Prossa Nova
n° 7 Marzo 2015 Genova
INSERTO DI PROSA DELLA RIVISTA POETICA Fischi di carta
EDITORIALE Si è molto parlato del romanzo Il cardellino di Donna Tartt. Innanzitutto, perché è stato vincitore del premio Pulitzer 2014; e poi perché l’autrice ha pubblicato al momento solo tre libri, a distanza di ben dieci anni l’uno dall’altro. Anche quest’ultima fatica (come del resto le precedenti) ha riscosso un grandissimo successo di vendite e attira l’attenzione dagli scaffali delle librerie con la sua mole notevole di 892 pagine. Eppure, Internazionale ha riportato una statistica secondo cui: «il 55 per cento degli utenti che ha scaricato il romanzo della Tartt come ebook sul lettore Kobo non è riuscito ad arrivare alla fine del libro.». Forse quello che ha scoraggiato i lettori – e che lo rende così difficile da classificare - è una certa discontinuità del romanzo, che oscilla tra toni diversi, non sempre efficaci allo stesso modo. La trama prende le mosse da un attentato terroristico che ha luogo all’interno di un museo: il tredicenne Theo è uno dei pochi sopravvissuti. La scena della catastrofe dovrebbe essere drammatica e coinvolgente, invece avanza con un ritmo lento, a tratti inceppato. Poi, gradualmente, qualcosa nel romanzo si scioglie: lo stavo ancora criticando e già iniziava a piacermi. Il meglio sta nella parte centrale: il periodo di Las Vegas. La Tartt ha dichiarato in un’intervista che quei capitoli non facevano parte del piano originario del libro: «Capitai a Las Vegas per caso. Non volevo andarci veramente:
avevo dei pregiudizi. Ma invece ho imparato una lezione: a volte proprio le cose che non vuoi fare sono quelle che ti servono. È stato meraviglioso. All’Hotel Casinò Bellagio c’era una vera mostra sugli Impressionisti francesi. Dentro il casinò con la scenografia ben nota, c’è questo vero museo. Il confronto tra tutto quel mondo artificiale e le vere opere d’arte europee mi ha fatto scattare qualcosa dentro». L’aria grigia e densa di pioggia di New York, con le sue malinconie, lascia spazio ad una luce bruciante, una luce che «si arrampicava ed esplodeva tra le nuvole selvagge del deserto – un cielo sconfinato, blu acido come in un videogame...». In questa città folle, carnevalesca, grottesca -metafora eccellente ed esasperata delle contraddizioni della cultura occidentale- la Tartt segue Theo nella sua disperazione, nel suo vertiginoso desiderio di oblio, nell’amicizia intensa, a tratti morbosa e autodistruttiva, con il socio Boris. Lo segue nei lunghi pomeriggi dei due adolescenti bambini, trascorsi con una bottiglia di vodka in un parco giochi arroventato, consumati in una spettrale libertà che significa solo abbandono, e qui la sua scrittura si fa intensa, nervosa, ed efficacissima. Sul finale le pagine movimentate da spy story stonano con le altezze precedenti, ma ormai le perdono tutto.
Amelia Moro
FINO ALL’ULTIMO POMODORO – À BOUT DE SAUCE Non fare il fesso, Michel! No, rimango. Sì, sono stufo. Sono stanco. Ho voglia di dormire. Sei pazzo, monta. No, tanto riuscirò a salvare la testa. Quello che mi secca è che non dovrei pensare a lei... «...e non ci riesco.» Mario butta fuori fumo e parole, sparapanza teso sul divano, ma la pessima connessione wireless del suo vicino di pianerottolo immobilizza Belmondo mentre raccoglie da terra la pistola e qualcuno, da qualche parte, pigia il campanello.
Mario si riscuote, maledice lo streaming, nonostante apprezzi quegli involontari fermo immagine, e va alla porta sbuffando (apprezza meno i campanelli). Armando ha occhiali cerchiati di rosso marrone e nero, chissà a chi li ha fregati, e prima dei piedi nella stanza
Prossa Nova
1
entrano loro, gli occhiali, con tutta la testa ed il collo. I capelli sono rimasti un po’ indietro, ma arrivano comunque prima dei piedi, che sempre incespicano e ravattano sul pavimento, nell’asfalto o per la via. «Basta con questo Belmondo, basta. Spegni lì. Il Bruciato ha accettato.» «Ottimo. E quando...?» «Adesso, adesso. Dai Mario, su muoviti che sono qui sotto.» «Dopotutto sono un fesso, comunque devo farlo. Devo farlo.» Mario si infila la fronte nel borsalino, così che di lui spunti solo la sigaretta, e scende le scale con Armando che scalpiccia dietro. Il Bruciato una volta lo hanno chiuso dentro alla macchina in cui si era imboscato e hanno dato fuoco a tutto. Imboscata a un imboscato. Ora la sua faccia è come plastica sciolta, soprattutto intorno agli occhi: per questo porta Carrera scuri anche se piove, come oggi, e una fitta sciarpa nera anche se è Agosto, come oggi. Li accompagna dal boss insieme a due marocchini che hanno un rigonfiamento sotto le camicie azzurre e bianche, lì dove stanno le pistole, sfiorate ogni volta che si incontra una porta aperta o un crocicchio. Si fermano davanti a un negozio di frutta e verdura, evidentemente una copertura, ed entrano. In fondo stanno Mario e Armando. «È inutile, sei proprio un bruciato. Quante volte te l’ho detto di non far stare in fondo gli ultimi arrivati: tienili sempre d’occhio. Ma d’altronde tu ti riempi il cervello di merda e guarda che occhi – l’ometto corpulento molla uno schiaffo al Bruciato e gli fa cadere gli occhiali – guarda che occhi! Dimmi te se uno si deve ammazzare così. Almeno oggi non fai quel verso con la mascella. Se non fossi tu l’unico in mezzo a tutti ‘sti negri a capire quello che dico... – lo strattona, gli strappa via la sciarpa, lo calcia via – Vattene di là, c’è da scaricare, e portati dietro i due marocchini». Il boss si gira verso Mario e Armando e sbuffa. Solo ora Mario si accorge che il boss, quando fa fffffffffffff o quando è costretto a pronunciare le /ɛsse/ o le /ttʃi/, emette un sibilo con la lingua, troppo grassa per stare nel suo bocchino. «Cosa ridi tu, con quel cappello? E perché lo porti così da scemo? Sarai mica come quel bruciato del Bruciato? Nascondi qualcosa?» «No no, non ho mai preso fuoco io, boss. Questo è il mio cappello da missione» «Del resto se a me vi ha raccomandati lui un motivo ci sarà... Tutti a me». Armando sente puzza di cacciata e interviene:«Ma no, boss, non lo prenda male. Mario è un po’ strano, ma è lavoratore, lo terrò d’occhio io». Il boss lo guarda scettico: «A nessuno si nega una prova, neanche a due mentecatti. Tra un’ora 2
arriva un carico al porto. Tra un’ora e mezza lo voglio vedere qui sotto, nel magazzino, chiaro? Paga 50, da dividere». Mario risponde: «Io non tocco mai la parte di un amico, questione di principio.» e fa un mezzo inchino con il sorrisetto ad Armando, che lo fulmina e gli tira un calcio nella caviglia. «Oh, giovane! Se ti sento dire ancora una volta una stronzata del genere – si accende il boss – il calcio lo prendi più in su e il piede lo offro io. Filate!». Dal sedile del passeggero a fianco ad Armando, che porta il furgone lontano dal porto, Mario butta continue occhiate circospette e si aggrappa ansioso a una vecchia P38, trovata una volta vicino a una grondaia. Passando in mezzo al mercato, i filoni di pane gli sembrano mitragliatori, le cipolle bombe a mano, i salami dinamite. Una signora, che vuole attraversare la strada, fa segno al furgone di fermarsi: Mario tira fuori la pistola dai pantaloni e gliela punta contro. Armando lo trascina nell’abitacolo per il colletto e gli urla: «Ma cosa fai con quel ferro, sei matto? Mettilo via!» «Fosse per te il carico qui dietro salterebbe col primo che passa.» «Mettilo via ho detto – lo colpisce sul collo – e levati quel berretto». Intanto la pioggia smette di tamburellare sul vetro del furgone tic tic tac tichi tica tac e inizia a randerrarlo tttututututtu, a mitragliarlo trrtrrrtrrtrrttrr, mentre il telaio del tergicristallo di destra si sgancia parzialmente dal braccio e martella il parabrezza tum tum tum. Mario riafferra la pistola. «Ooooh lo metti via o no?». Il furgone arriva davanti al magazzino del frutta e verdura e i due iniziano a scaricare le casse sotto la pioggia. Mario può sentire il whiskey di contrabbando tintinnargli fra le braccia. Prima di uscire dalla porta del covo e tornare al furgone, non si dimentica mai di squadrare l’intera strada e gli imbocchi delle vie che la traversano, per sorprendere una spia dietro ai cassonetti, un poliziotto in una cabina telefonica o un ladro tra le macchine in sosta. In questo imita i due marocchini, che sembrano attentissimi a non staccare mai la mano dal fianco destro, anche se poi tocca loro trasportare le casse tutte su un braccio. Armando gliene passa una di slancio e lo spigolo scontra contro il pollice: la cassa cade con la pioggia sopra a un tombino e si spacca, facendo rotolare fuori un centinaio di pomodori. Al colpo, i due marocchini fanno un salto e sollevano le mani dal fianco: da sotto le camice bianche e azzurre, quattro pomodori vanno ad aggiungersi a quelli a mollo sull’asfalto. Mario guarda sconcertato Armando, i marocchini, i pomodori:
Prossa Nova
«Pomodori? Dov’è il nostro whiskey? Dove sono le vostre pistole?». Armando lo fissa di rimando, ma i due marocchini, girate le spalle, scappano sotto la pioggia, spaventati un po’ dal farfugliare di Mario, un po’ dalla mazza con cui il boss li insegue, bestemmiando contro dio e contro i rubagalline.
Non c’è niente oltre a quello che si vede e Mario non farà mai facce amiche alla sua americanina traditrice, prima di dirle che è una schifosa.
GRAMSCI A TURI
riconoscono e tu non riconosci nessuno. Le tue persone invece hanno un modo tutto loro di definire il tuo volto, il tuo sesso, il tuo nome. E il tuo nome danza quando ti chiamano.
Al Teatro della Tosse, NiM e Gli amici di Zein, grazie.
Se accendono le luci sembra un corpo ben diritto. Se voglio posso capovolgerlo pensi, basta toglierti di dosso i suoi vestiti, chiuderne gli occhi e la bocca, ottundere quest’angolo di visuale acutissimo. La sala colloqui del carcere di Turi la fascia una luce, sul palco un tavolo, sedie, una piccola finestra nasconde il magazzino. Il più possibile non sapere cosa risponderai, il più possibile pensare a cosa sta facendo l’altro. Applichi la coscienza. Curvo sul tavolo. Tocca a te. «Sono stato arrestato l’otto novembre 1926.» Logica. Durante le prove una volta ricordi avevi lasciato aperta la porta sul retro, sentivi gli schiamazzi da fuori e ogni tanto il vento la spalancava. Avresti voluto scaricare la colpa, sarebbe bastato dire a qualcuno puoi chiudere quella porta? E non ti sentiresti più colpevole. «Avevo intenzione di raggiungere Genova.» Pedona ha un piccolo teatro amministrato, società cattolica operaia La Quercia Nera. Dalla porta lasciata aperta entrava una ragazza, ha un cerchietto che le tiene su i capelli e chiede di potersi fermare, le sopracciglia nere. Ema subito non ci ha fatto caso. Mentre vi seguiva stava in silenzio e ogni tanto dal palco potevi vederla sorridere, ricordi quella volta non ti sentivi naturale. Ema dice che non c’è bisogno di sentirsi naturali, è finto dice, il bello del teatro è che è finto. «Volevo partecipare a una riunione nel borgo operaio di Polcevera.» Dialogica. Dopo un po’ che stai rialzato cominci a sentirti poco bene. Prendi forma, significato, nome, professione, età, e ti stanchi facilmente. Tu vuoi qualcuno che ti conosca alla lettera, se sei famoso tutti ti
Matteo Valentini
«Il partito comunista russo doveva essere di esempio a tutti gli altri partiti che militavano nella terza internazionale.» Anche la sinistra nasce dalla destra pensi, fa parte del copione, negazione necessaria del discorso liberale. Così ti sembra che gli uomini di sinistra abbiano un piede dentro e uno fuori, credono a una massa giusta, fatta di uomini uguali ma tutti ugualmente fuori dal loro cuore e dal loro sesso. Gli uomini di sinistra esistono per metà. «La loro litigiosità.» Crudeltà. Come una ragazza che si copre il sesso con la mano, si riserva un po’ di chiusura al mondo. La ragazza bionda voleva vedere il magazzino, era affascinata dagli abiti di scena, e leggeva e rileggeva le targhette sugli armadi: imbottitura varia, intimo donna, cappelli unisex, vestiti etnici, toghe tuniche, donne in guerra, tute da lavoro, ghette, cappotti e impermeabili, foulard, donna: giacche e tailleur, maglieria lana e cotone, scamiciati da lavoro, abiti da sposa, sottovesti, sottogonne, gonne lunghe. Scampoli vari colori. In mezzo ai vestiti un coltello, il manico in legno, il legno rosso, tuo padre lo aveva prestato al teatro per uno spettacolo. Ecco dov’era finito. «Accadde che un ragazzo di nome Zamboni sparò un colpo di pistola a Mussolini.» Ti rivolgi a tutti, cambi interlocutore a seconda del pubblico che c’è. Parli a destra e a sinistra e se dietro non c’è nessuno non ha senso alzare troppo la voce. La sala colloqui del carcere di Turi sta nell’angolo e tu ti rivolgi alla platea sul lato opposto. Di qui hanno già il tuo corpo. Durante le prove ricordi la ragazza si era seduta in fondo. Ema lui si era affezionato. Ricordi per gioco
Prossa Nova
3
prendeva il coltello e lo piantava sul palco. Diceva: siamo tutti morti. «Fu sgozzato sul posto da un ufficiale fascista.» Geometria. Le persone, le vicende, le parole, il mondo sublimato su un palco. E il suo carattere effimero è ciò che naturalizza la finzione, ciò che nasconde le prove. E tu sei l’arma del delitto. Tutte le arti elevano la vita, allo stesso modo che custodisci gelosamente i ricordi e cerchi di dare una forma al tempo. Anche la geometria è in qualche modo romantica, ma in grado minore del ricordo custodito. «Tu forse non ne hai avuto la percezione ma l’ora è passata davvero.» Se la parola allontana la lettera, il teatro allontana i corpi. Esistere è così teatrografico, sotto i riflettori, su un palco perfettamente squadrato. E potresti capovolgere dialetticamente questa pièce, e il pubblico diventerebbe spettacolo sotto ai tuoi occhi. Forse c’è anche lei stasera pensi. Quando se n’è andata ti guardava con ammirazione, col fascino crudele di un atto mancato. «Cara Giulia, ancora nessuno ha deciso se aprile sia davvero il mese più crudele.» Ideologia. Il corpo in questo caso è una nevrosi, il grado massimo di svuotamento del senso, della storia, della legge, la tua forma smette di avere uno spessore e diventa simbolo, pretesto per dire la parola parlata: niente di più naturale del corpo, niente di più artificiale dell’aspetto. Come una donna che intrattieni ma non riesci a tenerla, spettatrice mentre tu l’aspetti. «Chissà cara Giulia perché le piccole cose si presentano e vivono con una forza, con una coerenza che le grandi cose, l’amore, le grandi idee politiche, non hanno?» Ema lo sa. E le donne anche loro si sentono registe di una vita che vorrebbero teatro. Recitare
sempre per non ammettere di aver manipolato il tuo corpo, per non ammettere la vigliaccheria di una parola recitata in eterno: für ewig. Le tue persone invece lo sanno chi sei. Tu lo sai bene chi sei. «Sì: Antonio Gramsci fu Francesco.» Rappresentazione. L’esistenza pura è come la lama di un coltello che ti penetra, è significanza, è una danza dove il senso oscilla tra la tua e la storia del mondo, tra essenza e simbolo, corpo e teatro. Non è trascesi ma discesa nei ricordi, nei pensieri, sensazioni e immagini di un linguaggio che parla la tua vita. E non esiste rappresentazione prima del pensiero, che in realtà è pensiero al quadrato. Giaci sul letto illuminato. «La mia pena: più di dieci anni di galera. Ma spira anche qualcos’altro...» Si accendono le luci e sembri un corpo ben diritto. Se voglio posso capovolgermi pensi, basta togliermi di dosso i vestiti, chiudere gli occhi e la bocca, scendere da questa vita a un metro da terra. Tu non vuoi essere ammirato, idealizzato, ogni volta che nella vita hai affascinato qualcuno era perché non trovavi te stesso di qua da un angolo di visuale tanto acuto. Non sei misterioso, interessante, affascinante: tu non sei l’atto mancato di nessuno. Questo teatro della vita non è giusto, è finto dice Ema, il bello del teatro è che è finto. Ti senti vivo ora, non permetterai più a nessuno di farti da regista e questo il pubblico lo deve sapere. Deve sapere che non esisti, che vivi che piangi che ami che fai l’amore; che sei. Se applichi la coscienza in fondo alla sala puoi vedere tuo padre, la ragazza bionda, Ema; senti dei saluti e vorresti dire grazie e batti le mani e riesci a pensare solo in verticale. Io. Sono. Milo. Ed è rimasta ancora un po’ di vita oltre queste parole.
Milo Karoli
Questo racconto chiude la Trilogia del coltello, pubblicata nei numeri 1 (Il coltello) e 4 (Caso Camille) di Prossa Nova.
Prossa Nova è curata e trascurata da Milo Karoli Amelia Moro e Matteo Valentini. Per contattarci e inviarci i vostri racconti scrivete a:
prossanova@fischidicarta.it
Sul sito www.fischidicarta.it apre la rubrica Prosse dei Lettori: il racconto di questo mese è Il Surplus di Francesco Tedeschi. Alla prossima Prossa!