Fischi di carta
POESIA DI CINQUE GIOVANI FISCHIANTI
PORTFOLIO
Fischi di Carta è una rivista mensile di poesia gratuita, indipendente ed autoprodotta.
La rivista nasce dall’idea di cinque studenti universitari genovesi. Conosciutisi nell’ateneo di Genova, decidono di unire le forze per dar vita ad un prodotto semplice e gratuito.
L’obiettivo è, fin da subito, quello di sostenere la letteratura ma, in particolar modo, la poesia, forma d’arte che oggi è poco
diffusa ed apprezzata, fino ad essere spesso dimenticata.
Inizialmente la rivista è completamente fatta in casa, stampata con piccole stampanti laser, ma oggi, essendo cresciuta la tiratura mensile, che raggiunge le 1100 copie, la stampa è affidata ad una stamperia di Genova.
Federico Ghillino Silvio Magnolo Alessandro Mantovani Andrea Pesce Emanuele Pon
a rivista viene fondata il 10 novembre del 2012. Da questo incontro, in un famoso caffè letterario genovese, nasce il primo numero dei Fischi di Carta, uscito a Genova nel dicembre 2012.
Poesie dei lettori
Ateneo di Bologna
11 - 2012
12
Fondazione
- 2012 N° 1 5 - 2013
10 - 2013
I PRIMI NUMERI
Federico Silvio Alessandro Andrea Emanuele
al numero di Settembre 2014 la rivista si amplia aprendo l’inserto Prossa Nova di prosa e racconti.
L’inserto è stato ideato grazie all’apporto di tre studenti di lettere genovesi
Amelia Moro
Matteo Valentini Carlo Meola
Prossa Nova è distribuito assieme alla rivista Fischi di Carta.
4 - 2014
6- 2014 7 - 2014 TG3
9 -
10 - 2014
LA DIFFUSIONE
Notte della Poesia, Pavia
Liguria
2014 Prossa Nova
www.fischidicarta.it
Festival Internazionale della Poesia Genova Amelia Matteo Carlo
Incontri di “poetica alternativa”
Liceo Linguistico Deledda
L’altra metà del libro Genova 2- 2015 3 - 2015
Invasione Poetica 3 - 2015
“Dalle origini della letteratura”
Liceo Scientifico Fermi
11- 2014
LA DIFFUSIONE
Fischi di carta
Baskerville Regular
a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x y z
A B C D E F G H I J K L M N O P Q R S T U V W X Y Z 1 2 3 4 5 6 7 8 9 0
Futura Medium
a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x y z
A B C D E F G H I J K L M N O P Q R S T U V W X Y Z 1 2 3 4 5 6 7 8 9 0
www.fischidicarta.it
L’ IDENTITÀ Logo e sito
ischi di carta, a partire da settembre 2013 è illustrato da : Sara Traina
Federico Ghillino Silvio Magnolo Alessandro Mantovani Andrea Pesce Emanuele Pon Amelia Moro Matteo Valentini Carlo Meola
LA PRODUZIONE
Poesie ed estratti
AMORE MIO
I nostri drammi personali scorrono come liquami nelle fognature quali più fluidi quali più solidi perché digeriamo tutto e giornalmente tiriamo lo sciacquone delle nostre vite. Sono vite di truciolato, compostabili, di carta riciclata. Vite fatte di materiali di scarto. E godiamocelo tutto il nostro squallore, senza paure, che intanto la Lanterna continua a girare, e conduce nuovi eroi a nuovi porti. Lasciamo a loro la gloria, lasciamo a loro i viaggi, lasciamo a loro le esperienze, perché forse non sapremo manco che farcene. Noi stiamocene qui, a togliere la polvere dai pavimenti, a stare attenti che non rimangano peli nel lavabo, o dopo il bidè. L’importante è restare insieme.
Fischi di carta
Federico Ghillino
INCREDULITÀ
Apriti cielo e il cielo s’è aperto e mi ha distrutto; non più larve di bandiere seguitare a svolazzare non più tempesta o pietra; non siete la città – un mosaico di uccelli e una sfera di mare tra il cordame dei conosciuti. Di me ricorda solo il gran rumore di canne al porto antico tubi senza foglie le tibie delle barche e il mio osso battuto dallo stesso legno: una resina di Genova. Più forte crescerà la lacrima – per gli increduli –incredula chiarezza di Cristo
Silvio Magnolo
Fischi di carta
CONCHIGLIE
Come queste conchiglie sminuite sotto il ritmico sciabordio del mare indefesso nei saliscendi, nelle sue ascosità e visioni, con le grinze addentellate e saleggiate da forze panerosive; ecco, come le conchiglie, alcune pure sbrindellate, sono trascorsi i miei giorni umidificati a volte dal balsamo alternato del flutto incandente, altri sotterrati in oblii di grani. -e nel guardarle, metterle in fila come un bambino visposo, aderente alla ludicità litorale, naturalmente edotto al movimento rituale, prima che la mamma mandi a chiamare. Vorrei prenderle e ascoltare infiniti murmuri e brontolii di chi fuori dal mio mondo, puntellato da poche stelle notturnali, ha ancora qualcosa da denunciare. E ascolterei tutto, sì, ascolterei interessato, lo sguardo perso, sfissato sui rivolii cresposi del vento. Ascolterei, ma senza lasciare uscire quelle bocche disobbedienti che alcuni Dei chiusero nelle concavità
minute dei miei giorni zigrinati, in cui i pesi, giocosamente, anche loro li ho lasciati, cerchi sull’acqua.
-O conchiglia, mia conchiglia lusso e meraviglia della battigia, sei l’antidoto carapaceo al becco impertinente del gabbiano che gioisce nel beffare chi non ha ali, sei l’ostico ammonimento di ciò che dentro sento, anche ora, anche bambino -ricordo immutabile del tempo disorientante, quando incalzoso a volte sbilenca i nostri giorni, che, da uomini, siamo chiamati a raddrizzare.
Fischi di carta
Alessandro Mantovani
GENOVA
Buio nelle calate portuali le barche lasciate a pendere. Tutto, sotto l’alito della salsedine, s’alza e poi ripiega. Una risacca cadenzata e libera bagnata dalla prima luna che cade tracimando tra le stelle. Un’altra s’intravvede incastonata nell’ascensore della torre secoli di risveglio pendolare e riposo delle gambe legnose delle galere e dei loro rumori. Genova oggi è il diretto partito in ritardo e il suo capotreno consumato dal ritmo costante e quotidiano. È la cadenza cantilenante del pescatore nodoso prosciugato dalla tassa sul petrolio. È il tassista Caronte e le sue notti a combattere con gli sbronzi sperando di bere l’ultimo chilometro che lo donerà alla pensione. È l’autista che chiude un occhio al passeggero senza biglietto. Genova e le sue lune, Genova e i suoi passanti, Genova e le sue creature, Genova immobile e seduta sulle panchine limacciose e increspate del suo stesso sale. Genova basta e avanza non occorre altro che io vi dica.
Fischi di carta
Andrea Pesce
Ad Alberto Calderòn, Ad Alessandro
Oggi dirò di noi, chi siamo cosa siamo diventati, quello che forse dopo tutto il tempo saprà restare.
Non siamo più fatti d’acqua, niente ora è liquido, e i giorni scivolano scivolano addosso: siamo quasi diventati come scogli spigolosi, pietre d’angolo per altre pietre.
E respiriamo scrivendo buchi -i buchi che abbiamo nell’animae lasciamo che in noi si allarghino a dismisura, fino a fondersi: per la felicità non c’è più pelle.
Colmiamo i buchi da noi tra di noi sempre a cercarne di nuovi per capirci per riempirci; siamo vivi così a macchie come un cielo di nuvole trapassato qui e là da raggi di sole, di luna.
Oppure noi siamo solo la pioggia che crivella il cielo -soltanto possiamo aspettare di diventare pozzanghere per essere schizzati calpestati per caso per gioco -insieme.
Un poco vuoti, senza paura dei buchi neri, siamo un poco più vivi tra noi nei nostri silenzi o negli sguardi che colano lacrime sull’asfalto a lasciare qualcosa di noi sulla strada per riempire con ancora un po’ di noi quelle spiaccicate pozzanghere che siamo diventati -siamo un poco più vivi di chi corre di fretta, e senza vedere inciampa
in noi, ma non si volta: non è per lui ciò che sta a terra, lui che vola sui missili ciechi di sogni aspirazioni, vede la meta e dimentica il viaggio, ignora i buchi neri che gli sfrecciano accanto.
Non ha lo spazio non ha il tempo. Non ha il tempo e dice parole una dopo l’altra -tante ne conosce, studiate nelle scuole migliori viste sopra i migliori vocabolari-
una dopo l’altra di fretta, ma ancora non sa chiamare mai ogni cosa con il suo nome vero: parla per vivere o per esser vivo, teme il nascondiglio del silenzio
-il nostro rifugio quando non ci son più parole da dire d’amore di rabbia quando da dire c’è niente che valga la pena o il suono della voce di noi che parliamo già tanto che il silenzio è un ricordo.
Non siamo mai veloci, mai corriamo chissà dove, è qui il nostro mestiere dietro ogni angolo, filtrare la luce dal cielo e farla annusare toccare, discernere il buio, dire che è reale;
sono nemiche a questo tempo umano le nostre anime lente silenziose pesanti come macigni sulle spalle voltate del mondo che prosegue, che di noi non può che prendersi gioco.
Ma siamo ancora noi gli scogli
a frangere la corrente, regalarle direzione: con lei facciamo curvi gli spigoli per non fermarla mai per sempre e solo i sassi ci restano, s’infrangono
nel nostro muro, come fossimo ferme barriere per i giorni, o scolapasta infaticabili, e anche oggi soltanto non dobbiamo arrugginire -e si sopravvive: ci dobbiamo accontentare dei sassi.
GLI SCOLAPASTA
Emanuele Pon
Fischi
di carta
DOMENICA DI PIOGGIA
...Ma ora sai come questo si dimentica: perché hai davanti, colma e inobliabile, la coppa delle rose che gli estremi ha in sé dell’essere e del declinare...
Die Rosenschale, R. M. Rilke
Un, due, tre… scivola la maglia sui ferri… quattr, cinq, sei… non devo perdere il conto… sette, otto, e nnnove… sollevo lo sguardo, forse per un rumore, solo per un attimo i miei occhi ripercorrono la stanza odiata, quel che basta per notare una ragazza ossuta, malamente accomodata nella poltrona a roselline, chiaramente sulle spine. Ecco, che sciocca, per un istante ho sperato fosse Andrea. So che è ridicolo, ma non ho potuto evitare di pensarlo. Otto… nove… ero a otto o ero a nove? Ho perso il conto. Del resto, non mi stupisco che la ragazza appaia così a disagio, quella vecchia poltrona è tremendamente dura e scomoda. Le roselline sullo sfondo color senape sono come svaporate, il colore dilavato, restano sagome scialbe come pallidi fantasmi sull’imbottitura quasi inesistente. Comunque, in assenza di rose vere, rose fresche, altro non mi resta: queste sbiadiscono forse, ma non appassiscono. La ragazza è un’adolescente goffa, con gambe e braccia troppo lunghe, tutta gomiti, gli incisivi un po’ distanziati rendono il suo poco spontaneo sorriso vagamente ebete. È davvero a disagio, così, per garbo, le chiedo: «Com’è oggi il tempo? C’è il sole?» ma non ascolto la risposta, perché in fondo non mi interessa poi tanto. È così spossante ricevere visite e trovare argomenti di conversazione… solo se venisse Andrea mi importerebbe, ma so che lui non verrà. O forse verrà. Ma, davvero, è meglio non pensarci, o resterò troppo delusa. Poi mi dico che se il giorno è bello forse lo vedrò entrare insieme ad un raggio di sole, con un mazzo di rose rosse, e lui dirà: «Andiamo, sono qui per portarti via!». Rimpiango di non aver ascoltato la risposta della ragazza ossuta, e poi non sono neppure certa di aver davvero posto la domanda, non lo ricordo. Così chiedo: «Com’è oggi il tempo? C’è il sole?».
FINO GIÙ
Che poi, secondo me, la colpa di tutto quello che successe spetta a quell’imbroglione di Robert. Ci eravamo accampati in uno spiazzo per l’atterraggio degli elicotteri, un fazzoletto di erba verde con uno strato di terra sottile sottile, posto per piantare i picchetti ce n’era a malapena: non avevamo trovato di meglio prima che facesse buio. Per arrivare al rifugio di quel malnato di Robert eravamo dovuti passare attraverso una strada ripida ed infame, ma era ancora il primo giorno e l’entusiasmo ci alleggeriva il passo. Robert ci aveva accolto sulla soglia della sua baita dicendo che sì, il primo pezzo è duro ma dopo: «La Val Codera si aprirà di fronte a voi, in tutta la sua bellezza, con splendidi sentieri in una meravigliosa cornice naturale». Sembrava uno di cui fidarsi: la sera aveva cantato con noi attorno al fuoco di bivacco, il giorno seguente ci aveva indicato il sentiero, accompagnandoci per un tratto di strada. Si era pure portato un cagnolino piccolissimo e sgambettante che poi aveva infilato nella tasca superiore dello zaino, con il musetto che spuntava fuori. «Addio, buona strada!» e noi, scemi: «Buona strada, buona strada!» non c’è che dire, ci aveva fregati proprio a meraviglia.
Prossa nova
Amelia Moro
Italo si alza dal letto che il gallo ha appena detto la sua. Si muove nella semioscurità del corridoio, impreca scontrando contro lo spigolo di qualcosa e si infila in bagno. Confuso dalla luce elettrica che fa a botte con le palpebre, manca la tazza e, dopo essersi inumidito la faccia, confonde l’accappatoio con l’asciugamano. “Ti lavi come i gatti” lo aveva sempre rimproverato sua madre. Inzuppa uno o due biscotti nel caffelatte, tanto per dirsi di aver fatto colazione- fin da piccolo non era mai riuscito a mangiare la mattina presto, neanche quando l’alba gli era ormai diventata famigliare. Chiusa la porta dietro di sé, va a prendere nella rimessa la zappa per preparare il terreno alle patate e intanto respira l’aria ferma, ancora fredda e umida, che sa di bosco. Il lavoro oggi è più duro di ieri: Enrico, che abita cento metri più in basso, ha da fare con le bestie -sta per nascere un vitello- e non può aiutarlo a dissodare il terreno.
A mezzogiorno si fa vivo: «Ou, Italo!» «Arrivi quando è ora di andare a mangiare»
«Eh è nato che è poco, ma è magro: peserà sui sedici chili» «Eh...» fa Italo continuando a zappare. «Ora vado a casa che quell’altra mi ha fatto lo spezzatino, arrivo alle tre?» «Fai pure, io alle due sono qua». Enrico è un brav’uomo, ma è pigro quando si tratta di mettere patate: un passo una patata, un passo una patata un passo una patata passo patata passo... certo, è noioso, ma dopotutto quel campo lo hanno in comune ed è giusto che ci lavorino entrambi, allo stesso modo, dato che poi si fa a metà. «Lo diceva papà -pensa Italo mentre la minestra si scalda- “le società sono belle dispari e in tre si è già troppi”».
Estratto da UN MECCANISMO FRUTTUOSO
Il sole di lì a poco si sarebbe immischiato tra gli alberi della SemeDiMela, l’azienda produttrice di frutta che dava lustro all’industrioso centro di Campedola, e per la città operaia la giornata non sarebbe iniziata, perché due ore prima lo aveva già fatto. Immigrati bianchi, gialli, neri e caffelatte, in schiera, avevano già abbandonato i ruderi su tre piani che l’azienda affittava loro, si erano già stropicciati i vestiti addosso, a manate, per asciugare l’umidità di inizio settembre, erano già stati trasportati dai “caporali” ai campi, ognuno al proprio, e mentre Paolini pensava tutte queste cose, sbracato nel sedile dell’auto di pattuglia, avevano già due ore di raccolta nelle braccia.
Paolini stava accanto al suo collega, Vuolo, che teneva il volante con la mano sinistra e con la destra reggeva un pacchetto aperto di prugne secche, in cui affondava prepotentemente il muso. Ogni tanto, Vuolo rompeva il silenzio nella vettura e chiedeva a Paolini se ne volesse uno, di quei frutti molli e raggrinziti come il corpo di una vecchia e Paolini sceglieva con attenzione quello più piccolo, stando accorto a non confondere l’olio di cui era ricoperta la prugna con la saliva del collega. Pur essendo le cinque del mattino, il sudore appiccicava la divisa al corpo dei due carabinieri, soprattutto a quello di Vuolo, che era il più grasso, e colava sulla fronte liscia di Paolini percorrendola dall’attaccatura alta dei capelli biondi, scartando le sopracciglia sottili, fino alla punta del naso diritto ed ossuto.
Estratto da
BENVENUTI
Prossa nova
Matteo Valentini
“Tutte le più belle storie iniziano da una finestra di mondo”; senza la tenda mai. Non mi eccita l’idea che qualcuno possa vederci. Chiudo la porta a chiave. Chi sa se qualcuno anche loro da qualche parte nell’edificio stanno facendo l’amore. Mentre mi svesto mi guardo allo specchio e il mio corpo è lungo, sensuale, il mio viso è candido, dicono tutti che ho un viso candido, ispira fiducia, ispiro bianchezza. La mia pelle è bianca. Nuda. Come la finestra che non dà fuori ma sul vuoto squadrato che attraversa gli appartamenti concluso ai lati dal cemento di altre stanze, coperto in alto da una vetrata, e la luce si assottiglia prima di cadere giù. Milo sul letto mi guarda, è così bello. Quando l’ho conosciuto ho pensato fosse bello, ho pensato fosse pazzo e che mi avrebbe fatto volare via da tutti.
China. All’inizio lo trovavo arrogante, ma è così fragile, non sa cosa vuole dire amare davvero. Milo pensa che l’uomo si sia eretto per errore nel processo evolutivo, dice che il pensiero è disonesto e la logica una bugia rassicurante. Io so che l’amore è un bisogno della mia coscienza, una parola che vola leggerissima mentre lo sento sulle labbra, sul palato duro, l’amore va baciato intensamente senza paura di soffocare o di affliggere. Affermazione o negazione, dentro o fuori il sentimento puro, Milo questo non lo capisce ma io ne ho bisogno fino in fondo. Ad occhi chiusi. Le mie emozioni sono profonde, le mie emozioni sono sincere. Gli voglio bene, a volte lo amo davvero, stare con Milo è come una droga e non so farne senza. Ma una volta ricordo abbiamo litigato ed io lo ho odiato così tanto e sono uscita di casa e ho preso il treno; quel giorno ho sognato che forse andavamo troppo a largo. Milo alzava un muro di mattoni rossi. Magari una scala, dei pioli, un incantesimo. Ho pianto. Anche lui ricordo mi faceva arrabbiare, litigava sempre. Così ci siamo lasciati ma adesso siamo amici e ci vogliamo bene davvero. A volte mi sento come fossi inseguita da un treno. Io corro forte, corro verso il mare, e mi viene sonno.
Estratto da IL COLTELLO
Apriva le dita. Il coltello, lama pieghevole, manico in legno, aperto, pesava, sei pollici, pesava sul palmo della mano. Alcuni minuti prima qualche raggio era partito da una stella, portandosi dietro informazioni dappertutto. Era stato filtrato, rifratto, riflesso, fino a raggiungere il coltello che adesso splendeva, la lama a filo doppio, il legno rosso. Qualcuno lo aveva lasciato lì, sul ciglio della strada, e lui lo raccoglieva, e apriva le dita per darlo a qualche raggio venuto dal sole. Ora meccanicamente lo metteva in tasca e riprendeva il filo dei suoi pensieri e del suo cammino, dove quel ritrovamento luccicante li aveva interrotti. Percorreva i suoi ragionamenti come percorreva la strada, lasciandosi andare, senza sapere dove gli uni o l’altra lo avrebbero portato. Negozi, insegne, automobili, asfalto, mendicanti, passanti ingiacchecravattati, pensionati, mamme e cani, mamme e bambini, l’aria calda e illuminata, dovunque si girava era mattina e città nei loro segni più evidenti. Che ore erano? «Circa le dieci. Grazie, sa quando chiude la biblioteca? A mezzogiorno, prestiti fino alle 11 e 45».
Era entrato dal portone e si rivolgeva all’impiegato nella guardiola. Dall’atrio una scala risaliva l’edificio facendosi strada nel cemento, appoggiata alla parete per un lato, chiusa per l’altro da una balaustra, voltandosi e rivoltandosi nell’incavo planimetrico che qualche architetto le aveva riservato fino al secondo piano. Ecco il salone: un piccolo Cristo stava inchiodato al muro, la cultura ben ripartita e ordinata sugli scaffali, gli studenti preparavano gli esami per farsi posto nel mondo, il loro posto di lavoro. Ogni cosa diceva e diceva, il suo sguardo attentissimo a decifrare il lessico del mondo. Vedeva i libri e li culturizzava, vedeva Cristo e lo divinizzava, vedeva gli studenti e li lavorizzava, tutto assumeva il significato certo e rassicurante che la Storia gli aveva dato. Sul primo tavolo un libricino era rimasto aperto, lo prese in mano: Gli insetti: introduzione allo studio dell’entomologia, il volume riproduceva decine di tavole realizzate a china. Aprì una pagina a caso: «L’ordine dei Ditteri (dal greco δις-due e πτερον-ala) è caratterizzato dall’avere un solo paio d’ali, o, per meglio dire, dall’avere le ali anteriori ben sviluppate e le posteriori...
Carlo Meola Milo Karoli
Estratto da DANIA
Prossa nova
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Fischi di carta è illustrata da: Sara Traina
Fischi di carta è fondata ed animata da: Federico Ghillino Silvio Magnolo Alessandro Mantovani Andrea Pesce Emanuele Pon
Prossa Nova è fondata ed animata da: Carlo Meola Amelia Moro Matteo Valentini
Fischi di carta è curata graficamente da: Beatrice Gobbo :
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