Anni 50 babbo Rolando e mamma Gina
Le 100 pagine di Rolando una cara antica storia Rolando Orangi 5 settembre 1926 - 24 Settembre 2017
Scritto negli anni da Rolando Orangi adattato alla stampa nel 2018 da Marco Orangi & Anna Maria Pizzigallo
Le 100 pagine di Rolando
Prefazione Ho sempre letto con simpatia e ammirazione le sue riflessioni, le storie vere ed anche i racconti di fantasia. Rammento che mio babbo Rolando scriveva di suo pugno, sulle pagine riciclate dai miei quaderni di scuola e poi successivamente al computer. La tecnologia gli creava qualche imbarazzo ma non si è mai perso d’animo, lottando con quella strana macchina da scrivere che riusciva a fare cose incredibili…. Mi accompagna sempre il cruccio di non essere riuscito a raccogliere tutte le sue storie ed a raggrupparle prima che improvvisamente ci lasciasse. Certamente avrebbe accolto a suo modo il regalo di questo libriccino, con schiva canzonatoria soddisfazione, magari apostrofandomi: “vaia vaia bischeraccio, icche tu stai a perder tempo dietro a me..” Ringrazio per la collaborazione Anna mia moglie e mia cugina Laura che insieme a suo figlio Giacomo ha ritrovato alcuni scritti originali che sono riportati nelle ultime pagine. Marco Orangi
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Le 100 pagine di Rolando una cara antica storia Rolando Orangi 5 settembre 1926 - 24 Settembre 2017
Scritto negli anni da Rolando Orangi adattato alla stampa nel 2018 da Marco Orangi & Anna Maria Pizzigallo 2
Le 100 pagine di Rolando
Indice Vicchio Agosto 2003
pag. 4
Sfollati
Il cappone
pag. 92
Sale
pag. 44
La pelle di coniglio
pag. 48
pag. 39
Ricordi del babbo Gino e mamma Paola
pag. 6
Il gatto ha sempre fame
pag. 93
Bombardamento di Pisa Gli Alleati
pag. 48 pag. 51
La Nonna Beppa
pag 7
Gesseri
pag. 54
Il Rospo
pag. 94
Si torna a Pomarance
pag. 56
Fagottino
pag. 7
Gli Americani
pag. 59
Il Gatto
pag. 94
Assunto dagli Americani
pag. 61
La Mamma non c’è più
pag. 9
Firenze Liberata
pag. 71
La O di Giotto
pag. 96
Zii
pag 11
Memorie ed altri scritti
pag.78
La brevità della Vita
pag. 97
Parenti Bartolini
pag. 78
Gita fuori porta
pag. 13
Parenti Orangi
pag. 79
Dormo o mi destano
pag. 97
Fuga di Gas
pag 14
Originali
pag, 99
Casa nostra
pag 16
Chi Dice prima Pio
pag. 17
Scuola Ubaldino Peruzzi
pag. 20
La Sassaiola di San Niccolò
pag. 22
Tosca Minghetti di Pomarance
pag. 27
Bartolini Renato l’idraulico
pag. 29
Mussolini
pag. 32
Bombardamenti
pag 36
Oggi lunedi 20 gennaio 2014 pag. 80 L’Anima
pag. 80
Extra terrestri
pag. 82
Il Corpo
pag. 83
Il Bagnino (meglio la campagna)
pag. 84
San Pietro
pag. 85
Come ho smesso di Fumare pag. 86 Gino e Paola in Francia
pag. 87
La storia di Pattarino
pag. 88
Nomi veri nomi falsi o sbagliati
pag. 91
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Vicchio Agosto 2003 Siamo quasi a Settembre, un vento forte spolvera questi vecchi cipressi e querce secolari che non hanno visto acqua da tre mesi. Qui, sotto questa loggia del mio residence, siamo abbastanza riparati e godo di un ottimo panorama: è un bel posticino, atto proprio al riposo e alla meditazione. Lo abbiamo preso in affitto per il periodo delle vacanze, piccolo ma ben messo, cucina, camera, bagno e ripostiglio. Tutto nuovo, bei servizi, ottime rifiniture, grandi accappatoi e begli asciugamani in spugna bianca. Ad una trentina di metri in linea d’aria sotto di noi, ci sono un paio di famiglie che si divertono con i loro figli a far tuffi in una grande piscina, sono tedeschi e olandesi: l’acqua è piuttosto freddina ma a loro non fa freddo. Più lontano ci sono due campi da tennis, la pista per le bocce, alcuni tavoli da ping pong e altri giochi: costa, ma è un bell’ambiente. Passo il tempo in vari modi, come una passeggiata nel parco che mi ha fatto conoscere alcune piante che non avevo mai visto: “il giuggiolo”, tre alberelli dove si sono già formati i frutti, le giuggiole, che mi riportarono indietro di una settantina di anni, quando con dieci centesimi di lira l’ortolano ci dava una bella manciata di quelle bacche marroni che a noi ragazzi piacevano tanto. La tenuta di Casole, già residenza dei conti “Pecori Giraldi” in quel di Vicchio, patria di Giotto e del Beato Angelico, è circondata da ridenti vallate, con alti cipressi, boschi e vigneti. E’ situata ai piedi degli Appennini, dove le grandi marronete producono i più bei frutti d’Italia. Questo misto fra storia, arte, cultura, oltre all’aria fresca e pura, fa del Mugello un’oasi di pace e di bellezza, dove tanti artisti, poeti, pittori, scrittori si sono ispirati, creando con il loro talento artistico opere di particolare interesse. E’ quasi l’ora di cena, io disteso su una sdraio mi sono quasi appisolato e in questo riposante dormiveglia il mio pensiero vaga in lungo 4
Le 100 pagine di Rolando
e in largo per tutta la mia vita: ripenso a cose accadute in gioventù, ai mestieri che ho fatto ed a quello che non rifarei. Quasi un resoconto, un compendio della mia vita che non mi ha lasciato soddisfatto. Per dire la verità, non sono per niente orgoglioso di me stesso, non ho fatto niente di male, ma poco anche di bene: avrei potuto far di più e meglio. La mia vita, non l’ho guidata io, anzi la si potrebbe paragonare ad una palla di gomma lasciata andare giù per un sassoso e scosceso viottolo di campagna ed ad ogni sasso e buca che incontra la direzione cambia. Sono andato avanti per forza di inerzia, col solito tran tran senza lode nè infamia, ho sempre lavorato molto, un lavoro artigianale con poco guadagno e poca soddisfazione: cosi mi sono ritrovato vecchio, amareggiato e insoddisfatto per non essermi lanciato con l’aggressività necessaria nella vita, per non aver preso al volo certe occasioni che ogni tanto capitavano sia nel campo del lavoro, che in quello sociale, in quello avventuristico e anche dilettevole: avrei dovuto assecondare di più il mio istinto! Dovessi darmi un voto come a scuola potrei arrivare a sei. Sono nato un 5 di settembre di tanti anni fa, correva il 1926, costellazione zodiacale Vergine. Non mi intendo di astrologia e non credo che ciò possa influire sulla personalità, sul carattere di una persona: non credo nè a veggenti, nè a indovini, nè a cartomanti e compagnia bella, son tutti ciarlatani; ho conosciuto persone che pur essendo dello stesso segno, erano differenti in tutto, sia nel modo di fare sia nel modo di dire; credo in una disposizione, in un’indole naturale, chi buono, chi cattivo, chi è più intelligente chi meno, come in tutte le cose di questo mondo. Posso dire di me stesso che sono permaloso, scontroso, critico, polemico come tanti fiorentini, insomma sono un po’ uggioso; se la compagnia mi va a genio, mi piace socializzare. Siccome adesso sono anche avanti con l’età e un po’ influenzato, voglio scrivere in questo mio studiolo alcuni miei ricordi di quando ero giovane tanto per non annoiarmi; cercherò di fare come uno scrittore vero per esternare bene le mie sensazioni. Mi piacerebbe saper scrivere bene e farò del mio meglio, comunque credo che nessuno mai leggerà questa roba e se quando avrò finito e riletto mi sembrerà uno schifo, 5
butterò via tutto!
Ricordi del Babbo Gino e Mamma Paola Quando il tempo era bello, il babbo ci portava in cima al Monte alle Croci: in un quarto d’ora si arrivava in cima, poi ecco la mamma con la colazione per tutti, caffè e latte con qualche panino di lusso, come si chiamava noi, a volte imburrato, a volte con la marmellata, ma anche senza niente. Oggi cosa mangiano i nostri ragazzi? Se quello che si vede in televisione è vero, mi sembrano mescolanze un po’ schifose, quei sacchettoni di granturco soffiato, ma chi lo soffia? Lo mettono nel latte insieme ad altre robe, li chiamano cereali.. già ma noi siamo antichi, sorpassati, io credo però che a merenda una bella fetta di pane con l’olio faccia meno male di qualche merendina misteriosa con troppe vitamine, chissà cosa c’è dentro, non vorrei che i nostri nipoti facessero come le mucche pazze a forza di mangiare robaccia. Lassù dietro la chiesa, fra il Parco della Rimenbranza e le Porte Sante, alle sette la mattina non c’èra quasi mai nessuno, regnava una gran pace, una quiete straordinaria capace di suscitare un?atmosfera particolarmente suggestiva, uno stato di spirituale serenità. Un grosso albero era stato tagliato, li in mezzo a quel prato ed il moncone era proprio all’altezza giusta di un tavolo da picnic. Mettevamo tutto su quel ceppo e facevamo colazione, fra il cinguettio degli uccelli e il chioccolare dei merli. Seduti su quell’erba fresca respiravamo un’aria che oggi disgraziatamente non si trova più e mentre qualche campanile faceva sentire il suono delle sue campane, rendendo tutto più suggestivo e affascinante, il profumo intenso dei cipressi faceva dell’ambiente un posto veramente unico, una cosa che non potrò mai scordare. Mio padre, “Gino”, faceva il rappresentante di macchine per cucire, “la Singer”. Si sceglieva una zona di Firenze e poi strada per strada, come diceva lui, cominciava a battere agli usci. Il Babbo, era un bell’uomo, si presentava bene, si vedeva subito che era una persona a modo e cosi ogni tanto riusciva a vendere a quelle donne qualche 6
Le 100 pagine di Rolando
macchina, sempre a rate guadagnando la sua meritata provvigione.
La Nonna Beppa Avrò avuto sei anni quando il babbo mi disse, domani ti porto dalla nonna Beppa: io ero felice come una Pasqua e non vedevo l’ora di arrivare al giorno dopo per andare fuori con lui. La nonna Beppa, che in realtà era la mia bisnonna, ossia la mamma della nonna Livia, abitava in via Benedetta, una stradina nel vecchio centro di Firenze dove era nata nel 1854. Era una delle prime volte che mio padre mi portava a rimorchio, ero piccolo ma ricordo di una casa al pian terreno piuttosto buia, un corridoio appena illuminato da una debole lampadina conduceva in una camera dove un grande armadio e un cassettone di legno scuro facevano la loro parte a rendere l’ambiente ancor più tetro. La Beppa non era alta, una donnina grassoccia che la vecchiaia aveva trasformata in una cicciottella che si strascicava per quelle stanze; si chiamava Giuseppa Spighi, lei ebbe due mariti, il primo certo Rossi, il secondo Romanelli. Aveva lavorato come operaia alla manifattura dei tabacchi e godeva della sua bella pensione; da brava sigaraia aveva il vizio di tirare “su” il tabacco dal naso come si costumava all’epoca. Nel 1883 ebbe una figlia che chiamò Livia, la mamma della mia mamma che fu chiamata Paola. Nonna Livia ebbe dieci figli di cui tre morirono da piccoli, cosi rimasero tre maschi e quattro femmine, una di queste era mia madre. Durante la guerra 1915/18 il nonno fu arruolato come coscritto e tutte le volte che veniva a casa in licenza la nonna Livia rimaneva incinta, cosi raccontano le zie tanto per ridere e fare le buffe, ma era vero. Il Fagottino La Giuseppa, che da ora chiameremo Beppa, stava tornando quella mattina dalla spesa avviandosi piano piano verso casa, quando un fagottino sul marciapiede gli dette nell’occhio stuzzicandole la curiosità. Era un involto come se trovano tanti, magari con del sudicio dentro, 7
ma quel pacchettino con quella carta che sembrava e non sembrava!!!!!Boh! gli dette un calcio, lo raccattò, una fugace sbirciatina e lo buttò subito nella sporta della spesa, gli erano sembrati soldi! Tanti!! Accelerò il passo verso casa, non vedeva l’ora di arrivare per guardare meglio. Cominciò con trepidazione a svoltare quel pacchetto che si apri in una manciata di banconote: erano proprio soldi, ed erano tanti! Fu una cosa inaspettata, un imprevisto che mise la povera donna in uno stato di agitazione tale da non sapere più cosa fare, nel suo cervello mulinavano mille pensieri e mentre stava li a pensare a quello che gli era capitato, una scampanellata la scosse facendole balzare il cuore in gola: era mio padre che, trovandosi quel giorno nella zona di Via Palazzuolo, veniva a far visita alla nonna Beppa. Ah è lei Gino? Venga venga! (si davan tutti di Lei o del Voi, strani gli anziani). Per la nonna l’arrivo di Gino fu come il cacio sui maccheroni, perché non sapeva cosa fare la vista di tutti quei soldi, la annichilivano..... abbassando il tono della voce disse, piano piano, guardi cosa ho trovato, mettendolo al corrente e raccontandogli tutto dettagliatamente. Dalla sua voce si intuiva un certo patema d’animo, si sentiva in colpa povera donna per aver raccolto quei soldi, sembrava volesse togliersi di dosso quel peso, quella responsabilità e darne un po’ anche al nipote coinvolgendo anche lui nella faccenda; parlava piano come se avesse paura di svegliare qualcuno che stava a dormire, mentre mio padre sbigottito e incredulo contava tutto quel ben Dio: un paio di fogli da mille e altri da cento. La Beppa guardava suo nipote negli occhi cercando di intuire il suo pensiero, poi disse: icchè si fa Gino? “Senta Beppa, qui non c’è nè un nome, nè un indirizzo, sono quasi quattromila lire, facciamo una cosa, lei metta via questi soldi e non dica niente a nessuno, se fra una diecina di giorni nessuno li cerca e non ci sono novità vuol dire che li prenderemo noi. Va bene!! Disse la nonna più sollevata anche perché la soluzione pur sentendosi in colpa, andava bene anche a lei. Passò una settimana e mio padre tornò dalla nonna e trovò la novità il segreto non era più segreto e diversi parenti erano stati messi al corrente dell’accaduto. Il nonno Martino, marito della nonna Livia, che saltuariamente faceva visita alla suocera venne a sapere per secondo 8
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del fatto: la Beppa non si trattenne dal raccontare tutto anche al genero, cosi il nonno, uomo pratico e spicciativo, riuscì a farsi anticipare una somma; fu cosa facile anche perché la Beppa, quando poteva, aveva sempre aiutato finanziariamente sia il genero e anche qualche nipote e poi, una volta finiti quei soldi, si sarebbe sentita più tranquilla. Ed ecco il motivo delle frequenti visite dei parenti stretti, lei era sola, con una pensione più che sufficiente e credo che il nonno Martino e anche mio padre quando avevano proprio bisogno avessero imparato a bussare alla porta della nonna a farsi prestare qualche soldo: erano tempi duri e a volte sbarcare il lunario diventava difficile. Quando mio padre ricontò i soldi ne mancavano un bel po’, tanto da indurre anche lui a prendere la sua parte, sempre d’accordo con la nonna, e lasciare a lei il compito di aiutare chi voleva. Per noi deve essere stata una bella spinta se si pensa che un operaio dell’epoca poteva guadagnare dalle ottanta alle novanta lire alla settimana, un macchinista delle ferrovie prendeva trecentocinquanta lire al mese, le sigarette costavano da una lira a una lira e mezzo al pacchetto, una scatola di fiammiferi venti centesimi, un pollo cinque lire, un litro d’olio di oliva quattro o cinque lire, le uova un soldo l’uno. La Mamma non c’è più Tutto andava relativamente bene, ma uno schifoso destino si abbattè su di noi. Aveva ventinove anni la mamma, quando un malaccio la portò via in poco più di un mese. Correva l’anno 1934, andava in voga una canzonetta che la gente canticchiava continuamente, “Ramona”, che per me ha segnato il periodo più brutto della mia vita: fu una tragedia, procurò un profondo dolore a tutti. Facevo la terza elementare alla scuola Ubaldino Peruzzi in piazza S. Croce; quella mattina di gennaio sulla manica del mio cappottino grigio di lana spigata, come si usava, spiccava una larga fascia nera in segno di lutto. Il maestro parlò alla classe della disgrazia che mi era capitata, poche parole che non ricordo neppure, ma rammento i ragazzi che mi guardavano con un istintivo senso di commiserazione, di pietà che mi dava noia. Oltre al dispiacere per la grave perdita, mi sentivo come fossi alla berlina; 9
qualche compagno tentò di farmi coraggio chiedendomi cosa provavo, come stavo senza la mamma, peggiorando ancora di più il mio stato d’animo e la mia situazione, forse erano impressioni solo mie, ma sicuramente fondate. Non avevo voglia di parlare, del resto non avrei saputo cosa dire e, chiuso nel mio muto risentimento, provavo una sgradevole sensazione di disagio. Mio padre era un gran lettore, gli piaceva leggere, specialmente la sera a letto leggeva di tutto, ogni tanto aveva un romanzo nuovo, di avventure o narrativa, non disdegnava opere di letteratura, specialmente roba storica, ma dopo la morte della mamma si orientò su un altro genere, era roba che trattava di spiritismo, fenomeni medianici, metapsichici, cercava conforto nelle varie sedute spiritiche dove si praticavano presunti rapporti di comunicazione con le anime dei defunti. La cosa era di gran moda a quei tempi e forse ancora oggi, anche se ogni partecipante sapeva dentro di se che non era possibile e che era tutto un imbroglio, un trucco. A quel punto, il dolore per la perdita di una persona cara spingeva anche a questo, poteva essere una consolazione. La cosa andò avanti un annetto. Ebbe un gran coraggio mio padre, rimasto solo con due ragazzini di sei e otto anni, non si dette per vinto, avrebbe potuto metterci in qualche istituto e tornare giovanotto, il peggio sarebbe stato per noi, ma non fu cosi, si prese cura di noi: ci faceva da mangiare tutta roba semplice e svelta, come bracioline in gratella o fagioli lessi. Lui la chiamava zuppa lombarda, fagioli con l’acqua di cottura e fette di pane dentro, condite con olio sale e pepe; poi c’erano gli affettati…. insomma ci arrangiavamo abbastanza bene. Ma fu la nonna Livia a migliorare la situazione, venendo a stare con noi in S. Niccolò: diventammo così una grande famiglia. Il nonno Martino faceva l’ambulante e la sera tornava stanco morto per aver spinto tutto il giorno il suo barroccio. L’ambulante può anche essere un bel mestiere di svago, si vede gente, sempre fuori all’aperto e la sera si contano i soldi, ma quando il tempo è brutto e non incassi, oltre alla fatica ti girano anche le scatole. La moneta che circolavano a quel tempo era quella di metallo, di carta moneta ne vedevamo poca, c’erano i soldini, i decini e i ventini, con cinque 10
Le 100 pagine di Rolando
ventini facevi una lira. Quando passava il gelataio col suo triciclo colorato, con un decino (10 centesimi) ti dava un gelato, nel cono crema e cioccolata, non era un gran gelatone ma era abbastanza. La cinque lire erano d’argento come le dieci e quando andavi per spenderle, il bottegaio le batteva sul marmo del banco facendole rimbalzare in mano, non per divertimento ma per sentire dal suono se erano vere o false. Zii Lo zio Egisto era del 1913, anche lui operaio alla società del gas. Lo zio Giuseppe, classe 1911, faceva l’idraulico, lavorava a conto suo, era un uomo speciale, non saprei come definirlo: stravagante, intelligente, era solito raccontare delle panzane cosi credibili e convincenti che sembrava tutto vero, dotato di una prontezza superiore alla norma nell’intuire al volo certe situazioni, anche le più difficili o complicate, si destreggiava bene in tutte le circostanze. Non aveva studiato molto, credo che non avesse finito neppure la terza elementare. Ma era pratico negli affari e non era uno sprovveduto, anzi bisognava stare attenti con lui. In quell’epoca i ragazzi non tutti seguitavano a studiare dopo la quinta elementare, si preferiva imparare un mestiere, si spendeva meno e si cominciava subito a guadagnare qualche cosa: quella era l’accademia della strada. Io facevo l’apprendista, lo aiutavo nelle riparazioni. Mi rammento di una volta che suonò il campanello di una villa, una voce chiese chi è? Lui, con fare malizioso, rispose (trombaio di casa) a Firenze si dice idraulico ma anche trombaio, poi mi guardò cercando in me una qualche reazione alla sua buffa e sfacciata risposta. La padrona di casa era una brunetta niente male, sulla trentina, che certamente lui conosceva parecchio bene perché le toccò subito il sedere: era sfacciato, irriverente senza limiti, senza vergogna. Non era un Adone ma neppure brutto, con i suoi due occhi azzurri, intensi, vivaci e a suo modo anche simpatico. Certe volte però passava il segno e questo non piaceva a molti, anzi a pochi: Una volta incontrò per strada un suo cliente a spasso con la moglie, che gentilmente gli presentò la sua signora: lui che l’educazione non sapeva cosa fosse, volendo essere simpatico, gli rispose, bellina!! Indove tu l’hai trovata? 11
Nell’ovo di Pasqua? La battuta ovviamente non piacque, ma a lui non gliene poteva fregà di meno, era una cosa normale, trattava tutti con quel sistema, era allegro faceva tutto per ridere e per far ridere la sua vita era tutta una risata. Questo per descriverlo un po’ alla meglio, ma ci si potrebbe scrivere un romanzo. Quando scoppio la seconda guerra mondiale, fu richiamato e mandato in Russia, a guerra finita tornò e dovette ricominciare tutto da capo, ma questa volta con iniziative nuove, moderne, non faceva più le riparazioni, ma cavalcò il bum economico, trovò un ambiente bello grande, il personale tutta gente giovane e sfruttando il momento si mise a vendere elettrodomestici, in breve tempo diventò uno dei più grossi commercianti dell’epoca: nei suoi magazzini si trovava dai più bei fornelli a gas, alle più moderne lavastoviglie e frigoriferi di tutte le marche che la tecnologia potesse sfornare. Dette il nome alla ditta L’ECONOMICA di BARTOLINI e in poco tempo diventò lo zio Paperone. Uno dei suoi ultimi affari fu l’acquisto di un blocco di case ancora in costruzione, non so quanti quartieri siano, ma il palazzo è alto sette piani, insomma in poco tempo riuscì a costruirsi un piccolo impero, tanto che i miei tre cugini vivono ancora con la rendita dei vari fondi e quartieri. Un giorno parlando con lui del più e del meno, il discorso cadde sul recupero crediti: io credevo che un giro di vendita del genere avesse comportato una perdita di parecchi soldi, per vendite andate male o fregature del genere, ma lui meravigliandomi mi disse di aver perso solamente trenta o quarantamila lire.. Da un’altra fonte ho saputo che quando capitava qualche cliente difficile, non puntuale con i pagamenti, lui era capace di andare a suonargli il campanello di casa alle sei la mattina!!! Cosi quello ancora fra il sonno si trovava il Bartolini all’uscio per riscuotere la rata, e tante volte ha dovuto sostenere delle sfuriate dalla gente per questo suo comportamento, ma lo zio Beppino con la sua faccia di bronzo non aveva paura di nessuno, conosceva i suoi polli e aveva quasi sempre ragione lui.
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Le 100 pagine di Rolando
Vorrei dire qualcosa dello zio Egisto che è venuto a mancare il 9 dicembre 1985: io lo ricordo sempre con affetto perchè è stato quello che veramente ci ha aiutato a crescere, sia fisicamente che moralmente, insegnandoci certe cose della vita, molte delle quali non si imparano a scuola, come certe attenzioni in circostanze difficili, in situazioni pericolose, la prontezza nel capire certe cose, insomma un po’ più attenti, più furbi senza uscire dalle regole dell’educazione e in del modo di vivere. In estate la nonna ci portava in Arno, quello era il nostro mare: l’acqua non dico che era bevibile ma ci mancava poco. Verso le sei dopo il lavoro arrivava Egisto e ci insegnava a nuotare: io ho sempre avuto paura dell’acqua ma se ho imparato a tenermi a galla lo devo a lui. Lo ricordo ancora vestito da militare, era tornato da poco dalla leva quando fu richiamato per la guerra d’Africa, era disperato povero ragazzo, aveva preso moglie da poco più di un mese e non la voleva lasciare. Fortunatamente un commilitone volle fare il cambio di destinazione e cosi l’altro che voleva vedere il mondo andò in Abissinia e lui rimase in Italia, ma lo mandarono in Sardegna. Gita Fuori porta Una domenica sveglia alle sei, destinazione le cave di Maiano; dentro lo zaino gli avanzi della sera e una borraccia militare, residuato di guerra dello zio, salivamo per quelle pietraie scivolose con anche dei passaggi pericolosi, ma noi eravamo sicuri perchè attenti e precisi alle istruzioni che via via ci impartiva lo zio “sergente”. Arrivati sulla vetta ci sedemmo su dei massi e cominciammo a far merenda: avevo dieci anni e una grande fame, la nonna aveva messo in un tegamino le cipolle rifatte col lesso, un mangiare che a me proprio non mi andava, ma alle dieci la mattina, dopo quella popò di faticata per arrivare lassù, come disse il poeta Giusti “le ubbie le buttai là”: era tutto buono e quando poi mi videro raccattare un pezzettino di cipolla caduta fra quei sassi..... uuuhhh allora apriti cielo!!....Cominciarono a canzonarmi. Dopo questo fatto mi hanno sempre rimarcato come ogni cibo sia buono con il giusto appetito. Poi il ritorno a casa verso l’una, con un bel mazzo di ginestre che profumavano le nostre maglie, stanchi mor13
ti, affamati ma felici, era tutta salute. La nonna Livia erabrava in cucina e siccome eravamo tanti a tavola lei per risparmiare faceva minestroni di verdura e tegamate di baccalà ma cosi buono da leccarsi i baffi, forse costava molto meno di oggi, anche trippa, lampredotto e tanti altri intingoli dove si mangiava parecchio pane, erano cibi poveri ma sani. La carne quasi mai ogni tanto qualche braciolina ma quasi sempre carne di cavallo che lo zio Egisto riconosceva subito, allora tanto per scherzare si metteva a cavalcare la sedia facendo con la bocca il verso che fanno i bambini, quando fanno finta di andare a cavallo, il che indispettiva la nonna, ma finiva tutto in una risata. Anche la nonna Livia aveva il vizio di fiutare il tabacco e siccome anche lei era grassoccia, con un bel paio di poppe, quello che non entrava nel naso le cadeva sul petto, che naturalmente lei spolverava senza badare che magari sotto c’era un tegame scoperto. Una volta sbagliò fagottino, impepò lo stracotto col semolino, ma non fu un gran male, il tabacco non è velenoso, aveva un sapore strano ma fu mangiato ugualmente: dopo fu scoperto quello che era successo, ma ormai…. Da quella volta, la cosa veniva ricordata, alla solita maniera, sempre per scherzo, ma si urtava la suscettibilità di lei che diceva: non cominciamo eh!! Perchè sennò tu mi fai entrare il nervoso! Egisto era simpatico, ma la nonna arrabbiata era pericolosa, certe volte volavano pentole, tegami e coperchi. La famiglia viveva e noi non ci annoiavamo mai, c’èra sempre qualche novità, come quella volta….. Fuga di Gas Il fatto andò cosi. Una squadra di operai dell’acquedotto aveva fatto un bello scasso in mezzo alla strada proprio davanti alla chiesa di San Niccolò; a mezzo giorno tutti andarono a mangiare, tranne uno che seguitò a lavorare da solo, ma con una picconata sfondò un grosso tubo di piombo del gas forse nascosto dalla terra. Il gas fischiava e usciva con una forte pressione, l’uomo non sapeva cosa fare e già si sentiva male, nessuno dei passanti si prendeva la briga di fare qualcosa, la gente si allontanava anzi scappava impaurita, in effetti la situazione era davvero pericolosa, quando improvvisamente sbucò da 14
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via dell’Olmo lo zio Egisto che curvo sulla sua bicicletta tornava a casa per il pranzo: la situazione era brutta! Quando vide quello che succedeva non ci pensò nemmeno un attimo al rischio che stava per correre, saltò giù in quella buca e con un mazzolo stiacciò il tubo fermando la fuga di gas, poi si fece aiutare a tirare fuori quel giovane mezzo svenuto che fortunatamente si riprese subito. Tutti dicevano meno male che è arrivato il Bartolini, meno male! Da allora lo zio fu un eroe, per noi e per tutto il vicinato. Per seguitare il racconto delle sue gesta eroiche, racconterò anche questa: una sera ero affacciato alla finestra di camera, facevo compagnia alla nonna Beppa, non era ancora buio, si stava bene,c’era un bel frescolino, io guardavo il via vai giù nella strada, lo zio Egisto stava tornando dopo aver comprato due chili di gesso a muro per un lavoro che avrebbe dovuto fare di li a poco; prima di salire in casa entrò nella bottega del Ciappi, il tabaccaio, quando ad un certo punto ci fu una gran confusione, un vociare proprio sotto la mia finestra: io mi ero un pò distratto e non capivo cosa stesse succedendo, lo zio era nel mezzo a quella baraonda e per giunta sembrava proprio lui l’oggetto della discussione: chi gli dava torto, chi gli dava ragione, erano in disaccordo su quello che era successo, parlavano forte, erano agitati.. c’era insomma una certa pressione, stavano per volare gli schiaffi. Allora Egisto per farsi le sue ragioni e per uscire da quella mischia, fece inconsciamente un giro su se stesso a braccia aperte , senza pensare alla fragilità di quei due chili di gesso che erano incartati alla maniera dei bottegai cioè a pizzicotti! Il fagotto si apri imbiancando tutto e tutti, sembrava di vedere un film di Ridolini, visto dall’alto come lo vidi io fu una comica eccezionale, un divertimento allegro che ci faceva sbellicare dalle risa.. Era successo che in bottega del tabaccaio, un uomo aveva tirato un ceffone a una donna, la quale aveva un bambino in braccio; se poi fossero marito e moglie non si è mai saputo, ma Egisto che era presente al fatto non poté trattenersi e, scosso da quell’atto di inciviltà e di prepotenza contro una persona più debole, lasciò andare a sua volta una manata al marito mandandolo sdraiato da una parte. Siccome il proverbio dice “tra moglie e marito non mettere il dito”, 15
ecco il perchè della discussione e siccome non tutti erano d’accordo ci fu un pò di “buriana” ma la sera dopo fu fatta la pace e riallacciati i rapporti diplomatici con il Dini, il vinaio, anche se Egisto non andò. Nonostante avesse moglie e una figlia piccola, mia cugina Graziella, con tutta la responsabilità di un padre, lo zio aveva ancora quella goliardia dell’età intermedia fra la giovinezza e la maturita; era bravo, sempre disponibile, pronto in certe situazioni, autoritario ma buono come il pane. Era uno sportivo, aveva giocato al pallone non so in quale categoria ma aveva fatto parte di una rappresentativa toscana, in ultimo si era preso la briga di allenare una squadra “ gli assi giglio rosso”, fece l’esperienza un paio di volte del calcio in costume, incrinandosi due costole. Insomma era assai conosciuto e non solo in S.Niccolò. La zia Bianca più grande di me due anni, aveva trovato da lavorare in un negozio di modisteria nei pressi di por Santa Maria. Avrà avuto tredici anni la figliola quando fu mandata a scambiare cento lire, usci dal negozio con quel bel foglio in mano, per combinazione stava passando di li suo fratello Egisto per il suo giro di lavoro, la vide mentre camminava e agitava stupidamente quel bel foglio da cento lire che poteva anche far gola a qualcuno. Nonle disse niente, ma la sera a casa la brontolò ben bene, le disse che era una stupida, una scema perchè poteva passare qualcuno di corsa strappandogliele di mano e come avrebbe fatto lei a rendere tutti quei soldi? La gente cantava “se potessi avere mille lire al mese”. Casa Nostra L’ingresso di casa è da via del Giardino Serristori civico 1, le finestre si affacciano tutte in S. Niccolò. Da una ricerca fatta, risulta che siano case costruite verso il 1228. La sua bellezza consiste nella grandezza delle stanze, con le sue volte e arcate suggestive. Credo che anticamente sia stato un convento o un ospedale, basti dire che in una camera entrano comodamente tre letti grandi, matrimoniali; anche la cucina era grande, dove un bel tavolone di quelli che usano in campagna per la battitura bastava per tutti noi ragazzi. Con la zia Bianca sedevamo 16
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su una robusta panca a ridosso del muro, gli altri tutti intorno, la nonna Beppa aveva un tavolo a conto suo sempre in cucina, lei mangiava piano piano e quando aveva finito si addormentava. Si stava bene tutti insieme, era una grande famiglia patriarcale, quello che difettava in quella casa erano i servizi igienici, non c’era nè la doccia nè il bide, nemmeno il lavandino, neanche lo sciacquone, perché non c’erano le fosse biologiche. L’unico servizio presente consisteva nella solita buca che si chiudeva col pesante tappo di marmo rotondo corredato da quel manico di ottone, il cosiddetto “cariello”, gergo antico, ma a quel tempo ce n’erano parecchie così, nella vecchia Firenze. Nelle lunghe serate d’inverno, la nonna Beppa teneva lo scaldino sotto a quei sottanoni che le arrivavano fino alle caviglie, aveva una palettina fatta apposta per sbraciare e rincalzare la brace in modo che ci fosse sempre un bel fuoco, era un regalo del suo primo marito. Nelle sue capaci tasche c’erano sempre la scatola delle pasticche per per il catarro, un’altra con le pasticche per la tosse e una scatolina per il tabacco che lei fiutava..e così fra una presa di tabacco e una pasticca per la tosse ci raccontava un paio di novelle, lei ne sapeva tante…. Una volta raccontò che da bambina vide Garibaldi, montava un bel cavallo bianco, la gente lo riconobbe e subito fu circondato dalla folla, chi gli chiedeva una cosa chi un’altra e noi seduti ai suoi piedi: cosa fece nonna? cosa disse? Lei finì di bere quel gocciolo di vino che era rimasto nel suo bicchiere, disse tante cose ma non mi ricordo, ero troppo piccola, ma una cosa la rammento, prima di andare via disse: “donne non mandate i figlioli dai preti”, fu una frase a chiusura del suo discorso, è storia vecchia che Garibaldi non se la diceva coi preti , chissà perchè. La nostra vita era cambiata in meglio naturalmente, più passava il tempo, più si andava attenuando il dispiacere per la grande perdita della mamma, pur lasciandomi quel senso di tristezza, un vuoto incolmabile. Mmi mancava qualcosa rispetto agli altri ragazzi, la nonna faceva anche troppo, e non l’ho mai ringraziata abbastanza, il babbo quello che poteva ma la mamma per tante cose era troppo importante a quell’età. 17
Chi dice prima Pio Era un giochino che facevamo spesso in casa nostra e vinceva sempre quello più svelto. Mi spiego meglio: se qualcuno dei grandi, aveva da regalarci qualcosa che non si poteva dividere, come ad esempio una caramella, il più svelto a dire pio.. si beccava la caramella. Siccome la sera a cena il vino non bastava mai e il nonno e la nonna litigavano incolpandosi di aver bevuto l’uno più dell’altro, si lasciavano andare facilmente a liti che finivano col mandare uno di noi ragazzi giù dal vinaio a prendere un altro mezzo litro di vino che costava ottanta centesimi al litro, ma nessuno di noi voleva andare e qui cominciava una tiritera, stasera tocca a te, no! Io sono andato ieri, allora tocca alla Bianca, ma anche lei faceva le sue ragioni e tutte le sere l’era la solita musica. Una sera lo zio Egisto, che sedeva a capo tavola, quando si accorse che il fiasco era quasi finito, tirò fuori dal taschino della camicia un bel lapis giallo, nuovo e facendolo oscillare fra il dito indice e il pollice disse la famosa frase “chi dice prima pio”: io che mi aspettavo il giochino, fui il più svelto “Pio!” “Ovvai a prendere il vino”. “E il lapis?” domandai. “Non ho mica detto che lo dò!” Cosi quella volta rimasi fregato, erano lezioni di vita senza spendere nulla, come diceva il mio amico Pattarino:cosi dovetti saltare la panca e andare a prendere il vino, mentre la zia Bianca più grande e più furba di me se la rideva sotto i baffi. Non mi rammento che mese, fosse ma era una domenica d’ estate, una di quelle giornate lunghe, afose. Fuori faceva un caldo boia, invece in casa nostra si stava abbastanza bene, c’era un bel fresco, forse a causa di quei muri spessi che hanno le vecchie case (anche in inverno non faceva mai proprio troppo freddo). Quel giorno si incontrarono per combinazione mio padre e i suoi due fratelli Mario e Armando e un loro amico, Valentino, tutti e quattro amanti della lirica e di operette; loro non facevano la briscola, ma si divertivano a cantare pezzetti di opere e operette, qualcuno si provava a fare il tenore, qualcino il basso, poi facevano il coro e via dicendo, rifacendo 18
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più volte il pezzo e criticandosi per averla presa troppo alta o troppo bassa, discutendo poi di opere e di cantanti famosi (erano intenditori). Armando poi aveva una particolare competenza. Ad un certo punto, forse qualcuno vicino alla finestra vide la nonna Beppa accompagnata dalla signora Dina nostra amica di famiglia che stavano per tornare a casa, la nonna camminava piano quasi strascicando, cosi che per salire in casa ci sarebbero voluti altri dieci minuti. Decisero allora, quei ragazzacci, di farle uno scherzo, così.. tanto per movimentare e ravvivare la serata: accesero tutte le luci, aprirono la porta di casa e si chiusero in cucina. Le due donne salirono la rampa di scale e vedendo la porta di casa spalancata si meravigliarono, nel salottino la luce era accesa, come pure nel corridoio che portava in cucina. Orbene? disse la nonna, o questa? Chi c’è Livia? Martino? C’è nessunooooo? Ma nessuno rispondeva, un ci saranno mica i ladri eh? Siiiiè, venga via Beppa, icche glianno a rubare a lei? la miseria! E saranno giù da Benedetto, il cenciaio....... no no qui c’è qualcosa che non mi torna Livia! Sarà meglio aspettare che torni qualcuno disse la signora Dina. Le due donne si erano create uno stato angoscioso, via gliè successo qualcosa, qualcuno ci sarà perdie!! C’è la luce accesa! e intanto si erano avvicinate alla cucina, o’come mai la porta di cucina gliè chiusa? Erano tentate di tornare indietro, ma si fecero coraggio e si inoltrarono nel lungo e buio corridoio chiedendo sempre: c’è nessuno? Quando per tutta risposta quei ragazzacci si misero a fischiare con le dita in bocca alla maniera dei pecorai, emettendo uno stridio forte da mandar via di cervello, Che diavolo -abbozzò la nonna, ma la sora Dina era già giù per le per la scale, anche la nonna con i suoi ottant’anni gli era quasi a ruota, in dieci secondi erano tornate in S.Niccolo. Le richiamarono dalla finestra di cucina, ma presero una paura birbona mentre quei ragazzacci si sbellicavano dalle risa. Dopo circa una quarantina di anni, in occasione di un matrimonio di una nipote, ebbi l’occasione di ritrovare il terzetto dei fratelli e mi tornò in mente lo scherzo, come sempre nella memoria dei ragazzi le immagini e le sensazioni non si scordano più, gli rammentai di quel giorno ormai lontano nell’oblio dei tempi, sorrisero appena con un 19
senso di rassegnazione, come se avessero perso qualcosa, forse la gioventù ora che erano tutti e tre al tramonto. Erano altri tempi quelli, eravamo giovani, disse Armando mentre il suoi occhi forse rivedevano la scena; mio padre invece ebbe un gesto di contrarietà, forse per i troppi anni ormai passati mentre si puliva le lenti degli occhiali, ma mi sembrò di capire fra le righe un certo pentimento per quello che avevano fatto; certo fu uno scherzo un po’ cattivello a due vecchiette, anche Mario abbozzò appena un sorriso silenzioso, misurato. Io non so la dinamica della protesta nè come andò a finire o se ci furono strascichi, ma sicuramente si pentirono tutti e tre. Scuola Ubaldino Peruzzi Alla scuola Ubaldino Peruzzi ho fatto le elementari. Era una bella scuola con quelle belle finestrone grandi e quella terrazza sulla piazza S. Croce, le aule erano spaziose e piene di luce, tutte le volte che passo di la non posso fare a meno di dargli una occhiata. Una volta vidi il portone aperto, ero incuriosito e anche un po’ commosso, non potei salire le scale perchè c’erano degli operai che stavano lavorando, ma riuscii ha dare un occhiatina panoramica e mi bastò per vedere com’era ridotta: ci rimasi male nel vederla così scalcinata, decadente, come quando dopo tanti anni ritrovi una persona cara e quasi non la riconosci da come è invecchiata, Alle volte si vedono questi ragazzi uscire da scuola con quelli zaini cosi pieni e pesanti, io mi domando, ma quanto studiano? Ai miei tempi tre o quattro quaderni e due libri era tutto quello che ci necessitava per un giorno di scuola, non mancava mai il quaderno rosso con la famosa tavola pitagorica sul dietro, ogni quaderno aveva un colore diverso. Prima che suonasse la campanella, il maestro di terza elementare ci dava le lezioni per casa, diceva: aprite il libro di lettura a pagina…. e qui forse andava a caso, a pagina 20 e fate l’analisi grammaticale di tutta la pagina, un sistema spicciativo, più svelto a dirsi che a farsi, perchè a volte ci voleva tutta la sera, ma era una brava persona. Un giorno con sommo dispiacere ci cambiarono maestro, fu come cambiare allenatore a una squadra di 20
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calcio non è mai una bella cosa: questo non era grasso ma piuttosto massiccio, non molto alto, non so da dove diavolo venisse ma parlava un meridionale, si presentò, si chiamava Giuseppe Conti e cominciò la lezione. Tirate fuori il quaderno di sintassi, la parola non era nuova ma cosi a bruciapelo non sapevo quale prendere, sbagliai presi quello della dettatura, meno male non fui da solo, una quindicina di ragazzi fecero come me! Ci classificò subito; siete dei ciucci! Sì era vero, studiavamo poco ma questo era il meno; il signor Giuseppe aveva la mano lesta e con quelle manoni grasse tirava di gran ceffoni, lui credeva che le sue sberle fossero vitamine, un toccasana per aver più voglia di studiare! Secondo me era rimasto addietro di qualche secolo, cosi un giorno toccò a me, non rammento per quale motivo, premetto che io non sono mai stato un ragazzo cattivo, non ho mai dato noia a nessuno, non mi sono mai meritato certe punizioni; forse non seppi rispondere a qualche domanda sui verbi. All’uscita della scuola mio babbo si accorse subito che qualcosa era andato male, tanto più che avevo ancora il segno sulla guancia, cosi andò dalla direttrice e lo fece richiamare, la mattina dopo prima di cominciare la lezione, il maestro chiese e volle sapere chi era stato a denunciarlo, i ragazzi tutti zitti, loro non sapevano nulla, io non avevo voglia di parlare e titubai un po’, ma quando disse, “almeno abbia il coraggio di dirlo” allora mi alzai e col braccio teso, lui mi guardò e disse, va bene! Fu come mettere l’olio nel lume, fu la prima e l‘ultima volta, non mi toccò mai più, pur seguitando ma molto più raramente con gli altri. Quel ceffone fu un atto offensivo per me e quella poca voglia di studiare che avevo spari del tutto. Col carattere che mi ritrovo ci sto male ancora oggi, ci penso, ci ripenso, perdo il sonno e divento vendicativo, è la mia reazione normale, proprio perchè se è una cosa che io non farei mai, non gradisco che sia fatta a me. Se per maestro invece di avere quel bisonte coglione ci fosse stata una maestra magari giovane e carina, io credo che saremmo stati tutti primi della classe. Ogni cosa ha la sua importanza. Non avevamo molta voglia di studiare, ma era più colpa sua che nostra, non aveva un sistema di insegnamento accattivante capace di suscitare un po’ di interesse alla cosa, un desiderio di sapere, 21
un ascolto più riposante con quell’accento che non mi piaceva, quando camminava rimbalzava come un rinoceronte, tutto sommato mi stava proprio sulle scatole. A quei tempi si scriveva con l’inchiostro immergendo la penna nel calamaio, capitava cosi che qualche volta si rimaneva a secco, allora uno di noi per il rifornimento, andava a chiamare Beppino, il bidello; quando si attraversavano quegli androni non si sentiva volare una mosca, solo la voce degli insegnanti nelle varie aule, c’era una gran pulizia sia in terra che sui muri, non era ancora arrivata la moda di scrivere sui muri, c’era un senso di funzionalità, di ordine, di efficienza. Il custode , bravo ragazzo di poche parole sulla cinquantina, asciutto, segaligno, veniva e riempiva i calamai, con la sua vestaglia nera, calmo e tranquillo faceva il suo lavoro con serietà dando un senso di sicurezza nello svolgere le sue mansioni. Il nostro tempo libero lo passavamo in Arno o al piazzale Michelangiolo: gli amici che avevo erano ragazzi abbastanza vivaci, qualcuno lo era anche troppo, tipi da lasciar perdere, non proprio cattivi ma a volte ne combinavano delle belle, come tirare con la fionda alle lampadine della strada e cose del genere, c’ era sempre quello più riffoso così ogni tanto bisognava fare a botte, per farsi rispettare e anche per misurarci. La sassaiola di San Niccolò Un giorno all’uscita della scuola, un ragazzotto spavaldamente sicuro di sé mi disse: Stasera si viene in S. Niccolò, fu il tono minaccioso a farmi capire con che intenzioni sarebbero venuti: era uno di quei monellacci della parte avversa, ossia di là d’Arno, come si diceva noi, quelli che abitavano tra piazza della Signoria e Piazza Santa Croce, via Dei Neri S. Remigio, Corso dei Tintori. Sul momento non gli detti importanza, però lo dissi ai più grandi. In S. Niccolò non era la prima volta che avvenivano sassaiole fra rioni. Quel giorno non venne nessuno e tutto passò nel dimenticatoio, ma un paio di giorni dopo..... era una domenica tranquilla ma quando meno ce lo aspettavamo....arrivò 22
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all’improvviso! Forte picchiò sul palo della luce! Una sassata scagliata con gran lena, mettendo immediatamente in allarme la banda dei ragazzi. Succedeva sempre così, arrivavano all’improvviso e cominciavano a piover sassate, era la nostra guerra! Fu una giornata memorabile si risvegliò quell’antagonismo fra bande, come ai tempi dei Guelfi e Ghibellini, fra bianchi e neri, una competizione, un gioco? Forse si! Ma pericolosissimo. La sfida con la parte avversa stimolava un certo orgoglio, tutti pronti sia i più grandi che i più piccini, prontamente ci mettemmo al riparo, erano venuti da via dei Bastioni e avevano il vantaggio di tirare dall’alto, ma non avevano abbastanza sassi, invece noi avevamo la strada acciottolata, ma in posizione troppo sfavorevole e poi eravamo in cinque contro una dozzina. Cosi io e Marcello Coppetti fummo inviati a cercare rinforzi in S Niccolò, ma eravamo sempre pochi, allora salimmo su da via Belvedere fino alla costa S, Giogio; qualcuno accorreva, la voce si era spanta, dopo tre quarti d’ora fra salite e scese trovammo dei volontari. La guerra continuava cruenta, Foffo diminutivo di Adolfo Frilli ebbe una scarogna nera, ero accanto a lui quando mise appena la testa fuori dal muro, una sassata lo prese proprio sul naso, in mezzo agli occhi: aveva in bel taglio e perdeva molto sangue, nonostante ciò, mentre andava alla fonte ci incitava alla battaglia. Poi salendo da via Monte alle Croci la situazione cambiò: si combatteva alla pari, il Sole era ancora alto, le sassate continuavano a ronzare come mosconi, nella banda avversaria c’era la peggio teppa di ragazzi fra i quali i fratelli Pieri, i più spavaldi, i più coraggiosi. Un altro che abitava in via del corno e altri ancora, tutta gente che se non faceva a cazzotti tutti i giorni non andava a letto; noi si contrapponeva Giovanni il Gerra, i fratelli Nanni, Luciano il Picchi i fratelli Coppetti, io, mio fratello Alberto e altri che non ricordo. I sassi volavano come la grandine, vedevi arrivare la sassata cosi diritta verso di te da non sapere come scansarla, poi solo in ultimo istintivamente ti buttavi a terra o di lato, questione di attimi…l’emozione era forte, nessuno voleva cedere le posizioni e la battaglia continuava. Tutto finì in modo assai 23
inglorioso, il coraggio, l’orgoglio e il nostro ardire, vi lascio immaginare dove andò a finire quando verso le sei e mezza arrivaron con il loro carrozzone, la macchina si fermò proprio nel mezzo della sassaiola, si aprirono la quattro portiere e uscirono quattro persone, saranno state guardie o polizia non stetti a guardare perchè tutti facemmo un gran fugone. Mi rifugiai nel bar dal Severini, nascosto tra i giocatori di carte e dal fumo delle sigarette, ci stetti dieci minuti, aspettando che le acque si calmassero, questo per evitare multe salate, richiami ai genitori e roba del genere. Venivano spesso i vigili, specialmente quando giocavamo col pallone: era proibito giocare per strada, dovevamo andare al campo di Marte, ora non c’è più posto neppure là. Qualche tempo dopo quando eravamo già più grandini, se avevamo i soldi andavamo al cinema, quasi sempre al Garibaldi: con una lira ti davano due film, c’èra spesso il famoso Tom Mis col suo cavallo bianco, Stanlio e Oglio o Tarzan, e ancora la comica con Ridolini e i film Luce, insomma si entrava alle tre e si usciva alle sei circa con un Sole ancora alto e tutti rintronati per la gran confusione che si faceva: era come allo stadio, si faceva il tifo, specialmente quando arrivavano i nostri. A Giugno alla fine dell’anno scolastico la nonna aveva trovato il sistema per stare un pò tranquilla ci mandava in colonia, chi di noi ragazzi dell’epoca non ha mai passato una visita medica per andare ai monti o al mare con l’Opera Nazionale Balilla? Io credo pochissimi, cosi la dottoressa Pecchioli (una brava dottoressa e anche belloccia) ci visitava per bene, picchiettava con le dita sulla schiena, tastava il collo per sentire le eventuali ghiandoline, guardava le tonsille, mentre la nonna si raccomandava perché ci mandassero in qualche posto, il che per noi, i fratelli Orangi, era facile essendo ragazzi orfani della madre, con la miseria che c’era, il tenore familiare e compagnia bella... Effettivamente il bambino è un po’ linfatico, ci vuole un mese di montagna 500 metri, così dopo tutto l’olio di fegato di merluzzo che mi ero succhiato a scuola ero ancora e sempre affetto da linfatismo e mi spedivano a Montepiano, Alberto mio fratello invece al mare, sempre 24
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a Calambrone. La mattina dalle nove alle dieci del giorno stabilito, dovevamo trovarci in via dei Servi alla Casa del Fascio, tutti pronti col nostro corredino di calzoni e magliette, tutto bianco con le cifre cucite su ogni capo, vestiti tutti uguali ad aspettare l’autobus che ci avrebbe portati direttamente nel luogo di villeggiatura, o alla stazione. A Montepiano si stava bene, era una bella colonia, gran pulizia, tutto bianco bel refettorio, ottimo cibo, aria buona, belle camere; la mattina inquadrati facevamo l’alza bandiera. Prevaleva già un aspetto militaresco derivante dall’ordine dell’inquadramento fascista. Mentre i tamburi rullavano la bandièra veniva issata in cima all’asta e noi fermi sugli attenti, finita questa operazione e sciolti i ranghi, potevamo giocare nel grande parco che era una bellezza. Una volta mi spedirono a Firenzuola, un paesino dell’alto Mugello dove le suore nelle ore di ricreazione ci insegnavano il catechismo, si pregava sempre, la mattina, prima di colazione, prima di pranzo e nel pomeriggio si cominciava con le Ave Marie, i Padre Nostri di tutti i tipi, Gloria Pater e compagnia bella, insegnavano i principi della dottrina cristiana, se sapevi rispondere alle loro domande potevi andare su l’altalena altrimenti nella cappella; si conduceva una vita monastica dove imparai l’Ave Maria in latino e in italiano, non la ricordavo più. Tutto sommato da quelle monache non si stava male, ma a casa stavo meglio. Il tempo passa, finita la quinta elementare cominciai a lavorare, lo studio non faceva per me ed in famiglia non ce lo potevamo permettere, così cominciai a fare il ragazzo di bottega da un certo Tiberio in via San Miniato; era une bel negozio di pizzicheria sempre zona San Niccolò; spazzavo, pulivo, infiascavo il vino e dopo poco tempo “feci carriera”, servivo il pane e la pasta, ora sarebbe facile la pasta è tutta confezionata, ma da “Tiberio” c’era una parete piena di cassette con la pasta di tutte le misure, di tutte le grandezze, grandinina soda, grandinina bucata, piu fine, piu grossa per non parlare degli spaghetti. Verso le nove la mattina c’èra da fare la gita, con una bicicletta attrezzata con una cestona di quelle grandi, le cosiddette maremmane, portavo il pane ai frati delle Porte Sante, poi dalle le monache nel viale Michelan25
gelo e strada facendo alcuni clienti. Salire carico su da via Monte alle Croci era una faticaccia enorme, ci sarebbe voluto un mulo! La facevo a spinta a piedi, una volta arrivato lassù diventava facile, dopo era tutta discesa. Tiberio mi dava tre lire alla settimana che io portavo a mio padre orgoglioso di contribuire alle spese di famiglia, erano le paghe che davano ai ragazzi di bottega, Tiberio mi faceva tutte le mattine un panino e da bere acqua! Un bicchiere di vino mi sarebbe piaciuto, magari annacquato ma non c’era la mescita, il vino lo vendeva a fiaschi interi, ma io trovai il verso di berlo ugualmente, direttamente da una damigiana con un robusto filo di paglia passavo lo strato dell’olio che stava a protezione e cominciavo succhiare: con grande meraviglia, mi accorsi che non era vino, ma vinsanto e di quello buono, dolce e corposo come piace a me, così ogni tanto facevo una tiratina, tanto per tenermi su, non avevo nessun rimorso nei confronti di Tiberio, anche perchè non era mai l’ora di far festa e quindi anche se gli avevo bevuto un po’ di vino, me lo ero ben guadagnato! Quando arrivò il momento di infiascare il vinsanto si meravigliarono perchè la damigiana era “scema”, ma non disse niente nessuno. Durante la stagione fredda, specialmente quando pioveva, le signore si facevano mandare a casa la spesa, cosi il ragazzo che ero io coperto alla meglio, con una balla in testa che mi copriva solo la schiena, andavo in bicicletta bagnandomi tutto: a Tiberio non gli fregava niente del dipendente,, lui diceva sempre di si a quelle donne. Con l’acqua e il freddo mi vennero i geloni che seguitando quella cura di fatica e stenti mi si aprirono facendomi un gran male; non potendo più servire smisi di lavorare, non mi dette nemmeno una specie di liquidazione che peraltro ai tempi non esisteva; Tiberio era abbastanza tirchio. La nonna Livia faceva la spesa da Giannino, una bottega ben fornita di prosciutti carni secche e tant’altro, a volte anche io andavo a comprare, spesso e volentieri, un etto di mortadella o di salame o altro e si diceva sempre: segna, paga la nonna! Poi si seppe che la nonna aveva fatto un grosso debito e doveva pagare a Giannino trecento lire! Era un bel chiodo, una enormità per quell‘epoca; lo zio Egisto per lavare 26
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l’onta e chiudere la faccenda, fece una offerta al bottegaio; gli avrebbe dato cento lire tutte insieme per saldare il debito e chiudere il conto, cento lire erano un sacco di soldi, ma Giannino non era contento e disse no! Nel frattempo successero molte cose, lo zio Egisto trovò una casetta fuori porta San Miniato e ci tornò con la sua famiglia, la zia Anita si sposò, il nonno Martino invecchiato dovette trovarsi una casa più vicina al posto di lavoro e tornò a San Gervasio con la zia Bianca, la famiglia si sfasciò: io, Alberto e mio padre tornammo nella zona di San Salvi insieme a una vecchia zia. Il babbo aveva già l’idea di riprendere moglie. Per noi fu un grosso dispiacere lasciare gli amici e la casa di S Niccolò, ma come sempre succede facemmo altre amicizie, eravamo già dei giovanottini e cominciavano altri interessi, le prime amichette, i primi approcci. Arrivammo cosi al 1940, quando la gente cantava: ma pippo pippo non lo sa, una canzonetta molto in voga, mentre all’orizzonte si addensavano grossi nuvoloni, la Germania entrò in guèrra, noi Italiani ancora non eravamo entrati in scena, ma già avevamo l’oscuramento, le città erano al buio contro eventuali bombardamenti, tutte cose inutili come abbiamo visto perchè gli americani bombardavano di giorno e quando c’èra il Sole. Tosca Minghetti di Pomarance Dopo quasi nove anni di vedovanza, mio padre, Gino Orangi classe 1902 decise di riprendere moglie: non aveva quaranta anni, era ancora un bell’uomo alto e di bell’aspetto. Su un giornale dell’epoca si leggeva così: Vedovo quarantenne bella presenza con due figli conoscerebbe scopo matrimonio, seria, affettuosa, intelligente ecc,ecc. Fra le tante lettere che ebbe in risposta, scelse quella che a suo giudizio gli parve la migliore, segui un breve giro di corrispondenza, poi si decise di andare a conoscere la sposa: poco tempo dopo fu fissata la data delle nozze, la cosa era fatta, a distanza di qualche settimana, accompagnato dal sig. Valentino Baronti suo amico fin dall’infanzia (il cui parere era tenuto in gran considerazione) perchè gli facesse da testimone e compagnia, in una circostanza simile. Partì per la nuova avventura, era in gamba mio pa27
dre, ci pensò bene prima di fare una cosa del genere, non è una cosa che si fa tutti i giorni prendere moglie per la seconda volta, ma una donna in casa ci voleva era troppo necessaria, ebbe la fortuna unita all’intelligenza di indovinare una donna come voleva lui. Le sue decisioni erano sempre giuste, era saggio come un vecchio di cent‘anni, sempre misurato nei modi di fare, nel trattare con le persone, preciso nel vestire quasi pignolo, aveva un carattere d’oro, bene educato, era insomma una persona stimata da tutti. Io e mio fratello non fummo invitati alle nozze, la cosa sarebbe stata un po’ imbarazzante poiché lo sposo era stato presentato al popolo e alle chiacchiere del paese come un capitano dell’esercito o qualcosa di simile insomma una persona importante, vedovo ma senza figli, tutto questo per fare più bella figura coi paesani. Certa Tosca Manghetti di Pomarance, nonostante che avesse una età da tardona, “trentacinque anni”, era riuscita a trovare un marito cosi interessante, si sa come sono nei paesi. Prese questa “Tosca” a Pomarance, un paesino provincia di Pisa nella parte montana della val di Cecina, e se la portò a casa. Noi abitavamo a Firenze, era l’anno 1942; fu solo in un secondo tempo che io e Alberto ci recammo col babbo e la Tosca a conoscere il paese e i parenti acquistati. L’impressione che ebbi la dirò dopo, perchè questa che sto per raccontare mi sembra più bellina. Avevano deciso, credo fra la Tosca e sua madre, “la Sofia”, di farci passare per nipoti anziché figli; mio padre ci avvertì con un certo disappunto di quello che le due donne avevano inventato, ma mi sembrò d’accordo anche lui, un po’ a malincuore, cercando di sminuire la faccenda e dandogli poca importanza, tanto dopo qualche giorno saremmo tornati a Firenze; la faccenda mi parve un po’ buffa e lì per lì non mi piacque tanto, ma visto che anche lui acconsentiva e per tirare il “buon per la pace”, come si dice, fummo d’accordo a reggere quella parte anche perchè a me non mi fregava più di tanto, non avevo ancora quell’affezione nei confronti di quella donna, anche se tutto faceva presupporre un’indole di buon carattere e di persona seria, a parte questo piccolo 28
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peccatuccio di conformista vanità, forse più richiesto dalla Sofia, “la madre”, che da lei. Cosi ci spacciammo per nipoti, per un po’ la cosa andò, ma si trattava di cambiare abitudini nel parlare, nel pensare, troppo difficile mantenere segreta una cosa del genere, io poi non sono mai stato bravo in certe cose, a me piacciono le cose semplici, infatti fu proprio nel parlare con dei ragazzi nostri coetanei che invece di dire mio zio, dissi i mi babbo e come si dice a Firenze “smarronai”: lo sbaglio si verificò in modo estraneo alla mia volontà, fu la forza dell’abitudine e il nostro segreto diventò quello di Pulcinella, in un colpo da nipoti si tornò figli, con grande disappunto della Sofia. La Tosca non era una bella donna, si può dire che la dea della bellezza le passò piuttosto lontano, ma era una brava persona, infatti non abbiamo mai avuto occasione di lamentarci e la cosa importante era che adorava letteralmente mio padre e noi le portavamo molto rispetto, non la chiamavano mamma, ma signora Tosca e mi è sempre sembrato giusto chiamarla per nome. Il tempo si sa aggiusta tante cose e la situazione si andava normalizzando. Bartolini Renato l’idraulico Alberto, 15 anni, lavorava come magazziniere presso la ditta Salvadori un magazzino di medicinali nel centro di Firenze, io facevo l’idraulico con la ditta Bartolini Renato che era subentrato nella bottega dello zio Giuseppe che dovette partire militare; per caso si chiamavano entrambi Bartolini ma non erano parenti. Renato era bravissimo, veramente padrone del mestiere, ma a causa di una operazione agli occhi da giovane era rimasto menomato, specialmente quando fuori c’era il Sole lui non vedeva niente, piano piano si abituava alla luce e poteva anche lavorare, forse per questo era sempre nervoso e bestemmiava come un turco; aveva una bella memoria, se per esempio diceva: “dentro a quella cassa ci deve essere una riduzione da tre quarti e mezzo, prendila” potevi stare tranquillo che la riduzione c’era, magari dovevo rovesciare tutto il contenuto della cassa, ma la riduzione era li! Aveva un quaderno a righe dove segnava tutto, il nome del cliente, la 29
data il lavoro fatto, il materiale. Qualche volta gli facevo le fatture in bella calligrafia e cosi non era mai l’ora di far festa, c’èra sempre qualche rubinetto da cambiare, qualche galleggiante da regolare e io con la mia cassetta degli arnesi partivo e quando andava bene tornavo a casa alle sette e mezzo. Il sabato guardava il suo quaderno dove c’erano i nomi dei clienti che si erano dimenticati di pagare. Qualcuno dopo due anni non ci pensava nemmeno. Io andavo la domenica a fargli la sveglia, ma era come dire al muro e questa storia andò avanti qualche mese. Il Renato continuava a bestemmiare come un turco, io tutte le domeniche andavo da quella donna, il marito non c’era mai. Renato voleva chi io gli facessi una partaccia con parole sue dette alla sua maniera ”: glie l’hai detto cosi ? cosi come ti ho detto io? A me mi giravano i coglioni per il fatto di lavorare anche di domenica, mi sarebbe piaciuto rispondergli “vai da te allora”, ma avevo bisogno di lavorare, cosi la domenica dopo ritornai dal solito debitore a batter cassa e mi feci intendere più decisamente. Non riscossi ma riuscii a muovere le acque, infatti dopo un paio di giorni ecco questo signore che non avevo mai visto, era un ometto sulla cinquantina, ben vestito, abbastanza energico che saltando quegli scaldabagni veniva verso me dicendo: dov’è quel mal educato di ragazzo? Quando vidi che quello aveva il nervoso, dissi a Renato: oh! Ora pensaci te, questo picchia! Il Bartolini che era anche un omone si alzò dal suo lavoro e spiegò che era stato lui a dare l’ordine di parlare cosi, li si presero a parole, il Bartolini gli disse di non tornare più perchè clienti cosi non sapeva di che farsene e che non voleva esser preso per il culo da lui, l’altro gli assicurò che non avrebbe messo più piede in quella bottega e che non si sarebbe più servito da lui. Fu un’animata discussione dove ognuno diceva la sua, dopo il diverbio il cliente pagò e se ne andò. Renato aveva in bottega scaldabagni, fornelli, lavandini cucine e altra roba, ma non aveva nessun mezzo per il trasporto e quel giorno si fece prestare dall’ortolano che aveva il banco di frutta sul ponticino dell’Affrico un triciclo; non era un triciclo ma una bicicletta con carrozzino tipo sidecar, fece il carico ci mise sopra una cucina economica di quelle belle pesanti col piano di ghisa, con tutti i suoi cerchi, la cal30
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daia per bollire l’acqua, la cassetta degli arnesi quattro metri di tubo, un bussolotto di gesso a muro, sarà stato il peso eccessivo ma quel trespolo, non andava faceva una fatica enorme: partenza da San Salvi ore 9,30, dovevo andare in Vallina a montare quella cucina, i ponti sull’Arno all’epoca non c’erano, così dopo una faticata pazzesca arrivai al traghetto della Nave a Rovezzano e attraversai l’Arno. Arrivato sul posto, mi feci aiutare a mettere la cucina nel posto desiderato della padrona di casa, a mezzogiorno avevo finito -c’era solo da provare il tiraggio- quando quella brava donna, mi pregò tanto di mangiare un piatto di minestra: aveva fatto la minestra di pane, che mandava un odorino da far resuscitare un morto! Rifiutare un invito cosi allettante sarebbe stata scortesia oltre che peccato, ero giovane e l’appetito non mancava mai, anche per il lavoro che facevo. Non era mica un lavoro sedentario il mio… cosi sveltamente ma con gusto, mangiai una bella scodella di quella minestra che mi rimise al mondo poi, via… ma il tempo passava. Il Bartolini aveva promesso all’ortolano che gli avrebbe riportato il trespolo di bicicletta prima di mezzogiorno e mezzo, cosa che io non sapevo, eppoi sarebbe stato uguale. Renato il solito diavolaccio, quando vide che non tornavo, prese la sua Guzzi 500 e venne a riscontrarmi, ma a mezza strada si scontrò con un camion: lui non poteva usare quel mezzo, la sua vista non lo permetteva, la moto non la vidi più e lui si fece medicare in una farmacia. La Bruna, moglie di Renato, non vedendo tornare nessuno, mandò un altro operaio a vedere cosa era successo: Pilade mi incontrò in via aretina e seppi da lui che l’ortolano aveva bisogno del triciclo per far festa. Fortunatamente Renato non si fece tanto male, perchè la sera tornò a bottega anche se tutto incerottato.. Credo che la Guzzi sia stata venduta, perchè non l’ho più vista. Per quanto riguarda l’accaduto non avevo nessuna colpa se non quella di non avergli fatto provare il trespolo prima di partire, stabilendo che più svelti di cosi non si poteva andare. Ricordo di un’altra volta che c’era da verniciare una calata, si dice così per specificare quelle docce che ricevono l’acqua piovana dal tetto e che si infilano nel muro a due metri circa da terra. Renato, volendo 31
fare un buon lavoro, decise di verniciare la doccia da sè. C’èra con noi quella mattina un giovane operaio di Grassina. Fu trovata la trave più grossa nel solaio, il grosso canapo fu girato tre volte alla trave, un capo fu passato fuori dal sottotetto; il Bartolini dall’ultimo piano dello stabile, aiutandosi con una granata, tirò su il grosso canapo e lo legò bene all’anello di ferro dell’imbracatura: era un cinturone tutto cuoio e corda che si infilava come un paio di calzoni, roba da pompieri! A questo punto montò sul davanzale della finestra col bussolotto della tinta e uno straccio per pulire la doccia e vociò a quello in soffitta: “Vado?” e l’altro gli rispose: “Vai!” Si spenzolò fuori dalla finestra lasciandosi dondolare, poi si tirò su fino al pettarrene e cominciò a verniciare. Io, intento nel mio lavoro, facevo su e giù per le scale con il materiale e gli arnesi; l’operaio che reggeva il canapo era seduto per terra con le gambe divaricate e puntate alla trave; quando Renato vociava “Cala!”, lui doveva allentare la presa e calare di un metro circa. I tre giri del canapo sulla trave avevano ridotto il peso di Renato, che invece di novanta chili era ridotto a sei o sette, bastava solo allentare la presa e fare scorrere il canapo girato alla trave, stava comodo come se fosse seduto su una sdraia. Arrivo in soffitta e quello mi dice: “lo sai mi è scappato! Ma l’ho ripreso!” Meravigliato, lo guardai e gli dissi: “stai attento!” Mi sembrò strano, ma tutto può essere, rifeci le scale tornando giù dove trovai Renato che si stava togliendo l’imbracatura e bestemmiava come solo lui sapeva… mi disse: “lo sai qui’ grullo mi ha lasciato andare!” “Come? Ma un’ ti aveva ripreso?” “I bischero mi ha ripreso, ero ma già bell’ e in terra! Meno male che avevo quasi finito!”. Renato aveva scelto lui credendo di essere più sicuro, dato che lui più grande. Io credo invece che stando in quella posizione cosi comoda si sia addormentato, altrimenti non sarebbe stato possibile che quel canapo gli sfuggsse di mano. Così, per non avere avuto fiducia in me il Bartolini battè una bella sgropponata e io fui contento, anche perchè non si fece nulla. Renato era una brava persona, bestemmiava come un turco ma non era cattivo, magari un po’ tirchio ma aveva i suoi motivi.
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Mussolini Ogni tanto Mussolini parlava agli italiani dal suo balcone di piazza Venezia e quando parlava lui, il Duce, le strade, le piazze, ovunque ci fosse una radio, un altoparlante, erano gremite di gente che in un rispettoso silenzio ascoltavano. Era un grande oratore, si rivolgeva agli italiani su argomenti di interesse collettivo, usava nel parlare delle piccole pause mentre l’eco ripeteva come a sottolineare quello che diceva. Credo che sia stata questa enfasi a conferirgli quel certo fascino e quell’ascendente su di noi…ma quando il 10 Luglio 1940 annunciò l’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania, fra gli italiani ci fu una varietà di sentimenti: la maggior parte delle persone, specialmente gli anziani, provarono un senso di disagio, di tristezza che traspariva dall’aspetto e dall’atteggiamento. Altri invece gioirono, tronfi, orgogliosi e felici di poter dimostrare quello che avrebbero saputo fare: erano i più facinorosi, sostenitori del fascio, gente che ambiva a mettersi in mostra, che non aveva niente da perdere e poco anche in testa. Una domenica pomeriggio mi trovavo con un paio di amici dentro a quel bar accanto al cinema Galileo, in Borgo degli Albizi. Stavano passando in quel momento alcuni manipoli di camicie nere che, di passo svelto, quasi correndo cantavano una canzonetta fascista sventolando i loro labari. Una persona di circa trent’anni era sulla soglia del bar con un bicchiere in mano. Ad un tratto arrivò di corsa un fanatico in camicia nera, completo di fez e papalina: senza il minimo avvertimento, gli assestò un ceffone, dicendogli: “Si saluta quando passa il gagliardetto” e sempre di corsa ritornò nei suoi ranghi. Io che ero appena dietro a lui vidi bene tutta la scena e ci rimasi molto male, come se quel ceffone l’avessi preso anch’io. Quel signore non mosse ciglio e senza proferir parola pagò e se ne andò. Non avevo mai assistito ad un fatto simile, ma mi servì per capire veramente di che panni si vestiva quella gente ed ad rendermi conto un po’ della situazione. Questo era più o meno il clima che regnava all’epoca… quando andava bene. Erano momenti di euforica follia per molte persone accanitamente fasciste. I,nfervorati come erano del partito si lanciavano spesso e vo33
lentieri in spedizioni punitive contro poveri diavoli che la pensavano diversamente, decisi a reprimere atteggiamenti ritenuti sovversivi e pericolosi per l’ordine costituito. L’opposizione al fascismo era sempre stata accanita anche se soccombente e gli antifascisti non avevano mai cessato le attività clandestine. Mentre la Germania dall’inizio del conflitto, segnato dall’occupazione della Polonia, nel 1939 invadeva il Belgio, Lussemburgo e Francia -sembrava che l’avanzata di Hitler fosse inarrestabile e che tutto gli andasse a gonfie vele - a noi italiani cominciava mancare di tutto, fino a che tutti i generi alimentari furono messi a razione: non si trovava quasi più niente, mancava la farina per il pane… allora fu fatta la cosiddetta “battaglia del grano”, che fu seminato dappertutto, in tutti gli orti, in tutte le piazze, in molti terreni che erano incolti, nel campo di Marte ed anche in piazza della Repubblica, come si chiama oggi, e riuscimmo quasi a raggiungere il fabbisogno nazionale. Certe volte ti accorgevi che insieme alla farina di grano c’erano mescolate molte patate, ma non era male… La tessera del pane era un importante documento: il fornaio ti staccava tutti i giorni un tagliandino tipo francobollo dalla tessera e ti pesava tre etti di pane. C’era una carta apposita anche per l’olio, il burro e altri grassi, si chiamavano carte annonarie. Tutto era razionato, persino il filo per cucire un bottone, il carbone, il tabacco… mancava tutto. Noi, che avevamo l’impero in Africa! E non c’era più una banana…, veniva da chiedersi “ma chi le mangia?” Insomma tutto era tesserato, chi fumava faceva la fila dal tabaccaio per la sua razione di tabacco, le cicche non le buttava più nessuno, eravamo messi piuttosto male. Dopo qualche mese di questa cura non c’era più un italiano che avesse problemi di linea, tanto meno grassi nel sangue, basta guardare qualche vecchio documentario per rendersi conto. Dopo la caduta di Mussolini, il 25 Luglio del 1943 si credeva che la guerra fosse alla fine, ci fu un vero entusiasmo popolare attraverso il quale si manifestarono la stanchezza per la guerra e l’odio per il regime, in attesa di una liberazione ormai vicina. In quel clima arrivò l’8 settembre, con la notizia della firma dell’armistizio. Tuttavia invece 34
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della liberazione e della pace dovemmo subire l’occupazione dei nazisti e la ferocia dei repubblichini di Salò. Quell’otto settembre mi trovavo di passaggio nel viale Filippo Strozzi. C’era con me Renato, erano giorni brutti, pericolosi… ’Italia era in confusione dopo l’otto settembre; le forze armate, prive di qualsiasi direttiva, si sbandarono: molti rimasti nelle caserme furono bloccati e catturati dai tedeschi, migliaia fuggirono indossando abiti civili, viaggiando anche di notte per centinaia di chilometri, molti sbandati ennero catturati e deportati in Germania. L’incapacità dei nostri comandi di assumersi responsabilità ebbe effetti disastrosi: molte persone per sfuggire alla cattura si rifugiarono in montagna, dove già si stavano formando le prime brigate partigiane. Io stavo parlando con alcuni militari, poveri ragazzi, che facevano parte di un reparto motorizzato, una colonna di 15 camion.. questi poveri ragazzi non sapevano che fare. Diversi se la svignarono, altri che avevano le macchine in consegna rimasero al proprio posto, quando ad un tratto arrivarono due motociclette tedesche, di quelle col carrozzino. I due soldati saltarono giù come si potrebbe saltare da un cavallo, lasciando andare la moto che si fermò nel mezzo del viale. Fischio in bocca e palettina rossa, i quattro tedeschi cominciarono a dare ordini, con quei comandi secchi e perentori che non lasciano dubbi neppure a chi non conosceva il tedesco, incutendo anche un certo sbigottimento. Saranno passati forse cinque minuti e avevano già preso in mano la situazione e messa in moto la colonna: con una motocicletta in testa e l’altra in coda, partirono lasciando nell’aria un odore di olio bruciato, di ferraglia, di esercito e anche un senso di disagio per quel non aver saputo cosa fare, nè come sarebbe andata a finire. Fra la notte dell’otto e il mattino del nove settembre, i tedeschi occuparono tutti gli aeroporti, irruppero nelle stazioni ferroviarie, nelle centrali telefoniche e postali e si presentarono nelle caserme italiane intimando il disarmo della truppa. Il generale Carboni, resosi conto che le forze del maresciallo Kesserling stavano scatenando una vera e propria offensiva sulla Capitale, suggerì che il Re ed il governo lasciassero subito Roma, cosi il re Vittorio Emanuele terzo, la regina e 35
il principe Umberto lasciarono il Quirinale e si trasferirono a palazzo Baracchini, dove poco dopo furono raggiunti da Badoglio. La mattina alle prime luci dell’alba, alle cinque, il Re, la Regina e l’aiutante di campo, generale Puntoni salirono sulla fiat 2600 insieme a Badoglio, mentre Acquarone e il principe Umberto seguivano in altre macchine. Il corteo raggiunse Pescara dove li aspettava la corvetta Baionetta fatta venire apposta da Zara, quella del re e dei suoi generali: fu una fuga in piena regola. Oltre 200 ufficiali di vario rango con bagagli e famiglie al seguito, dopo avere abbandonato i loro soldati alla mercé dei tedeschi si assieparono sui moli di Ortona mare per scappare al sud insieme a Badoglio, ma solo una cinquantina poterono imbarcarsi, fra le poco onorevoli lamentele degli esclusi. Quell’otto settembre fu una brutta pagina per l’immagine dell’Italia. Bombardamenti Ogni due o tre giorni suonava l’allarme, tutte le ore erano buone. Il lugubre suono delle sirene incuteva terrore e una buona dose di curiosità, che si andava col passare del tempo attenuando perchè qua a Firenze, fino a quel momento, non era mai successo niente…ma il 25 settembre del 1943, due settimane dopo l’armistizio, ci fu il primo bombardamento che segnò la tempesta che stava per abbattersi su di noi. Quella mattina eravamo sul tetto di quella casa di cura che si trova appena si comincia a salire il Salviatino, una costruzione di colore giallo sulla sinistra. La giornata era bellissima, senza vento e senza nuvole, quando le sirene cominciarono a suonare… Convinti che si trattasse del solito falso allarme, rimanemmo sul tetto, ma già si sentivano dei tonfi laggiù, verso la stazione di Campo Marte, mentre una colonna di fumo si alzava facendo presagire brutte cose. Furono colpite molte case al di qua e al di là della ferrovia, in via Scipione Ammirato e dintorni, ma anche nel viale Malta, dove una bomba sventrò un blocco di case popolari come si darebbe un morso ad una mela. Una povera donna sui sessant’anni, sconvolta e frastornata, stava seduta su una sedia lì sul marciapiede del viale: io mi avvicinai meravigliato per lo spaventoso scenario, avrei voluto domandarle qualcosa, ma lei 36
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mi precedette e con uno sguardo stanco e rassegnato, mi disse: “Mon mi è rimasto più nulla, ho perso tutto, ho perso mio marito, non ho più casa..” e dopo una breve pausa , indicando in alto, “Vede quella materassa lassù?Quella è mia! Dove dormirò stanotte?” Infatti su un platano che superava il terzo piano c’era una materassa volata lassù per lo spostamento d’aria. Era una brutta faccenda. Cosa può fare una persona in questi momenti infausti, con una situazione dolorosa, luttuosa come questa? Non c’è che farsi forza e affrontare il destino avverso con rassegnazione, ma son tutte parole, l’unica medicina è il tempo che passa e in questi casi passa ma assai lentamente.. Ci furono 218 morti quella volta, da allora in poi gli allarmi furono presi più sul serio, quando suonavano le sirene la gente scappava verso la campagna allontanandosi da possibili obiettivi: qualcuno preferiva scendere in cantina nei rifugi, io preferivo stare all’aperto. La patria ci presentava il conto: stavamo dando tutto, anche il ferro vecchio! Furono vuotate soffitte e cantine ed era obbligatorio tagliare cancellate e recinzioni in ferro, insomma più ferro si dava alla patria, più cannoni sarebbero stati fatti, questo più o meno pensavamo.. anche se il concetto era discutibile. Quel 18 Gennaio del 1944 stavo togliendo, insieme ad un altro operaio, l’inferriata della villa accanto alla nostra bottega in piazza San Gervasio: era un lavoraccio duro, tutto il giorno a segare inferriate, ci volevano altro che tre etti di pane, alla mia età! Passò di li il signor Giuseppe, sulla cinquantina di anni, proprietario del fondo dove noi lavoravamo; ci disse di lasciar perdere e di andare a fare due passi dato che il tempo lo permetteva, infatti era freddo ma era una bella giornata. Saranno passati trenta, quaranta minuti, cominciò un forte bombardamento: obiettivo la ferrovia. Quella volta l’azione bellica ebbe successo: oltre agli ingenti danni ci furono più di settanta morti e molti feriti, furono scaricate tonnellate di bombe, qualcuno raccontò di essersi ritrovato in mutande, sempre per l’effetto dello spostamento d’aria, la cosa sembrava comica ma c’èra ben poco da ridere… qualcun’altro rimase intrappolato nei rifugi. In corrispondenza di una finestra del sottosuolo in via Masaccio, una 37
persona riuscì a parlare con della gente rimasta sotto le macerie, non c’èrano nè morti nè feriti ma non avevano niente da mangiare, avevano solo una bottiglia di brandy.. Gli fu consigliato di nutrirsi con due cucchiai di quella roba, uno la sera e uno la mattina, a detta dei pompieri sarebbero dovuti stare lì fino alla sera dopo. Era un’impresa ardua cercare di trarli in salvo da sotto quella massa enorme di calcinacci misti a pietre, travicelli e detriti di ogni genere. Solamente guardandoli si scoraggiava chiunque, e non avevano l’attrezzatura adatta, oltre tutto era anche pericoloso. Il signor Giuseppe non tornò più: si seppe che il bombardamento lo colse proprio sul ponte della ferrovia. Mentre le “fortezze volanti” americane B17 e B24 arrivavano sempre a dozzine come le uova, 12 / 24 / 36 col loro modulato rombare caratteristico, facevano sentire tutto il peso della loro potenza sulle nostre teste, avvenivano fatti e situazioni incredibili: come quei treni che passavano carichi di gente chi si lamentava chiedendo acqua da bere, stipata dentro ai carri merci. I tedeschi armati fino ai denti, alcuni di guardia seduti sopra i vagoni, era chiaro che non facevano avvicinare nessuno. Una cosa brutta che faceva pensare a qualcosa di tragico, una sensazione di paura. Il fatto non era chiaro, non si sapeva bene chi fossero quelle persone, da dove venivano e nemmeno dove le stavano portando. Ripenso ancora di non aver potuto o non avere avuto il coraggio di far qualcosa, qualunque cosa, per quella povera gente e ciò mi fa sentire ancora oggi in colpa. Che avevano commesso per meritarsi la fine che tutti sappiamo? Ci eravamo costruiti un inferno e il peggio non era ancora venuto. Il tacco degli stivali tedeschi era ferrato come i cavalli, un ottimo sistema per non consumare troppo il calcagno, il passo cadenzato delle truppe risuonava nelle strade deserte, faceva paura, era un effetto tetro, sinistro, minaccioso, si viveva nel terrore. Firenze era una città spettrale, erano pochi quelli che parlavano tedesco così non si sapeva cosa avessero in mente, salvo avvisi affissi al muro e ordinanze dell’autorità militare volte sempre a incutere terrore a tutti “I trasgressori delle leggi nazifasciste e delle direttive delle autorità militari saranno condannati immediatamente alla fucilazione o deportazione”. Fu proprio per questi con38
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tinui pericoli che mio padre decise di “sfollare”, parola molto usata all’epoca. E dove potevamo andare se non a Pomarance, un paesino di poche anime a 350 metri sul livello del mare in quel di Pisa. Ci eravamo già stati, ma questa volta ci stavamo andando per rimanere non si sapeva per quanto e la cosa non piaceva a nessuno di noi. Sfollati Appena entrata in paese, la corrièra si fermò davanti al municipio, in piazza. Era già buio e faceva un freddo boia io: non ero abituato, dovevo acclimatarmi. Trovammo ad aspettarci Beppe, il suocero di mio padre, (come dire mio nonno), un ometto di poche parole con due occhietti intelligenti e sotto un bel nasone. I saluti furono veloci, sistemò un paio di fagotti sulla sua bicicletta, io e Alberto una valigia per uno e ci mettemmo in cammino. Imboccammo una stradina un po’ in salita che attraversava tutto il paese, a sinistra l’entrata della chiesa, casucce con finestre piccole, qualche fondo di bottega. La strada finiva in una piazzetta col suo palazzo nobiliare e la caserma dei carabinieri in un angolo, sotto un arco buio. Ci inoltrammo in una stradina, quella era Via della Fonte dove abitava la Tosca. Lo sdrucciolo sfociava giù nel cosiddetto piazzone, dietro al paese, una specie di campo sportivo molto mal ridotto dove le donne portavano il bucato ad asciugare e i bambini a giocare. Non saprei descrivere bene l’impressione che ebbi, era la seconda volta che entravo in quella casa e come la prima volta mi colpì quell’odoraccio di mucido, di stantio, un misto fra il lezzo di casermaglia e di stalla. Non mi trovavo affatto bene nonostante la cordiale accoglienza che tutti ci fecero, capii subito che avrei dovuto far buon viso a cattiva sorte. Io sarei rimasto volentieri a Firenze, ma era il babbo che decideva e ripensandoci ora dopo tanti anni credo proprio che anche quella volta l’avesse indovinata. Si entrava in casa come in una bottega a piano terra ed eravamo subito in cucina, una stanza di 10 metri quadri con una finestra che guardava giù nel piazzone; da lì si entrava in un ambiente tipo garage, diviso a meta da un cartongesso: una parte fungeva da salotto con la sua brava vetrina, la tavola con le sedie, dall’altra parte fungeva da camera, meglio sarebbe dire da 39
camerata, con tre letti, due matrimoniali e uno bastardo. Dormivamo tutti lì, meno Tolmino e sua moglie. Povera gente, facevano quello che potevano. In un angolo della cucina, proprio dietro la porta di ingresso c’èra il bagno… beh.. bagno è una parola grossa, per modo di dire: non era un bagno, nè si può dire gabinetto, era un triangolino difficile da usare (io preferivo andare giù nel bosco che era vicino), la buca si chiudeva col marmo rotondo con la solita maniglia di ottone. La singolare intensità di quell’odore forte di latrina che si mescolava agli odori della cucina era una cosa stomachevole, ma c’èra solo da farci l’abitudine.. cosa che però mai mi è riuscita! Preferivo stare in casa il meno possibile, così il problema era risolto. Tolmino, fratello della Tosca, faceva il calzolaio; la moglie Bruna andava qualche ora a servizio, avevano un bambino di tre anni che piangeva sempre, stava seduto su un seggiolone tutto il giorno. Poi c’era Emma, una ragazzotta più giovane di me di qualche anno, sorella della Tosca e di Tolmino ma con poca salute. La vecchia Sofia, madre di tutti, era quella che comandava, mentre la Tosca aiutava nelle faccende di casa. Il nostro lavoro era quello di procurare legna per la cucina economica che era sempre accesa. Io e Alberto, armati di roncola e pennato, andavamo per quelle campagne a cercare legna secca, per tornare a casa con un bel fastello come sanno fare certe donne in questi paesi…Il guaio era che noi non eravamo bravi a contentare quella vecchia, noi ragazzi di città non si riusciva a trovare la legna buona! Andavamo per quei fossi , lungo i fiumi, ma la legna buona l’avevano già presa i paesani, cosi si tornava a casa con quella che si trovava, stanchi morti, tutti graffiati e con la legna verde… provare per credere. Poi c’èra da prendere l’acqua: si andava con due mezzine (brocche di rame) per prendere l’acqua, la fonte non era lontana ma c’èra sempre da fare la fila. I giorni passavano noiosi, il peggio era che non avevamo un soldo in tasca perciò ci adattavamo a qualunque lavoro, come raccattare le ghiande oppure fare le pine per vendere i pinoli …cose del genere, non erano lavori ma perdite di tempo. La situazione era abbastanza critica, quelle poche lire che il babbo aveva portato stavano finendo, lui era in famiglia, ma io e Alberto eravamo a carico! Questo era chia40
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ro, secondo la Sofia eravamo dei bastardacci, come soleva chiamarci quando la legna non bruciava bene. Devo dire però che, pur non uscendo quasi mai di casa, quella donna riusciva sempre bene o male a metterci tutti a tavola, di questo devo darle atto, anche se si trattava sempre di brodaglia di cavoli e minestroni di verdure varie, e quando la metteva nella scodella, col mestolone la allargava per farla sembrare di pìu. Qualche volta andavo con Beppe per aiutarlo nel suo lavoro di stagnino: allora si andava via la mattina presto e quell’uomo era il meglio elemento della famiglia, lui non si lamentava mai, non parlava mai a sproposito, più facile una parola di meno che una di più. Non l’ho mai visto malato, ma aveva un difetto: quello di non farsi pagare abbastanza, aveva ancora quella mentalità antica, rispettosa, era quasi timoroso nel chiedere il suo compenso, il suo diritto, con quella paura di esagerare…Senza contare il tempo occorso, andava a finire che si faceva dare una miseria nonostante la vita aumentasse continuamente. Questi contadini -famiglie numerose con bambini di tutte le età, composte da fratelli, sorelle, cognati, cognate- sembravano a prima vista gente povera, davano l’impressione di andare avanti a stento, miseramente, ma diverse volte mi son dovuto ricredere: in verità quella era gente che nascondeva i soldi nelle materasse, come si suol dire, e più di una volta mi è capitato di doverli avvertire che certi fogli da cento e anche da cinquanta stavano per andare fuori corso ed era necessario andare in banca per cambiarli. Ci fu un periodo che alcuni biglietti da cento lire scadevano, come nell’ottobre del 43, o come un altro foglio da 50 -quello dove c’era dietro la lupa - che scadeva nel febbraio del 1944: un paio di questi contadini fecero tre viaggi su nelle camere per farmi vedere alcune banconote.., evidentemente ne avevano di quei fogli, non saranno stati nelle materasse ma ne avevano! Sapevano che io venivo da Firenze e si fidavano di quello che dicevo. Quando si partiva la mattina con quelle biciclette era sempre un’avventura: si facevano 10/15 chilometri per andare ad accomodare pentole, paioli, tegami, in casolari sperduti in quella campagna che lui, Tulmino, conosceva bene. Allora c’èra sempre il pericolo di fare qual41
che chilometro a piedi perché le biciclette erano vecchie e ogni tanto si rompeva qualcosa, quando i fascioni, quando la catena o i freni.. Tutto sommato era una bella vita, sempre fuori all’aperto: Beppe era sano come un pesce, all’epoca avrà avuto una settantina di anni, forse meno; il suo viso era bronzeo come un pellerossa. La mattina si fermava ad una macchia che lui conosceva, staccava alcune foglie, le ficcava nella sua pipa e con quelle fumava, la sua razione di tabacco la passava a Tolmino. Prima di partire la mattina, la Sofia che era ancora a letto gli dava le varie incombenze: Beppe, se vai a monte Gemoli senti l’Annina se ti può dare una boccia d’olio, domandagli se la c’avesse una serqua d’ova per la bimba (Emma) …e dopo un po’ mentre Beppe finiva di prepararsi, di nuovo: Beppe se vai a San Dalmazio fatti dare dal fattore quelle dieci lire che ci farebbero comodo, è tanto che gli hai fatto il lavoro, oppure se vai a Micciano fermati da Vittore e fatti dare un po’ di farina… E tutte le mattine era quella storia, il povero Beppe aveva cento cose da ricordare e rispondeva sempre siiii….facendole capire che glieli aveva già rotti. La Sofia aveva ragione in quel caso, era lei che aveva un gran pensiero per tirare avanti la baracca, erano brutti momenti. Quello che mi ricordo di quel tempo erano le mosche, sì proprio le mosche: in estate, appena filtrava un pò di Sole si riempiva la cucina, si sentiva il ronzio dalla camera; il moschicida, quel nastro appiccicoso che si appendeva al soffitto proprio sopra la tavola, sarà pesato un chilo da quante ce n’erano appiccate! Una mattina verso le sei vidi la tavola di cucina nera, coperta di mosche.. una cosa impressionante, paurosa da non saper come fare! Il ronzio era un suono sordo, vibrato e metteva quasi paura. Non esisteva ancora il DDT, bisognava fare un po’ di buio e lasciare uno spiraglio di luce da una parte, da una finestra, e scacciarle fuori con un cencio. Spingerle fuori era l’unico sistema, per un po’ si stava bene e poi si ricominciava. E così, fra il puzzo della latrina, la sporcizia, il poco custodimento era proprio una cosa da tbc, che la povera Emma aveva contratto. Non so da quanto tempo quella malattia le covava dentro, fatto sta che dopo tanto patire e varie degenze morì in un ospedale di Livorno. 42
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I Marrazzini, una famiglia di sfollati come noi ma da Pisa, ci aiutarono a passare quel brutto periodo di sfollamento: gente brava e cordiale, gradevolissima. A Pisa erano rimasti i due fratelli più grandi e il padre, (loro abitavano in piazza S Caterina) mentre la madre Presilde sfollò con il resto della famiglia, tre femmine e un maschio, in ordine di età: Anna 19 anni, Brunello 17 anni, Maria 15 anni, una più piccola di 7 anni. La mamma Presilde era una donnina tutta pelle e ossa molto simpatica, una buona donna ma che all’occorrenza sapeva farsi rispettare. Sulla sua faccia si leggeva tutto il disagio della lontananza da casa, con la responsabilità dei figli. Anna, bellissima ragazza dagli occhi chiari, bella bocca, un tipo solare, bionda, ben fatta… la sua canzone era Birimbo Birambo, la canticchiava sempre.. Era un bel bocconcino, diventammo molto amici, o meglio.. me ne innamorai subito. La signora Presilde riuscì, tramite il sindaco del paese, ad avere delle stanze su in mansarda del palazzo Larderelle: lì noi si trascorreva la maggior parte del nostro tempo libero, in compagnia di questi Marrazzini. Dopo alcuni giorni di pioggia, un venticello gelido strappò quelle poche nuvole rimaste, rimettendo il tempo al sereno, ma faceva un freddo birbone: quella mattina mi trovavo nella botteghina del barbiere, l’attuale Figaro, era un nostro amico anche lui sfollato da Livorno, capitato li non si sa come. Amante della musica leggera, bene intonato, canticchiava quella polvere di stelle americana, rifatta poi in un secondo tempo da Natalino Otto. Alberto, vicino all’ingresso, guardava attraverso il vetro com’era il tempo; si abbottonò la giacchettina autarchica e disse Vò da Brunello e saltando di quà e di là per scansare le pozze attraversò la piazza Larderelle ed entrò nel palazzo omonimo. Dopo un paio di minuti lo seguii. Brunello stava stirandosi i pantaloni con un vecchio ferro a carbone. Oh dove siète stati fino ad ora a far legna? Disse con quel suo modo tutto pisano, distogliendo per un attimo il suo sguardo dalle pieghe fumanti dei calzoni. Era un ragazzo non tanto alto, un metro e settanta circa, capelli chiari come la sorella maggiore, estroso, stravagante intelligente, le sue battute erano originali. Più 43
pronto di me in certe situazioni, sembrava più grande nonostante avesse la mia età: credo che il convivere con i fratelli e le sorella più grandi di lui abbia influito sulla sua precocità. Sale Il problema era sempre il solito, trovare il modo di guadagnare qualche soldo. Molte persone andavano a fare il sale: anche quello era tesserato, non riuscivo a capire perchè nella nostra penisola mancava il sale, da dove doveva venire il sale? dalla Cina? Tira via per le banane, ma il sale? Decidemmo di andare a fare il sale anche noi. La cosa fu studiata sommariamente e ritenuta fattibile, fu deciso di andare alla polla di Birignone dove nessuno avrebbe detto niente perchè era al di fuori dalle miniere di salgemma che erano di proprietà governativa. Ma siete matti, disse Maria, vi arresteranno tutti e tre. La Maria era una dolce ragazzina con due occhioni neri e sognanti tagliati leggermente a mandorla, si esprimeva con una incantevole soavità.. mi attraeva molto quella figliola, ma non volevo mettere troppa carne al fuoco dato che mi piaceva anche Anna. Anche ad Alberto piaceva Maria. Se abbiamo fortuna di non trovare nessuno prima di noi, fra stanotte e domani tre chili di sale si fanno. La previsione non era sbagliata, ma alcuni inconvenienti non previsti fecero si che tutto andò a farsi benedire, insomma facemmo i conti senza l’oste. Avevo un solo pensiero, quello di stare fuori tutta la notte, ma tutto sommato la cosa mi andava, c’èra quel sapore di avventura, di una cosa straordinaria che sempre una persona cerca… E noi avevamo due cose per appagare questo desiderio, la nostra giovane età e il periodo in cui eravamo, la seconda guerra mondiale. A quel tempo tutto era un’avventura, e cosi con la nostra esuberanza ci mettemmo subito in moto: i preparativi furono espletati in quattro e quattr’otto, del resto non c‘era che da avvertire la Sofia e prendere la nostra razione di pane del giorno dopo. Finito di desinare, prendemmo la scorciatoia che da Pomarance porta a Saline di Volterra: dopo cinque chilometri attraversammo il ponte della Cecina, voltammo a destra per un sentiero che risaliva il corso del fiume e dopo un altro chilometro eravamo arrivati alla famosa polla di Birignone: si trattava 44
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di una grossa buca, come un grosso paiolo piantato in terra, pieno per metà di acqua salata che veniva sù dal sottosuolo. Brunello, tirò fuori una patatina, che a suo dire sarebbe rimasta a galla in presenza di acqua molto salata, invece anche se piano piano la patatina andava giù. Io ci misi un dito e l’assaggiai, mi sembrò piu salata di quella del mare. Facemmo subito uno spuntino, il filone di pane da un chilo fu avviato, in breve tempo fu acceso un fuoco ed io cominciai a prendere acqua da quella buca con un bicchiere di latta, facendo attenzione a non intorbidira altrimenti il sale non sarebbe venuto bello bianco. Avevamo un recipiente che somigliava ad una grossa teglia: l’acqua evaporava più velocemente e il sale rimaneva sul fondo, era semplice. Il fiume Cecina aveva un greto molto largo: sulla sua sinistra c’erano delle grandi baracche di legno che contenevano materiale esplosivo: era una polveriera della guerra 15-18, nelle sue cassette c‘erano zolfo, salnitro, carbone, potassio.. tutta roba utile al nostro scopo, sembrava di maneggiare pasta, erano come nostri spaghetti o lasagne. Bastava buttare una manciata di quella roba sul fuoco per produrre una vampata che faceva bollire l’acqua. Si stava facendo buio, il sole in quel mese tramontava presto e il freddo cominciava a farsi sentire. Non eravamo equipaggiati per quell’ avventura, i nostri vestiti non erano né di lana e neppure di cotone, ma autarchici ossia un materiale riciclato, per la maggior parte si trattava di ginestra, paglia e qualche altra erba: roba che se la davi ad un cavallo la poteva anche mangiare; ogni tanto in qualche punto si sfilacciava e di lì si riconosceva che filo di erba era. L’Italia sfruttava le proprie risorse per rendere economicamente indipendente il paese che era sanzionato da tutti gli altri, cosi sui nostri mercati si trovava tutta questa roba che in un primo momento fece un gran furore perchè piaceva molto: tipo nuovo, bei colori, erano proprio delle belle giacche e gli italiani gli appiopparono un nome: domani mi voglio comprare una giacchetta colore “Frittata di carciofi o Frittata di spinaci “ questi erano i colori, peccato però che la durata era proprio come una frittata. La polla era all’asciutto e per ricominciare a prendere acqua dovevamo aspettare almeno tre ore. Alberto e Brunello decisero di andare 45
ad un’altra polla, lontana da li circa sei chilometri, così facemmo un altro spuntino. Non avevo mai mangiato un pane buono come quello, avevamo sempre fame, tanto che una fetta io, una lui e cosi via..del filone rimase un cantuccio che fu serbato per la mattina dopo. Alberto e Brunello andavano molto d’accordo, erano come il pane e il cacio, e cosi partirono con una tanica da venticinque litri in cerca di acqua salata. Io rimasi solo, a guardia dello “stabilimento”. Alle mie spalle, il bosco di Birignone, un’enorme massa nera, un buio infernale, solo la luce del fuoco. Non sentivo nessun rumore, solo lo scorrere del fiume che passava a pochi metri. Il freddo si era fatto intenso: nel momento che mi scaldavo dietro mi diacciavo davanti, più passava il tempo e più ero preoccupato. Non era paura, ma di fatto mi trovavo solo in un bosco, di notte, con un buio impenetrabile e la cosa mi dava un pò da pensare, era proprio una selva oscura e io per farmi un po’ di coraggio buttavo sul fuoco tanta di quella roba che avrei potuto mandare un treno. Il rosso delle fiamme,il buio tutt’intorno.. sembrava di essere all’inferno e io sembravo un diavolo, o un dannato, dipende dal punto di vista. Non saprei dire quanto tempo passai in quella situazione, quando ad un certo punto sentii nel buio qualcuno che si avvicinava, poi di lontano una voce dette il buon giorno in modo timoroso, come se passando di lì mi avesse disturbato. “Forse sembravo più diavolo che dannato”, mentre un grosso cane bianco tutto riccioluto era già lì ad annusarmi. Colsi l’occasione per chiedere l’ora, ma non la sapeva, mi disse che era un pastore e che andava a prendere le pecore; si trattenne meno di un minuto, ci salutammo e mentre si allontanava disse: di preciso non lo so ma saranno le due e mezzo e in un batter d’occhio sparì col suo cane nel buio della notte. Dal freddo mi difendevo, ma avevo una fame boia, così mangiai la mia parte di pane che era per la mattina, calmando il mio stomaco. Dopo tanto tempo e con gran sollievo, sentii il fischio di famiglia che Alberto emise da lontano: arrivarono stanchi morti, con quella tanica d’acqua che non chiudeva bene e che nel portarla aveva bagnato la giacca di Alberto, il quale se la tolse con l’idea di asciugarla al fuoco: con grande ilarità di tutti, nel posarla in terra rimase ritta come un 46
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baccalà secco, guarda lì disse Brunello, e ci mettemmo tutti a ridere. Si seppe il giorno dopo che la notte in quel periodo la temperatura scendeva anche a cinque gradi sotto lo zero. Per loro non era un gran freddo, avevano macinato tutti quei chilometri, ma io l’avevo sentito. Intanto l’acqua bolliva e il sale si formava sul fondo. Cominciava a farsi giorno e piano piano si illuminava il selvaggio ma bellissimo bosco di Birignone con le sue verdi piante di corbezzole. La Cecina era ingrossata e stavano passando delle grosse zucche mezze fuori dall’acqua: con un lungo bastone ne tirammo fuori una, la feci a pezzi, la buttai nel calderone del sale. La cottura fu veloce, la fame ci mordeva e non potevamo più aspettare, cominciò il banchetto (che cervelli, di gallina!). A volte quando siamo giovani si fanno cose da pazzi: ne avrò mangiata un etto prima di accorgermi che era salata marcia, una cosa schifosa… ogni tanto ci ripenso, ma come disse il sommo poeta: “più che la fame poté il digiuno” (provare per credere). Nella polla non c’èra più acqua, nel calderone il sale pareva abbastanza asciutto, feci l’ultima fiammata per asciugarlo meglio e si fece festa. Verso le dieci arrivammo a casa. Ero stanco morto, avevo sofferto fatica, fame, paura e freddo; il sacchetto di sale che era ancora molto bagnato, fu messo in salotto dietro la vetrina che era in un angolo della stanza e andammo a letto. Alla sera avevano tutti e due una febbre da cavalli 38,5, che ci costrinse a letto tutto il giorno dopo. Brunello non venne a trovarci perchè anche lui ebbe la febbre a 38: probabilmente, la zucca fece male anche a lui. Ma fu il diavolo a mettere la coda: il sacchetto di sale risentì del cambiamento del tempo, come raccontano i vecchi saggi, quando il tempo è a dorco, cioè anche se non piove è umido, il sale se non è asciutto bene ritorna al suo stato solubile, cioè acqua. Le donne in casa asciugavano quei mattoni senza sapere chi avesse bagnato in terra: la mattina dopo dovettero addirittura passare la segatura e dopo un paio d’ore un altro rigagnolo usciva da sotto la vetrina… E così tutti i nostri sforzi finirono in una pozza d’acqua. Questa cosa mi ha fatto pensare: io non mi so spiegare, ma altri tre ragazzi furono arrestati perchè facevano il sale da soli. Non li misero 47
in carcere ma li trattennero una notte nella caserma dei carabinieri di Vicchio e siccome era molto freddo fu messo a loro un braciere per scaldare un po’ l’ambiente, ma la mattina dopo furon trovati tutti morti per l’esalazione del gas. Questo sale sembra quasi una maledizione, come se non debba essere usato da nessuno. Comunque del sale non se ne parlò più. La Pelle di Coniglio La voglia di fare qualcosa per rimediare qualche soldo era forte. Fu il babbo che leggendo un vecchio giornale trovò assai bene spiegato il sistema per conciare le pelli di coniglio: sembrava scritto per noi, avevamo anche per l’appunto una grossa conca, si trattava di mettere le pelli in questa conca d’acqua dove fosse stato sciolto una certa quantità di allume di rocca, tenerle in bagno per una settimana, poi su un piano rasare il pelo con un raschino. Andavano poi messe ad asciugare ancora sono umide, tirandole da tutte le parti, allargandole e rendendole belle bianche e pulite. Il lavoro veniva bene, cosi cominciammo a battere la campagna in cerca di pelli di coniglio. Bombardamento di Pisa Dopo qualche mese ci fu un forte bombardamento a Pisa, il padre di Brunello non si trovava più, allora fu deciso di partire per sapere cosa fosse successo e tutti e tre si partì! D’altro canto meno si stava a casa meglio era! Andammo subito in piazza Santa Caterina: a casa c’èra Ugo, il fratello maggiore, anche lui nonostante non avesse più notizie sperava sempre di trovare il babbo in qualche ospedale. La città era devastata, Borgo stretto, Borgo largo, tutta la zona era stata colpita: monti di macerie, gente che scavava con dolore fisico e morale… era uno strazio. Pisa era un importante nodo ferroviario, quindi per chi restava, la morte era sempre in agguato. Il Marrazzini fu visto l’ultima volta verso mezzogiorno in Borgo Largo, poi più niente. Si seppe che in quei giorni migliaia di morti furono sepolti in fosse comuni e non si poté saperne di più. Non mi addentro nei particolari della profonda angoscia e del dolore che provò la moglie e tutta la famiglia: lo cono48
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scevo il babbo, l’avevo visto un paio di volte, alto e di una certa età, tipo commendatore.. sembrava una persona a modo, dispiacque anche a me. Anche Alberto si trovò a Pisa durante uno dei più grossi bombardamenti: c’erano con lui la vecchia Sofia, la Tosca e l’Emma, la quale tornava da un ospedale di Livorno. Il treno arrivò in stazione un minuto prima che suonasse l’allarme e cominciò subito il bombardamento, uno dei più terrificanti per intensità; l’idea era quella di uscire fuori dalla stazione e scappare lontano. Alberto era in testa, ma aveva due valige molto pesanti che non gli consentivano di correre. Una volta entrati nel sottopassaggio non era più possibile muoversi e andare avanti per il via vai delle persone e la gran confusione che regnava in quel momento… chi voleva uscire, chi voleva entrare, così praticamente rimasero imbottigliati. Le bombe scoppiavano facendo impazzire di paura le persone. Molti pregavano. Alberto, facendosi largo nella calca seguito dalle tre donne che si trainava, era quasi riuscito ad arrivare alle scale quando una bomba cascò lì vicino: lo spostamento d’aria fu così violento che gli strappò le valige lasciandolo con i manici in mano! In quello stesso momento, una decina di soldati tedeschi si buttarono quasi a tuffo giù per le scale intimando a tutti di non uscire. La gente pregava in preda ad un profondo terrore. Scoppi terribili, bagliori accecanti, potenti spostamenti d’aria sconvolgevano tutto e tutti: uno scenario da incubo, una bolgia infernale. Dopo qualche minuto, due soldati tedeschi tentarono di scendere aiutati da altri, portando un compagno che aveva perso una gamba: era disteso sopra un cartellone pubblicitario che si stroncò facendo imprecare dal dolore il povero soldato. Alla fine rimase in piedi solo quel sottopassaggio, tutto il resto non esisteva più, non rimase più niente…solo stupore e terrore, una distesa allucinante di macerie. Quelli che si trovarono all’esterno morirono tutti, chi per le bombe e molti per l’enorme massa di ferri contorti aggrovigliati a fili dell’alta tensione. Una cosa indescrivibile. Ci furono più morti fuori che dentro la stazione. Alla fine del racconto Alberto disse: posso ringraziare quelle due valige, altrimenti io sarei stato già 49
fuori e chissà come sarebbe andata. Unendo l’utile al dilettevole, andavamo per quella campagna per comprare pelli e per svago. Capitammo una mattina in casa di un contadino che abitava giù nella piana della Cecina e parlando del più e del meno il discorso cadde sulla situazione della guerra: ad un certo punto quella donna, la massaia, ci mostrò una fotografia di suo figlio prigioniero in America. Nella foto si vedeva una squadra di prigionieri e un sergente americano che li comandava. Aveva un bel cappellone alla texana e un paio di ghette che davano proprio nell’occhio, ma quello che piacque a Brunello furono i gradi del sergente che, contrariamente ai nostri che sono volti in su come la V, erano invece volti in giù. Questa diversità piacque a Brunello che esclamò “che ganzi questi americani!” In quel momento un ragazzo diotto-dieci anni usci dalla cucina e poco dopo ritornò portando un poliziotto repubblichino: chissà cosa credeva di aver fatto quel cretino, forse un atto eroico.. Il milite che parlava un meridionale nel modo più odioso per un toscano, col fucile puntato ci costrinse ad andare con lui, noi avanti e quel diavolaccio dietro con l’arma puntata.Il tragitto per arrivare ad un posto di comando sarà stato ad un paio di chilometri, ma la fortuna stette dalla nostra: una signora che stava scuotendo un tappeto da una finestra, con un tono di comando disse. Ma dove va? Dove li sta portando? non vede che sono tre ragazzi! Ma lasci perdere mi faccia il piacere, questa frase detta a quel modo sembrava quasi un rimprovero, come si direbbe a un bambino scemo. Si seppe dopo che era la moglie di un capitano: a quel punto, il repubblichino che aveva tenuto fino a quel momento un comportamento ostile disse: beh se la signora ha chiuso un occhio, io chiuderò l’altro, ostentando un atteggiamento da superuomo. Per noi, che non sapevamo neppure quale misfatto avessimo commesso, era sempre il solito stronzo che si faceva grande indossando un’uniforme, esaltato dall’importanza del momento e armato di fucile. Ce ne andammo alquanto indispettiti, ripromettendoci che se le cose fossero cambiate lo avremmo cercato per fargliela pagare e fargli passare la voglia di fare l’eroe, a lui ed a 50
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quell’altro stronzetto che era andato a chiamarlo. Mi capitò di lavorare qualche mese alla fattoria del Palagetto. Il proprietario all’epoca era il signor Bianchini, il quale saltuariamente veniva su da Firenze per curare i suoi affari. Quella volta facevo il manovale. Il maestro muratore era un certo Pini di Pomarance. Cominciammo in due a fare le fondamenta di una rimessa per carrozze e calesse, una lunga fossa cm 60 x 70, , roba grande, tutto con piccone e pala. Io mi adattavo bene con certi arnesi, anche se non li avevo mai adoprati e la sera mi sentivo stanco morto: per tornare a casa occorreva un’ora di strada tutta in salita, ma per fortuna mi trovai d’accordo con la fattoressa per rimanere a dormire in fattoria. Gli Alleati Correva la voce che gli alleati fossero vicini e che presto avrebbero liberato il paese, ma la gente non si sentiva tranquilla. La propaganda del regime fascista faceva la sua parte per incutere terrore alla popolazione, dicendo che sarebbero arrivati orde di barbari con brutte intenzioni, negri antropofagi con dei piedoni spropositati, e che la peggio sarebbe toccata alle donne come prede di guerra, tutte cose che mettevano addosso una paura matta, o se proprio non paura almeno una certa inquietudine. I partigiani dal canto loro intensificavano gli atti di sabotaggio provocando reazioni rabbiose a scapito anche della popolazione civile. Il quartier generale o luogo di coordinamento credo sia stato in Birignone, un’area grande, fatta di fitta boscaglia che si estendeva da Volterra, in provincia di Siena, più a sud a Montecarelli, Larderello. Un gruppo di questi partigiani, gente che conosceva bene la zona, arrivò una sera verso le undici alla fattoria del Palagetto a Pomarance e picchiando con i calci dei fucili intimarono di aprire. Mentre la fattoressa alquanto intimorita scendeva le scale, una voce forte imperiosa gridò: “uomini circondate la casa“. Entrarono non so in quanti, ma potei giudicare una diecina non di più. Uno di loro entrò in camera mia e volle sapere chi ero e perche ero li, io gli spiegai che ero sfollato da Firenze e che ero 51
lì perche in paese i tedeschi portavano via gente per lavorare, bravo! Mi disse: se vuoi venire con noi c’è sempre posto per gente come te, lo ringraziai gli dissi che sarei andato volentieri ma dovevo lavorare in fattoria e non potevo. Mi infilai i pantaloni e scesi giù, questi con buone maniere ma risoluti chiesero e ottennero un sacco di farina, una damigiana di vino, un bel sacchetto di fagioli, una damigiana piccola di olio e un bel sacco di patate. Mentre il fattore e il Bianchini preparavano a malincuore tutta questa roba, altri quattro partigiani arrivarono da poggio Pierino con un carro tirato da due vacche con dentro un altro sacco di roba, una damigiana piccola di vin santo e altro; ma a me chi me la paga questa roba, disse il Bianchini che non aveva punta paura e gli giravano anche le palle…La brigata Garibaldi disse il più anziano. Era quello che aveva loluto perquisire la casa, un omone robusto, sembrava un capo, uno che dava ordini, calmo, con un atteggiamento composto e tranquillo, senza turbamenti. Rilasciò una nota di tutta la roba sequestrata e la firmò Brigata Garibaldi, quindi fatto il carico sparirono nel buio della notte come erano venuti. Passò una diecina di giorni, ero stanco come tutte le sere, stavo per andare a letto, quando per la seconda volta ci intimarono di aprire battendo sulla porta coi calci dei fucili. Solito ordine di circondare la casa, la fattoressa e suo marito aprirono la porta, entrarono con irruenza, sembravano in meno rispetto alla prima volta, avevano le facce coperte da passamontagna, due di loro avevano sul viso delle pezzuole tipo briganti del far west. Uno disse: vogliamo trecentomila lire! A Pomarance il signor Fidia Bianchini era considerato un gran signore, padrone della fattoria il Palagetto, con terreni e palazzi a Firenze, i soldi lui non li teneva nel portafoglio ma avvolti in un panno e custoditi in una tasca interna della sua giaccona. Tutti i paesani sapevano di questa sua particolarità e durante un viaggio in autobus da Pomarance a Firenze, seduto vicino a lui, ebbi l’occasione di constatare che ciò èra vero. Dovevano essere un bel po’ di quattrini perchè era un bel fagotto, forse avrà avuto da pagare gli operai, vallo a sapere. A quella richiesta il Bianchini si mise sulla difensiva, e con tono ironico e divertito disse: mi avete preso per una banca? ma chi ce là una cifra del genere? 52
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Non facciamo tanti discorsi, sappiamo che lei ha questi soldi e ce li deve dare, sono per una giusta causa, noi combattiamo anche per voi! Vi rilasceremo una ricevuta e sarete rimborsati a guerra finita! Il Bianchini guardava quel ragazzone come se fosse ipnotizzato, ma in realtà lo guardava perchè lo aveva riconosciuto. Allora?….. disse il brigante aspettando che gli mettesse in mano la grossa somma, Allora icchè ?? riprese il Bianchini, ma chi si porta dietro tutti questi soldi oooh ?!! Neppure il re d’Italia! Ma quelli insistevano e questo tira e molla durò un venti secondi circa “sentite tagliò corto il Fidia: se volete un po’ di farina e un fiasco di vino, va bene, ma quattrini non ce n’è, di più non posso, siete venuti l’altra settimana ‘un ci ho mica la cava io! Ribadì con una certa forza di convincimento. Uno di loro, incavolato nero, cominciò con rabbia a menar botte col calcio del fucile su un grande armadio, spezzando due ante tanto per terrorizzare,scaricare la sua ira selvaggia…Uno lo riconobbi, era il figlio della carbonaia del paese, il quale accortosi che l’avevo riconosciuto mi tirò da una parte e mettendo il dito indice sulla bocca di disse zitto! Ma quell’atto vandalico non ci stava per niente, il vero scopo era quello di estorcere del denaro, fu una tentata rapina da parte di qualcuno che pur appartenendo alla brigata Garibaldi tentò un colpo sfruttando la situazione favorevole per gente senza scrupoli in un paese in confusione come il nostro, con gli eventi inquietanti che incalzavano. Anche il Bianchini ne riconobbe due di quei signori e disse anche chi erano, poi guardando quel foglio che aveva in mano disse quasi fra di sè Anche l’armadio lo ripaga Garibaldi e la cosa finì li. Alla metà di giugno 1944 la quinta armata americana era fra Grosseto e Castelnuovo Val di Cecina, praticamente ad un tiro di schioppo da noi. Dopo una lunga sosta a Montecassino, gli alleati avanzavano velocemente; gli ultimi difensori della patria se ne andavano, prima i grandi capi fascisti, poi i vari poliziotti repubblichini dell’ultima ora, dopo i più giovani, le MM, ragazzi arruolatisi per due motivi validi: il primo, perchè prendevano una bella paga, il secondo perchè bene o male mangiavano tutti giorni. Poi sparirono quei pochi tedeschi, l’ultimo baluardo per fermare la potente avanzata alleata, lasciandoci 53
in quello stato di inquietudine nell’aspettare quelle orde di barbari descritteci, pronte a rubare, violentare, terrorizzare, la gente. Avevamo saputo che qualcosa era successo a Montecassino, perciò organizzarono una partenza, uno sfollamento in massa e sfortunatamente fui costretto anche io e Alberto. Per noi fu un’ idea malsana ma prendemmo parte a quella bischerata insieme ad altre novanta-forse cento-persone fra paesani e contadini, con la roba più importante su due carri tirati dalle vacche: partenza ore dieci, destinazione Gesseri. Gesseri Gesseri era un grande casolare a sud di Volterra, nel mezzo del bosco di Birignone, più alto di Pomarance credo cosi ad occhio e croce 600 metri sul livello del mare, forse più. Fu una gran fatica, uno strapazzo enorme e inutile per arrivare lassù; da quell’altezza si dominava mezzo mondo, e infatti trovammo una batteria di cannoni tedeschi ben piazzati. C’era una grande casa dove abitavano alcune famiglie fra pastori e contadini. Arrivammo in cima verso le undici la mattina, tutti cercavano di sistemarsi meglio possibile. Per me fu una cosa inconcepibile, assurda, un sacrificio inutile, tutti quei chilometri per andare dove? E quanto saremmo dovuti stare lassù? Le donne del posto offrirono una certa ospitalità, nel senso che se qualcuno avesse avuto bisogno del fuoco o della cucina li poteva usare. Tolmino vide nel salire per quella stradella un campino coltivato a patate e chiese il permesso per prenderne un paio di chili, il permesso fu accordato e io andai con lui per aiutarlo, avevamo uno zaino. In quel campicello cascavano le cannonate e tutte nel solito posto, tanto che si era formata una grossa buca, Strano modo di fare la guerra pensai, ma non era una novità, gli americani sparavano tanto per far sapere che c’erano e basta. Le patate erano piccole ma lo zainetto si riempì presto. Durante il ritorno per quella carreggiata sentimmo il rumore di una motocicletta, allora subito ci inoltrammo nel bosco come sempre facevamo per non incontrare i tedeschi; passato il pericolo, sentendo allontanarsi il rumore della moto, ritornammo incautamente sulla strada quando un tedesco dietro di noi a una trentina di metri gridò qualcosa in modo 54
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secco, esplicito, da non ammettere repliche o discussioni. Sapevano che quei boschi erano zone battute da partigiani, perciò adottavano strategie, astuzie con particolari accorgimenti e criteri da anti guerriglia. Posammo lo zaino in terra, lui ne volle controllare il contenuto “cartoffle “ disse Tolmino, il soldato allargò l’apertura con la canna del fucile poi disse: Bon! Se invece di patate fossero state bombe ci avrebbero fucilati subito. Riprendemmo lo zaino e facemmo l’ultimo pezzo di strada insieme. Ritornati alla casa del contadino che ci stava ospitando, io mi sistemai in un fienile dove trovai una covata di uova, ne bevvi subito una! Erano buone, le altre le avrei prese più tardi, il posto era magnifico, la giornata splendida, non potevo immaginare quello che di lì a poco sarebbe successo. I tedeschi dovevano ritardare il più possibile e con tutti i mezzi l’avanzata alleata, per dar tempo alle truppe di ritirarsi con calma e preparare l’arma che avrebbe cambiato le sorti della guerra: questo era l’ordine dell’alto comando tedesco. Sul pianerottolo del primo piano di quella grande casa, fra le altre cose, vidi una balla di tela fitta con dentro una diecina di piccole forme di formaggio pecorino. Anche un’altra persona le aveva viste: la Sofia, La madre della Tosca! E di li nacque il guaio, una cosi bella occasione faceva gola alla vecchia, che dovendo sempre barcamenarsi in situazioni difficili per trovare da mangiare per tutta la famiglia, decise di agire e guardandomi negli occhi mi disse: Bimbo! Cala giu alla finestra quella balletta che ci farebbe comodo! io risposi E con cosa la calo? Oh no no !! Io non me la sento, di rubare, mi dispiace ma io no! E me ne andai, ero sicuro che se mi fossi provato mi avrebbero subito scoperto, ma la vecchia non si dette per vinta e si mise d’accordo con Alberto il quale a malavoglia dovette acconsentire. Il colpo fu tentato dopo desinare, mentre tutti o quasi facevano il riposino pomeridiano; ci eravamo accampati tutti nei dintorni di quella casa, chi mangiava, chi dormiva… I soldati stavano sul lato est e da quelli era meglio stare lontani. Per desinare avevo bevuto due uova, proprio digiuno non ero, in quei momenti eravamo parecchio sbandati ,nel senso che ognuno pensava per se come gli ani55
mali, non so cosa avesse mangiato mio padre, mio fratello Alberto o gli altri, il gruppo famigliare si era sciolto e come si suol dire: ognuno per se e Dio per tutti. Stavo come in Paradiso seduto all’ombra di una grossa pianta, mi sarei anche appisolato se non fosse scoppiato un putiferio,: Alberto e la Sofia furono scoperti –è proprio il caso di dire - con la mani nel sacco! Dalla donna del posto guarda caso, proprio la padrona del formaggio, che furba e vispa aveva “annusato” le intenzioni della Sofia. Li vide mentre calavano il sacco dalla finestra sul dietro della casa e fece scoppiare il finimondo: fu una clamorosa scenata, la Sofia cercava di scusarsi dicendo che credeva fosse roba sua e dando la colpa al bimbo (che era Alberto). Ma l’altra, che aveva ragione da vendere e non voleva passare da stupida, ribatteva: Hai visto?! Questo è il ringraziamento per averli aiutati! Bella roba..sei una troia e puttana, non sei altro E giù titoli onorifici a più non posso! Era una donna di una certa età, non più giovane ma abbastanza energica, che di passo svelto seguitando a sbraitare andò a riprendersi il formaggio, che nel frattempo era arrivato a terra. Quella volta la Sofia aveva trovato pane per i suoi denti, non era come fregare tre o quattro uova trovate in un fienile, era sempre brutto… specialmente se dentro ci trovi il pulcino, ma addirittura rubare in casa un sacco di roba… era troppo e ancora oggi non riesco a capire come avesse pensato una cosa del genere! Non so quante persone si accorsero della figura che fece. Poi arrivò la notizia: qualcuno raccontò che gli americani erano a Pomarance e che erano brave persone, quindi si poteva tornare a casa. Era anche l’unica soluzione visto com’erano andate le cose: del resto in un clima di cosi spontanea ospitalità non era proprio il caso di rimanere! Si torna a Pomarance Si formò una colonna di sfollati, con la roba rimessa sui carri trainati da buoi, si riprese la strada del ritorno. Lungo la strada, prima di arrivare al fiume, incontrammo una retroguardia tedesca che si piazzò davanti a noi sbarrandoci la strada e, indicando il fiume giù verso la 56
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valle, disse in tono intimidatorio Non andare di là, terra nera!! Era un omone alto, più alto di un metro e ottanta, sui trent’anni, faccia bronzea, tutto bardato da combattimento, mi sembrava di vivere un’avventura di Cino e Franco (i due eroi della pattuglia dell’avorio dei fumetti degli anni 35—40). A quel punto le donne cominciarono una manfrina, una lagna, un piagnisteo uggioso, tirando in ballo i bambini che avevano fame, una cosa lacrimevole che non commuoveva nessuno, tantomeno il soldato tedesco che si vedeva gli fregava proprio niente. Disse solo di nuovo: Di la terra nera, poi si spostò da un lato e i carri passarono, noi riprendemmo la nostra via crucis. Le bestie tiravano i carri lentamente almeno cosi sembrava, ma in realtà andavano abbastanza, tanto che il grosso della spedizione era rimasto addietro. Noi più giovani riuscivamo a stare al passo in testa alla colonna, avevamo attraversato il greto della Cecina e stavamo cominciando la salita che in capo a un paio d’ore ci avrebbe condotti a Pomarance; il resto della gente era ancora nel mezzo del fiume che in quel mese era quasi asciutto. Credo che il nostro tedesco abbia fatto una telefonata su alla batteria perchè improvvisamente cominciarono a cascare cannonate, io camminavo alla destra dei carri, fortunatamente le prime tre cannonate caddero a sinistra dei carri a una distanza di tre o quattro metri.. Le coordinate non erano esatte, ma seguitavano a sparare aggiustando il tiro, sempre tre cannonate alla volta. La gente che era dietro si mise prontamente al riparo, buttandosi tra quei fossi e mettendosi in salvo. Fortunatamente durò poco, i tedeschi non potevano sprecare le munizioni per dei cenciosi come noi, e così non ci fu neppure un ferito. Mi raccontarono che il vecchio Scarcilia, un uomo di ottant’anni, al momento degli scoppi si buttò in un fosso con l’agilità di un bimbetto; Attimino,un contadino che stava alle Baione (un podere vicino a Pomarance), ebbe il coraggio in mezzo a quell’inferno di sganciare le vacche perchè non fossero colpite e un paio tornarono a Gesseri. Io che mi ero buttato a terra per non essere colpito feci la frittata con le uova che avevo in tasca, ma riuscii a succhiare due tuorli! Mi allontanai di una trentina di metri dal punto pericoloso, Alberto era accanto a 57
me, fermi nascosti in mezzo a quel paleo, mezzi intontiti per le botte assordanti e per la paura, le orecchie fischiavano e facevano male, ci si teneva la testa tra le mani, ma già lo sapevamo che ci avrebbero ronzato fino al giorno dopo. Vicino a noi la famiglia Sandei, cognato della Tosca, cattolici molto osservanti, marito, moglie due maschi e una femmina dagli otto ai tredici anni, tutti cominciarono a pregare. Dopo un’ora circa le cannonate cessarono, forse, viste le vacche tornate a Gesseri, avranno pensato che fossimo tutti morti. Non so quanto tempo passò, forse quasi tre ore; i Sandei ancora pregavano e a me cominciavano a dar noia, tutta quella tiritera di Ave Marie e Padre Nostri che loro sfornavano, mi sembrava di essere già morto o giù di lì. Intanto cominciava a farsi sera, il Sole stava tramontando, ormai il buon Dio ci aveva salvati anche per quella volta, ma loro imperterriti seguitavano a pregare, ora Gloria Pater. La loro voce non era sommessa come sarebbe stato più consono, ma si sentiva da una certa distanza, anche perché erano in cinque a pregare: io non mi sentivo tranquillo, ad una ventina di metri da noi doveva esserci un viottolo, un sentiero, una strada perchè di tanto in tanto si sentiva ora correre, ora camminare, gente che passava e altri movimenti, e allora il Sandei smetteva di pregare e cominciava a chiamare Attimino!! Attimino!? Ma nessuno rispondeva, insomma credo proprio che in quei momenti avesse perso la testa ed in preda al panico, avevano ricominciato col rosario e le litanie dei santi, loro le conoscevano tutte le preghiere. Intanto dalla collina sparavano con una mitraglia; le pallottole tracciavano il percorso da sotto Pomarance verso la fattoria del Palagetto, da laggiù rispondevano altri spari, non sapevo cosa stava succedendo, sapevo solo che noi eravamo nel bel mezzo tra tutto quello sparare… e visto come si metteva la situazione decisi di allontanarmi da quella famiglia.. Non potevo sapere chi passava per quella strada, ma senz’altro era meglio stare zitti anzichè mettersi a chiamare gente, non si sapeva chi stava passando e se a qualcuno, per paura o credendo chissàcchè o chi gli fosse preso il ticchio di sparare una raffica di mitra, cosi tanto per sicurezza? Non si sapeva mai come andavano a finire certe situazioni, di certo c’era da lasciarci la pelle! Loro, con tutto il pregare,in 58
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Paradiso e noi chissà! Era buio da un bel po’ quando io e Alberto decidemmo di tornare a casa; la strada non la sapevo, si saliva e ci trovammo davanti alla casa di un contadino. Era piena di gente, molti stavano fuori, parlavano e fumavano, ma della nostra spedizione non riconobbi nessuno; ad una persona domandai dove eravamo, come si chiamava quel posto. Siamo alla casa del Re, mi risposero, avevo sentito di questo nome, ma non sapevo se era il nome del contadino o il nome del posto, comunque la notte la passammo in casa del Re. Appena fece giorno. via subito! Arrivammo a Pomarance stanchi morti, tutti sudici e affamati; avevo bevuto in tutto quattro uova, non era poco. I miei erano tutti a casa sani e salvi. Gli Americani Gli Americani erano arrivati: dopo tanto potei vedere questa gente e qui veramente ebbi una bella impressione, c’era stato un cambiamento, un qualcosa di nuovo, un senso di spensieratezza, un’aria di festa, di benessere! Era sparito quello stato di inquietudine, di disagio, era cambiato il mondo! Erano tutti americani di razza cinese, chi si radeva, chi faceva il bagno..dietro a quelle macchine si lavavano e s’improfumavano, mentre le loro radio diffondevano nell’aria delle belle musiche allegre, i primi balli moderni, i primi boogie woogie che contribuivano a quell’aria di festa…Sembrava si preparassero per andare a ballare, mica a fare la guerra, tutto dava l’impressione di una nuova vita come doveva essere. Non c’era un soldato che andasse a piedi, tutti con quelle jeep: si vedeva la grande disponibilità sia di mezzi che di materiali, non gli mancava proprio niente, nè nell’abbigliamento nè nel settore alimentare, a cominciare dalla birra fino alle cioccolate, alle sigarette, per non parlare dello scatolame. Avevano persino una scatoletta con dentro una bustina di tè, tre bustine di zucchero e tre sigarette da usare in circostanze di emergenza. La montura era di una lana pettinata della migliore, di un bel colore nocciola, che oltre ad essere un bel colore, aveva anche la qualità mimetica; quei pantaloni che erano sempre in piega davano un che di eleganza, un tono di signorilità specialmente agli ufficiali, niente a che vedere con le monture dei 59
nostri soldati che quando ti danno un paio di pantaloni te li buttano dalla finestra del magazzino senza guardare una misura, se poi vai a cambiarli perché troppo larghi o troppo stretti ti rispondono arrangiati! Proprio come successe a me quando risposi alla leva obbligatoria, mi mandarono in Piemonte a Casale Monferrato, mi dettero dei calzoni cortissimi, ma io fregandomene rimasi per tutta la ferma coi calzoni che mi avevano dato, facevo ridere. C’è una grossa differenza da un esercito ad un altro: pur essendo il tedesco uno dei migliori combattenti del mondo per coraggio, disciplina e senso del dovere, niente poteva contro quella dovizia di mezzi. Mi vengono in mente alcuni manifesti che la propaganda fascista aveva affisso sui muri - qualcuno con i capelli bianchi si ricorderà dove si leggeva Il menù del soldato; una pagnotta (quattro etti di pane) al giorno, minestra e lesso o minestrone, pasta e fagioli oppure pasta asciutta, carne mai ma insalata e frutta secca quanta ne volevi. Il menù poteva anche cambiare ma era sempre un vitto povero. Queste istantanee di ricordi ancora vivi nella mia memoria mi portano a delle considerazioni tristi, per il fatto di essere sempre stati poveri e di conseguenza perdenti o quasi: intendo dire, felici per la caduta del nazifascismo, ma mi piacerebbe che noi italiani fossimo un po’ più considerati visto che siamo brava gente e bravi lavoratori anche all’estero. E qui incolperei nostri governanti. Come si fa a farsi trascinare in un’avventura come la Seconda Guerra Mondiale quando non avevamo né i mezzi né la voglia? Non fu come la conquista dell’Abissinia, contro quattro negri più poveri e più scalcinati di noi. Avevamo le nostre colonie anche se invece di sfruttarle erano loro a sfruttare noi, lì dovevamo fermarci!…. Quanti sacrifici, quanti morti inutili, quante famiglie distrutte, specialmente nella prima guerra mondiale, ci sono voluti trent’anni per rimettere un po’ le cose al loro posto… Queste sono lezioni da ricordare! Gli Americani, tanto perché i nostri timpani rimanessero in allenamento, sparavano con dei grossi cannoni dal Bulera (un podere vicino 60
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a Pomarance) verso Volterra… una confusione assordante che durò una settimana. Da Volterra, un carro armato tedesco spostandosi da un bastione all’altro sparava verso Pomarance. Un giorno volli andare a vedere questi cannoni: se non ricordo male erano quattro, con canne molto lunghe… Era una cosa emozionante, non capita tutti i giorni di essere vicino a quegli ordigni distruttivi. Per ogni pezzo c’erano tre soldati. Uno di loro stava seduto su una seggiolina e leggeva un giornalino di Topolino, gli altri due pensavano a caricare l’arma; appena il pezzo era pronto, quello che leggeva tirava la cordicella e il cannone sparava. Tutti gli altri facevano la stessa cosa. Rimasi meravigliato, non per la cosa in sé - c’erano dei cannoni che sparavano - ma per la semplicità, per la noncuranza della faccenda, insomma questi facevano la guerra come se fossero a un pic nic leggendo fumetti. Dopo sei giorni di questa guerra con rombante sonorità, il comando fu avvertito che i tedeschi se ne erano andati da Volterra! Gli americani chiedevano se c’èra una guida esperta che conoscesse bene la zona per condurre una squadra di soldati sotto Volterra, attraverso il bosco. Tolmino si presentò subito e partì con un gruppo di soldati: fu un lavoretto da un giorno e una notte, quando tornò non raccontò nulla ma fumava sigarette americane. Aveva patito molto la voglia di fumare, era un fumatore accanito, stava sempre a chiedere agli amici un po’ di tabacco o qualche cicca, tanto che in paese gli avevano messo un soprannome, lo chiamavano “cerca cicche e promette la caccia”. Qualche giorno dopo, il comando americano, con manifesti affissi al muro, notificò l’assunzione di civili da aggregare alla quinta armata per eseguire lavori pesanti e di manutenzione; paga giornaliera 700 lire! Per noi che non sapevamo mai cosa fare fu un fulmine a ciel sereno, anche se all’ultimo momento eravamo un po’ indecisi: magari non sarà stato troppo pericoloso, ma di fatto eravamo dei soldati quasi in prima linea. Assunto dagli Americani L’ufficiale era seduto a un tavolo, sull’aia di una casa colonica vicino al paese e prendeva i nomi degli assunti: quando fu il suo turno, Brunel61
lo invece di dare il suo nome dette il mio, poi quello di Alberto e infine il suo….Così fu lui a rompere gli indugi e fummo assunti tutti e tre. In tutto ne presero una ventina, fra i quali anche tre ergastolani scappati dal maschio di Volterra, vestiti ancora da carcerati a righe bianche e marroni, molto trasandati, in ciabatte…. insomma trascurati. In momenti simili, capitano delle occasioni che possono cambiare il corso della vita: infatti dopo un paio di giorni sparirono e non si videro più, chissà dove andarono a finire! Verso mezzogiorno la colonna si mosse, destinazione ignota, tutti in piedi come clandestini messicani su quei treassi (un tipo di camion); poi, durante una sosta si seppe che si stava andando a Cecina. Non presero la strada di Saline a causa di una resistenza nella zona; preferirono fare un giro molto più lungo, cosi dovemmo passare da Larderello, Castelnuovo fino a Castagneto Carducci, poi su su per l’Aurelia fino a Cecina. Verso Castelnuovo, ci fu una battaglia: da sopra al camion, potei vedere ancora i corpi laggiù in quei fossi, tra quei castagni… L’aria era irrespirabile, ammorbata dai cadaveri ancora scoperti. Erano tutti ragazzi giovani, le ultime truppe di Hitler avranno avuto non più di diciassette, diciotto anni. Li riconobbi dal colore delle monture che erano più scure del normale: un paio di mesi prima li guardavo, stavano seduti in terra nella piazza del comune di Pomarance e stavano pulendo le loro armi. Dopo tanto viaggiare arrivammo nei pressi di Cecina. Il campo era a trecento metri circa dal mare. Furono montate le tende; noi trovammo dei teli per tende piccole e riuscimmo a montare una tenda solo per noi, poi ognuno prese una di quelle cassette vuote di legno che fungevano da comodini per mettere la propria roba, non ci mancava niente. Il lavoro era facile, si trattava di togliere dalle casse alcuni tubi di un certo materiale: credo che fossero delle cariche esplosive. Il vitto era abbastanza buono e abbondante, non era quel mangiare che mi piace tanto, alla toscana, ma bastava farci l’abitudine. Un esempio per tutti: si beveva limonata o tomato -che sarebbe succo di pomodoro - al posto del vino. 62
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Il sole picchiava forte, il mare era bellissimo e calmo, ma la zona era minata: chi voleva andare a bagnarsi lo faceva a suo rischio e pericolo, infatti uno dei nostri fu trovato morto vicino alla spiaggia. I contadini venivano coi carri tirati dalle vacche a prendere quelle belle cassette vuote, di quel bel legno duro e molto lunghe, ma i soldati non erano tanto propensi a dar via tutto quel bel legname… Poi un contadino più intelligente degli altri portò come pagamento un fiasco di vino, allora la cosa cambiò aspetto: chi voleva la cassette doveva portare un fiasco di vino, cosi l’operazione diventò legale. Dopo una decina di giorni fummo trasferiti in un bosco nei pressi di Colle Salvetti. La Quinta Armata, dopo la liberazione di Livorno, avanzava e si apprestava ad attraversare l’Arno, mentre l’Ottava Armata britannica si trovava nella zona del Chianti: si era alla seconda metà di luglio del 1944. A Colle Salvetti si lavorava sodo. Le bombe che si caricavano su quei treassi pesavano 105 chili e noi le prendevamo in tre, uno per l’anello e due per la culatta: non c’era pericolo perchè il congegno di scoppio sarebbe stato messo solo al momento dell’uso. Una sera ci fu una scommessa fra tre soldati: chi non fosse riuscito a caricare una bomba sul camion da solo avrebbe dovuto pagare una birra agli altri. Uno era un giovane ben piazzato, con una notevole struttura fisica che faceva intuire una forza non comune; l’altro era un autissta nero, anche lui ben messo; l’ultimo una persona normale, senza evidenze da sollevatore di pesi. I primi due ce la fecero bene, il terzo rispetto agli altri era più mingherlino ma deciso e risoluto: con un enorme sforzo, riuscì a sollevare l’ordigno, ma il proiettile fatto a supposta tendeva a scivolare. Stavamo tutti lì in apprensione, ci sarebbe dispiaciuto se non ce l’avesse fatta… Invece ci riuscì, sollevò la bomba sulle braccia e la posò proprio sul bordo del camion, con soddisfazione di tutti i presenti! Poi tutti e tre se ne andarono, forse a bere una birra. Brunello, che guardava esterrefatto, esclamò:” Che gente!!” I giorni passavano. Stavo bene, mangiare e bere non mancava ed ogni quindici giorni ci davano la paga: io non chiedevo atro! Intanto cominciavo a capire un po’ di quella lingua americana. Per prime furono le parolacce, come sempre succede. 63
I soldi li tenevo in una robusta tasca dei pantaloni, cucita con un filo di rame: bisognava stare attenti perché c’era della gente poco raccomandabile. Una mattina fummo svegliati dalle granate che scoppiavano proprio davanti alla nostra tenda: era la seconda volta che le bombe ci cadevano alla distanza di pochi metri! Cosa strana, non avevamo paura. Forse eravamo vaccinati contro quella pazza guerra. Gli esperti di balistica capirono subito che i colpi venivano dal bosco sopra di noi, così partì una squadra di uomini per scovare il mortaio: eravamo a soli cinque chilometri dietro la prima linea e quindi tutto era possibile Di li a poco rientrò la squadra con due prigionieri: erano due ragazzi come noi, avranno avuto 15 -16 anni.. Questi erano rimasti indietro rispetto agli altri, non credo proprio che avessero voluto fermare l’avanzata del nemico: per loro la guerra fini li, i prigionieri li mandavano tutti in America…..chissà cosa faranno a quest’ora. Una bella mattina ci chiamarono su al magazzino e ci dettero un bel paio di scarpe nuove a tutti e tre: facevamo salti di gioia! Belle! Erano proprio delle belle scarpe, con una suola di gomma tipo carro armato, di pelle scamosciata morbida, proprio come avevo visto a quei soldati a Pomarance, una meraviglia! Chi le aveva mai avute delle scarpe cosi?! Fu proprio un bel regalo, marchio di fabbrica made in U.S.A. Boston. Quelle scarpe le portai una ventina di anni, erano indistruttibili e le portavo sempre. Alberto poi le teneva come le cose sante in una scatola, per ricordo, anche rotte! Per non sciuparle, avevo trovato delle scarpe vecchie che usavamo per lavorare. Poi, siccome c’era il pericolo che qualcuno ce le fregasse quando in tenda non c’era nessuno, mi feci cambiare di turno, così mentre io lavoravo di notte, Alberto e Brunello lavoravano di giorno: il turno cambiava una volta alla settimana, cosi in tenda c’era sempre qualcuno. Una sera Alberto ebbe un incidente: inavvertitamente infilò un piede nella maniglia della bandina la quale, retta da una catena, allungava il piano del camion. Una specie di trappola, rimase ciondoloni con un 64
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piede incastrato! Subito un soldato lo tirò su: mentre con un braccio lo sosteneva, con l’altra mano lo svincolò da quella dolorosa posizione. L’ambulanza arrivò a tempo di record e lo porto via. Passò una decina di giorni e di Alberto non sapevo nulla, cosi decisi di andare a trovarlo. Livorno era stata liberata e due ospedali erano aperti, ma di mio fratello non c’era traccia: il suo nominativo non figurava in nessun posto. Al campo mi informai meglio, un dottore mi disse che si trovava all’ospedale militare 38 a Montecatini: non rimaneva che andare a Montecatini! Fortunatamente avevamo tempo e disponibilità: con tutte le jeep che transitavano, noi vestiti da americani, bastava fare un cenno e ti portavano dove volevi. Io e Brunello arrivammo una mattina in questo ospedale piazzato proprio nel campo di calcio del Montecatini: tende e baracche occupavano tutto il campo, ben messe, con criterio. Lì, Alberto faceva la vita del pascià: il piede ancora sempre ben fasciato, ma quasi guarito..Credo che lui, per non farsi mandare via, accusasse sempre un dolore…, italiani, che gente! Poi, cosa molto importante, facemmo colazione: il bar era una lunga tenda dove si trovava di tutto! Sulunghe tavole, ogni due tre metri troneggiavano grossi barattoli da cinque chili in cui si alternavano burro, zucchero, marmellata, cioccolata e altra roba che a noi italiani non piace come ad esempio crema di noccioline, grano turco ecc. Il caffè ed il latte li prendemmo al banco: era il bar più fornito che avessi mai visto! Ci sedemmo ad una tavola dove frittelle, ciambelle e vari tipi di biscotti facevano bella mostra di sè. Tutto senza pagare un soldo, sembrava di essere nel Paese dei Balocchi di Pinocchio! Una delle cose più brutte in una guerra è la fame, specialmente per le persone giovani …e noi di fame ne avevamo avuta tanta! Ora con l’arrivo di questi americani il problema l’avevamo risolto, per il momento, invece per molti era ancora una tragedia: il necessario si trovava, ma alla borsa nera; e vedere quello scialìo, quello spreco di tutta quella roba, di quel ben di Dio faceva …faceva un certo effetto. Come la prima volta che vidi le sigarette alla latrina. Fu proprio a Colle Salvetti: i gabinetti erano situati in un campicello non lontano dalle baracche e consistevano in una specie di lunga panca con una decina 65
di buchi, divisi largamente da dei larghi braccioli in legno. Su ogni divisorio, l’addetto alla pulizia metteva un pacchetto di sigarette, qui una marca lì un’altra: si aveva cosi una varietà di scelta di sigarette da poter fumare in pace mentre si espletavano i propri bisogni. Ovviamente si poteva prendere una sigaretta e lasciare il pacchetto al prossimo venuto, tutto questo fino a quando arrivò un nuovo gruppo di lavoratori civili che invece di fumarne una cominciarono a fregarsi i pacchetti: da quel giorno le sigarette non furono più messe. Quella America metteva in mostra tutte le sue risorse, la straordinaria potenza di mezzi la si vedeva in tutti i settori, dagli aerei agli accendini, dai calzini alle coperte, fu una guerra di pubblicità, di propaganda, in contrapposizione allo squallore generale in cui noi eravamo affondati. Nonostante fosse un ospedale all’aperto non c’erano rumori molesti ma un silenzio ovattato, proprio come si addice ad un ambiente dove ci sono malati. Mi sentivo un po’ a disagio, come fuori posto. MI sembrava di essere in casa di un gran signore. C’erano molti ufficiali, forse dottori, che circolavano anche a piedi molto ben vestiti, direi elegantemente. La montura era sempre quella, l’ambiente incuteva un certo rispetto, insomma avevo la sensazione di essere un intruso, un abusivo, aspettavo quasi che qualcuno mi dicesse che lì non si poteva stare, ma non fu mai così, l’ospitalità fu sempre perfetta. Prima di ripartire volli visitare lo spaccio: anche quella la solita tendona tipo magazzino, dove Alberto poteva comprare con poche lire un sacco di roba fra saponi da barba, profumi, dentifrici. Prese anche un paio di saponette Libefour.. non so se ho scritto bene.. Erano miracolose per la pelle ma puzzavano di medicina. Ci trattavano alla pari e noi poveri meschini ci sentivamo americani come fossimo nati nel Colorado, provando una sensazione di orgoglio e un sentimento di gratitudine verso quella gente. Una volta mi capitò un fatto che mi divertì molto e mi fece inorgoglire della mia condizione momentanea: tornato a Firenze camminavo con un paio di amici nel viale De Amicis; una Jeep della Militar Police passo vicino, quando videro che portavo abiti militari americani senza avere l’aspetto di uno yankee, bloccarono la macchina e fecero marcia 66
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in dietro. Già il Bellandi e il Becherucci, ridacchiando, dicevano: “ovvai, ora ti spogliano, non si può portare vestiti militari!” pregustando la gioia di vedermi in mutande. Arrivati al mio pari, il poliziotto mi chiese il permesso : “you gad peis?” . “ Yes” risposi e tirai fuori il permessino che mi avevano fatto qualche mese prima e che mi aveva aiutato in tante altre occasioni. Era scritto in inglese e per la verità alcune parole non sono mai riuscito a tradurle: grosso modo, diceva che il latore lavorava in qualche compagnia della quinta armata. Il poliziotto dette un’occhiata, poi salutarono militarmente e se ne andarono lasciando i miei amici con un palmo di naso. Durante l’avanzata per l’Italia, la quinta armata aveva reclutato molti civili, un’accozzaglia di gente di varia provenienza e condizione sociale. Qualcuno li seguiva da Napoli, molti erano romani, ladri e avventurieri di ogni sorta. Una sera arrivò un treassi, lo guidava un nero che aveva una furia matta: una ruota posteriore era infatti in fiamme. Il camion era già stato caricato, quando mi accorsi che un italiano che non conoscevo e che parlava una lingua incomprensibile stava rubando alcuni scatoloni, gettandoli giù dal camion dalla parte opposta da dove lavorava il soldato: io li ributtavo su e lui bestemmiando li ributtava giù! A questo punto fui costretto ad avvertire il soldato, che nel frattempo aveva appunto finito di stringere i bulloni: questo lo prese, gli assestò un paio di cazzotti e lo portò via, forse da qualche poliziotto. Non lo vidi più. Ogni quindici giorni arrivava l’ufficiale pagatore: si metteva seduto a un tavolino, metteva fuori dei pacchetti di banconote, poi metteva sul tavolo un pistolone con un ciondolo di cuoio tipo messicano che faceva un certo effetto e cominciava a pagare per primi i soldati, dopo noi civili. Avevo messo da parte 15000 lire che dovevo dare a mio padre, se volevamo tornare a Firenze. Alberto stava sempre all’ospedale, io insieme ad altri fui trasferito. Da Collesalvetti tornammo indietro verso San Vincenzo, dove c’era il più gran deposito di materiale. Il lavoro 67
era massacrante, si facevano due turni, dalle sette la mattina alle sette la sera e viceversa. Anche la notte mi capitò di lavorare! In ogni turno lavoravano 17 squadre, ognuna composta da sette uomini. Aspettavamo l’arrivo dei camion, che lasciavano la via Aurelia e si inoltravano verso i nostri accampamenti. Arrivati al punto, l’autista presentava un certo tipo di richiesta, una guida montava sul predellino indicandogli la strada in mezzo a quella Maremma sconfinata, noi sul camion. Il materiale era ben messo nelle sue cassette di legno con le maniglie di corda, più o meno grandi a seconda del tipo, e tutto accatastato molto accuratamente. Alcune cataste erano grandi come case, distanziate fra loro una trentina di metri, tanto da poterci girare intorno con i camion. Questo per un buon tratto di quella Maremma e tutto all’aperto. Un giorno ci fu l’offensiva sull’Arno. Quella settimana ero di turno di notte e come al solito aspettavamo i camion, quando vedemmo sull’Aurelia una lunga fila di luci: di solito contavo i fari per sapere quanti camion erano, ma quella volta non fu possibile, le prime macchine erano già arrivate mentre sull’aurelia non si vedeva la fine delle luci! Quella notte la mia squadra caricò cinque camion. Il giorno dopo dovevo dormire, ma ciò era possibile solo fino alle nove, poi la tenda diventava un forno e non resistevo. Fuori non c’era un’ombra, non un filo di vento, niente ristoro, era un deserto infuocato proprio come si vede in certi film. Non avrei mai creduto una cosa del genere. Non rimasi lì tanti giorni, perché appena riscossa la quindicina detti le dimissioni: la cosa non fu gradita da quel capitano, ma essendo noi civili non disse niente, limitandosi a riprenderci le scarpe. Fortunatamente, quelle nuove le avevamo messe al sicuro! Non mi lasciarono scalzo, me ne fecero scegliere un paio in una stanza dove c’erano un centinaio di scarpacce, cosi fra quelle che lasciai e quelle che presi c’era poca differenza. Anche Brunello venne via insieme a noi e venne via molta altra gente. Lungo la strada il gruppo si allungava, qualcuno andava svelto altri più piano, io e Brunello eravamo i più lenti. Quando eri ben vestito, bastava fare un cenno e le macchine si fermavano, ma quella sera non c’era niente da fare, forse avevano avuto l’ordine di non far montare nessuno… Cosi per tornare a Colle Salvetti ci 68
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vollero due giorni precisi. Per farla più corta, camminavamo lungo la ferrovia; i treni non viaggiavano perché la linea era stata bombardata. Si mangiavano i pomodori che trovavamo negli orti lungo la ferrovia, trascurati o abbandonati. Verdura fresca e camminate erano esercizi muscolari e bastavano a tenerci in forma. Non eravamo neppure a mezza strada quella sera e non sapevamo dove dormire; il sole era appena tramontato e in poco tempo il buio ci avrebbe trovati in mezzo a una campagna sconfinata e sconosciuta. Vidi una casa colonica un po’ fuori strada: decidemmo di chiedere ospitalità prima che facesse buio del tutto, picchiai a quella porta che non era proprio chiusa e una donna sui cinquant’anni venne all’uscio “Che volete?”” Possiamo dormire nella stalla per questa notte?” domandai. La donna ci guardò per un attimo, poi senza chiedere niente ci accompagnò nella stalla. Noi, stanchi morti, ci buttammo su un mucchio di paglia e ci addormentammo subito. La mattina dormivo ancora alla grande, quando quella brava donna ci svegliò portando una ciotola di latte e una fetta di pane casalingo per ciascuno: fu un pensiero da madre di famiglia, non mi aspettavo un gesto del genere, ero commosso…..Ora dopo tanti anni ripenso spesso a quella donna. Chissà, forse anche lei avrà avuto qualche figlio lontano, disperso per il mondo in guerra. Finalmente, dopo tanto camminare, la sera arrivammo a Collesalvetti. L’idea era di fare una bella dormita nella nostra tenda, ma con grande disappunto, non solo non trovammo Alberto, ma non c’era più neppure la tenda! Alberto, dimesso guarito dall’ospedale, era venuto a cercarci al campo ma, essendo noi trasferiti, prese i suoi carabattoli e tornò a Pomarance. La tenda era stata smontata perché non serviva a nessuno. A noi fu proposto di dormire in una tenda grande insieme ad altri dieci, ma l’idea non piacque nè a me né a Brunello, si preferì andare in un capanno vicino alla casa del contadino, quello che teneva la nostra roba, ma fu una nottataccia… dormivamo seduti su due cassette di legno dell’esercito, ma non potevamo allungare le gambe, distesi non si entrava. Poi, per completare al peggio la situazione, cominciò a piovere: non era una pioggia forte ma una pioggerellina insistente che ci bagnò tutti per bene. 69
Il capanno non era un riparo per l’acqua ma per il sole, stavamo lì rannicchiati come due lepri al covo, tutti fradici, aspettando la mattina. Poi, come Dio volle, cominciò a farsi giorno e non pioveva più. Riprendemmo la nostra roba da quella gente, una bella lavata al pozzo e via: con due autostop arrivammo in poco tempo a casa. Alberto, arrivato prima di me, aveva tranquillizzato il babbo che non aveva più avuto notizie, tutto andava relativamente bene, gli dette dei soldi, mi pare sette o ottomila lire, cosi lui potè ricominciare a giocare a bazzica da Socrate, proprietario dell’unico albergo e ristorante con bar e sala da biliardo. E siccome era unica sala e unico biliardo e tutti avevano diritto di giocare, l’unico gioco possibile era la bazzica. Non c’erano mai meno di cinque giocatori. La bazzica era l’unico svago che il babbo poteva avere a Pomarance: non era un perdigiorno, non si dedicava interamente al gioco, gli piaceva fare la sua partitina senza giocare cifre ma solamente un caffè. Però da Socrate non era il Gambrinus, lì si che era difficile riuscire a vincere! C’erano dei bravi giocatori, che conoscevano quel vecchio biliardo a menadito. Potevi avere la possibilità di tirare tre volte, ma poi qualcuno faceva bazzica. Qualche volta però, anche mio padre vinceva. A mia volta, gli lasciai quindicimila lire che dovevano servire per tornare a Firenze: non ero più disposto a fare la solita vita, andare a far legna ed il solito tran tran…Così tutti e tre decidemmo di tornare a lavorare con gli Americani e raggiungemmo la nostra compagnia, che nel frattempo si era trasferita tra Forte dei Marmi e Massa Carrara. Di lì a qualche settimana sarebbe cominciato l’attacco alla linea Gotica. La linea Gotica tagliava trasversalmente la penisola, dall’Adriatico, poco a nord di Pesaro, al Tirreno, al nord di Carrara: 250 km di boschi e montagne. L’appennino Tosco-emiliano era infatti un terreno ideale per allestire un sistema difensivo fatto di gallerie e ricoveri antiaerei, postazioni di artiglieria pesante e leggera, campi minati e nidi di mitragliatrici. I tedeschi impiegarono migliaia di uomini. Io non avevo furia di tornare a lavorare, perciò consigliai di fare una puntatina a Pisa, a casa di Brunello: del vecchio Marrazzini, tuttavia, non si seppe più niente, ormai si erano perse le speranze. Dopo un 70
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attento esame della nostra situazione, mi sembrò quindi più ragionevole non tornare a lavorare: la notte cominciava a far freddo, la nostra tenda era stata disfatta, eravamo abituati male, volevamo fare tutto a modo nostro, ma non era più possibile….E poi volevo tornare a Firenze e non passare l’inverno a Pomarance! Firenze liberata Durante uno dei nostri viaggi, sempre con l’autostop, ci capitò l’occasione che aspettavamo da tanto. Si veniva, quella volta, da Pontedera e due ufficiali ci portarono fino a Saline di Volterra. Non mi rammento chi fu che riconobbe quel ragazzo, quel figliol di troia che tempo addietro ci aveva denunciato ai fascisti e portò in casa del contadino quel fetente di camicia nera dell’ultima ora che ci fece passare un brutto quarto d’ora! Il ragazzo reggeva la scala a suo padre che stava attaccando un manifesto; Brunello, per non prendersela col ragazzo, cominciò a dare calci alla scala dicendo a quello: “Scendi trugolo! Scendi!” un’offesa alla pisana, ma quello si attaccava al cornicione per non cadere e non ne voleva sapere di scendere. Alberto teneva quel ragazzo per il collo e lo teneva parecchio stretto, Brunello smise di calciare la scala e con una manata sulla testa del ragazzo gli tolse la bustina americana dicendogli: Tu non sei degno di portare questa roba! e se la mise in tasca. Io gli diedi un calcio nel sedere…Poi lasciammo perdere, in fondo mi faceva compassione quel meschino che non scese mai: pareva che non volesse sapere niente della faccenda. Non so se era suo padre o no, sicuramente ebbe paura! Oramai la nostra sete di giustizia era placata, non era il caso di insistere oltre con azioni violente, dopo tutto era sempre un ragazzo. Questo fatto ci fece tornare in mente il polizei fascista, cosi andammo a cercarlo. Eravamo sempre in viaggio. San Dalmazio era un borgo di catapecchie ad una ventina di km da Pomarance, ma quell’uomo nessuno lo conosceva e non ci fu verso di sapere dove fosse andato a finire; forse anche lui scappato al nord, meglio cosi. Era il 5 di settembre, proprio il giorno del mio compleanno, quando cominciò l’attacco alla linea Gotica. Ci furono un sacco di morti sia da 71
una parte che dall’altra. Intanto Firenze era stata liberata ….era l’ora di tornare a casa! Cosi decidemmo di far fagotto e verso la meta del mese eravamo a casa: erano successe tante cose, i nostri amici erano andati tutti nell’armata di liberazione e non tutti fecero ritorno. Gli giravano le scatole a mio padre, eravamo tutti e tre disoccupati, aveva una famiglia e nessuno che lavorava in più c’era anche la Tosca. Riuscì ad introdursi nel ramo della pelletteria: le ditte gli davano la roba a fido, si fece conoscere dai negozianti, vendeva guadagnando qualcosa e pagava i fornitori. Sceglieva tutta roba che si vendeva bene agli Americani: portafogli, cinture, portasigarette e …cosi tirava avanti giorno per giorno, poi ebbe una tremenda sciatica che lo tenne fermo un paio di mesi portandolo anche in ospedale. Fortunatamente, in quel periodo arrivarono a Firenze tre compagnie di Americani: erano tutti neri e fecero base al Campo di Marte, dalla Guerrina fino al viale Paoli, che a quel tempo era un viottolo nell’erba, proprio in quel tratto in cui ora ci sono le piscine Costoli. La fila per essere assunti era lunga, sembrava una processione. Cercavano gente capace di smontare radiatori o gomme, meccanici in genere. Quando vidi la folla di gente, pensai subito che era impossibile essere assunti tutti ….allora mi venne l’idea di superare la fila con disinvoltura, come se fossi uno già in forza da tempo. C’erano diverse persone che parlavano in una tenda, uno mi venne incontro dicendomi che l’organico era al completo, ma io avevo tirato fuori il solito permessino miracoloso: lui lo lesse, poi lo fece leggere ad un altro il quale annui, si dimostrò d’accordo e così fui assunto in infermeria. Il mio lavoro era quello di spazzare, tenere pulito e dare le pillole a chi si faceva male: una gialla contro l’infezione e una bianca contro il dolore. In fondo erano tutti malati lievi e la sera poi passavano tutti a chiedere i preservativi! Il vitto era buono: non esistevano minestre, tantomeno pasta asciutta ma purè di patate, purè di piselli, di carote e così via. Guardando quelle teglie, sembravano sorbettiere di gelato! Come piatto prncipale, stufato fatto con tre tipi di carne – pollo, tacchino e qualcos’altro ma l’era tutto buono, il cuoco era bravo e poi io mangiavo di tutto…. 72
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non sono difficile nei gusti! Ogni compagnia aveva il suo cuoco, la sua cucina e nella mia si mangiava bene: certo, pane poco… quello dovevo sempre richiederlo; da bere, limonata o tomato (io bevevo sempre tomato). La sera dopo le sei passavano col gelato: se lavoravi anche più tardi, ti portavano il tè coi biscotti. Ogni 15 giorni mi davano la paga, ma non rammento più quanto mi davano. Due volte la settimana proiettavano un film in lingua inglese e io capivo abbastanza. Gli altoparlanti disseminati per tutto il campo diffondevano belle musiche ballabili delle più note orchestre del momento, ad esempio Charlie Parker, Glen Miller, oppure Benny Goodman che ti metteva addosso una sensazione di festa, una gran voglia di ballare. Anche quei neri quando erano in fila per il rancio, spinti da un innato senso ritmico, si muovevano pesticciando e contorcendosi a tempo di musica: era una mescolanza fra lo swing e una danza stregonesca che esprimeva la spiritualità della gente di colore, una cosa caratteristica che non avevo mai visto e non scorderò più. Un giorno venne l’ordine di smontare il dispensury, come lo chiamavano loro (il dispensario) per un trasferimento. Aiutavo il sergente David, il caporale Abbel il dottor Wolly, in tre ore eravamo pronti per partire: avvisai a casa e verso le tre del pomeriggio si fece partenza, destinazione Lavino di Mezzo, qualche chilometro dopo Bologna, dove arrivammo verso le sette la sera. Il lavoro era differente: lì non bastavano le pillole, arrivavano dei feriti molto più gravi che venivano smistati in ospedali militari. Ci rimasi un paio di mesi, ma non mi piaceva anche se avevo conosciuto una ragazza: con questa uscii tre volte e la cosa cominciava a diventare seria, ma io non avevo intenzione di andare avanti. Era una bella ragazza ma non per me, così le dissi che mi avevano trasferito e non la vidi più. Tornai a Firenze, sarei potuto arrivare fino in Germania con quella gente, ma avevo visto un certo traffico a Firenze: le persone compravano e rivendevano tanta roba, specialmente sigarette. Quelle nostre italiane erano ancora a tessera ed erano molto peggio: avevo visto bene, c’era un bel giro di quattrini. Molti ragazzini da 10 anni in su avevano il loro tran tran, si erano fatti amici di quei neri e traffica73
vano guadagnando un sacco di soldi. Alberto lavorava in coppia col suo amico Franco, detto il Cicca perche era piccolo. Il lavoro rendeva bene, si svolgeva tutto nel centro di Firenze: via del Corso, piazza Vittorio, mercato del Porcellino ecc..Io mi accaparrai un mio amico, certo Elio, ma tutti lo chiamavano Ricciolo; anche lui tornato di fresco dall’armata di liberazione, un tipo sveglio, in gamba. Si cominciò a trattare con soldati di tutte le nazioni: americani, inglesi, neozelandesi, maori, marocchini, indiani… insomma tutti quelli dell’ottava armata e c’erano dei gran brutti ceffi pronti a darti delle fregature, ad esempio sigarette fatte a mano coi pacchetti richiusi perfettamente oppure stecche di sigarette ripiene di segatura. C’era poi un certo Jhonny, italoamericano, un gran figlio di puttana che insieme ad un amico vendeva sigarette e altra roba. Le vendite avvenivano sempre dentro qualche portone e mentre quelli incartavano la roba comprata, quei figlioli di buone donne uscivano in strada, si mettevano al braccio la fascia della Militar Police e con grinta autoritaria ti riprendevano tutto senza renderti i soldi. Questo scherzetto lo fecero varie volte, fortunatamente non a noi: poi la voce si sparse e più nessuno comprava da loro… Si erano sputtanati. Di queste avventure ne capitavano tutti i giorni: ecco la necessita di essere in due. Era una vita abbastanza avventurosa e movimentata, bisognava stare molto attenti e.. occhio alla penna. I due hotel più begli hotel di Firenze, con centinaia di camere, erano stati requisiti dagli alleati: gli ufficiali americani alloggiavano all’Hotel Excelsior, gli inglesi al Grand Hotel, ambedue in piazza Ognissanti. Il nostro lavoro era quello di comprare, cosi quando uscivano con quei borsoni dall’hotel, li abbordavamo con la solita domanda: hey Joe sell cigaret? Su dieci volte, cinque si comprava: se non erano sigarette si comprava quello che avevano, calzini, maglie, coperte, scatolame e tanta altra roba. Si comprava e si rivendeva subito, non c’èra magazzino, la roba era vista e presa: non ho mai perso tempo per vendere una camicia o una maglia. Le sigarette erano richiestissime, e comunque bastava fosse roba americana, non c’era problema. Molto richieste erano le coperte di lana, da cui venivano dei bellissimi cappotti caldi. Pur di trovare quattrini per andare a donne avrebbero venduto sua 74
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madre: era tutta roba facile da vendere perché qui mancava tutto. Una sera, mentre gironzolavo nei paraggi dell’hotel aspettando che capitasse il solito affare, mi accorsi che il poliziotto di servizio fuori dall’hotel ci dette un’occhiata strana: eravamo lontani, ma non mi piacque! Quando poi entrò dentro, ebbi la conferma di quello che pensavo: la colpa era nostra perché non dovevamo farci notare cosi sfacciatamente e andare a parlare ai soldati, comunque io avevo annusato il pericolo e dissi al mio amico: guarda, Ricciolo, che quello è andato a telefonare alla polizia, sarà meglio andarsene e tornare domattina –ma quel grullo non mi dette retta e si mise a ridere. Sieee, vaia vaia, non è possibile! Era convinto che avessi preso una bufala, allora dissi: senti se tu vuoi restare resta ma io me ne vado! E mi allontanai di 4 o 500 metri: ero fuori portata quando arrivò la jeep della polizia, il Ricciolo fu subito preso, ma loro cercavano due persone, erano già al terzo giro da via Montebello e borgo Ognissanti. La mia curiosità era forte, volevo vedere e sapere cosa poteva succedere, cosi decisi di farmi vedere: il Ricciolo mi accennò e fui costretto a salire in macchina! Ci portarono alla stazione, dove c’erano gli alloggi della polizia; ci introdussero separatamente in una stanza per interrogarci. Una persona di una trentina di anni che parlava italiano mi domandò che cosa facevo, io con calma gli esposi i fatti: senta, gli dissi, sono quasi due mesi che mio padre è all’ospedale, chiese: la mamma cosa fa? Mamma non ce l’ho più, ho un fratello più piccolo di me, qualcosa devo pur fare per tirare avanti! Era quasi la verità. Compro qualche pacchetto di sigarette per rivenderle! Quello mi fece una ramanzina, disse che non si può comprare dai soldati altrimenti ci avrebbero arrestati e cose del genere, insomma era quello che mi aspettavo, finita la predica mi mandò via. Fuori il Ricciolo non c’era. Aspettai un bel pezzo, poi mi decisi di andare a vedere cosa era successo: tornato dentro, domandai a quello che mi aveva interrogato che fine avesse fatto il mio amico e lui mi disse: be quiete Arriva Arriva come dire non stia in pensiero, infatti dopo un altro quarto d’ora eccolo: o che hai fatto fino ad ora? E lui : Questi bucaioli! Mi anno fatto spazzare due camerate! Hai visto, non mi hai dato retta, poi facendo la parte dell’amico offeso gli dissi: bell’amico tu sei.. si, perchè hai fatto prendere anche me? fingendo di essere 75
arrabbiato, facendo un pò la parte seria! Perchè quelli mi tiravano delle legnate con lo sfollagente! Tutte le volte che ripenso a questo fatto mi viene da ridere. Lui non mi disse niente, ma io lo conoscevo bene e forse durante l’interrogatorio avrà fatto il bullo e per punizione gli fecero spazzare le camerate. Ora anche il Ricciolo se né andato da una diecina di anni, gli amici che avevo, parlo di quelli che uscivamo insieme, ne è rimasti forse uno: Franco, detto il Braca perchè da piccolo stava sempre in mutande. Il nostro ritrovo era da Cucciolo, in via del Corso, dove i bomboloni fatti al piano di sopra ruzzolavano caldi giù nello zucchero. Era una novità, la gente guardava con l’acquolina in bocca e spendeva volentieri, dopo tutta la fame sofferta. Ora i generi alimentari non mancavano più, tutto era più costoso, la vita era rincarata molto ma le cose andavano meglio. Tutte le sere andavamo al cinema… non c’era più un film che non si fosse visto. Al teatro Verdi si avvicendavano via via tutte le riviste: Rascel, Macario con le sue donnine, Dapporto e altre. Era cominciato il periodo d’oro per l’Italia e per gli italiani. Un proverbio dice: chi muore giace e chi vive si da pace! E’ proprio vero. Si guadagnava e si spendeva tanto, io e Alberto, si manteneva la famiglia quando il babbo era malato e anche dopo, per aiutare la baracca, ma quattrini da parte non se ne metteva, senza pensare che quella pacchia un giorno o l’altro sarebbe finita. Dovevamo stare più attenti, avremmo potuto comprare qualcosa di più costruttivo, un garage, una casa anche bombardata, insomma qualcosa potevamo fare…. Ma non ho rimpianti, mi sono divertito e tolto qualche soddisfazione e forse lo rifarei ancora. Col passare del tempo, la guerra era solo in Giappone e qui a Firenze i soldati erano quasi spariti: gli affari diminuivano a vista d’occhio, la bella vita era finita, non c’era che tornare a lavorare davvero. Per fortuna il Bartolini aveva bisogno e io ricominciai a fare l’idraulico: il mestiere era buono ma ero sempre sui tetti o sotto gli acquai, ero sempre sudicio, sporco e non era mai l’ora di far festa. Mi capitò una ditta dove facevano oggetti di pelle e cuoio, roba da turisti: non era un gran mestiere, ma perlomeno c’era un orario. Mi misi a conto mio e quello diventò il mio lavoro. Alberto faceva il rap76
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presentante di stoffe, conobbe una bella e brava ragazza a Piombino, Rossana, che diventò sua moglie. Mio padre fu reintegrato nel ruolo di impiegato nelle ferrovie, ebbe un rimborso per essere stato espulso nel ‘22 per l’avvento fascista. Con quel milione e duecentomila lire si comprò un quartierino per vivere più tranquillamente gli ultimi suoi anni. Nel 1946 ebbe una figlia dalla Tosca, Adriana, che ora vive a Vicenza. Mio padre Gino morì nel 1981, in ospedale, per problemi di cuore. Tre anni dopo nel 1984, morì mio fratello Alberto, a soli 56 anni. Andò anche a Londra per tentare una cura, ma non ci fu niente da fare. Era un ragazzo d’oro, buono di carattere: aiutava tutti e tutti gli volevano bene. Era anche un bel ragazzo, vestiva sempre elegante e aveva successo negli affari e con le donne. Due anni prima, andammo insieme a Pisa a trovare Brunello che faceva l’ambulante. Non era invecchiato molto, stava bene; le sorelle Anna e Maria non c’erano, trovai la figlia di Anna che somigliava poco alla madre quand’era giovane. Maria aveva un maschio che le somigliava molto quando era ragazzina. Avevo idea di tornare a Pisa, ma ormai è passato troppo tempo, sono diventato vecchio e chissà se ci sarà ancora qualcuno. Spero che stiano tutti bene. Mi sono improvvisato scrittore. Chissà quanti errori ho fatto con questi vecchi ricordi, mi è piaciuto tornare indietro nel tempo perché sono stati gli anni più felici e avventurosi. Ora sono rimasti solo i ricordi.
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Sett. 2013 R.O. MEMORIE E ALTRI SCRITTI I parenti Parenti Bartolini I ricordi non mi vanno oltre la bisnonna. Giuseppa, ma tutti noi la chiamavamo nonna Beppa, nata a Firenze nel 1854. Ebbe due mariti, il primo certo Rossi, il secondo Romanelli. Da ragazza si chiamava Spighi. Nel 1883 ebbe una figlia e le dette il nome Livia. La nonna Livia sposò Martino Bartolini ed ebbe 10 figli, tre morirono piccolissimi cosi rimasero tre maschi e quattro femmine: la Paola (mia madre), Natalina, Anita, Bianca, Oliviero, Giuseppe, Egisto, tutti zii, e zie miei. Mia madre Paola ebbe Rolando e Alberto. La Natalina ebbe: Anna, Dante, Piero, e Roberto. Oliviero ha avuto una figlia, Paola. Giuseppe ebbe tre figli: Adriana, Piera e Mario Egisto ne ha avuti due: Graziella e Sergio. Anita due figli: una femmina e un maschio: Gilberto e Loretta. Bianca una sola figlia: Ombretta.
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Parenti Orangi
Salvina – Rossana – Lore – Valeria – Marco – Alberto – Rolando – Gabriella
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cento, ho conosciuto il Nonno Antonio, un personaggio! Gino, mio padre, aveva quattro o cinque fratelli, o forse più, ma quello più vicino, che ho conosciuto bene è stato Mario, marito dell’Assunta Raccontò mio padre che quando era ragazzetto, mentre giocava per le scale del suo palazzo insieme ai suoi tre fratelli, vide arrivare un giovane di qualche anno più grande di loro, il quale cercava di scandagliare, sapere, capire la situazione di quella famiglia. Disse di essere suo fratello e dopo circa dieci minuti di dialogo fra loro lo salutò: sarebbe rimasto volentieri con loro ma, fatti i suoi conti, tutto sommato stava ragazzo sarà stato veramente in cerca della sua famiglia, qualcuno gli duri, vivevamo proprio nella miseria nera. Non so se sia stato vero, ma mi raccontarono di aver mangiato un uovo affrittellato in tre persone; erano gli anni 1905-1910 o giù di li. Noi l’abbiamo conosciuta bene la vera miseria. Speriamo che ai miei discendenti vada un po’ meglio, anche se quello che conta di più è la felicità e la salute. Oggi lunedi 20 gennaio 2014 La Tamara, la mia badante (ora ci ho pure la guardiana...) mi ha fatto per cena la minestra di verdura, con una confezione di quelle che si trovano già pronte.....L’ha portata in tavola, non sapeva di niente: senza sale, senza pepe, acqua calda, quando le ho chiesto: “e mettici un dado! Un dado per dargli un po’ di sapore”, la si è quasi alterata, Ha detto“ c’è la verdura”, come dire c’è già tutto. (Pensierino della sera) L’Anima Quando una persona muore, l’anima che fa? Vola forse in cerca dell’a80
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nima gemella? O svanisce, si spenge come un lume che ha finito l’olio? Forse questa mi sembra l’unica verità. Queste cose non le sapremo mai e cosi tutti i volumi, le antologie e tutti personaggi che si sono cimentati, studiosi, scrittori, poeti e compagnia bella hanno perso tempo e basta! Non si può neppure dire il famoso proverbio: “chi vivrà vedrà.” Io non sono un filosofo, tanto meno uno scrittore, però mi piacerebbe esprimere il mio pensiero e rispondere alle due famose domande che si trovano spesso nella letteratura, special modo in quella russa: ”perche la vita? perche la morte?”Il nostro mondo è tondo e facciamo parte di un insieme di pianeti, satelliti, astri, lune e soli. Molto probabilmente ci saranno da qualche parte esseri viventi e se ancora non abbiamo visto niente... questo che vuol dire? Vuol dire che c’è vita, ma una vita fondamentale. Faccio un esempio, se io sotterro in un vaso un seme, dopo qualche tempo mi nasce un fiore, che vuol dire che c’è vita. Tempo fa stavo cercando un arnese in una cassetta, e trovai una patata che aveva messo quelle barbine bianche fini fini. Se io l’avessi sotterrata, quella mi avrebbe fatto le patate, non è vita quella? E magari le avrei fatte fritte, ed ecco il rovescio della medaglia, la fregatura e la bellezza di tutto questo strampalato pensiero, partito con l’Anima e finito con le patate fritte: quando c’è la vita c’è anche la morte. L’Anima 2 (un sogno?) Mi aggiravo quella mattina in un bosco vicino a casa mia, là verso Vicchio di Mugello. Lo scopo era quello di cercare dei funghi, quando un ometto - che non so di dove venne - arrivò li da me e mi chiese: la borsa? Ma la borsa ce l’ha? Io no, risposi, ho il giornale di oggi, pensando che se avessi trovato dei funghi avrei fatto un cartoccio. Poi, sempre con molto garbo disse: stia tranquillo che ora ci penso io e sparì com’era venuto. Intanto, di funghi nemmeno l’ombra. Ovvia, rieccotelo, era tornato con un fagotto ben ripiegato, una balla nuova e mi disse: prenda questa! Era una bella sacca nuova, di quelle dove si mette il riso, bella grande e forte. A quel punto mi sentii in dovere di ringraziarlo. Non mi deve ringraziare disse, perche questa à roba sua, roba 81
mia? Ma come mia? Allora a lei non gli hanno spiegato niente! Stamani lei è passata a miglior vita. Più o meno come la politica e altro, ma mai si era intavolata una simile discussione, per di più sull’anima mia e di come può essere l’aldilà, ma sono di là o ancora di qua? Sono dell’idea che una volta morti tutto finisce: quando una pianta si secca è finita, può nascere un’altra, ma quella non è la solita, come quando cade una foglia da un albero: ne nascerà un’altra ma non è la solita. Lui diceva che ero fuori strada e che ero lontano dalla verità, “Vuole una prova di quello che sto dicendo”? Sentiamo! Dissi, con evidente curiosità. Prendiamo ad esempio quella balla che le ho portato, quel sacchetto, chiamiamolo borsa o sacco, come le piace di più. Lo guardi bene perché è l’ultima volta che lo vede. Gli hanno dato quella forma per farle capire come funziona tutta la cosa: ora la borsa è quasi bianca, ma con l’andare del tempo, con i peccati e peccatucci la borsa si sporca, si insudicia, diventa grigia e poi nera, ma questo dipende dal suo comportamento. Può anche migliorare, ossia se ci si pente e si fa penitenza, la borsa si alleggerisce, si schiarisce e ci sentiamo più leggeri. Lei non vede niente, ma se la borsa è molto sporca diventa più pesante e questo si sente…. Insomma, possiamo dire che è una situazione controllata: se prima del trapasso lei avesse avuto in mente qualcosa di brutto, come una vendetta, stia molto attento, perchè questo non è compito suo…. Va bene! Ho capito, mi scusi signor guardiano, con chi ho l’onore di parlare? Se avessi bisogno di qualcosa, come faccio? Chi devo chiamare? Il mio nome è Piero, ma è inutile chiamare perche ci sono troppi Pieri e sarebbe una confusione enorme, qui non siamo mica alla anagrafe di una grande città, se lei per una cosa volesse me, basta che mi pensi per un minuto e io son già qui comodo. Esclamai: “O la senta, gli voglio fare una domanda se mi permette, se volessi tornare a casa mia intendo dire vivo come prima, cosa devo fare?” “Lei non deve fare niente, non può far niente, anche tornasse, ma tornerà certamente… la sua anima, la sua essenza, ma le fattezze, il suo aspetto non sarebbe il solito. Senza saperlo lei sarebbe un altro, potrebbe essere una donna, un cinese chissa? L’anima non cambia Extra Terrestri Ieri sera, venerdi 29 Luglio 2016, la tv ha dato una notizia strabiliante: i nostri scienziati hanno scoperto nel nostro cosmo un enorme 82
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pianeta, più grande circa quattro volte la nostra Terra; che transitava nei pressi di casa nostra. Non so cosa dire nè cosa pensare: credo che Nostro Signore Dio ci abbia scaraventati a manciate in questa immensità, come fa il contadino quando semina il grano. Tutto questo è un gran mistero. Il mio pensiero corre più veloce della luce e già mi immagino le nostre donne a far la spesa alla coop insieme agli extraterrestri, forse fra cent’anni… Ma gli extra terrestri ci sono, non possiamo sapere come saranno fatti vista la vastità delle combinazioni delle sostanze, dipende tutto dai vari elementi che ci possono essere sui pianeti. Mi rammento sempre quando da ragazzo leggevo il giornalino ”Gordon contro Ming”, ecco lì precorrevano i tempi con la fantasia: c’erano uomini di colore giallo, che avevano le ali e volavano, c’erano anche gli uomini leone con la loro bella criniera… A noi ragazzi piacevano queste avventure, un album costava una lira e cinquanta, non era poco ma neppure tanto. Il Corpo Il biologo Clarence Cook racconta delle molteplici attività che svolgono le nostre cellule: il nostro corpo è una metropoli. Sembra impossibile che nel nostro organismo si svolga tranquillamente e di continuo uno straordinario ancora più complicato processo di fabbricazione, d’immagazzinamento, di riparazione, di comunicazione, di trasporto, di sorveglianza, di smaltimento rifiuti, di amministrazione di alimenti, regolazione della temperatura e tutto il resto che avviene. Le cellule compiono veri miracoli di tecnica biologica di cui un eminente esempio è l’ovulo umano. Facciiamo tanto di cappello ai piedi che la Natura ci ha dato; un uomo di 75 chili, che svolge un lavoro normale, è portato per 12 chilometri al giorno dai propri piedi; una donna di casa può col suo lavoro fare cieca 15 chilometri al giorno. Non c’è da stupirsi dunque se i poveri piedi talvolta si ribellano, e quando questo avviene il sofferente è costretto a fermarsi. “I reni filtro meraviglioso del nostro corpo, i grandi regolatori del nostro corpo. Conservano in esatta proporzione l’acqua del sangue. Mantengono nel giusto equi83
librio le sostanze minerali, un lieve eccesso di potassio per esempio fermerebbe il cuore con la stessa efficacia di una fucilata. Disperdono l’urea, che lasciata accumulare provocherebbe gravi dani. Nel periodo di 24 ore i reni depurano dalle scorie circa una tonnellata e mezzo di sangue cioè filtrano 300 volte il sangue circolante vedi a pg.271. Le meraviglie del nostro corpo.” Il Bagnino (meglio la campagna) Dai dai forza, vieni anche tu!.... sentii dire in maniera concitata mentre mi riposavo disteso su una sdraio, lì al mio bagno in quel di Pinarella, vicino Rimini. Faceva un caldo boia, quando il sole picchia forte specialmente di Luglio bisogna stare attenti c’è da beccarsi una insolazione. E’bella l’estate, è bella la gioventù, è bella la salute, è tutta vita e per questo dobbiamo ringraziare il Signore per tutti questi doni che ci sta dando. Il mare era un’olio, la rena scottava sotto i nostri piedi, fortunatamente una leggera brezzolina migliorava appena appena la situazione, mentre le braccia robuste di due giovani bagnini sollevarono il patino e con forza e destrezza lo portarono in acqua e lo spinsero al largo. Sul legno di salvataggio erano in tre e partirono tutti per il recupero. Guardavo senza vedere, cercavo la causa di tanto trambusto, fui aiutato da una ragazza che mi disse: guardi laggiù, indicandomi col braccio. Infatti là in mezzo al mare, laggiù dove i piedi non toccano più, due persone facevano dei segnali con le braccia per chiedere aiuto: per fortuna furono visti, i soccorritori arrivarono in pochi minuti, ma in cinque erano troppi per stare sul patino, uno di loro disse agli altri di portare via i due salvati che lui sarebbe tornato a nuoto da sè. Sulla riva intanto si fermavano i curiosi, i soliti discorsi, i soliti commenti.. I bagnanti che erano anche di età avanzata avevano provato solo un po’ di paura, ma ora sembrava tutto al posto, tutto finito, invece no! Il bagnino che doveva tornare da sé a nuoto era laggiù che si sbracciava per chiedere anche lui aiuto: devono essere momenti brutti, era un ragazzone sui venticinque-trent’anni, con due braccia che sembravano due rami di quercia. Nel guardarlo mi dette da pensare, cosa avrei fatto io che non sono un nuotatore perchè mi tengo appena a galla? quando fu vicino 84
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lo volli intervistare: scusi gli dissi, le faccio una domanda da profano, io non so nuotare, ma perche lei non tornava a riva domandai? Lui tranquillo disse C’è una corrente contraria, sarei potuto restare li tutta la notte,: affogare non affogavo ma tornare non tornavo, salvo fare un giro molto più lungo. Ce la stavo per fare ma ho perso il costume. Ora per rispondere alla solita domanda “Ti piace il mare o i monti?”.. preferisco i monti, anzi la campagna. E’ vero, il mare è tutta un’altra cosa fino a quando siamo giovani, ma quando hai un’età la campagna è molto più indicata: le belle passeggiate per i campi, il profumo dell’erba, delle piante, ascoltare le vecchie storie dei vecchi, la frutta… Si può andare a cercare funghi se ci sono, si può andare a caccia e con l’aria buona e il mangiare meglio è tutta un’altra cosa! Chi non conosce la campagna non conosce niente. Quando ero giovane e capitava di dover assumere alcuni apprendisti ....erano ragazzi di quattordici, quindici anni, prima per sceglierli e prenderli in prova, gli chiedevo di accendere il fuoco alla foggia: quelli che abitavano in campagna sapevano accendere un bel fuoco e quelli di città invece domandavano come si fa. Non era colpa loro, la campagna insegna tante cose. Sicuramente anche il mare, ma con lui non mi sento a mio agio, è come se lo avessi sempre alle spalle, una sensazione di insicurezza di inquietudine che non si spiega. San Pietro Un giorno il Signore che stava lì beato in Paradiso, volle dare un’occhiata sulla Terra. Svegliò San Pietro che stava lì a dormire e gli disse: Voglio vedere se l’uomo è sempre in guerra. Fu acceso allora un video spaziale rispondente a specifiche esigenze. L’immagine era chiara, senza interferenze, ma dopo aver guardato un sol momento, anche San Pietro fu preso da sgomento. Sul divino volto si leggeva collera e sdegno, Di star su questo mondo l’uomo non era degno. La terra, il mare, il cielo, tutto era inquinato, 85
c’era rimasto poco del suo bel creato. Guerre, disastri, miseria, carestie, tutti cercavano facili guadagni, a forze di truffe e mille inganni. Il popolo era sempre più affamato, studiosi, filosofi, moralisti e presidenti di grandi nazioni cercavan tutti delle soluzioni. Tutti parlavano in lingue assai diverse, tutti avean torto e tutti avean ragione. Era una Babele, una gran confusione. La delinquenza dilagava ovunque, furti e rapine erano all’ordine del giorno. Ognuno tirava l’acqua al suo mulino e, a dirla tutta, gli era un gran casino. l’Italia era piena di debiti, il popolo pagava e basta, a spenderli pensava la Casta. Ma la punizione era gia in atto. Senza squilli di trombe, nè rulli di tamburi, arrivarono così i tempi duri. Scoppiarono delle guerre fratricide, fra turchi, siriani, irakeni, e poi la gente dell’islam, quelli che si divertivano a farsi saltare in aria con le bombe nascoste nei pantaloni, facendo stragi di persone che non avevano niente a che fare con la religione. Poi c’erano i tagliatori di teste, gente da manicomio e cosi mezza Africa scappava come mandrie di bestie impaurite e per mettersi in salvo pagava un sacco di quattrini a quei furboni delinquenti degli scafisti, cercando di venire in Europa, montando su quei barconi a mille per volta, il brutto era che moriva un sacco di gente giovane. La vita è diventata difficile, lo era anche prima, ma ora siamo proprio al culmine. Siamo spinti dalla bramosia di migliorare, però senza sapere dove andare a dormire. Povera gente, tocca sempre a loro, i bimbi piangono per il freddo e la fame e anche per la paura. Vorrei fare una domanda seria; ma siamo sempre noi i più cattivi? sono sempre i soliti a dover pagare, non vorrei passare per un miscredente, ma il paradiso c’è o no? c’è, ma quando siamo morti. Come ho smesso di fumare Si decise quella domenica di andare a trovare il nonno Ruggero che era degente per un controllo all’ospedale di Camerata. L’avevano messo in una camerina insieme ad un altro, un uomo di circa sessanta anni, che però poeraccio respirava male. La domenica 86
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successiva siamo tornati all’ospedale ed entrati nella camerina mi sono accorto che il nonno Burchi era solo. Dopo aver domandato che fine aveva fatto l’altro ricoverato, abbiamo saputo che era morto, perche faceva il biscazziere in un bar ed il fumo gli aveva rovinato i polmoni e quindi la vita. La notizia mi spaventò molto, non credevo che il fumo fosse così nocivo. Dopo questo smisi di fumare. I primi giorni senza sigarette erano duri ma sopportabili. Passato qualche tempo, riprovai a fumare. Il sapore della sigaretta però non mi piaceva più anzi mi dava fastidio. Fu così che io smisi completamente di fumare, salvandomi da una possibile situazione analoga a quella del sessantenne ricoverato in quella piccola camerina accanto al nonno. Gino e Paola in Francia Fu durante una festa di un matrimonio, dove presero parte una sessantina di persone fra amici e parenti, che i due si conobbero, si piacquero, si fidanzarono. Lui alto, moro, era un bel ragazzo, aveva finito la leva militare da qualche mese. Lei giovane, carina, rotondetta, con le curve al posto giusto, non era una vamp, ma intelligente, brava seria, spicciativa nelle sue cose, sapeva fare tutto, era insomma una donna da casa. Del resto non poteva essere diversamente perche lei era la maggiore di sette tra fratelli e sorelle, era un bell’aiuto per sua madre. Non so dopo quanto tempo convolarono a nozze: erano gli anni venti quando decisero di emigrare in Francia e farsi una vita tutta loro. Chissà come gli venne in mente questa cosa. Mi immagino la felicità della sposina, per lei sarà stato come andare in ferie, dopo tanto lavorare. Lasciò la stecca alla sorella di turno e andò col marito a Parigi. Lei trovò subito un lavoro in ospedale, anche lui trovò subito ma era un lavoro schifoso, si sa i lavori migliori non li davano agli immigrati, specialmente se italiani. lui doveva fare il vuotaziere: il lavoro era quello di vuotare vasi e padelle ai malati degenti. Non gli piaceva e cosi si rimise in cerca di lavoro e andò a fare il bidello in una scuola a Ventimiglia, ma non ebbero il tempo di imparare un po’ di francese perchè mia madre rimase incinta di me che stavo per entrare in scena. Cominciò così la mia avventura in questo mondo. 87
Tornammo a Firenze ad abitare in via Tripoli , una stradina poco transitata vicina all’Arno. Una casa a terreno, dalla strada si entrava in una grande corte da cui si accedeva a diverse abitazioni. Noi avevamo due stanze, cucina e camera: la camera sembrava un teatrino.. Non ho più rivisto quella corte dove io imparai a camminare. Mi è capitato di passare per quella strada, ma il portone era sempre chiuso e credo che sia cambiato tutto. La mia infanzia cominciò quand’ero più grandino, quando tornammo in San Niccolò. La storia di Pattarino Questa è la storia di un calzolaio, nostro amico. Si chiamava Giuseppe, bravo ragazzo, un ometto di una cinquantina di anni, si potrebbe definirlo simpatico, un furbacchione numero uno, “ una sagoma”: era buffo per la sua bizzarria, era stato operaio in una grande fabbrica di scarpe, sapeva anche farle nuove, ma era lento come una lumaca. Forse anche per questo si ritrovò in una botteghina nella zona di San Salvi a fare il ciabattino, col suo grembiule bianco col pettino proprio da calzolai. Stava li, cercando di sbarcare il lunario facendo quel mestiere, ma il lavoro non usciva dalle sue mani, era troppo gingillone e così il monte delle “scarpacce” - come le chiamava lui - aumentava, a tal punto che la gente veniva a riprenderle per portarle in un altro posto. Fortunatamente però il nostro Giuseppe aveva sposato una donna che sapeva il fatto suo, e lo faceva rigare diritto: era una veneta che lavorava in una casa di signori, più che donna da servizio era una specie di dama di compagnia (di più non saprei). Erano gli anni che 44/45 dopo la Seconda Guerra. Alberto si era messo a lavorare il cuoio, un gran mestieraccio che tuttavia non necessitava di tanti arnesi: un bussetto, un paio di trincetti e poi c’erano i colori all’anilina. Faceva portasigarette, portamonete, porta-occhiali, tutto in cuoio, roba che si vendeva bene agli americani (come si sa, a quel tempo l’Italia era invasa dalle truppe di occupazione). Tutto questo in bottega da Giuseppe. Il lavoro era semplice, tanto che Giuseppe si innamorò di quel lavoretto e mandò a quel paese le scarpe, anche perché -come diceva lui- quelle scarpacce puzzavano di piedi e anche peggio. 88
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Nonostante fosse un lavoro facile, tante volte ho dovuto metter mano io per finirgli una partita di portasigarette, perche a Giuseppe gli ci sarebbero voluti altri due giorni. Io credo che tutti abbiamo un pensiero che occupa la nostra mente, il famoso chiodo fisso! C’è a chi piace la musica, c’è a chi piace lo sport, chi pensa sempre ai quattrini… Giuseppe pensava sempre alle donne, era un cacciatore nato e la preda non gli sfuggiva quasi mai! Aveva un suo modo di trattare la faccenda e su dieci volte, otto andava a segno. Il suo difetto era che non aveva mai una lira in tasca, aveva una bicicletta da donna senza lume, senza freni e senza catarifrangente: più di una volta fu fermato dai vigili ma non pagò mai una contravvenzione. Sapeva fare la parte del disperato, aveva sempre il portafoglio vuoto ed era capace di creare situazioni famigliari drammatiche lì su due piedi, così che il vigile in ultimo gli diceva “vada via....vada via.. ma a piedi”. Una volta venne al nostro laboratorio, era tutto sbucciato, graffiato. Gli chiedemmo cosa gli fosse successo, disse che era andato a riportare un paio di scarpe ad una donna che stava alla costa San Giorgio ed a scendere quella ripida scesa, i freni, che già facevan male, smisero di funzionare del tutto. “Non sapevo come fare “ disse, “Se mi butto dalla parte del muro, mi fo troppo male… Ho preferito buttarmi dalla parte della siepe cosi mi sono graffiato, ma almeno la bicicletta è salva!” Risata generale, era buffo poi come lo raccontava lui. Col suo aspetto umile e dimesso, si è ritrovato a prendere senza chiedere niente, ad esempio elemosine da turisti mossi a compassione nei negozi dove lui portava il suo lavoro. Era una cartolina, una sagoma come si dice noi a Firenze. Qualche tempo dopo, tramite una conoscenza tornammo in una scuola mezza diroccata là nel viale Mazzini. Era stata bombardata, ma alcuni stanzoni erano ancora in buono stato, senza finestre ma adatte per laboratori artigiani. Il custode (o gestore?) di quell’ambiente chiese per l’affitto del nostri stanzoni seimila lire al mese, che non era 89
una grande spesa. Giuseppe, venuto a stare con noi, avrebbe dovuto pagare qualcosa anche lui, ma non c’era da fare affidamento. Una mattina arriva al lavoro e comincia a raccontare:” Ieri mi è capitata un’avventura…” Allora tutti ad ascoltare, perché era tutto da ridere nei suoi modi di fare e nei modi di raccontare: “Stavo passando da via della Mattonaia, quando da una finestra di un terreno una signora mi chiese un fiammifero”. La signora: “Scusi signore! Ha mica un fiammifero per favore?” Giuseppe, frugadosi con tutte e due le mani per cercare i fiammiferi: “Sicuro! Diamine! Anzi guardi voglio fumare anch’io”. Li trovò, accese la sigaretta alla donna dietro la grata della finestra e una l’accese per sè, poi con aspetto rilassato e tranquillo dopo un paio di tirate disse: “Bah! Ora ci vorrebbe un caffeino!” (cosi tanto per lanciare l’esca). La signora più svelta di lui: “Uhm ! Se la passa, glielo fo”. Giuseppe: “Grazie, ma non vorrei disturbare”, ridacchiando sotto i baffi. La signora: “No no, non disturba nessuno perché son sola…..” A questo punto gli apprendisti del laboratorio volevano sapere com’era andata. “A llora?”, domandarono i ragazzi … Giuseppe non si addentrò nei particolari, ma la storia ebbe un lieto fine e si concluse felicemente. Era un lunedì mattina. Arrivato su nel laboratorio, vedo sul banco, lì dove lavorava Giuseppe, una schedina del Totocalcio già compilata. All’epoca, per vincere bastava fare undici. Guardo i risultati sulla Nazione e vedo che c’èra anche una bella vincita (quattro milioni e spiccioli): i risultati erano perfetti (tutti azzeccati) e avendo in mente Giuseppe, pensai subito che si fosse divertito con uno scherzo…, cosi tanto per vedere l’effetto. Dopo poco eccolo arrivare, Gli domando “L’hai fatta te quella schedina li?”. Lui mi guarda un po’ distrattamente, poi riordina la memoria e dice: “Si la feci sabato, la volevo giocare ma non avevo soldi, te non tornavi mai…” “Peccato” dissi “perché avevi fatto undici e prendevi quattro milioni!” Ci rimase molto male, buttò là gli occhiali e cominciò a piangere sul banco come gli fosse morta una persona cara, dicendo “Son proprio un disgraziato, sono 90
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proprio sfortunato…!” A questo punto dette noia anche a me vederlo piangere, era meglio se non gli dicevo niente. Allora è vero come dice quel proverbio: sfortunato al gioco, fortunato in amore! Ma la cosa più buffa e anche pericolosa per lui, fu quella volta che si chiuse in bottega. Abitava lì vicino una sposina giovane, non era una gran bellezza- secchina, snella, parlava un po’ col naso, ma non era da buttar via - una che non disdegnava pagare le riparazioni delle scarpe per tutta la famiglia a scambio merce. La bottega di Giuseppe era in angolo della strada, tra via Del Mezzetta e via Andrea del Sarto, dove esisteva anche la bottega di un pizzicagnolo, anche lui vecchio volpone, da cui si serviva la signora saldando i conti alla solita maniera. Lui la portava la sera al Campo di Marte, mentre Giuseppe lo faceva in bottega, chiudendosi dentro dopo aver tirato giù il bandone. Ognuno di loro sapeva i segreti dell’altro, perché dal retrobottega del pizzicagnolo si sentiva tutto quello che succedeva dal calzolaio e viceversa… quindi fra i due c’era un antagonismo, una certa gelosia, un sentimento di rabbia fra due rivali. Cosi capitò quella sera che non era ancora l’ora di far festa, ma Giuseppe tirò giù il bandone e si chiuse dentro con la donna. Il caso schifoso volle che arrivò sua moglie a riprendere un paio di scarpe della sua padrona che aveva portato a rifare i tacchi. Trovando chiuso, si meravigliò perchè era ancora presto…Stava per andarsene, quando il suo rivale (il pizzicagnolo) assicurò di aver sentito dei rumori dentro la bottega e le diceva “Picchi lì al bandone, vedrà che le apre, picchi..” insisteva il birbante. Giuseppe aveva una paura matta della moglie! Molte volte lei lo rimbrottava - ma di brutto - quando non aveva fatto il lavoro che gli aveva affidato, figuriamoci se l’avesse trovato con quella donna… Sarebbe scoppiata la Terza Guerra e il peggio sarebbe toccato a lui! Dopo una mezz’ora buona la moglie andò via, ma Giuseppe non tirò su il bandone che dopo un’ora. La sera dopo lo vidi e mi raccontò tutta la storia: si èra chiuso dentro ma sentiva tutto quello che succedeva fuori.
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Nomi veri - nomi falsi o sbagliati Qual era il vero nome del pittore quattrocentesco chiamato Il Beato Angelico? Nel volume “Storia di una grande famiglia: I Medici” di Piero Bargellini, si legge: Guidolino di Pietro detto il Beato Angelico, nato a Vicchio di Mugello Mentre nel libro “La città di Firenze”, sempre di Piero Bargellini, il vero nome del Beato Angelico sarebbe Giovanni da Fiesole. Si sa che Giovanni da Fiesole è anche lui pittore dell’epoca, ma più giovane di qualche anno e fu mandato in aiuto a Guidolino in San Marco Forse un errore di stampa? Tommaso detto “Masaccio” nato il 21 Dicembre 1401, figlio di un notaio, rimasto orfano dei genitori, morì a Roma nel 1428 a soli 27 anni. Domenico Bigardi detto il “Ghirlandaio” Piero Vannucchi detto il “Perugino” Il cappone Non avevo mai ammazzato un pollo in vita mia! Vi voglio raccontare come andò questa storia: tanto tempo fa, avevo un laboratorio artigiano, dove io e alcuni apprendisti facevamo degli oggetti in cuoio. Era tutta roba molto bella anche dorata, la nostra produzione andava dal portasigarette al portagioie, tutto in cuoio con imbottitura in velluto. Il lavoro era lungo e accurato, gli oggetti erano bellissimi, perciò assai cari. Ad un certo punto, i turisti scarseggiavano e la roba non si vendeva più, morale della favola dovetti cambiare mestiere. Succedono, queste cose. Quella domenica mattina eravamo ancora a letto quando una scampanellata ci costrinse ad alzarci: era un nostro fornitore di pellame, certo Testai di Santa Croce sull’Arno, bravo ragazzo che, per amicizia e per ringraziare per i nostri buoni rapporti di lavoro, ci aveva portato una strenna natalizia. Si trattava di un grosso cappone che sarà pesato piu di due chili. Ottimo, direte voi, il problema è che era vivo! Povera bestia, con le zampe legate perchè non insudiciasse in terra. Lo misi nella vasca del bagno e lì mi cominciarono i pensieri, perchè prima o poi avrei dovuto uccidere quella povera bestia. La mattina 92
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dopo, la Gina, mia moglie, mi disse: “Devi ammazzare quel pollo, è inutile tenerlo li a patire, tanto fra due giorni è Natale”. Cominciai controvoglia a prepararmi. Non avevo mai ammazzato un pollo in vita mia e quella cosa proprio non mi piaceva. La povera bestia mi guardava con quegli occhini neri, mi sembrava che chiedesse pietà, non avrei voluto ucciderlo, stavo male. Andava fatto! Pensai: facciamolo più veloce possibile, ma non essendo per nulla pratico, pensai di mettere la testa della bestiola sotto il manico di una granata e di tirare fin quando non l’avessi “impiccato”. Tira tira, tirai troppo forte… ed ecco la divina punizione: la testa si staccò dal corpo ed iniziò a saltellare nel bagno, schizzando di sangue le pareti! Il cappone, con un salto improvviso, indovinò preciso la porta socchiusa del bagno e saltando qua e là entrò nell’ingresso, schizzando sangue ovunque. Tutte le pareti delle stanze erano insanguinate, una scena raccapricciante, da film dell’orrore! La Gina, che pure era nata e cresciuta in campagna e di polli ne aveva visti ammazzare tanti, si era nascosta in camera da letto, impaurita, con la porta socchiusa, dicendo che c’erano “gli spiriti“. Io che a queste cose non ci credo acchiappai il cappone e lo rimisi nella vasca, ma ormai il danno era fatto, dovetti imbiancare tre stanze. Per favore non mi regalate più polli vivi! Dopo alcuni mesi, esattamente nel mese di agosto, eravamo a Pinarella di Cervia: quasi tutti gli anni le vacanze le passavamo in quella zona, si stava bene e si spendeva meno, anche perche oramai si conosceva tanta gente ed eravamo tutti amici. Quando ci raccontavamo le cose buffe e divertenti, tutti volevano risentire la storia del cappone, così, tanto per fare due risate: la cosa divento una barzelletta che durò diversi anni. Il gatto ha sempre fame Attento! disse il merlo al topolino, vedi quel gatto che fa capolino? Non sta mica lì a far le fusa, quello ti mangia, poi ti chiede scusa 93
Il Rospo Andava un brutto rospo guardingo e sospettoso nell’umida terra di un orto trascurato. Quella notte aveva fame, era nervoso e pronto anche a fare a botte, ma ecco! C’è stato un rumore, un fruscio pericoloso…. Brillavano le stelle, ma era una notte scura, come una giungla era l’erba alta dell’orto, ma il nostro eroe stava allerta e col passo corto, mon aveva la minima paura! Era uno con la pelle dura! Ora si ferma, si guarda in giro, poi sparisce, ma dov’è andato? Che ha sentito? Cos’è stato? Aguzza la vista e anche l’udito, davanti a sè non c’è più pista… Vede la serpe che sta lì in agguato. Ora si fida solo del suo istinto per sfuggir la bestiaccia. Una pianta di zucca fu la sua salvezza svelto si infilò con gran destrezza sotto le foglie secche e li si stiaccia! Tutto taceva nella giungla nera. Brillavano le stelle, ma era una notte scura. Zitto e fermo per non essere mangiato quella volta il rospo fu graziato. Il Gatto Stava su un muricciolo un vecchio gatto e si godeva beatamente il sole. Occhi socchiusi, aveva e l’aria del distratto, fra rose, gelsomini e fra le viole. 94
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Sembrava che dormisse la bestiola, ma in verità era molto attento, pronto a scattar come tagliola. Saltellavano qua e là sul ramo di un susino due grassi passerotti, lì vicino. Fermo, il felino non batteva ciglio, aspettando la giusta angolazione pensando fra di se: ora vi piglio! Cosi stamani faccio colazione! Fu Fido, vecchio amico del gattaccio, che abbaiando in segno di saluto fece volare il pranzo al suo amicaccio. Rimasto alquanto dispiaciuto, il gatto replicò. Ma cosa abbai, brutto screanzato? Perché fai tutta questa confusione? Il cane aveva smesso di abbaiare e ci rimase male alla sgridata, così pensò - per farsi perdonare, ormai l’aveva fatta l’abbaiata Con un balzo, svelto saltò un fosso e tornò dopo pochino con un osso Poi disse al gatto: Senti amico mio, se tu permetti io ti dò un consiglio. Trova qualcuno come ho fatto io, che ti tratti quasi come un figlio, così avrai un posto per dormire e che ti dia da mangiare e da bere! Per chi mi hai preso? Per un deficiente? Non voglio beghe con l’uomo, chicchessia Io sono un gatto serio e indipendente! Non potrei vivere fra la borghesia E poi lo sai non mi affeziono a niente. Che stima potrei avere di me stesso 95
se addosso avessi un bubbolo o un fiocchetto? O fossi ridotto a rosicchiare un osso? Gli amici mi darebbero di fesso o poveretto! Il gatto sai cos’è? E’ un essere perfetto che vede anche nel buio all’occorrenza. Agile forte e senza alcun difetto, riservato, razionale e con intelligenza. Perciò, riprenditi il tuo osso, amico bello. Io sono un predatore! Non lo mangio quello! Mi cibo di roba fresca e genuina, per questo non ho l’ora esatta! Può capitar di sera o di mattina e se mi salta il ticchio vado pure a gatta E detto questo in modo risoluto, il gatto disse: “MIAO” ti saluto. La “O” DI GIOTTO Papa Benedetto XI mandò in Toscana un suo cortigiano a vedere che uomo fosse Giotto e quali fossero le opere sue, avendo da far in San Pietro alcune pitture. Il cortigiano, venendo per vedere Giotto e intendere che altri maestri vi fossero in Firenze, eccellenti nella pittura e nel mosaico, cominciò da Siena e parlò a molti maestri. Poi avuti disegni da loro, venne a Firenze e andato una mattina in bottega di Giotto che lavorava, gli espose la mente del Papa e in che modo si voleva valere dell’opera sua; ed in ultimo gli chiese un poco di disegno per mandarlo a Sua Santità. Giotto, che garbatissimo era, prese un foglio, ed in quello, con un pennello tinto di rosso, fermato il braccio al fianco per farne compasso e girato la mano, fece un tondo sì pari di sesto e di profilo, che fu a vederlo una meraviglia. Ciò fatto, ghignando disse al cortigiano: Eccovi il disegno! Colui, come beffato, disse: ho io a avere altro disegno che questo?! Assai e pur troppo è questo! Rispose Giotto, mandatelo insieme con gli altri e vedrete se sarà conosciuto. Il mandato vedendo non potere altro avere, si parti da lui assai poco 96
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soddisfatto, dubitando di non essere uccellato. Tuttavia, mandando al Papa gli altri disegni ed i nomi di chi gli aveva fatti, mandò anco quel di Giotto, raccontando il modo che aveva tenuto nel fare il suo tondo senza muovere il braccio e senza seste. Onde il Papa e molti cortigiani intendenti conobbero per ciò quanto Giotto avanzasse d’eccellenza tutti gli altri pittori del suo tempo. Divulgatasi poi questa cosa, ne nacque il proverbio che ancora è in uso dirsi agli uomini di grossa pasta (Tu sei più tondo che L’”O” di Giotto), il quale proverbio, non solo per il caso donde nacque si può dir bello, ma molto più per il significato, che consiste nell’ambiguo, pigliandosi tondo in Toscana, oltre alla figura circolare perfetta, per tardità e grossezza d’ingegno. La Brevità della Vita L’uomo nasce alla vita e vi trascorre il suo brevissimo tempo come una meteora. Il suo passaggio è come il ricordo dell’ospite di un giorno, che subito passa. Il motivo è antico, Pascal l’ha trovato in una pagina del vecchio testamento, libro della Sapienza, v 15 e l’ha fatto suo, ridicendolo con parole nuove ed intense. Anche per noi moderni il problema resta aperto: e lo avvertiamo in certi momenti quando ci coglie d’improvviso la “ sorpresa “ e lo spavento del vivere! O del morire? Dormo o mi destano L’uomo si trova in uno stato di quiete, in assoluto riposo, senza passioni, senza affari, senza problemi, senza divertimenti. Egli sente il proprio niente, Il proprio abbandono, la propria insufficienza, la propria impotenza, il proprio vuoto. Ma se ti destano immediatamente, verrà su dal fondo dell’anima la noia, la tetraggine, la tristezza, l’affanno, il dispetto, la disperazione. Le son le due della notte, parlan piano almeno a loro sembra, ma io che dormo al primo piano sento tutto e mi disturba, quasi quasi ora mi alzo e li mando a fare un giro. Sono le due della notte, notte calma e profumata, tutti dormono tranquilli anche senza serenata. Per fortuna 97
hanno finito, siamo giunti ormai ai saluti! E’ questione di minuti. Poi qualcuno si rammenta di una cosa assai importante, torna indietro e ricomincia! Io, che mi ero già assopito, cominciavo a stare bene, e quelli.. sempre lì a parlare, ma io mi ero abituato, fra saluti e ciance varie mi sembrava di sognare. Poi per l’ultimo saluto, come fosse mezzo giorno, una pigiatina al clacson, cosi tanto per fare e da quell’ordigno indiavolato, uscì una nota si potente che svegliò parecchia gente. Io volendo ricambiare da persona assai civile, anche salutai, ma a modo mio. Cortese rispettoso, io gli urlai: oh imbecille!! Con tutta la foga che dentro avevo. In macchina non mi avran sentito, ma quelli fuori state certi si. Alle due e trenta adesso dormo, son felice e mi rilasso, lo sfogo mi farà dormire come un sasso.
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Scansioni di alcune pagine originali scritte a mano.
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La Vita Per me è stata come un fiume in piena tante volte ho tentato di arginarla di governarla, felice alle volte di riuscire... Poi il tempo mi ha spiegato l’illusione, mi sono reso conto che gli eventi della vita sono stati loro che hanno deciso e scelto per me...quasi sempre. La vita è come una pazza palla rimbalzante che rotola giu lungo uno scosceso e sassoso viottolo di campagna, ogni spigolo un nuovo rimbalzo! Una nuova speranza o un nuovo dolore! Ogni nuovo evento potrà cambiare il domani. R.O.
Stampato nel Settembre 2018