Inserto di prosa della rivista poetica Fischi di carta
Prossa Nova Settembre 2014 Numero 1
‒ Editoriale ‒ Prossa Nova è un messaggio. È uno spazio dedicato alla narrativa, il progetto di tre ragazzi, noi, che propongono racconti e brevi riflessioni. Il nome non fa riferimento a qualcosa in particolare, richiama la prosa, la musica, la novità. Con questa rubrica presentiamo un'idea di prosa e musicalità nuova semplicemente in quanto nostra: è una scoperta anche e soprattutto per noi, che l'abbiamo fondata per diversi motivi, più o meno personali, più o meno legati ad una retorica forse ingenua, non resistente al tempo. Una sola è la volontà che accomuna questa scelta, indipendentemente dall'intima amicizia che ci lega: comunicare. Prossa Nova è nata per mettere a fuoco il nostro punto di vista, da un'angolazione imperfetta, lacunosa, non esauriente, ma nostra e quindi “nova”. Non siamo intellettuali, non abbiamo nulla da insegnare, né trionfanti dichiarazioni programmatiche da esporre, tutto ciò che vogliamo offrire è una prospettiva, anzi tre (anzi, forse tante quante i racconti che su questa rivista
pubblicheremo) senza pretendere che si tratti della migliore. Per questo Prossa Nova è un messaggio. Il gioco di parole con il genere musicale della bossa nova non è dovuto al fatto che facciamo prosa a ritmo di samba: è solo uno scherzo, ispirato forse al concerto di Caetano Veloso (“a bossa nova é foda”) che abbiamo ascoltato insieme, in una freddissima notte torinese gremita di bandiere brasiliane e di saudade. Dedichiamo un grazie alla rivista che ci ospita, il cui fischio ci ha in un primo momento disturbato, forse quasi assordato, per poi diventare il pungolo che ci ha spinto a tentare questo esperimento e che ci ha offerto gli spazi e la disponibilità per metterci alla prova. “Prossa” diverte e ci sgonfia, “Nova” testimonia, una volta ancora, la nostra volontà di comunicare e di rimanere, nonostante tutto. Amelia Moro Carlo Meola Matteo Valentini
Benvenuti Italo si alza dal letto che il gallo ha appena detto la sua. Si muove nella semioscurità del corridoio, impreca scontrando contro lo spigolo di qualcosa e si infila in bagno. Confuso dalla luce elettrica che fa a botte con le palpebre, manca la tazza e, dopo essersi inumidito la faccia, confonde l’accappatoio con l’asciugamano. “Ti lavi come i gatti” lo aveva sempre rimproverato sua madre. Inzuppa uno o due biscotti nel caffelatte, tanto per dirsi di aver fatto colazione ‒ fin da piccolo non era mai riuscito a mangiare la mattina presto, neanche quando l'alba gli era ormai diventata famigliare. Chiusa la porta dietro di sé, va a prendere nella rimessa la zappa per preparare il terreno alle patate e intanto respira l'aria ferma, ancora fredda e umida, che sa di bosco. Il lavoro oggi è più duro di ieri: Enrico, che abita cento metri più in basso, ha da fare con le bestie ‒ sta per nascere un vitello ‒ e non può aiutarlo a dissodare il terreno. A mezzogiorno si fa vivo: «Ou, Italo!» «Arrivi
quando è ora di andare a mangiare.» «Eh è nato che è poco, ma è magro: peserà sui sedici chili.» «Eh...» fa Italo continuando a zappare. «Ora vado a casa che quell'altra mi ha fatto lo spezzatino, arrivo alle tre?» «Fai pure, io alle due sono qua». Enrico è un brav'uomo, ma è pigro quando si tratta di mettere patate: un passo una patata, un passo una patata un passo una patata passo patata passo... certo, è noioso, ma dopotutto quel campo lo hanno in comune ed è giusto che ci lavorino entrambi, allo stesso modo, dato che poi si fa a metà. «Lo diceva papà, pensa Italo mentre la minestra si scalda, “le società sono belle dispari e in tre si è già troppi”». La giornata finisce infruttuosa. Nel cortile comincia ad alzarsi un vento freddo e non è bene restarci con la cena sullo stomaco: Italo controlla che il cane abbia da bere, fa per rientrare – intanto il vento si è fatto più audace e muove con furia le fronde – ma si blocca. Due luci, sconosciute, si scorgono
Prossa Nova attraverso gli alberi. Sono ferme: non possono essere due viandanti tardivi che han perso il sentiero, e dovrebbero comunque essere troppo alti per tenere una torcia a più di due metri dal suolo. «Enrico!» chiama Italo, supponendo che l'amico stia armeggiando lì intorno. Le due luci perseverano nella loro splendente immobilità e non fanno motto. Il vento ormai rischia di ribaltare la cuccia di Speck: Italo decide di non perdere più tempo e andare a letto. La mattina, il contadino esce di casa per darci una botta con quelle patate: vorrebbe iniziare a lavorare sui pomodori, ma lo steccato che chiude il giardino sta marcendo e in casa c'è un punto in cui il tetto fa passare l'acqua. Certo, siamo a maggio, dovrebbe piovere più raramente ma... una goccia gli cade senza ritegno sulla guancia. Poi un'altra sulla cuccia del cane. Una sullo stivale. Il vento di ieri, anziché spazzare il cielo, lo ha annuvolato: Italo spera che il campo non si allaghi, ma lo steccato non potrà che marcire di più e sotto la perdita in casa c'è già un pentolino. Immusonito sulla sedia, dopo aver dato da mangiare alle bestie, apre un libro, mette su il caffè e non perde d'occhio la pioggia che sferza la terra e le patate. Verso le tre il cielo smette di fare cagnara e il contadino si sveglia di colpo: il suo testone ha spiegazzate le pagine e ne ha danneggiato il bordo. Pulendo in fretta la tavola dal caffè versato e mettendo da parte i libri con cura – non sopporta che si rovinino –, si dirige verso la porta: il sonnellino fuori programma gli ha lasciato la bocca impastata e lo stomaco pesante. È quasi abbagliato, stordito, dalla luce del sole riflessa dagli alberi; l'aria frizzante è riempita da un corvo sul tetto e da voci lontane che vengono dal bosco. «Enrico!» le voci, imperterrite, continuano, aumentano e solo ora Italo ricorda che Enrico è andato con la moglie e il figlio a scegliere le sementi in paese, dall'altra parte della valle, e non sarà di ritorno prima di sera. Se fossero persone a piedi o a cavallo, Italo le avrebbe già viste sbucare
dal sentiero di fronte a casa sua. Sembra invece che si accontentino di restare invisibili dietro la barriera di alberi. Ad un tratto, quello che sembra un colpo di clacson le zittisce. «Un clacson? Ma se lassù non ci arriva nemmeno la strada». Quella della strada asfaltata era stata una battaglia di Enrico contro il Comune, che non intendeva farla costruire per due sole persone, due “matti” che vivevano ancora come gli antichi. Poi uno dei due matti si era sposato e il sindaco aveva ceduto per mettere l'asfalto non oltre l'ingresso al campo di Italo. Questi aveva sempre accompagnato l'amico nei vari uffici, ma lo aveva sempre fatto spolmonare da solo: a lui vivere “come gli antichi” andava, e va, più che bene. Intanto ricomincia a piovere: l'orizzonte di nubi grigioviolette, che circondavano l'occhio di cielo sopra la casa e i campi, ha smesso di essere orizzonte. Poi viene la nebbia e Italo lascia Speck nella cuccia a mugolare; una nebbia opaca, che cancella le figure e smorza i suoni. Una luce arancione filtra tra le persiane e lo sveglia. Italo lava via in modo approssimativo il sonno dalla faccia e mangia qualche biscotto secco, pur non avendo fame, come al solito. Prende la porta deciso prima di tutto a riparare la falla nel tetto: il temporale di ieri ha fatto un macello e il pentolino non ha tenuto. A dispetto della luce che lo ha svegliato, lo sorprende una pioggerellina fine e silenziosa. Non c'è nessun'alba. A svegliarlo è stato un lampione sistemato di fronte alla finestra di camera sua, dall'altra parte della strada che si inerpica, nera, liscia, fino a chissà dove. C'è un'edicola al posto della sua rimessa e, lì davanti, due uomini scaricano da un furgone acceso pacchi di giornali e riviste, illuminati dalle lampadine accecanti di una lavanderia a gettoni aperta tutta la notte. L'insegna luminosa della farmacia dice che sono le 4, i gradi 12 e oggi è il 19/05/2014. E dice Benvenuti. Matteo Valentini
Il coltello a Cristina
Apriva le dita. Il coltello, lama pieghevole, manico in legno, aperto, pesava, sei pollici, pesava sul palmo della mano. Alcuni minuti prima qualche raggio era partito da una stella, portandosi dietro informazioni dappertutto. Era stato filtrato, rifratto, riflesso, fino a raggiungere il coltello che
adesso splendeva, la lama a filo doppio, il legno rosso. Qualcuno lo aveva lasciato lì, sul ciglio della strada, e lui lo raccoglieva, e apriva le dita per darlo a qualche raggio venuto dal sole. Ora meccanicamente lo metteva in tasca e riprendeva il filo dei suoi pensieri e del suo cammino, dove
Prossa Nova quel ritrovamento luccicante li aveva interrotti. Percorreva i suoi ragionamenti come percorreva la strada, lasciandosi andare, senza sapere dove gli uni o l'altra lo avrebbero portato. Negozi, insegne, automobili, asfalto, mendicanti, passanti ingiacchecravattati, pensionati, mamme e cani, mamme e bambini, l'aria calda e illuminata, dovunque si girava era mattina e città nei loro segni più evidenti. Che ore erano? «Circa le dieci. Grazie, sa quando chiude la biblioteca? A mezzogiorno, prestiti fino alle 11 e 45». Era entrato dal portone e si rivolgeva all'impiegato nella guardiola. Dall'atrio una scala risaliva l'edificio facendosi strada nel cemento, appoggiata alla parete per un lato, chiusa per l'altro da una balaustra, voltandosi e rivoltandosi nell'incavo planimetrico che qualche architetto le aveva riservato fino al secondo piano. Ecco il salone: un piccolo Cristo stava inchiodato al muro, la cultura ben ripartita e ordinata sugli scaffali, gli studenti preparavano gli esami per farsi posto nel mondo, il loro posto di lavoro. Ogni cosa diceva e diceva, il suo sguardo attentissimo a decifrare il lessico del mondo. Vedeva i libri e li culturizzava, vedeva Cristo e lo divinizzava, vedeva gli studenti e li lavorizzava, tutto assumeva il significato certo e rassicurante che la Storia gli aveva dato. Sul primo tavolo un libricino era rimasto aperto, lo prese in mano: «Gli insetti: introduzione allo studio dell'entomologia», il volume riproduceva decine di tavole realizzate a china. Aprì una pagina a caso: «L'ordine dei Ditteri (dal greco διςdue e πτερον-ala) è caratterizzato dall'avere un solo paio d'ali, o, per meglio dire, dall'avere le ali anteriori ben sviluppate e le posteriori... Svariatissima eziandio è la forma dell'addome, lo troviamo allungato e cilindrico nei generi Anopheles, Corethra, Mydas... L'addome finalmente, come il torace può essere privo di peli o ricoperto da fitti peli... Le zampe sono per lo più sottili e spesso molto lunghe, ora prive di peli, ora finalmente pelose... Delle ali, come ho già detto, sono solamente sviluppate le anteriori, le posteriori essendo... Le anteriori sono in generale ben sviluppate, essendo quasi tutti i ditteri buon volatori». Andava avanti a leggere, voleva farsi un'idea più precisa di questi Ditteri: «Essi partoriscono o uova, o piccole larve che si sviluppano nel corpo della madre... Le larve sono generalmente apode, il loro apparato boccale è destinato ora a masticare ora a succiare... Molte migliaia sonovi, al giorno d'oggi, di specie di Ditteri conosciute. Il loro numero va tuttavia sempre crescendo...». A questo punto la trattazione si faceva più accorata: «Anche fra i Ditteri quanti devastatori di messi, di prati, d'alberi, quanti ladroni d'orti e frutteti! Le larve delle Ortalidi
bacano le Ciriege, quelle delle Sifonelle le Noci, quelle dei dachi le Olive (fig.28). I Moscerini delle Enopote o Drosofile scialano nelle cantine sui mosti, i bruchi di alcune Cecidomie, delle Oscinidi, dei Verdocchi o Cloropsi fanno imbozzacchire le spighe. Il regno vegetale si vendica mitemente di tante offese. Con gli acri aromi delle foglie di Piretro intorpidisce per un momento le Zanzare. Le foglie delle Dionee Muscipule dell'America del Nord, appena un moscerino vi si posa, con bruschi moti si serrano, a guisa di trappole, e più il moscerino vi si rimena dentro, più stretto rimane acchiappato». Fuori era preso a piovere, e lui si lasciava prendere da ogni piccolezza, addomi piriformi, ali nervate, stami e stimmi, Verdocchi e Cecidomie, il fascino disegnato di quel mondo in miniatura. Era ora di chiusura: «Signori cinque minuti e si chiude». Dal portone corse fino alla pensilina per non bagnarsi. Salì sul primo autobus che passava. Si era messo per terra, accucciato di fianco al gabbiotto del conducente per guardare la strada che avanzava dal parabrezza mentre l'autobus lo portava un po' fuori città. Lui scese vicino al mare. Ora una scaletta lo conduceva in spiaggia, si tolse le scarpe e sollevò l'orlo dei pantaloni sopra le ginocchia, amava misurare a grandi passi il bagnasciuga, l'acqua verdina che mareggia, carezza la battigia, gli scogli che piangono, la pioggia che si perde nel mare. Ogni cosa che vedeva la sua mente la trasformava nel verso di una poesia. Non vedeva il mare, vedeva i simboli del mare, le figure del mare, il linguaggio del mare. La spiaggia libera di Pedona era soltanto quello, soltanto poesia. Prima di entrare aveva letto il cartello: «Spiaggia Libera di Pedona, adottata dalla società operaia cattolica “San Valnero Pedona”». Pensò che in un primo momento dovevano aver faticato a capire se erano operai o cattolici, quelli della società. Poi, naturalmente, avevano compreso: avrebbero accettato la loro condizione di operai sopravvissuti alla croce della vita, come Cristo. Ma sentiva che entrambi avrebbero potuto, avrebbero dovuto ribellarsi. Gesù avrebbe dovuto far lo sciopero della croce, decidere di non sopravvivere a tutto quel dolore. E invece ha voluto, ha accettato di resistere a ingiustizie e privazioni, lavorare da buon profeta 24 ore su 24, morire tutti i giorni, solo per trent'anni di contributi. Un weekend di ferie pagate tra Golgota e sepolcro e poi, pensava, era risorto: era andato in pensione dalla morte giusto il tempo necessario a rimpiangere una vita di sofferenze, trascurato dal commosso parentado. Così si era morto una volta per tutte, in ascesa: «Cristo aveva adottato la Storia, gli operai cattolici una spiaggia. Non dico che andare in pensione sia come risorgere da una vita schifosa,
Prossa Nova voglio dire che sono entrambi un modo stupido di accettarla». Lasciava la spiaggia un po' amareggiato. Tornò in città. Ora stava in una piazzola, seduto su un muretto, non pioveva più, quando uno sconosciuto gli si mise accanto con un libro aperto davanti al naso. L'altro cominciava a ridacchiare soddisfatto di ciò che leggeva, col fare indisponente di chi vuole a tutti i costi attirare la tua attenzione, lui guardava il cielo, e il cielo gli diceva che stava guardando un tramonto d'autunno: «Non c'è niente di più dolorosamente calmo di un tramonto d'autunno; sa chi lo diceva? Non so, me lo dica lei. Ma come, è Zola, non lo conosce, lo sto leggendo in questo momento, a lei piace leggere? Non molto. Cosa le piace? Il cinema. Oh, la settima arte, magnifico, che coincidenza, ma lo sa che io scrivo sceneggiature? Bello. Lei non parla molto vero, non ama fare amicizia, ha mai letto Flaubert, Flaubert dice che la parola è un laminatoio che affila i sentimenti!». A quella frase gli venne in mente il ritrovamento della mattina, il coltello affilato che aveva in tasca, se n'era scordato completamente: «lei mi ricorda un regista che conosco, pensi che il primo film che ho scritto, un po' dostoevskiano a dir la verità...», non lo ascoltava più, sentiva solo la sera, pensava alla sua giornata, al Cristo inchiodato, alla spiaggia, si infilò la mano in tasca e strinse il coltello. Era ora di andare: «Son già le sette e mezzo, è proprio ora che vada, be', la saluto, è stato un piacere! Piacere mio. Arrivederci! Arrivederci». L'altro si alzò dalla panchina, ma lui lo trattenne: «Aspetti, dimentica il suo ombrello». Si guardarono per qualche istante: «La mia sbadataggine certe volte, grazie, buona sera! A lei». Pensò a quante volte ciò che diceva agli altri non era che una forma d'autoerotismo. Volle stendersi e come abbassava la testa vedeva alzarsi un lampione, le sue due lampade enormi occhi posati su due coni di
mondo. Attorno a quei due fuochi centinaia di moscerini modulavano il loro ronzio, il loro canto d'amore, i maschi accelerando e rallentando il battito delle ali a seconda del gradimento che mostravano le femmine. In preda all'ebrezza tutti quei ditteri danzanti sbattevano sul vetro incandescente delle lampade. Storditi ed eccitati cominciavano a cadere. Li guardava incantato, a faccia in su. Una spirale roteante di minuscoli insetti svenuti iniziò a nevicargli dolcemente addosso. «La danza» pensò «non significa niente, la danza è solo danza». Ora capiva: si sforzava disperatamente di esistere senza rendersi conto che non si può esistere, è impossibile, poteva soltanto vivere. «È il motivo per cui moriamo», pensava «la morte arriva e ti dice “è troppo tempo che cerchi di esistere”, se provassimo solo a vivere non moriremmo mai». Capiva in quel momento che tutto si contraddiceva, le cose sbattevano tra di loro: «gli operai, la morte, Cristo, tutto, nel disperato tentativo di valere qualcosa, di significare, di morire». Avrebbe smesso d'essere qualcuno e avrebbe cominciato a vivere, finalmente. Prese il coltello e si decise ad aprirlo. Guardava la notte blu tranquilla, guardava il lampione, i moscerini ubriachi, le uniche cose in tutta la giornata che aveva vissuto davvero. Chiuse gli occhi, alzò il braccio, trattenne il respiro e si trafisse la gamba. La lama luccicante attraversava la cute, rompeva vasi, tessuti, grasso e vasi e tessuti fino a bucare le arteriole che si immettevano nella fascia fibrosa intorno al quadricipite, rotta dalla lama che si conficcava appena dentro al muscolo. Ora sentiva il cuore battere, il sangue fluire, la notte blu tranquilla, dolore, nessun significato, nessun pensiero, viveva e niente altro.
Prossa Nova è animata da: Amelia Moro Carlo Meola Matteo Valentini
Carlo Meola