava zampettando in faccia e con le unghie sfilacciava i bendaggi che gli coprivano la testa. «Psssssss! Sciò Gogo!» : una donna con un abbondante grembiule rosa a quadretti bianchi scacciò dal suo torace il felino, che sembrò sbuffare una volta atterrato sul pa vi me nt o. L a d ome s ti c a s e mbr ò mol t o preoccupata per la guarigione delle sue ferite: il ragazzo capì che era lei ad averlo medicato e le chiese ragguagli sull'accaduto. «Ti ho trovato steso in mezzo alla strada con accanto una bicicletta e ti ho portato in casa. Mi sono occupata di te, stando attenta a non sporcare niente, perché la signora


Prossa Nova torna tra poco e non sa che sei qui». In quel momento la donna abbassò gli occhi sul Mosè scornato e sporco di sangue, che sembrava aver avviato un'operazione di carotaggio nel parquet, e il suo viso, pur rimanendo tondo, si contrasse, con le sopracciglia non più ad arco, ma convergenti dall'alto verso il basso. L'aria che mi entra nei polmoni è fradicia dei ruscelli che scorrono sotto la strada e degli alberi che ci crescono intorno. Avrei voluto semplicemente deviare dal solito percorso e invece mi sto spezzando le gambe e la schiena. Non posso nemmeno tornare indietro: l'atteggiamento nei confronti della strada deve sempre essere rabbioso, strafottente. Mai mostrarsi deboli di fronte alla strada: c'è una sola possibilità di domarla e infinite di farla imbizzarrire. Così continuo a pedalare, provando ad asciugare il sudore con un fazzoletto sporco di grasso, assediato dai tafani che approfittano della lentezza di questo ammasso succulento di tendini, muscoli ed ossa per colpirlo senza pietà. Il collo, il polpaccio, la mano, il collo. E schiaffi. Inizio anche a sbuffare rumorosamente e a fare le pernacchie per imitare i cavalli. Loro, penso, sono esperti di tafani da quando esiste il mondo (o almeno da quando esistono cavalli che sudano e tafani che mordono): avranno sviluppato un sistema più intelligente che tirarsi gli schiaffi. Forse quello che mi manca è la coda, chissà. La discesa appare improvvisa e insperata. Metto il cambio più

pesante che ho e mi precipito giù: voglio asciugarmi e seminare tutti quegli insetti. Una pietra sotto la ruota è sufficente. «È davvero ora che tu vada, qui ho molto da fare e se arriva la signora... Ah! Se la signora lo scopre!». Così lo aiutò con le sue braccia da big mama a stare in piedi e lo trascinò fino al portone di casa, mentre il gatto li guardava beato e resupino. Una volta fuori, la domestica si rese conto di essere stata sgarbata, ma non intendeva chiedere scusa: la questione del Mosè ancora la irritava. Così, senza guardarlo negli occhi, gli mise a posto la catena della biciletta, che per l'impatto si era sganciata, e raddrizzò il sellino. Da lì a casa sua sarebbe stata una passeggiata, disse, fingendo di non ricordare che lui era caduto a metà di una discesa, che, eracliticamente, ora sarebbe stata salita. Glielo fece notare. Si vede che la domestica non masticava molta filosofia, perché borbottò un arrivederci e si chiuse la porta alle spalle. Il ragazzo, rassegnato, spinse la bicicletta lungo il vialetto ghiaioso che scricchiolava sotto i suoi passi insicuri. Arrivato in cima, dolorosamente si issò sopra il sellino ben assicurato e tenne il più rigida possibile la gamba destra. Intanto rideva. Malgrado le ferite, la salita incombente, la selvatichezza della domestica e del suo gatto, era contento: una volta tornato a casa, avrebbe avuto non poche storie da raccontare. Matteo Valentini

Umano Lo storpio all’angolo grida: “Nichelini, per carità” e i ragazzi, in centro, parlano da veri duri. È così difficile essere un santo in città. Bruce Springsteen, It’s hard to be a saint in the city È un giorno di mezza primavera e, tanto per cambiare, sei in ritardo. Cammini a passo spedito per via: sai che un autobus ti farebbe risparmiare tempo, ma quel tempo guadagnato non vale il piacere di godersi un po’ di sole, ora che si è deciso a far capolino, o un po’ d’aria, fosse pure quella senz’altro inquinata del centro. Mentre cammini una mano prende la tua: «Signore, la prego, signore… ho bisogno d’aiuto, signore…» qualcuno una volta ti ha detto che ai poveri non si dà un

pesce, gli si dà una canna per pescare, perché i tuoi spiccioli non aiutano nessuno, bisogna risolvere il problema alla radice e non rendere qualcuno dipendente dalla tua sudicia carità. Vero, verissimo. C’è però un fatto: quando una persona ti guarda negli occhi e ti chiede aiuto, e tu non hai nessuna canna da pesca... È inutile starci a girare intorno: spesso ti volti e passi oltre, come se quella mano tesa fosse invisibile, o altre volte, più rare, guardi la tua ragazza, che ha il cuore più tenero, e speri che li


Prossa Nova dia lei: questo ti fa sentire molto meglio. Dopo tutto, com’era quella storia che tuttociòcheèmioètuo tuttociòcheètuoèmio? Però, è innegabile, la maggior parte delle volte passi oltre. La maggior parte, non oggi… forse perché ti ha toccato, e, tuo malgrado, non sai resistere alla tiepida malinconia di quel contatto umano. Apri il portafoglio, sperando di non avere, come di solito, pochi centesimi: non vuoi sembrare avaro. Ecco una bella moneta da due euro, lucente, orargento. Gliela darai guardandola negli occhi, per farle capire che sai bene che è una persona, non un oggetto o una pianta o una bestia sporca, poi passerai oltre e sarai un po’ più leggero, un po’ più libero. «Signore, signore, la prego, è per il latte in polvere, è per il mio bambino, davvero, non li uso per nient’altro, vieni con me signore, vieni e te lo faccio vedere» non ti tocca (forse un altro contatto ti avrebbe spaventato, ti saresti ritratto) ma quell’esile nenia ti seduce, la segui. L’insegna verde della farmacia è così vicina, così vicina che raggiungerla in due passi ti sembra semplice. E va bene, vediamola mentre compra questo latte in polvere; magari è orgogliosa, magari ci tiene a farti sapere che userà bene i tuoi soldi. La guardi davvero per la prima volta: è bassa, ha i capelli scuri, un po’ unti, non è bella, spinge la carrozzina con il bambino che dorme, sereno. Non lo stai facendo perché ti attrae, o meglio, ti attrae forse, ma non nel modo che farebbe ingelosire la tua ragazza: è un misto di curiosità e pietà. Un’altra delle teorie sull’elemosina che hai collezionato (tutti hanno una teoria sull’argomento, ma nessuno sembra mai davvero convinto) riguarda l’aspetto delle persone: ad un vecchio è giusto farla, perché non potrebbe guadagnare altrimenti, mentre un giovane dovrebbe cercarsi un lavoro. Anche questa soluzione ti sembra buona, non c’è nulla di sbagliato, a parte il fatto che ti chiedi: che diritto ho io di giudicare una

persona, di valutare, con un solo sguardo distratto, se quell’uomo vale i miei due euro, o non li vale? Eccoli davanti alla farmacia: «Signore, signore, entra tu, chiedilo tu per me, la marca è Lattebimbo». Ecco, c’era qualcosa sotto. Avrà rubato in questo negozio, forse l’hanno riconosciuta, non può più entrare e manda avanti te. E sia. Entri, chiedi il Lattebimbo, niente da fare, finito. Esci fuori, smarrito, ma c’è un’altra croce verde, solo pochi passi, e camminate ancora fianco a fianco. Siete come una strana, sconclusionata famiglia: mamma, papà, bambino. Ormai ti pare che tanti passi debbano instaurare tra voi una certa confidenza. Le chiedi il nome, quanto ha il bambino, come si chiama lui; la ragazza risponde e ti dice anche altro: che suo marito è giovane come lei, che non lavora… ha solo diciannove anni. Ti chiede cosa fai tu e come ti chiami, ti chiede l’età. Neanche nell’altra farmacia hanno il Lattebimbo e, come in un brusco risveglio, ti rendi conto che non ci sono altre croci verdi nelle vicinanze e che ti sei spinto ben più lontano di quanto volessi. Hai ripercorso quasi tutta la via, il tuo ritardo si fa considerevole. Sai che devi fare: «Scusa, io adesso devo proprio andare…» «No signore, signore ti prego, il latte per il mio bambino, sono solo venti euro, venti euro, signore…» e cosa fai? Sei andato troppo oltre, l’hai accompagnata, sai il suo nome, hai visto il suo bambino, siete stati, per un attimo, una specie di famiglia. Le metti in mano la carta azzurra, sperando che taccia. «Signore, signore, costa venticinque euro, signore!», le tiri una moneta qualsiasi e finalmente scappi «Grazie grazie signore grazie». Le volevi dare due euro, e alla fine sono stati dieci volte tanto. “Dieci volte tanto”, suona un po’ biblico, ma tu non ti senti un santo, solo un po’ più vigliacco, una volta ancora. Amelia Moro

Prossa Nova è amata ed odiata da Carlo Meola, Amelia Moro e Matteo Valentini. Per contattarci scrivete a

prossanova@fischidicarta.it


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