Quaderni della Pergola | 1
Il nuovo numero dei Quaderni
2. Italo Calvino
della Pergola ha per tema la libertà.
3. Gabriele Lavia
Massima aspirazione di ogni uomo è
5. Fabrizio Gifuni
vivere libero di far accadere nella propria
10. Dario Fo
vita i propri sogni. Liberi di crederci, liberi
13. Toni Servillo
di sbagliare. Superando ogni tipo di limite:
16. Lino Guanciale
quello imposto dall’esterno e quello,
21. ...e perline colorate
più arduo, segnato dentro se stessi.
30. Ken Loach
Libertà come continua tensione tra l’alto
35. Paolo Sorrentino
ed il basso, tra dentro e fuori;
39. Vasco Rossi
verso un continuo superamento di ostacoli
43. Dalle prove de La Controra...
per arrivare ad abbracciare le infinite
51. Stefania Ippoliti
possibilità che il mondo offre.
53. La Storia racconta…
Per descrivere tutto ciò, come sempre,
55. Alessandro Serpieri
ci siamo affidati ai racconti, ai sogni,
57. Dai racconti di una giovane scrittrice...
alle visioni di attori, scrittori, produttori,
59. Isabel Allende
registi, Maestri di teatro lontani nel tempo
63. Roberto Saviano
e Maestri di vita sempre attuali.
66. Regime, teatro e libertà
La libertà è affidata alla magia,
68. La parola al pubblico
ad uno sguardo aperto, ad un cuore
69. Alessandro Talevi
che batte e un respiro profondo.
71. Il teatro in carcere...
Vi invitiamo, in queste pagine, ad aprire
72. Firenze contemporanea
le ali, come tanti sipari vibranti, liberi
74. A proposito di Orazio Costa...
di volare sospinti tra fantasia e curiosità.
76. Sulle ali della libertà
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Liberi verso il cielo di Italo Calvino
O
mbrosa non c’è più. Guardando il cielo sgombro, mi domando se davvero è esistita. Quel frastaglio di rami e foglie, biforcazioni, lobi, spiumii, minuto e senza fine, e il cielo solo a sprazzi irregolari e ritagli, forse c’era solo perché ci passasse mio fratello col suo leggero passo di codibugnolo, era un ricamo fatto sul nulla che assomiglia a questo filo d’inchiostro, come l’ho lasciato correre per pagine e pagine, zeppo di cancellature, di rimandi, di sgorbi nervosi, di macchie, di lacune, che a momenti si sgrana in grossi acini chiari, a momenti s’infittisce, in segni minuscoli come semi puntiformi, ora si ritorce su se stesso, ora si biforca, ora collega grumi di frasi con contorni di foglie o di nuvole, e poi s’intoppa, e poi ripiglia a attorcigliarsi, e corre e corre e si sdipana e avvolge un ultimo grappolo insensato di parole idee sogni ed è finito. (1957)
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
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Gabriele Lavia ESSERE O NON ESSERE di Angela Consagra
Perché ha scelto di riproporre ancora una volta due testi cardine dell’opera di Shakespeare, Amleto e Otello? Sono profondamente legato a queste due opere. La prima regia che ho fatto nella vita è stata Otello, in seguito mi è capitato nuovamente di mettere in scena questo testo ma mai come attore. Amleto invece l’ho affrontato da regista e da attore per tre volte: William Shakespeare è un autore fondamentale per me. Inoltre questo è un periodo importante perché ricorre l’anniversario del quadricentenario dalla morte del grande poeta Shakespeare, allora ho pensato che sarebbe stato bello che la Fondazione Teatro della Toscana lo ricordas-
“Io non ho risposte da dare. La vita non è una risposta, anzi: vivere l’esistenza vuol dire porsi delle domande” se con due semplici letture. I testi sono molto tagliati, altrimenti queste letture con commento durerebbero intorno alle 5 ore: si tratta di opere complesse perché appartengono a quella poetica di Shakespeare che asserisce al problema dell’essere. Il dubbio, come di consueto si dice, del to be or not to be… Shakespeare focalizza il problema: this is the question o meglio la quaestio, la questione: è più
giusto esserci, in questa realtà che ci comprende tutti, o si è liberi anche di non esserlo? Questo è un tema che era ben saldo e presente all’epoca, si viveva una fase particolare e piena di crisi: la figura dell’uomo, così come quella del cosmo, vengono per la prima volta nella storia dell’umanità messi in dubbio. Non dimentichiamoci che cronologicamente Shakespeare vive nel periodo in cui l’uomo - fino ad allora centro dell’universo in un’ottica tolemaica - viene relegato ad essere un individuo sperduto nel cosmo, che abita un pianeta molto piccolo che ruota intorno al sole. Galileo ci insegna che non è il Sole a muoversi intorno alla Terra, ma viceversa: l’uomo viene così decentrato nella sua posizione all’interno dell’ordine delle cose costituito e sorgono dunque dei problemi di carattere filosofico.
Nel corso della sua carriera Lei è tornato varie volte a riflettere su questo autore; con il passare del tempo ha trovato nuove risposte? Io non ho risposte da dare. La vita non è una risposta, anzi: vivere l’esistenza vuol dire porsi delle domande. Più un individuo è cosciente della propria vita, più si interroga: non ci sono risposte, piuttosto sono le domande ad affollarsi… Amleto poi – ripeto – si pone ‘la domanda delle domande’, ‘il problema dei problemi’, la questione appunto, la più importante: essere o non essere… Nell’Amleto l’unico che non ha problemi è Osrico, questa specie di effeminato ambasciatorino di corte che va da Amleto per annunciargli la sfida a duello con Laerte. Osrico sa come ci si comporta, è un cortigiano: per lui vivere significa semplicemente mettersi il vestito adatto… Allora non esistono più problemi o dubbi perché non ci sono interrogativi che esigono
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risposte: questa condizione, se vogliamo, può essere anche una forma di felicità…
C’è un legame che unisce Amleto con Otello?
il testo, così complicato, mette in luce la poetica teatrale del suo autore.
Si può affermare che Amleto sia un personaggio libero?
Amleto è il centro delle tragedie shakespeariane, in quest’opera compare lucidamente il dubbio. Il personaggio di Otello è diverso perché non è in grado di porsi il problema dell’essere, così come
Forse Amleto si può considerare un personaggio libero intellettualmente… Ma in fondo nessuno è davvero libero. Siamo incatenati, prima di tutto, all’essere e poi anche al nostro corpo. Possia-
“Aspirare alla libertà: questo significa essere liberi”
mo parlare di alcune forme di libertà: la libertà politica o la libertà intellettuale, ma alla fine anche in questi ambiti si è liberi soltanto fino ad un certo punto… Della libertà possiamo certamente ragionare, ma la libertà non esiste realmente: è solo un’aspirazione. Aspirare alla libertà: questo è essere liberi… Cercare di non accettare le proprie schiavitù è il massimo grado di libertà da vivere. Però l’essere umano non può essere libero mai.
FOTO FILIPPO MILANI
neanche Re Lear o Macbeth… Sono figure che si trovano all’interno del turbinio della questione dell’essere o non essere, ma non riescono a concepirlo e dirlo. Invece Amleto ne è conscio, può pronunciare e perfino perdersi in questo dilemma. Shakespeare ne ha fatto, a suo modo, uno studioso e un filosofo. Amleto è un personaggio che ama il teatro e
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Fabrizio Gifuni IL RESPIRO CHE UNISCE Recentemente ha portato in scena Lo straniero di Camus e l’Amleto di Shakespeare. Esiste un collegamento tra questi autori? Sono due testi profondamente diversi che nascono in differenti periodi storici. Lo straniero di Camus è diventato negli anni una sorta di manifesto dell’ Esistenzialismo europeo ma a mio avviso è un testo molto più misterioso. Il personaggio di Meursault inventato da Camus - una figura in qualche modo vicina a Bartleby lo scrivano e al suo famoso “I would prefer not, Preferirei di no” - sembra attraversare la sua
“L’attore è colui che per mestiere interpreta meglio di chiunque altro la caducità del tempo e delle cose, tutta la fragilità dell’essere umano” parabola di vita con un distacco dalle cose del mondo e dai sentimenti. Ma restituendo a quelle parole un corpo e una voce, che del corpo è la parte più misteriosa, si ha la possibilità di avvertire, forse con più chiarezza, certe profondità dell’essere umano, e quegli abissi improvvisi che il testo spalanca: non solo la noia, il distacco, la solitudine, ma una buia complessità che spesso sfugge allo sguardo. Amleto è un testo assoluto, in cui Shakespeare pro-
ietta tutto il suo amore per il teatro: i consigli che Amleto dà ai comici sono una vera e propria lezione di tecnica attoriale, così come lo spettacolo che Amleto allestisce per smascherare lo zio assassino ed usurpatore è il motore della storia. Al teatro viene affidato il ruolo di smascheramento del potere ed è il teatro stesso a diventare il vero cuore del dramma, quindi del gioco della messinscena. Shakespeare sapeva bene - come già i tragici greci - che il gioco è la più seria ed importante delle attività umane. Nell’Edipo Sofocle affida alla risoluzione di un indovinello la possibilità di salvare la città: questo espediente che potrebbe sembrare una bizzarria degli Dei, in realtà nasconde un’indicazione molto più profonda: solo chi sa giocare, resta in vita. Allo stesso modo Amleto coglie il dispositivo del gioco insito nel teatro e questo aspetto, in Shakespeare, mi ha sempre molto affascinato. Anche Camus amava molto il teatro. Un suo bellissimo saggio, Il mito di Sisifo, contiene una riflessione sul lavoro dell’attore partendo proprio da Amleto. Camus parla dell’attore come di colui che gioca tutto se stesso interpretando un personaggio solo nel breve arco della rappresentazione, quello che per mestiere interpreta meglio di chiunque altro la caducità del tempo e delle cose, tutta la fragilità dell’essere umano.
Questo senso del gioco legato al fare teatrale è anche un’eredità del Maestro Orazio Costa? Sicuramente molto del mio amore per Amleto è dovuto anche al corso tenuto da Orazio Costa in Accademia: due anni interamente dedicati allo studio di questo testo. Gli allievi di quel corso erano in grado di interpretare indifferentemente tutti i ruoli: gli
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uomini potevano diventare la Regina oppure Ofelia, oltre a poter provare Amleto, Claudio o Polonio, così come le donne potevano recitare tutti i ruoli maschili. L’obbiettivo era quello di impossessarsi di tutto il testo e di non dominare soltanto il proprio personaggio. L’idea semplice ma efficacissima di CoIMMAGINE CLARA BIANUCCI
“Sono convinto che i teatri, se vissuti nel modo giusto, possano ancora essere un’oasi straordinaria di libertà” sta nasce dal ruolo e dall’importanza del coro: ogni attore, anche quando è solista ed è chiamato ad interpretare un ruolo da protagonista, è come se si staccasse sempre momentaneamente da un coro, da quel pezzo di comunità a cui poi è destinato comunque a ritornare. Il coro per Costa è stato uno straordinario strumento di pratica teatrale e di pedagogia attoriale ma
anche una grande intuizione teorica. Il teatro è qualcosa che si fa sempre insieme, mai individualmente, anche quando si è soli in scena. L’attore non è mai solo se impara a sentire profondamente la presenza e la forza del cosiddetto pubblico che partecipa allo spettacolo molto più di quanto non ne sia consapevole. Ma sono soprattutto gli attori a dover attivare questo legame sotterraneo che non ha nulla a che fare con il compiacere il pubblico per tirarlo dalla sua parte. E’ un campo magnetico che può crearsi o meno in quello spazio e in quel tempo in cui avviene lo spettacolo. In questo senso l’attore non è mai solo, condivide il proprio lavoro con un coro – la comunità degli spettatori – e diventa più libero.
Sul palcoscenico si sente libero di fare qualsiasi cosa? I condizionamenti che vengono dall’esterno sono tantissimi e continui, perché la vita è fatta anche di continue interferenze, ma in palcoscenico mi sento quasi sempre libero: per me il teatro è davvero una seconda casa. Sono convinto che i teatri, se vissuti nel modo giusto, possano ancora essere un’oasi straordinaria di libertà. Spesso quello che ci circonda è talmente brutto, duro e violento che diventa
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ancor più fondamentale lavorare per preservare questi luoghi: è come se fossero dei polmoni pulsanti all’interno di una città, luoghi che sprigionano luce e forza.
L’uso del corpo in scena viene vissuto come una continua tensione a superare dei limiti? O piuttosto ci si accorge che il linguaggio del corpo non ha limiti espressivi?
istintivo o intellettuale a seconda delle occasioni. Spesso non ne capisco immediatamente i motivi e li scopro strada facendo. Nel caso de Lo straniero di Camus, per esempio, sento che è un testo che mi emoziona ma non so spiegare bene il perché… Sono sensazioni che appartengono a zone più oscure che la FOTO FILIPPO MANZINI
Tutte e due le cose. Il corpo è l’unica cosa con cui abbiamo veramente a che fare per tutta la vita, da quando veniamo al mondo. Sarebbe necessario per tutti avere una relazione il più possibile consapevole con la propria fisicità, non solo per chi fa questo mestiere in cui il corpo è anche uno strumento di lavoro. Orazio Costa parlava continuamente di questo: a tutti viene concessa fin dalla nascita una libertà espressiva sconfinata, ma crescendo inevitabilmente la famiglia, la scuola e la società iniziano a stringere le proprie tenaglie sui corpi facendo perdere loro progressivamente quote sempre maggiori di libertà. Si abbandona quella possibilità di riuscire a diventare qualsiasi cosa, senza barriere, quella qualità che si riproduce intatta nei bambini ogni volta che inventano i loro giochi. In fin dei conti poi un attore tenta disperatamente per tutta la sua esistenza di recuperare quello stadio di felicità vissuta nei primi anni di vita, quando sei libero da ogni tipo di condizionamento e il tuo corpo non ha subito ancora nessun tipo di pressione.
Quale intima urgenza ricerca in un testo? Non ne esiste una sola… Le mie scelte obbediscono sempre a un principio di piacere, che può essere fisico,
ragione non sempre riesce ad illuminare ma che ti portano chiaramente ad essere attratto da quel testo piuttosto che da un altro. Nel caso di Gadda, Pasolini, Testori ma anche Manzoni o Dante c’è stata anche la voglia, il pia-
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cere e la curiosità di approfondire il rapporto con la lingua. La lingua che parliamo e usiamo comunemente ha molto a che fare con la nostra identità. La nostra lingua si è stratificata nel
scere questa materia con cui abbiamo a che fare ogni giorno. Tutte le nostre emozioni ad esempio le esprimiamo in prima battuta nei nostri dialetti d’origine, in una lingua più popolare, e
“Quando inizia lo spettacolo ti arriva un respiro dalla sala, fatto da tanti individui diversi. Accade qualcosa quando senti che quel respiro sta diventando un respiro comune”
anche da un punto di vista musicale la ricchezza del dialetto è fondamentale per fornire una gamma di suoni e per ampliare lo spartito. Ma abbiamo bisogno di tutte le note, anche di quelle più difficili e complesse, imparando ad essere meno pigri. In questo senso Gadda è il più grande scrittore italiano del ‘900 perché è stato capace di aprire nuovamente la nostra lingua in maniera smisurata con un coraggio forsennato e fuori mercato. In ogni pagina di Gadda ci sono almeno cinque o più vocaboli di cui non solo non conosciamo il significato ma di cui non abbiamo mai sentito il suono. Eppure sono tutti presenti nei vocabolari. È il nostro personale vocabolario a essere
FOTO FILIPPO MANZINI
Nella foto in alto l’interno del Teatro Niccolini di Firenze
tempo, creando spesso salti e fratture difficili da colmare. Recitare grandi testi italiani ti mette nelle condizioni di poter accorciare la distanza tra questi improvvisi dislivelli - lingua scritta e lingua parlata, colta o popolare, alta e bassa - che l’italiano apre. Dovremmo cercare continuamente di trovare una sintesi tra queste componenti, per essere in grado di maneggiare e di cono-
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estremamente povero e inadeguato. Un attore italiano non può evitare di misurarsi con questo discorso. Bisognerebbe ritornare a parlare e ad ascoltare la nostra lingua senza imbarazzi e il teatro in questa direzione può fare molto. Sotto questo aspetto può permettersi di sperimentare con molta maggiore libertà del cinema, che a sua volta può misurarsi con maggior forza del teatro su altri aspetti.
individui diversi ed occasionali. Inizia ad accadere qualcosa quando senti che quel respiro sta diventando un respiro comune, che quelle persone iniziano a stare lì davvero insieme… Allora co-
“Shakespeare sapeva bene - come già i tragici greci che il gioco è la più seria ed importante delle attività umane”
Da attore, che sensazione si prova quando il pubblico si alza in piedi ad applaudire a fine spettacolo con una standing ovation? È una cosa molto emozionante perché forse quando si sente il bisogno di alzarsi in piedi significa che durante il tempo dello spettacolo è successo qualcosa a livello fisico, non solo intellettuale. Se il corpo si muove sfugge al controllo della testa e si libera dalle convenzioni, come può essere anche quella dell’applauso che come sappiamo può essere anche un gesto completamente vuoto. Quando il pubblico si alza in piedi come è successo a Firenze durante tutte le repliche de Lo straniero, ma anche in altri teatri, è un momento di grande gioia perché è come sentire che quel passaggio di energia dal palcoscenico verso il pubblico si è compiuto e ritorna in un’altra forma. Io non sono mai indifferente al pubblico presente in sala sera per sera. Lo sento costantemente, mi sostiene e cerco di non perdere mai il contatto anche quando avverto forme di distrazione o nervosismo. Ogni sera arrivano in teatro corpi differenti che si portano dietro tutto un loro carico, a volte è inevitabile ritrovarsi davanti a delle sacche naturali di disattenzione. Quando inizia lo spettacolo ti arriva un respiro dalla sala, fatto nitidamente da tanti
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minci a ritrovare quella famosa libertà interna di cui parlavamo. Senti di stare lì per costruire e condividere qualcosa. Qualcosa che dopo non ci sarà più se non nella memoria dei corpi.
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Dario Fo ISTRIONICO GIULLARE Prima di essere un teatrante a tutto tondo, Lei si è diplomato a Brera: il suo sogno era diventare un pittore. Ho sempre detto di sentirmi un attore dilettante e un pittore professionista. La pittura è stata il mio fondamentale mezzo di espressione, infatti l’ideazione di tutti i miei spettacoli ha un’origine visiva. Parto dalle immagini: disegno, prima di scrivere. Imma-
“Che cos’è il racconto me l’hanno insegnato i pescatori del lago, i contrabbandieri, i soffiatori di vetro… ”
I suoi dipinti esprimono leggerezza ed energia, insieme al gusto per il grottesco, proprio come il suo teatro… Le mie immagini descrivono dei corpi, fatti per agire e muoversi in totale libertà. Ogni corpo è fatto per raccontare, con ognuna delle proprie parti. Un giullare che fu testimone dell’operato di San Francesco d’Assisi parlava di lui dicendo che “de tutto suo cuorpo fazea parole”. È un’espressione molto bella, data da un giullare per descrivere un altro giullare com’era lui, Francesco (chiamato “giullare di Dio”) e come, del resto, lo sono anch’io. In passato i giullari erano dei teatranti: andavano in giro per i paesi e per le piazze a recitare le loro clowneries, delle vere e proprie tirate contro i potenti.
L’arte e la pittura hanno quindi sempre influenzato il suo teatro?
Sì, certo. E si tratta di un’influenza non solo da un punto di vista scenografico, ma proprio in ambito drammaturgico: il disegno - oltre a suggerire un’idea dell’ambiente - mi ha permesgino le commedie e i monologhi da un so perfino di pensare alle entrate e alle punto di vista figurativo, poi arrivo al uscite degli attori, regalandomi delle recitato. Per me il disegno è prezioso immagini in cui i dialoghi sono già perché fonte e stimolo di grande cre- ‘agiti’. Da autore, sono sempre stato atività: soltanto disegnando mi vengo- in grado di compiere in questa prima no le idee. Molteplici sono i modelli a fase gran parte del lavoro registico. cui mi riferisco: l’arte greca, la Scuola ferrarese, la pittura primitiva e quella Ridere è necessario? del Cinquecento o Seicento italiano… È un atto liberatorio e soprattutto Ho inoltre approfondito la tecnica del una dimostrazione di intelligenza. I mosaico e l’iconografia dei testi dell’XI bambini diventano adulti quando coe XII secolo, però Marc Chagall rima- minciano a ridere e sono capaci di inne l’artista che forse sento a me più tuire il gioco umoristico, il tono sarcaaffine: mi piacciono molto la fantasia, stico dato dal paradosso e dall’assurdo. il paradossale e il surreale, la tensione Il meraviglioso e il grottesco ti fanno verso l’impossibile che lo contraddi- uscire dalla banalità e dal risaputo. La stinguono. chiave fondamentale di tutta la no-
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stra cultura è sempre la favola. Anche Dante Alighieri, per esempio, racconta una favola: narra alcune vicende che sono successe e le colora di passione, ironia, rabbia, gioia e follia. Ed è pro-
prio questa caratteristica a rendere il suo splendido libro uno dei capolavori dell’umanità.
L’ironia è l’arma principale con cui affronta ogni campo dell’esistenza, dall’ambito artistico alla politica e la religione… Fin da bambino l’ironia è stata la forma logica con cui pensavo e vedevo tutto, addirittura la storia della religione… Avrò avuto più o meno dieci anni: rimanevo affascinato e sconvolto dalle cose che mi raccontavano gli affabulatori del Lago Maggiore, la mia terra d’origine. Non erano rac-
conti qualsiasi ma frutto dell’abilità dei grandi affabulatori. Raccontare ed inventare era per loro fondamentale: prendevano, per esempio, la Bibbia e la capovolgevano: analizzandola ne
“Il teatro deve cambiare la società, preoccupandosi di quegli elementi fondamentali della vita di ciascuno di noi: la libertà, i diritti, il rispetto e la speranza, quella autentica, di cambiare il mondo” facevano un gioco ironico in certi momenti, tragico in altri, ma comunque sempre commosso e partecipe. Che cos’è il racconto me l’hanno insegnato i pescatori del lago, i contrabbandieri, i soffiatori di vetro… Li ascoltavo e credevo che fosse tutta pura invenzione, poi ho scoperto che la quantità enor-
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me delle loro storie veniva da lontano: apparteneva al Medioevo e ad una cultura popolare che è sempre stata negata. Recitare significa proprio inventarsi
“Il nostro teatro cercava di non addormentare il pubblico, ma mirava a trovare una chiave per svegliare le coscienze”
to a fare ricerche ho scoperto una cultura aggiunta alla base di questa nostra lingua stupenda che parliamo. Una lingua che non ha come supporto il dialetto è una lingua povera, media. Quello che mi ha sempre impressionato è l’incantesimo e la melodia procurata dalla quantità enorme di forme idiomatiche, di modi e di supporti tipici delle lingue dei dialetti.
Il teatro può essere una forma di politica?
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
delle storie, informarsi e tenere in considerazione tutte quelle cose che apparentemente sembrano banali ma che invece scopriamo far parte della nostra cultura. Il Paese in cui viviamo ci regala una quantità di dialetti, di forme minori di lessico che naturalmente gli eruditi disprezzano. Quando ho inizia-
Certo che il teatro è politica! Il teatro deve contribuire a cambiare la società, preoccupandosi di quegli elementi fondamentali della vita di ciascuno di noi: la libertà, i diritti, il rispetto e la speranza, quella autentica, di cambiare il mondo. In sostanza questa è la politica, anche se ultimamente purtroppo i politici stanno distruggendo questo inestimabile valore. Il pubblico ha sempre scelto il nostro lavoro, il mio e quello di Franca, perché si riconosceva in un certo tipo di discorso: la gente si identificava con ciò che gli interessava e che gli dava gioia, cercava il fermento e la provocazione. Ai nostri spettacoli accorrevano anche i curiosi, quelli che si aspettavano di sentire in che modo il loro mondo venisse denigrato: essi soffrivano, ogni tanto ridevano a vuoto, poi si schiantavano davanti alla battuta frontale che li inchiodava. La nostra Compagnia andava in scena anche quando le circostanze esterne limitavano fortemente la libertà: rappresentavamo temi scomodi e recitavamo davanti ad un pubblico perquisito, dopo che gli spazi erano stati controllati. Le risate erano la nostra forza: il nostro teatro cercava di non addormentare il pubblico, anzi mirava a trovare una chiave per svegliare le coscienze.
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Toni Servillo SCANDALOSA PRESENZA Lei è uno dei fondatori dei Teatri Uniti… La nostra attività è sorta sul finire degli anni Ottanta riunendo una generazione di artisti attorno ad una cultura delle arti sceniche legata profondamente a ciò che questa significava già nel corso degli anni Settanta: una curiosità che si muoveva sul territorio del teatro e anche su quello del cinema, con la stessa passione. Dico sempre che un modello di riferimento per l’esperienza di questo Laboratorio delle Arti Sceniche, così
“Ritengo che il momento più felice del teatro non siano le prove, ma le recite, quando gli attori incontrano il pubblico e si mischiano con la realtà” come lo chiamammo all’epoca della fondazione nell’87, è stato un artista come Fassbinder. Dietro il suo cinema e alcuni grandi attori che lavoravano nei sui film si intuiva un’impostazione teatrale, ma anche televisiva e radiofonica, di riscrittura dei testi e dei classici riaggiornati. Quell’esperienza agì sulle nostre giovani coscienze lasciandoci immaginare che anche il nostro associarci insieme – tre compagnie storiche del teatro napoletano dell’epoca – potesse favorire un’apertura mentale e una libertà che ci consentisse di esprimerci tra più discipline, in un’originale commistione tra
teatro e cinema. Napoli è una città piena di contraddizioni e il lavoro dei Teatri Uniti abbraccia più elementi: la tradizione napoletana; i grandi classici del teatro del Settecento; la documentazione televisiva di lunghe tournée anche all’estero come è accaduto per La trilogia della villeggiatura; il rapporto con Paolo Sorrentino sfociato nelle riprese per la TV degli spettacoli Le voci di dentro o Sabato, domenica e lunedì; il lavoro di giovani interpreti come Enrico Ianniello e Tony Laudadio che hanno creato un ponte di collaborazione molto forte con un importante drammaturgo spagnolo – Pau Mirò – traducendo alcuni suoi testi in napoletano; le performance in solitaria di Licia Maglietta e Andrea Renzi, insomma tutta un’articolazione di testimonianze differenti frutto di un’unione che è segno di libertà. In genere le pessime congiunture economiche non facilitano l’aggregazione: c’è una grande difficoltà a fare squadra, a creare un gruppo cercando di mantenere acceso il fuoco della passione e di condividerlo con sacrifici. Teatri Uniti si rivela con la sua capacità aggregativa e moltiplicatrice di segni e codici, non accontentandosi di vivere esclusivamente nel paese del teatro o nel paese del cinema, ma mantenendo costantemente un interesse che si muove da un campo all’altro con l’obiettivo di mischiare i diversi pubblici.
La caratteristica fondamentale dei Teatri Uniti è dunque l’apertura ad ogni tipo di possibilità? Noi abbiamo mantenuto costantemente un’apertura verso più discipline con una curiosità onnivora. Quando qualcosa accade in termini di vitalità è il risultato della passione, del desiderio e della gioia con cui si affronta il proprio mestiere. Spesso il teatro può risultare dannosamente autoreferenziale, sia nel-
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le proprie linee di ricerca che nella scelta di perseguire un percorso esibizionistico o faticosamente intellettualistico. Invece il teatro non deve mai perdere la sua vocazione primaria di essere collante di una comunità: un luogo in cui pubblico e attori si rispecchiano per porsi delle domande, riflettere sul proprio
FOTO NICOLAS SPIESS
destino e cercare un orientamento nella vita. Questo si ottiene conducendo il teatro alla vita, non vergognandosi di cercare una comunicazione con il pubblico – di qualsiasi tipo: complessa, nobile o più immediata – per sperimentarsi e mettersi in gioco, uscendo da una dimensione puramente laboratoriale. Ritengo che il momento più felice del teatro non siano le prove, ma le recite, quando gli attori incontrano il pubblico e si mischiano con la realtà. Per quanto debba molto al cinema, io sono un attore mili-
tante: viaggio intorno alle 200 repliche all’anno. Dal punto di vista della riflessione sullo spazio scenico ho privilegiato sempre l’essenzialità che mette in primo piano il lavoro dell’attore, in modo che lo spettatore possa intuirne la scandalosa presenza fisica… Un attore è un interprete in atto, lavora dentro il testo e traduce fisicamente lo schema drammaturgico in una dimensione assembleare. In un’epoca di impoverimento umano e di disumanizzazione delle relazioni, il teatro è il luogo in cui lo spettatore si sente dentro ad un accadimento: con la propria coscienza e le proprie aspettative il pubblico entra nel meccanismo della rappresentazione e diventa, oserei dire, il vero dramaturg della serata… Il teatro si manifesta allora come un turbamento: la relazione tra attore, pubblico e testo – una sorta di triangolo amoroso – è un rapporto che definirei perfino erotico. È in questo scambio continuo che si raffina e decanta l’esercizio quotidiano dell’arte della recitazione. Se si fa questo mestiere onestamente e in maniera responsabile, allora non c’è premio che tenga: se l’applauso la sera magari è moscio e il pubblico non ha gradito lo spettacolo, quella frustrazione resiste nel tuo cuore molto più della gioia di aver vinto l’Oscar.
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Lino Guanciale CON IL PIEDE SINISTRO... Il progetto Carissimi padri..., di cui Lei fa parte, unisce sul palcoscenico attori e gente comune con l’obiettivo di mettere in scena la Storia, quella con la esse maiuscola… In che modo queste vicende ci appartengono e possono insegnarci ancora qualcosa? La Storia può insegnarci molto. Con questo progetto cerchiamo di comunicare alle persone e di scoprire in noi stessi un modo particolare di affrontare la realtà: un atteggiamento che ci consenta di farla la Storia, in qualche modo, e di intervenire in piena coscienza su alcune questioni della società. Tentiamo di difendere ed affermare certe posizioni nei confronti di argomenti scomodi ma
“Gli spettatori non sono semplicemente le poltrone. Il tentativo è di non trattare il pubblico come una massa” che ci toccano profondamente, come le guerre o determinati tipi di crisi. Noi tutti viviamo sempre in crisi e progetti come quelli che stiamo affrontando ci ricordano che il teatro è un luogo dove ci si può incontrare e confrontare. Se ogni piccola comunità teatrale sancisce il principio di non volere la guerra, magari diventeremo più consapevoli e pronti per il futuro. In particolare noi abbiamo
affrontato il periodo legato alla Grande Guerra, un mondo profondamente diverso dal nostro ma per certi versi anche culturalmente più avanzato: siamo nella Bella Époque, negli anni in cui l’elaborazione intellettuale era ad un livello altissimo. Ci è parso importante soffermarsi su quella realtà così civilizzata che ha comunque annichilito con la barbarie della guerra tutta la civiltà continentale. La storia si può cambiare: è in questo senso che ripensiamo al passato per riportarlo al nostro presente.
Il fatto di far convivere sul palcoscenico attori professionisti che collaborano con dei non professionisti, che tipo di sfida è? Conosco Claudio Longhi, ideatore e regista del progetto chiamato Carissimi padri..., da 13 anni e attorno a noi pian piano si sono uniti una serie di compagni di lavoro. Il nostro gruppo parte da un presupposto comune: il teatro deve poter comunicare al mondo che esiste. Si parla sempre della disaffezione generale del pubblico, ma in realtà ciò è impossibile perché il teatro non può passare mai di moda. È il luogo in cui degli esseri umani – attori e spettatori – stanno gli uni di fronte alle altri, faccia a faccia, per costruire insieme qualcosa. In questo senso il teatro è una forma di comunicazione in presenza senza eguali. Secondo il nostro gruppo sono gli attori in particolare a doversi fare carico di questa responsabilità, quindi non ci si può accontentare di lavorare in palcoscenico: bisogna portare il teatro fuori dall’edificio teatrale e incontrare le persone nelle scuole, nelle sedi associative o addirittura per strada. Tentare di costruire un dialogo con il pubblico è una scommessa complicata, ma se riesci a comunicare tutto l’entusiasmo con cui tu stesso affronti l’esperienza del teatro
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poi questa energia ti ritorna indietro. Questa coesistenza tra attori professionisti e non professionisti si esprime nei nostri Atelier o Laboratori, dei luoghi in cui si scrive, si recita e si allestiscono degli spettacoli di massa. Non è che tutti diventeranno attori nella vita, ma vivere un’esperienza di palcoscenico può servire ad avere uno sguardo più consapevole verso il teatro. Se oggi pro-
Sì, tutto è partito proprio da questa idea. Il lavoro didattico che da dieci anni facciamo in luoghi diversi, dai teatri alle scuole, è nato con questa necessità: la politica di formazione si è dilatata nel tempo dallo specifico generazionale degli studenti fino ad abbracciare la città intera. Imparare il teatro è una buona pratica per tutti, ad ogni età, e non soltanto per i ragazzi delle scuole. Anche
FOTO MANUEL SCRIMA
vi a scrivere un breve pezzo teatrale e lo metti in scena, domani a vedere uno spettacolo ci vai con occhi diversi. È a quel punto che si innesca il prezioso dialogo che fa crescere entrambi, attori e spettatori.
Si avverte dunque la responsabilità di formare, in qualche modo, il pubblico del futuro?
per noi, che abbiamo il compito di insegnare, questo tipo di lavoro ha significato apprendere, come se dovessimo imparare a nostra volta: abbiamo dovuto dotarci di certi strumenti per renderci didatticamente credibili. Non è solo una questione dell’attore che va a parlare del suo lavoro in una classe o che conduce un laboratorio, piuttosto la sfida è quella di riuscire a fornire degli input di
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pensiero in chi ti ascolta e fare in modo che si inneschi questo circuito ridistributivo delle energie culturali di cui parlavamo prima. Questo progetto ha significato investire tanto sull’autoformazione di noi attori, sempre nell’ottica di scambio con il pubblico. Per esempio, io conduco il corso di lettura ad alta voce per docenti perché gli insegnanti,
La condivisione di un valore: è questa la filosofia del nostro progetto.
“La condivisione di un valore: è questa la filosofia del nostro progetto”
no davanti: ne ha beneficiato la qualità di ascolto. Già quando andavo a scuola si faceva più apparato critico che lettura, invece quando studi una poesia o un testo narrativo ti piacerebbe sentire le parole dell’autore oltre al commento dei critici, anche molto importanti. Il teatro, al di là dell’atto pratico dello spettacolo, deve rilanciarsi come polo culturale in grado di scambiare competenze con altre istituzioni come le scuole o e le biblioteche. Occorre ‘fare rete’ e creare un proficuo scambio di competenze.
I professori sono cambiati dopo aver fatto il corso? Sono stati entusiasti, hanno fatto eseguire gli stessi esercizi ai loro studenti… Ora hanno meno paura di utilizzare i testi e di gestire l’attenzione di chi han-
FOTO FILIPPO MANZINI
dopo aver visto le nostre lezioni-spettacolo, desideravano apprendere la tecnica attoriale della lettura da proporre ai loro studenti. È un’esperienza che mi ha dato moltissimo perché formare dei formatori ha fatto in modo che io, per primo, studiassi e poi da loro ho anche appreso tanto su come si fa didattica.
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Lei è un volto noto della TV e anche del cinema, però torna sempre al teatro. Che cos’è che la spinge sempre verso il palcoscenico, proprio dal punto di vista della recitazione? Io non ho mai smesso di fare teatro che è al centro dei miei calendari di lavoro. Sono l’incubo di qualunque planner televisivo e cinematografico perché se devo fare una lettura in un luogo anche molto lontano dal set, io quel giorno ci devo andare: non posso farne a meno. C’è una priorità nella mia vita ed è quella di vivere il teatro, nella maniera in cui ti ho raccontato finora. Fare televisione o cinema, anche se divertentissimo, è per me funzionale a questo tipo di discorso. Il teatro è il luogo rigeneratore, proprio la casa dell’attore. Toni Servillo, per esempio, con cui ho avuto l’onore di lavorare, dice sempre che il cinema e la televisione sono la patria del regista e del montatore, a differenza del teatro che è espressione dell’attore perché lì i gesti sono veramente tuoi. Quello che viene rimontato in fase di postproduzione di un film, come notava già Walter Benjamin, non può essere tuo ma di chi lo ha composto. E poi non smettere mai di fare teatro ti consente di vincere la tentazione di abbandonarsi ad abitudini facili che invece altre lavorazioni più industriali come quella televisiva possono indurre ad automatizzare. Il teatro devi riscoprirlo sempre, altrimenti non funziona.
Come vive l’attore il tempo del camerino che lo separa dal palcoscenico? Sono un attore anomalo da questo punto di vista perché ci passo meno tempo possibile, mi costringo a cambiarmi giusto un quarto d’ora prima dello spettacolo. Cerco di avere meno
tempo possibile a disposizione per prepararmi: questa è la componente di ritualità che mi riguarda, per evitare la routine. Mi nutro di ansia. È la strategia che ho messo a punto in questi anni: fino a poco prima dello spettacolo ho bisogno di pensare che non stia per succedere niente, ho la necessità che mi piombi addosso l’adrenalina del pal-
I componenti dell’ensemble Carissimi padri… Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Olimpia Greco, E quindi per Lei Lino Guanciale, che cos’è il pubblico? Diana Manea, Sicuramente posso dirti quello che Eugenio Papalia, non è: gli spettatori non sono semplice- Simone Tangolo
coscenico all’ultimo istante. Sono tutte scaramanzie: cambiarmi al quarto d’ora prima dell’inizio, entrare in palcoscenico sempre con il piede sinistro, non pensare quasi a niente se non di evitare di cadere in scena alla prima battuta…
mente le poltrone. Il tentativo è di non trattare il pubblico come una massa, piuttosto cerco di relazionarmici come se avessi davanti l’altro con cui confrontarmi. È come se avessi davanti la mia maestra di scuola: uno sguardo benevolo che mi segue, ma non necessariamente benefico fino in fondo, dal quale però ho sempre qualcosa da imparare.
Essere… o non essere. È il problema. Se sia meglio per l’anima soffrire oltraggi di fortuna, sassi e dardi, o prender l’armi contro questi guai e opporvisi e distruggerli. Morire, dormire… nulla più. E dirsi così con un sonno che noi mettiamo fine al crepacuore ed alle mille ingiurie naturali, retaggio della carne! Questa è la consunzione da invocare devotamente. Morire, dormire; dormire, sognar forse… Forse; e qui è l’incaglio: che sogni sopravvengano dopo che ci si strappa dal tumulto della vita mortale, ecco il riguardo che ci arresta e che induce la sciagura a durar tanto anch’essa. E chi vorrebbe sopportare i malanni e le frustate dei tempi, l’oppressione dei tiranni, le contumelie dell’orgoglio, e pungoli d’amor sprezzato e rèmore di leggi, arroganza dall’alto e derisione degli indegni sul merito paziente, chi lo potrebbe mai se uno può darsi quietanza col filo di un pugnale? Chi vorrebbe sudare e bestemmiare spossato, sotto il peso della vita, se non fosse l’angoscia del paese dopo la morte, da cui mai nessuno è tornato, a confonderci il volere ed a farci indurire ai mali d’oggi piuttosto che volare a mali ignoti? La coscienza, così, fa tutti vili, così il colore della decisione al riflesso del dubbio si corrompe e le imprese più alte e che più contano si disviano, perdono anche il nome dell’azione. William Shakespeare, Amleto, III. I – (1602) Traduzione di Eugenio Montale
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… E PERLINE COLORATE volti e storie di libertà
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Sono andato a letto tardi Franco Califano e il suo canto libero
“V
di Riccardo Ventrella
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
ivere come ci pare e piace costa poco, perché lo si paga con una cosa che non esiste, la felicità.” Una citazione di C’eravamo tanto amati che potrebbe essere un buon titolo per una biografia di Franco Califano, sicuramente uno degli artisti più controversi della musica leggera italiana. Non poeta, perché i cantanti sono cantanti e non poeti, ma interprete di una voglia sfrenata di libertà, figlia anche di quel clima degli anni Settanta nel quale il Califfo dette il suo meglio, una libertà pagata a caro prezzo, con varie forme di galera, a volte mediatica e a volte reale. Talora legata allo show business, talora alle sbarre vere e proprie.
Nato casualmente in Libia dove il padre era impegnato in attività militari, Califano fu un atipico prodotto di quel milieu artistico che fu una delle grandi eredità della dolce vita, tra Roma e Milano. Letterato esordiente, potenziale attore di fotoromanzi, amante, soprattutto nottambulo, ebbe la possibilità di frequentare un ambiente che lo portò a diventare autore di canzoni importanti. La prima è sicuramente E la chiamano estate, vergata per un altro che prima dell’alba non andava mai a letto, Bruno Martino. Poi una delle pietre miliari della musica leggera italiana, La musica è finita, per l’interpretazione di Ornella Vanoni. Quindi l’esordio come cantante, dopo aver già soggiornato una prima volta nelle patrie galere. Il primo album passa in sordina, anche se ha dentro già alcuni dei suoi migliori “brani-monologo”, il genere per cui verrà ricordato: uno su tutti, Beata te… te dormi. Uno dei brani di questo album, Semo gente de borgata, diventa un grande successo nell’interpretazione de I Vianella. Il destino di Califano sembra più legato all’autorialità, e a confermarlo arriva Minuetto, il brano che consacra Mia Martini. Finché nel 1976 esce Tutto il resto è noia, album che contiene la sua canzone-manifesto e che sfonda il milione di co-
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pie vendute. Qui emerge tutta la weltanschauung del Califfo, fatta di un profondo disincanto di fronte ai fatti della vita e dell’amore, di un’ironia che è soprattutto autoironia, di un cinismo divertente e divertito. I suoi brani sono come sigarette che si consumano lasciando leggeri aloni di cenere, e nei quali si prende coscienza che l’amore è breve, ed è anche una necessità logistica (come in Me ‘nnamoro de te). Leggenda pura sono monologhi come Pasquale l’infermiere, dove si parla di paternità dubbia, o La vacanza del fine settimana, sulla mania delle donne per il week-end. Un autore unico, Califano, in questo periodo di metà anni Settanta che ha già negato la tradizione melodica per spostarsi verso i cantautori, senza prefigurarsi nessuna “terra di mezzo”, avendo in Riccardo Cocciante la figura più ibrida. Detestato dalle intellighenzie, amato soprattutto a Roma e al sud, Califano è un “cafone” di successo, con le sue camicie aperte sul petto e le innumerevoli avventure femminili. Vive la vita così, alla giornata, con quello che dà, come recita un altro dei suoi brani filosoficamente più significativi, La mia libertà. Lo paga con la solitudine, quando la sua fama decresce, e con il carcere, quando viene arrestato di nuovo per questioni legate agli stupefacenti. A questo suo periodo si è ispirato Paolo Sorrentino per il personaggio di Tony Pisapia, il cantante del suo primo film L’uomo in più, magistralmente interpretato da Toni Servillo, che riassume tutte le caratteristiche di sfrontatezza, malinconia e propensione alla sconfitta tipiche di Califano. Saranno gli anni Duemila a riva“I suoi brani sono come sigarette lutarlo, e a renderlo un culto vero, un fenomeno anche “esagerato” rispetto che si consumano lasciando leggeri alle sue stesse intenzioni. Con il naso aloni di cenere, e nei quali si prende divorato dalla cocaina, Califano dicoscienza che l’amore è breve, spenserà lezioni di un suo personalissimo bon-ton, soprattutto amatorio. Si ed è anche una necessità logistica” spegnerà lentamente, consumato da una vita vissuta fino all’ultima goccia. Vorrà sulla sua lapide il titolo della canzone corrispondente alla sua ultima apparizione sanremese, Non escludo il ritorno. Ebbe a dire “sono sempre andato a letto cinque minuti più tardi degli altri, per avere cinque minuti in più da raccontare”: il contrario della mitica risposta di Noodles, in C’era una volta in America. Le storie e la libertà, che ebbe per compagne di tutta la sua vita: chi mi vuole prigioniero non lo sa che non c’è muro che mi stacchi dalla libertà, libertà che ho nelle vene, libertà che mi appartiene, libertà che è libertà.
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Uno, Goretti, centomila Le salite, le discese e le ripartenze di un teatrante libero di Matteo Brighenti
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a libertà come profonda e radicale onestà verso se stessi. “Per come mi è andata la vita, la carriera, ho perseguito la mia strada indipendentemente dal ‘sistema teatro’. Non è un essere ‘contro’, faccio le cose che mi fanno stare bene, se interessano a qualcuno meglio, sennò pazienza”. A più di qualcuno, dal momento che Riccardo Goretti è interprete del nuovo spettacolo del Premio Ubu Lucia Calamaro, La vita ferma, squarcio di esistenza di un padre, una madre, una figlia, attraverso l’incidente e la perdita. “Quando mi
Nella foto accanto Riccardo Goretti FOTO ILARIA COSTANZO
ha contattato – confessa – pensavo di averne abbastanza del teatro, che dovevo fare solo stand-up comedy. Poi c’è stata una sorta di rappacificazione. Con Lucia è scattato un innamoramento artistico reciproco”. E quindi adesso risponde al telefono dall’Angelo Mai di Roma, dove è in prova insieme ad Alice Redini e Simona Senzacqua. L’anteprima il 28 e 29 giugno al Festival Inequilibrio a Castiglioncello (Li).
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Classe 1979, casentinese di nascita, ma pratese d’adozione, Riccardo Goretti è attore, scrittore e drammaturgo, perennemente in bilico tra cultura alta e bassa, teatri e circoli, da solo e in compagnia. “È guerra intestina – riflette – è il respiro vitale che mi fa continuare a fare questo mestiere, nonostante la fatica bestiale e una contropartita economica deludente. Mi sento ‘multiplo’ o, come dice l’Amleto di Carmelo Bene, troppo numeroso per dire sì e no”. Uno e centomila, mai nessuno, sempre lui. “Sono un comicaccio, se non posso essere in parte me stesso vengo male – spiega – costruisco il personaggio al contrario: perché devo essere io a cercare lui e non lui a cercare me?” Dal 2006 al 2011, insieme alla compagnia Gli Omini, si è fatto trovare al mercato, al bar, in piazza, in settimane di indagini territoriali e interviste, tipiche del metodo ‘omino’. Una volta però uscito dal gruppo si è dovuto reinventare da zero. “Mi sono sentito fragile, insicuro, ingenuo – ricorda – allora mi sono chiesto: chi sta sicuramente dalla mia parte? La mia famiglia”. Perciò è tornato nella valle lasciata a 18 anni, che ora lo ritrovava trentenne, e qui, dall’esigenza eccezionale di sentirsi animale ferito nella tana, sono nati Annunziata detta Nancy, sulla nonna, i genitori, e tutto l’albero genealogico di Goretti, ed Essere Emanuele Miriati, il Cioni Mario di Gaspare fu Giulia del nuovo millennio: con questi due monologhi “La libertà come profonda Riccardo è tornato alle origini della onestà verso se stessi” sua libertà (gli affetti, il legame con il territorio), ritrovando il suo spazio sulla scena. “Sono i primi due lavori da solista – precisa – entrambi nati da estreme esigenze personali, non artistiche, da una sincerità umana. Non era possibile che sapessi tutto di un vecchino qualsiasi e niente della mia nonna. Annunziata detta Nancy ha fatto 100 repliche: se una scelta è fatta onestamente, paga”. Goretti è un irregolare che si allontana dalla consuetudine del ‘fanno tutti così allora lo faccio anch’io’, uno trasversale che taglia con l’ironia la noia della via maestra dell’abitudine. Da Woody Allen ad Antonio Rezza, da Samuel Beckett ad Andrea Pazienza: sono questi i suoi “eroi artistici”. “Fatico a pensare di prendermi sul serio – interviene – o di fare in modo che la gente mi prenda sul serio. Mi interessa macchiare d’ironia anche la profondità più estrema di una tragedia”. Sarebbe stato lo stesso anche se, finita l’esperienza con Gli Omini, avesse provato a fare il giornalista (ha il tesserino) oppure l’insegnante (è iscritto alle graduatorie). Ma solo il teatro dà la possibilità di vedere te e, al tempo stesso, oltre di te. “Con questo mestiere – riflette – puoi scoprire, per un attimo, quello che c’è al di là, un disegno più grande. Mi riappacifica parecchio con i miei demoni”. Perché dietro ogni comico c’è sempre un sognatore malinconico. “Sicuramente sì – conclude – quando ho intitolato il mio primo libro di racconti Manuale per non impazzire intendevo questo: raccontare storie è importante per me proprio per non impazzire”.
e radicale
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Via coi Venti Spettacoli, cooperazione e sviluppo tra l’Africa e l’Emilia
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n Senegal, a 150 km a est di Dakar, il teatro ha restituito a un intero villaggio un futuro libero dallo spopolamento. Diol Kadd affronta oggi senza paura la sfida della sopravvivenza grazie all’associazione Takku Ligey, fondata da Mandiaye N’Diaye, lo storico attore del ravennate Teatro delle Albe scomparso nel 2014. L’Italia lo accolse come venditore ambulante e lo scoprì attore, così un giorno tornò in patria a insegnare la passione per l’arte come opportunità per una vita migliore ai 400 abitanti di quel rettangolo di Africa, 350 metri per 300, una trentina di cortili di capanne e piccole costruzioni di mattoni. “Ciò che resta maggiormente impresso – afferma Stefano Tè – è il rapporto tra spazio ed essere umano. Si torna ciò che si è: infinita parte di un complesso enorme. L’uomo, da quelle parti, si muove in un ambiente fatale, eppure lo fa con dignità, con sapienza”. Alla fine del 2015 un membro di Takku Li“Il teatro attraversa spazi e persone, gey ha invitato a Diol Kadd il Teatro contesti e relazioni molto diverse. dei Venti di Modena per dare nuova, ulteriore spinta ai loro programmi di Dal passante in strada al detenuto, animazione culturale e cooperazione dal teatrante al bambino, fino internazionale. Il direttore artistico della compagnia modenese, nata nel all’anziano. Può generare così 2005 come gruppo di ricerca teatrale, relazioni e trasformazioni” c’è stato a marzo, ed è tornato con il desiderio di costruire un progetto di scambio artistico e di sviluppo territoriale, là e qua, volontà confermata a Modena con incontri istituzionali e artistici e la realizzazione di un laboratorio quotidiano all’interno del proprio Trasparenze Festival a maggio. “Teatro dei Venti e Takku Ligey hanno lo stesso approccio trasversale. Non ci limitiamo – spiega – a fare spettacoli, cercando di farli al meglio, ma esploriamo con dedizione tutte le possibilità per divenire generatori di bellezza e di cura, anche lontani dalle tavole di un palcoscenico”. L’impegno dell’associazione di N’Diaye negli anni ha permesso di portare a Diol Kadd i servizi sanitari essenziali, una scuola, un programma di allevamento. Terra e turismo responsabile sono gli altri due cardini su cui si sono aperte le porte della rinascita. Takku Ligey in lingua Wolof significa “darsi da fare insieme”. Il teatro, dunque, è il modo con cui parlare di sé al mondo, per cambiarlo. “Per come lo intendiamo noi, ovvero – prosegue Tè – come movimento di cui fa parte anche il momento spettacolo, il teatro attraversa spazi e persone, contesti e relazioni molto diverse. Dal passante in strada al detenuto, dal teatrante al bambino in una scuola, fino all’anziano
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in una casa protetta. Può generare così relazioni e trasformazioni”. A Diol Kadd Takku Ligey ha unito le famiglie alla casa e gli individui alla comunità, a Modena e a Castelfranco Emilia, entrando in carcere, il Teatro dei Venti ha dato dignità ai detenuti: nel tempo della scena, infatti, non scorre il loro essere delinquenti, ma il loro essere attori, uomini che donano una straordinarietà che merita rispetto e tutela. “C’è connessione – riflette – perché poniamo il teatro come strumento e non come fine. Questo, però, non ha niente a che vedere con la ‘riabilitazione’ dei detenuti. Se questo accade è involontario. Cerchiamo, invece, di riabilitare il teatro provando a mettere in scena verità e contenuti, sorvolando gli orpelli da teatranti egocentrici”.
Stefano Tè con alcuni attori di Takku Ligey
Alla base del lavoro del Teatro “Non ci limitiamo a fare spettacoli, dei Venti c’è quindi la ricerca di un’ema esploriamo con dedizione tutte spressività al servizio di atti semplici e sinceri, unici e irripetibili. Un incante- le possibilità per divenire generatori simo tra ritmo e azione che negli spetdi bellezza e di cura, anche lontani tacoli della compagnia tocca il cielo con i trampoli, le scenografie mobili e dalle tavole di un palcoscenico” tutte le altre tecniche del teatro di strada. “La libertà sta nell’avere il lusso di frequentare la ricerca ogni giorno. Di avere – conclude Stefano Tè – un rapporto puntuale con l’incognita che nasce da una visione, da un’intuizione. Si posa negli abissi come ragionamento e da lì risale sotto forma di motivazione. La libertà è frequentare per mestiere inquietudini e gioie”. Imprevedibili come le correnti che passano dal “Vico dei Venti”, la strada di Napoli, città natale di Tè, da cui la compagnia prende il nome. Ma necessarie, perché è la somma degli opposti che fa muovere i giorni sempre diversi, nuovi, instancabili. (M.B.)
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Ormai è fatta! La vita da evaso di Horst Fantazzini
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i sono storie che sembrano di fantasia, perché travalicano qualsiasi realtà: e invece sono più vere del vero, nella loro straordinaria surrealtà. Quella di Horst Fantazzini ne batte diverse. Horst come “rifugio”, nome simbolico che il padre Alfonso in fuga dai fascisti mise al fanciullo nato pochi mesi prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale nella Saar, regione al confine (e contesa) tra Francia e l’allora Germania nazista. Col padre perennemente latitante, inseguito com’era tanto dall’Ovra quanto dalla Gestapo, Horst ebbe un’infanzia alquanto travagliata. Tornò nell’Italia distrutta del Dopoguerra, a Bologna. Quantunque versato negli studi fu mandato a lavorare perché la famiglia era impossibilitata a mantenerlo dietro ai banchi.
La sua voglia di libertà, ereditata dal padre, non poteva essere soddisfatta dall’impiego da fattorino: sul finire degli anni Cinquanta, per poter garantire alla giovanissima moglie e al figlioletto una vacanza al mare, tentò una rapina in un ufficio postale di Corticella: fu preso, e da allora il suo destino fu quello di andare e venire dalle patrie galere. Mentre stava terminando di scontare la pena, nel 1965, tentò un altro colpo a Genova. Anzi, venne arrestato prima di poterci provare. Di nuovo incarcerato, rimase molto amareggiato dal rifiuto di un permesso per recarsi al funerale della madre e decise, quindi, “Ci sono storie che sembrano di evadere col romanzesco sistema del lenzuolo annodato. Questa sua latitandi fantasia, perché travalicano za fu più lunga, e contribuì a rafforzare qualsiasi realtà: e invece sono il suo mito.
più vere del vero, nella loro straordinaria surrealtà”
Mise a segno diversi colpi in tutta Europa, e si guadagnò il soprannome di “bandito-gentiluomo” per aver inviato fiori a una cassiera spaventata a morte durante una rapina. Macchine costose, ville e una vita da dandy interrotta nel 1968 da un nuovo arresto, a Saint-Tropez. Da allora, e fino alla morte, Fantazzini non fu mai più rimesso definitivamente in libertà. Dopo qualche anno di soggiorno nelle dure galere francesi, fu estradato in Italia. Nel 1973 tentò clamorosamente di evadere dal carcere di Fossano, nel cuneese, ferendo tre guardie e tenendone sotto tiro altre due con una pistola di piccolo calibro. All’uscita del carcere fu pesantemente bersagliato, e attaccato con cani lupo: sopravvisse per miracolo, solo per tentare di nuovo l’anno dopo di evadere dal car-
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cere di Sulmona. Fu rinchiuso all’Asinara, e di lui si persero le tracce per un po’. La sua storia fu tenuta viva da libri e testimonianze provenienti soprattutto dal mondo degli anarchici, e dal film di Enzo Monteleone Ormai è fatta!, nel quale il ruolo di Fantazzini era interpretato da Stefano Accorsi. Nel 2001, finalmente, gli fu concessa la semilibertà e anche un lavoro: ma le tentazioni sono dure a morire, e Fantazzini tentò un’ultima rapina a una banca di Porta Mascella, a Bologna. Era abbigliato come lui aveva sempre pensato dovesse essere un rapinatore, col berretto calato e il bavero rialzato. In tasca, poco più di un taglierino. Fu preso, e non venne trattato certo con riguardo. Morì cinque giorni dopo, la vigilia di Natale del 2001. Morì per le conseguenze di ciò che aveva sempre amato, la libertà di sentirsi vivo, anche se questo voleva dire delinquere. In oltre quarant’anni di carriera non fu mai coinvolto in fatti di sangue, tranne la clamorosa tentata evasione di Fossano. Appartiene a quel romantico concetto di bandito, legato alla destrezza e alla abilità più che alla violenza e che sa usare l’ironia, che fu cancellato completamente prima dalla banda Cavallero (anche se con Sante Notarnicola ebbe un’amicizia nata tra le mura del carcere) e poi dai malviventi alla Vallanzasca, che erano spiritosi sì, ma sparavano parecchio e subito. Anche se legato a fatti criminosi, il suo leggendario stile e il suo savoir faire così sviluppato non sarà mai dimenticato. Perché anche lo scegliere la via non retta può essere un fatto d’arte”. (R.V.)
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Speciale cinema Il regista
Ken Loach IL PANE E LE ROSE Lei ha cominciato con il teatro, ha vissuto vicino ai luoghi shakesperiani, a sole trenta miglia da Stratford-upon-Avon; il suo sogno, dopo aver visto uno spettacolo, era quello di diventare attore. Com’è avvenuto il passaggio alla regia? C’è un collegamento tra il cinema e il teatro?
con un gruppo di attori che le danno vita e che esprimono le loro contraddizioni, i conflitti e le risoluzioni che li agitano. Naturalmente cinema e teatro sono due mezzi espressivi estremamente diversi, ma la fonte comunque è la stessa.
Perché ha abbandonato il teatro? Uno dei miei sogni era di interpretare Amleto, ma non riuscivo a vivere con il teatro. Sono entrato in televisione perché avevo una famiglia da mantenere, dovevo guadagnare dei soldi. Una volta ottenuto il lavoro, ho imparato le basi del mestiere, i fondamenti dell’arte del regista; proprio per la televisione ho cominciato a girare dei film, cercando sempre di approfondire la mia ricerca e di specializzarmi.
Ha lavorato molto per il piccolo schermo, affermando che questo mezzo le permetteva di raggiungere la coscienza di un altissimo numero di lavoratori. Crede ancora che la televisione possa parlare alla gente?
Ken Loach vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes 2016. Nella pagina accanto il ringraziamento del regista alla consegna del Premio
Assolutamente sì. I registi e gli attori che fanno cinema provengono in buona parte dal teatro; l’elaborazione di un copione cinematografico richiede un lavoro molto simile a quello necessario per l’ideazione di un testo teatrale: entrambi hanno una storia da raccontare,
Ritengo che oggi sia molto più difficile. La televisione è un mezzo di comunicazione di massa, il problema però è che si sta lentamente autodistruggendo. Come mezzo che ha qualcosa di importante da dire non esiste più. I reality show, i giochi televisivi imperversano e questi programmi mancano assolutamente di originalità. Ciò è deprimente, però io credo che gli artisti debbano continuare a frequentare la televisione, tentando di fare un buon lavoro e di farla funzionare. Intendo dire che si dovrebbe lavorare all’interno del mezzo, piuttosto che starne fuori e criticarlo.
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Ha appena vinto la Palma d’Oro al Festival di Cannes per I, Daniel Blake, esattamente dieci anni dopo Il vento che accarezza l’erba. Come sceglie gli interpreti dei sui film? Quali caratteristiche cerca in un attore? Fondamentale, prima di tutto, è trovare qualcuno in cui si crede, con cui si riesce ad instaurare un rapporto di profonda fiducia reciproca. Ti guardi intorno, fino a che non scopri
“Un regista può dare un punto di vista, porre delle domande, ma saranno le persone a interiorizzare un film e portarlo fuori dalle sale. È questo il nostro compito” la figura giusta, qualcuno che ti faccia dire: “Credo che questa persona possa recitare nel film, appartiene alla classe sociale che cerchiamo, ha l’età giusta e il corretto modo di parlare rispetto alle nostre finalità…”
Lei ha lavorato con attori di varie nazionalità; dal punto di vista registico quali differenze ha riscontrato? Attori inglesi e sudamericani si assomigliano? Sono molto simili. Quando in Spagna ho girato Terra e libertà, al principio ero prevenuto: mi aspettavo una recitazione piuttosto istrionica e teatrale, quasi melodrammatica. Invece non è stato così. Quando sono cominciate le riprese, non eravamo poi tanto
lontani, come atmosfera, dai set britannici. Quello che mi ha davvero stupito è stato proprio il temperamento degli attori: si sono rivelati tutti estremamente seri e reali, immediatamente credibili e veri. Comunque penso che tutto dipenda dall’impostazione iniziale del film: se il lavoro parte seguendo certi presupposti, assecondando le esigenze dettate principalmente dal contenuto, allora l’intera troupe è in grado di comprenderne fino in fondo l’idea e aderisce completamente al progetto.
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E il suo rapporto umano con gli attori? Che tipo di relazione si stabilisce? Se inizi le riprese temendo che gli attori declamino o si agitino recitando, sembrerà incredibile, ma veramente finiranno per farlo. Se invece il lavoro comincia in modo semplice e naturale, allora si stabilisce un modello da cui nasce tutto il resto. Conoscere la forma di rappresentazione è la vera responsabilità del regista, quindi è a
lui che principalmente spetta il compito di creare un buon feeling tra gli interpreti, ed è questa relazione affettiva che poi deve inequivocabilmente caratterizzare il film. Dallo schermo deve trasparire la sincerità, gli attori devono essere assolutamente veri e comunicarlo in ogni singolo fotogramma. Tutto passa per la collaborazione con gli altri, anche nel mio lavoro di regista. Che è l’opposto dello stereotipo che molti si sono fatti: un dittatore che dà ordini e che non tiene conto di chi gli sta attorno.
L’arte e la cultura possono cambiare il mondo? Un regista può dare un punto di vista, porre delle domande, ma saranno le persone a interiorizzare un film e portarlo fuori dalle sale. È questo il no-
“Un film coinvolge una decisiva quantità di esseri umani, spinti ad un personale cambiamento interiore”
stro compito. La questione è complessa, ma credo fermamente che l’arte possa cambiare il mondo. Quando si gira un film o si mette in scena uno spettacolo, si compie un atto creativo. Gli spettatori che assistono al risultato di questa creazione, tornando a casa porteranno via qualcosa di quel film o di quello spettacolo: uno stimolo, una riflessione, forse un’idea. Questo può contribuire a cambiare il modo di pensare di ognuno di noi, accrescendo la consapevolezza di ciò che ci circonda. Un film coinvolge una decisiva quantità
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di esseri umani, spinti ad un personale cambiamento interiore. È vero, si tratta di un mutamento che appartiene all’individuo e quindi di una piccola voce, però il mondo è pieno di tante piccole
gliamo anche le rose”. La libertà economica non può prescindere dalla libertà di immaginazione e di spirito. Peccato che questo discorso non trovi una forma di rappresentanza politica. Ma con i miei film voglio dare un messaggio di speranza: un mondo migliore è possibile e necessario. Ecco perché racconto storie di chi si batte per un’alternativa.
E in questo senso qual è la sua opinione sul teatro? Si tratta di un mezzo capace di cambiare il mondo? Non saprei… Il buon teatro è un’esplorazione dello spirito umano, indaga le relazioni tra gli uomini e il significato di questi legami emotivi in un contesto storico. Il teatro può fare di tutto, ma non è un movimento politico. Voglio dire che solo un movimento politico può cambiare concretamente il mondo. Può un dipinto cambiare il mondo? Può un brano musicale cambiare il mondo? No, ma tutto ciò è parte della somma dei nostri spiriti e alla fine ognuno di noi può, a suo modo, incidere sulla realtà.
Una sua definizione di cinema.
FOTO FILIPPO MANZINI
voci che gridano. Forse non può concretamente cambiare il mondo, però in un certo senso il cinema può essere un supporto morale per chi realmente può fare la differenza. Vedo gente intorno piena di passione e di rabbia, contraria al fatto che l’idea del mondo in cui viviamo costituisca l’ordine naturale delle cose. Per la gente comune la libertà del mercato è una prigione e l’impulso naturale è quello di resisterle. Il vecchio slogan è sempre valido: “vogliamo il pane, ma vo-
È un mezzo per comunicare, un veicolo per trasmettere un messaggio, proprio come la parola o la scrittura. Sono pochi fotogrammi al secondo, però si può mettere di tutto su quella pellicola… In questo senso il cinema diventa un mezzo dalle mille possibilità.
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Speciale cinema Il regista
Paolo Sorrentino IRONIA E BELLEZZA Come’ è nato il suo amore per il cinema? Più o meno verso i 18 anni; all’epoca avevo capito che le altre arti che mi interessavano, come la musica, richiedevano un esercizio che io non avevo la pazienza di fare: il cinema mi è apparso subito come una cosa in cui si possono provare ad unire più cose, anche molto
“Ho sempre visto il regista come una figura molto attiva, dotato di una certa resistenza fisica e di un’attitudine al comando: io pensavo di non possedere queste capacità” diverse, e me ne sono innamorato. Ho cominciato come sceneggiatore perché ho pensato che gli altri mestieri legati al cinema richiedessero la necessità di uscire di casa, cosa che non trovavo allora particolarmente gratificante: essendo assediato dalla pigrizia, pensavo di essere più libero scrivendo e mandando da casa poi le sceneggiature. Mi sembrava inverosimile riuscire a diventare un regista perché non credevo di avere l’indole adatta… Ho sempre visto
il regista come una figura molto attiva, dotato di una certa resistenza fisica e di un’attitudine al comando e io pensavo di non possedere queste capacità.
Quali sono stati i registi che l’hanno ispirata? Sono pigro pure come spettatore… Rivedo sempre i film di Fellini, Scorsese, Truffaut e anche quelli di registi americani come i Fratelli Cohen. Mi ha attratto tutta quell’ondata di cinema americano indipendente che abbiamo visto negli ultimi anni, però mi piace molto anche la commedia all’italiana.
Il suo mestiere di regista è quindi legato al lavoro della scrittura? Sì, infatti ho provato a fare dei film tratti da sceneggiature altrui ma non ci sono mai riuscito. Alla fine ho sempre girato dei film che io stesso ho pensato e scritto: mi decido a fare un film solo quando molti elementi che stanno nella mia testa si mettono insieme… Ci sono molte cose che non voglio fare, proprio per scelta, e i vari elementi che compongono un film - la scenografia, i costumi, gli attori - devono essere tutti corrispondenti a una serie di miei principi, molto personali. De resto nel passaggio dalla sceneggiatura alla regia non ho imparato tutto subito: la relazione con gli attori, per esempio, e la dedizione alla recitazione sono aspetti che ho imparato molto tardi. L’estetica cinematografica l’ho sempre avuta bene in mente: sapevo cosa mi piaceva oppure no, fare le inquadrature mi è venuto facile… La cosa forse più difficile è stata quella di misurarsi con gli attori e di capirli.
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Toni Servillo è uno dei suoi grandi attori di riferimento… Quando ho fatto il primo film con Servillo, lui era già un attore di teatro molto affermato e aveva già interpretato dei film, girati con Mario Martone. Da Toni Servillo ho imparato molto sulla recitazione, grazie proprio alla sua origine teatrale: il mio impianto cinematografico e il senso della messinscena, anche se
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in maniera camuffata, sono molto legati a certe stilizzazioni teatrali e alla letteratura. Inoltre ciò che funziona e che si coniuga bene, tra me e lui, è il fatto di ridere insieme: abbiamo lo stesso identico atteggiamento sul set, che è quello di non prendersi mai troppo sul serio. L’ironia è in maniera sotterranea il motore che ci fa lavorare bene insieme.
Quando avete girato Il divo siete stati condizionati, in qualche modo, nelle vostre scelte o vi siete sentiti completamente liberi di raccontare qualsiasi cosa? Il divo è stato un film molto travagliato, nessuno voleva farlo perché avevano tutti paura… Da questo punto di vista è stato un film avventuroso: abbiamo rimandato le riprese e subito le nostre piccole intimidazioni. Ho deciso di fare Il divo dopo aver sfogliato su una bancarella un libro di Roberto Gervaso, un giornalista italiano, dove in un’intervista si diceva che la cosa che più lo aveva colpito di Andreotti era il fatto che quando gli rivolgevi la parola, lui ti rispondeva con gli occhi chiusi. Tutto nasce da questa suggestione.
Lei è famoso per essere un regista estremamente attento ad ogni dettaglio… Penso che questo sia quello che viene richiesto di più a un regista: essere in grado di notare tutto, stare attento ad ogni singolo particolare. Il risultato di un film è proporzionale alla concentrazione che si ha avuto durante la preparazione: le difficoltà della regia sono legate al fatto che alla fine tutto si tenga insieme e che i vari elementi abbiano una loro
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coerenza, un ritmo proprio. La concentrazione si può ottenere anche divertendosi sul set, non necessariamente in maniera seriosa: io infatti lavoro in un clima abbastanza leggero, anche perché siamo sempre le stesse persone e ormai ci conosciamo, a volte anche prendendoci in giro: la troupe sul set è un po’ come se fosse una famiglia allargata. Comunque tutti i miei film nascono da uno spunto, dall’attenzione ad un singolo dettaglio. L’idea per La grande bellezza è nata in un bar vicino alla Rai a Roma, dove un dirigente stava corteggiando una ragazza dell’Est, è da questa immagine che è partito il desiderio di fare un film su questo universo che è dappertutto a Roma: un sottobosco di potere dato dalla presenza fisica in città del Vaticano e dalla politica. Sono luoghi in cui i rapporti di forza tra le persone sono molto più visibili e violenti che altrove, proprio come a Napoli accade sul fronte della criminalità. Youth, invece, nasce da un fatto di cronaca: avevo letto che Riccardo Muti non volle andare a suonare per la Regina Elisabetta a causa di un disaccordo sul repertorio. Questa notizia mi aveva molto impressionato ed incuriosito…
Cos’è “la grande bellezza” per Lei? È il tentativo di trovare il bello dappertutto, non solo nelle cose più evidenti: nello specifico per la città di Roma i monumenti, le chiese e i tramonti, ma anche nel profano, nella volgarità e nello squallore si annida costantemente la bellezza. Per me quel film è una lunga carrellata di bellezza in tutti i suoi momenti; non è un’emulazione de La dolce vita di Fellini, però gli è debitore: anche Fellini diceva di cercare la bellezza nello squallido e nel miserabile. Questo è un
meraviglioso modo di stare al mondo perché ti mette al riparo da tutto ciò che è brutto. Il mio cinema nasce da un principio, per il quale vengo molto criticato, secondo il quale anche la messa in scena del brutto deve seguire un criterio di bellezza. Sono sempre stato fedele a questo principio. Le inquadrature sono frutto del mio gusto personale e derivano soprattutto da
“L’estetica cinematografica l’ho sempre avuta bene in mente: sapevo cosa mi piaceva oppure no, fare le inquadrature mi è venuto facile… La cosa forse più difficile è stata quella di misurarsi con gli attori e di capirli” un’osservazione della pittura e della fotografia. Per comporre un’inquadratura i fotografi hanno molto più tempo, quindi sono i più bravi da questo punto di vista.
This must be the place è stato il suo primo film in inglese; com’è nato il rapporto con Sean Penn? Ci siamo conosciuti al Festival di Cannes e quando poi gli ho mandato la sceneggiatura ero convinto di dover aspettare la risposta per mesi: Sean Penn riceve qualcosa come 40 sceneggiature al mese, quindi anche più di una al giorno… Invece, con mia grande sorpresa, mi chiamò dopo pochi giorni: mi disse che però non sapeva ballare e il film invece lo prevedeva… Gli ho risposto che si potevano togliere quelle scene, però alla fine le ha fatte lo stesso. Girare quel film è stata una delle esperienze più belle perché per chi, come me, si è formato con il cinema americano è un sogno che si realizza.
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FOTO FILIPPO MANZINI
“Il mio tentativo è di trovare il bello dappertutto: nei monumenti e nei tramonti, ma anche nella volgarità e nello squallore si annida costantemente la bellezza” È stato anche avventuroso lavorare con Sean Penn: dopo quella telefonata per un anno non ha più risposto al telefono. È un attore sui generis perché è cresciuto con il cinema: aveva un padre regista, quindi la conoscenza che lui ha di un set cinematografico è davvero sorprendente. È una persona imprevedibile ma è veramente un grande attore, di quelli che si infilano negli interstizi che lasci aperti nella sceneggiatura: è bello quando vedi un attore che si impossessa del personaggio – magari stabilendone il modo di camminare – attraverso gli spazi liberi che tu gli hai lasciato.
A proposito dei suoi film, Lei ha detto di riferirsi molto in fase di ideazione alla “forza sottovalutata delle cose insensate”… Arriva per tutti gli esseri umani, anche per quelli più coerenti e rigidi, onesti e seriosi, un momento in cui irrompe nella propria vita una condizione di insensatezza. Cerco sempre di cogliere e mettere in scena questo aspetto dell’esistenza. Di fatto applico ai personaggi dei miei film, in maniera più o meno camuffata, dei sentimenti e delle caratteristiche che sono mie. Applico ai personaggi gli stessi schemi caratteriali che io possiedo. Mi sono ritrovato per varie ragioni di vita in dei periodi a frequentare la solitudine, che va di pari passo con la malinconia: sono tutti sentimenti che tento di mettere nei miei film stemperandoli - a volte ci riesco e altre volte meno perché non ho una dote innata per la comicità - con il senso dell’ironia.
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Speciale musica Il rock
Vasco Rossi UN BRIVIDO SOPRA LA FOLLIA Che cos’è il rock per Lei? Il rock è un linguaggio espressivo-musicale che permette di comunicare dei sentimenti forti ed intensi; una grande forma di comunicazione fatta di parole e musica, che riesce a
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coinvolgere come niente altro al mondo, secondo me… Sei a un concerto allo stadio e la stessa identica emozione viene vissuta contemporaneamente da più di 50.000 persone: è un godimento unico!
Questa condivisione irripetibile con il pubblico è cambiata nel corso del tempo? Il momento in cui parte un concerto si vive sempre con la stessa attesa ed emozione? Quando sali sul palco e parte la musica, cominci a cantare le cose che hai dentro: tutto è intenso, le canzoni partono dallo stomaco e senti che finalmente puoi sfogarti confessando tutto te stesso… Quando scrivo, le canzoni vengono fuori proprio dal cuore; a volte sono io il primo a stupirmi di quelle parole, ma è stata sempre la mia caratteristica fin dall’inizio: un artista deve essere onesto e libero, senza limiti o condizionamenti di nessun tipo. Questo se vuoi essere un artista in grado di comunicare davvero, altrimenti la tua musica diventa s e mpl ic e me nte autoreferenziale. L’arte è una sfida, bisogna cercare di fare cose sempre nuove e non ripetersi mai. In genere si tende a riproporre una formula ben riuscita e già accettata con successo dal pubblico, ma così è facile imbattersi in un pericolo: alla fine si continua ad imitare se stessi e si diventa ridicoli. Ogni volta che scrivo una canzone conosco il punto di inizio, ma non so mai bene di cosa parlerò e dove si andrà a finire… A volte anzi mi
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fermo a metà: si prova e si riprova a scrivere, ma non sempre si arriva a comporre una vera e propria canzone. Quando arrivo alla fine ne rimango allibito e lo considero come un vero miracolo.
“La musica rock è trascinante: è una forma di sfogo, di potenza emotiva e anche di nevrosi che abbiamo… “
C’è un pezzo rock al quale è particolarmente legato, che continua ad ascoltare sempre come fosse la prima volta? Ce ne sono tanti… Sono molto legato, per esempio, ad Elvis Presley: più bravi e belli di Elvis non ce n’è! Io ascolto molta musica rock e anche heavy metal: ad un certo punto, dopo che si fa o si ascolta del rock si avverte il bisogno di esagerare un po’… La musica rock è trascinante: è una forma di sfogo, di potenza emotiva e anche di
nevrosi che abbiamo… Quando non ti senti tranquillo, quando sei inquieto ed agitato perché le cose non vanno proprio tutte come vorresti tu, allora la musica si sincronizza perfettamente con il tuo animo e ti scarica i nervi. L’essenza del rock è sberleffo, provocazione sessuale: tutta la musica è pura sessualità! Giochi a fare la rockstar sul palco, ti vesti in un modo come non fa-
resti mai per strada nella vita di tutti i giorni… Io ho sempre fatto questo: provoco! All’inizio della mia carriera sono stato frainteso perché venivo preso sul serio, non si capiva l’ironia con la quale raccontavo certe cose. Invece io ho sempre usato il rock per provocare, provocare anche le coscienze, perché gli artisti devono tenere svegli: quando ci si addormenta, si accetta tutto e si subisce: allora si diventa un popolo che può essere governato ed indirizzato, in qualche modo. A causa delle
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mie provocazioni spesso sono stato insultato perché ero visto come quello che rovinava le nuove generazioni… Io raccontavo semplicemente il mondo com’era, non me lo inventavo. Se volete capire com’è il mondo, ascoltate gli artisti. Non sono loro ad influenzare la gente, piuttosto sono i mezzi di massa, la TV, la pubblicità e la stampa ad incidere.
E tra le canzoni italiane a quale è più legato? Io sono cresciuto ascoltando Fabrizio De André e i cantautori degli anni Settanta: li ho tutti dentro, nell’anima, perché attraverso le loro canzoni ho capito un sacco di cose. Fabrizio è stato quello che forse mi ha sconvolto di più la vita: la prima volta che l’ho sentito mi si è aperto un mondo. Venivamo dalle canzonette degli anni Sessanta ed erano abbastanza leggere, ma Fabrizio si è rivelato subito come un autore potente; in particolare Amico fragile è un capolavoro, che segna la mia vicinanza di affinità elettiva con De André: siamo fatti più o meno della stessa pasta, anch’io sono “un amico fragile”… È un testo in cui si racconta di una persona molto curiosa degli altri, persa in una realtà che gli altri non vedono e ignorano… È proprio la condizione nella quale alla fine ti trovi che è una solitudine, una solitudine che è anche quella dell’artista.
Qual è il suo rapporto con i fan? Il suo fan club è uno dei più vivaci e attivi che esista in Italia… Credo che ognuno abbia il pubblico che si merita. La parola fan è riduttiva per quello che riguarda il nostro rapporto: il discorso tra me e il pubblico è cominciato nel ’77, si esprime in maniera molto diretta, in cui racconto le
cose che sento veramente e confesso delle debolezze. Chi ascolta la mia musica ritrova dentro di sé delle cose che ha già: racconto quello che racconterebbero loro se avessero lo strumento della musica… Sono la voce di chi non ha voce: noi non siamo quelli che hanno potere politico, noi siamo quelli che cercano di vivere la vita meglio che possono con tutti i sacrifici, le difficoltà e la fatica che la nostra esistenza comporta. Siamo gente così: mai in pari, anzi viviamo le illusioni. Sappiamo che sono solo illusioni, ma averle ci aiuta a vivere meglio perché la realtà altrimenti è durissima, brutta e cruda.
Sente mai la responsabilità per la delega che il pubblico le dà a mettere in scena i loro problemi e le loro passioni? Sì, certo. Infatti mi impegno, come già dicevo prima, a scrivere solo ciò che sento veramente. È un miracolo che continuino a venirmi fuori delle canzoni, anche perché sono parecchi anni che le scrivo… Io devo essere onesto e sincero quando scrivo: è la mia responsabilità, che mi prendo tutta, fino in fondo.
Il suo primo ricordo in palcoscenico... La prima volta assoluta è stata in Piazza Maggiore a Bologna, ho chiamato tutti gli amici che avevo a suonare con me… Eravamo di più sul palco che quelli che stavano giù! Ricordo anche un altro dei miei primi concerti: era uno spettacolo dopo un comizio. Nessuno mi conosceva, ma io ero pronto a tutto, anche ai fischi, e cantavo… Un gruppetto non diceva niente ma ha cominciato a tirarci delle freccette di carta che ci arrivavano addosso. Io non riuscivo a reagire. Un’umiliazione così grande non credo
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di averla mai più vissuta. Volevo sparire dalla faccia della terra e dicevo: “Chi me l’ha fatto fare?” All’epoca facevo il disc jokey, lavoravo in radio e guadagnavo
guerra con me stesso, con la musica e con gli altri. Piangevo quasi dalla rabbia. Io ho pianto tante volte dalla rabbia, anche se naturalmente l’ho sempre fatto
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“L’essenza del rock è sberleffo, provocazione sessuale. Tutta la musica è pura sessualità” bene. Ho pensato che se riuscivo a scendere da quel palco, non mi sarei mai più esibito. Però mentre andavo a casa in macchina, con la dignità e l’orgoglio sotto i piedi, mi è venuta una rabbia tale: una rabbia primordiale, tutta quella che avevo accumulato durante l’adolescenza a Modena perché io venivo dalla montagna, quindi noi eravamo considerati un po’ come gli extracomunitari dai cittadini ed eravamo presi in giro. Era una rabbia che proveniva anche dalle storie d’amore che erano andate male e che mi avevano fatto soffrire: tutto questo mi è uscito fuori all’improvviso con quell’episodio del concerto e da lì è iniziata una
solo quando ritornavo a casa: sul palco, mai. Là sopra non volevo che trapelasse nulla. Questa sofferenza interiore, la grande potenza emotiva che mi agitava dentro, in genere la sfogavo mettendomi a suonare dopo a casa: mi sdraiavo e scrivevo. Nella vita ho sacrificato tutto per scrivere canzoni. Io parto sempre da un giro musicale: mi piacciono degli accordi e li suono di continuo, proprio per il piacere di sentirli. Questa è una cosa che consiglio a tutti: imparare a suonare uno strumento è un fatto straordinario, suonare ti fa compagnia e costituisce un puro piacere. Se desideri fare una cosa veramente, e la vuoi fare bene, devi dedicarti solo a quella e lasciare da parte amici, famiglia, ogni altro tipo di situazione… Per quarant’anni ho fatto solo musica: è soltanto da poco che sto cominciando a guardarmi un po’ intorno.
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Dalle prove de La Controra...
Una lunga estate calda
“D
da Pierfrancesco Favino
a piccolo, vivevo il momento della “controra”: dopo pranzo si abbassavano i rumori, il papà e i nonni andavano a riposare e bisognava stare zitti: si giocava stando in silenzio. Fuori la strada era silenziosa e calda. C’era questa atmosfera messicana tipica dell’estate del Sud. Nel nostro spettacolo il tempo della controra assume anche un altro senso perché si riferisce al tempo che va al contrario: le cose dovrebbero girare in una certa direzione, ma ogni tanto l’orologio sembra andare contro l’ora corretta e contro il destino delle persone. Ne La Controra le atmosfere di fine ‘800 delle Tre sorelle di Cechov sono riadattate nel Sud Italia degli anni ‘50. Il senso del tempo e del sacro, della Provvidenza e dell’attesa che si vivono al Sud sono dei sentimenti vicini a quelli russi raccontati da Cechov. Quando ho iniziato a leggere il testo, le prime persone che mi sono venute subito in mente sono quelle che circolavano attorno a casa di mia madre e di mia nonna. Quella che in Cechov viene chiamata “noia” o “stanchezza” si ritrova anche nel Meridione, fa parte di una retorica dell’attesa e dei convenevoli quotidiani: al Sud dire “Come sono stanco” può anche significare semplicemente “Buongiorno!”… Sono luoghi pieni di gesti meravigliosi, in cui si dà il giusto peso alle cose, al cibo, alla convivialità, all’essere innamorati e perfino alla morte.”
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I mestieri del cinema Italian Film Commissions
Stefania Ippoliti
FOTOGRAMMI DI BELLEZZA
Di cosa si occupa una Film Commission? Occorre fare comunicazione e promozione, cercando di accogliere ed orientare, fornendo delle risposte a tutte le necessità del settore. Le Film Commissions mettono in contatto i nuovi talenti, dando la possibilità di ricevere contributi e di partecipare a
Come è iniziata la sua avventura nel cinema?
Stefania Ippoliti è Responsabile Mediateca ed Area Cinema di Fondazione Sistema Toscana e Presidente di Italina Film Commissions.
Direi come succedono le cose più belle: per caso… Nel 2006 la Mediateca Regionale mi ha affidato l’apertura della Film Commission della Toscana; non provenivo da una tradizione cinematografica: ho studiato legge e ho lavorato nella moda e nell’organizzazione di mostre, quindi è stata una vera sfida. Sono preparata nella progettazione ed organizzazione di modelli formativi e gestionali, così insieme a Raffaella Conti - da tempo mia compagna di avventure lavorative - abbiamo cominciato ad ingegnarci e questo modello della Toscana Film Commission ha preso forma, è cresciuto. C’è da dire che la Toscana è molto attraente e piena di bellezza, il territorio è vario e conosciuto: gli unici elementi che abbiamo dovuto aggiungere sono stati la professionalità e l’accoglienza, rispondendo alle necessità dell’impresa del cinema e dell’audiovisivo (che raccoglie produzioni televisive e documentari, incluse tutte le declinazioni più nuove che adesso il documentario sfoggia). In tutta Italia si ospita e si accoglie il cinema, ma sono tantissime le produzioni nazionali e internazionali che scelgono la Toscana come location per raccontare le loro storie: questo ci riempie di piacere ed orgoglio.
bandi e concorsi. In particolare, la nostra è una Fondazione che si occupa dell’audiovisivo, però siamo anche la Mediateca della Toscana con un archivio specializzato importante: facciamo formazione nelle scuole, sosteniamo le sale cinematografiche e i Festival internazionali.
Si avverte la responsabilità di dovere compiere comunque delle scelte? Sento la responsabilità di essere all’altezza della fama della mia regione… Di decisioni se ne prendono tante, sia quotidianamente che in prospettiva: proponiamo alla Regione di
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scegliere alcune linee di politica e di investimento impegnando anche 3 o 5 anni. Queste decisioni a volte arrivano a togliermi il sonno, ci penso ogni minuto perché la responsabilità è tanta, soprattutto se hai la fiducia degli amministratori locali: senti il peso del fatto che magari indirizzi una scelta in una direzione, piuttosto che in un’altra… Come tutti i settori culturali spesso occorre fare i conti con la scarsezza dei mezzi, ma non bisogna dimenticarci mai che la cultura è una delle nostre maggiori garanzie per avere un futuro migliore di quello che stiamo vivendo attualmente. IMMAGINE CLARA BIANUCCI
“Il cinema è una finestra sull’anima e sul mondo. Mi apre il cuore” L’obiettivo finale è di mettere in evidenza la bellezza? Questo è l’obiettivo più gratificante. Noi pensiamo che attraverso l’accoglienza sempre più efficiente delle produzioni audiovisive si possa creare occupazione e promozione del nostro territorio, ma anche sviluppo economi-
co: dando delle possibilità di impiego, per esempio, alle nuove generazioni in settori di mestieri anche manuali legati al fascino del cinema. Stiamo progettando dei moduli formativi che abbiano proprio l’ambizione di creare figure che non ci sono ibridandole – e sottolineo questo termine perché credo che ci sia da lavorare su questo punto – con le tecnologie digitali. Riuscire, in qualche modo, a contaminare la scrittura per il cinema con effetti speciali oppure abbinare la parte più creativo-umanistica con quella gestionale-amministrativa. Chi scrive per il cinema dovrebbe sapere come si monta una produzione, in modo che tutto il sistema sia creativo ma anche efficiente. Un’infinità di passione: è questa che ci spinge ad osare e pensare che forse si possono aprire forme di collaborazione in più campi, anche in quantità maggiore rispetto a ciò che si è sperimentato finora: intendo un’unione tra il cinema e il teatro, ibridando le competenze degli uni e degli altri… Certe attività di formazione potrebbero essere svolte in comune: del resto molti attori e registi di teatro fanno cinema, e viceversa. Sarebbe molto bello che la nostra nuova sede il Teatro della Compagnia: un cinema restaurato e ristrutturato per essere una sala cinematografica, ma dotato anche di un bel palcoscenico di proprietà della Regione Toscana e che ci verrà affidata prossimamente – potesse diventare un luogo di contaminazione, dove figure che frequentano il teatro e protagonisti del mondo del cinema e della TV italiana si incontrano.
Che cos’è il cinema per Lei? Una finestra sull’anima e sul mondo. Un’occasione per riuscire ad entrare in contatto con infiniti modi di sentire e di vedere la vita. Il cinema mi fa viaggiare e mi commuove. Mi apre il cuore.
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La Storia racconta...
Tutto il mondo è una prigione
S
hakespeare nostro contemporaneo, intitolava Jan Kott una delle più acute letture del poeta elisabettiano. “Shakespeare è come il mondo, o come la vita.”, scrive il saggista polacco, “ogni epoca vi trova quello che cerca e quel che vuole vedervi”. L’universalità o genialità del Bardo risiede nel suo essere contemporaneo alle nostra realtà, nell’avvicinarsi alle aspirazioni, ai sensi di colpa, alle follie, agli sperdimenti d’amore o d’ira del nostro quotidiano. Shakespeare ci sorprende tuttora perché sonda le terre più nascoste dell’animo umano, le nostre zone d’ombra. I suoi personaggi continuano a parlare di noi più che di loro stessi, ci coinvolgono nell’urgenza delle loro scelte, ci fanno sentire il dramma della loro libertà. A partire da Amleto. Il capolavoro di Shakespeare è una tragedia d’amore, una tragedia familiare, nazionale, filosofica, escatologica e metafisica, ma anche una tragedia sulla libertà di scelta. Il celeberrimo principe danese deve scegliere Le tre streghe, tra “essere” e “non essere”. Ma prima bisogna che sappia a che scopo, e con che criJohann Heinrich Fussli, terio scegliere. È qui che inizia l’intricato fardello del protagonista. “La Danimarca è c. 1783 una prigione” - riconosce Amleto nel II atto, al momento del disegno della sua vendetta -, “fra le peggiori” del mondo.
di Adela Gjata
La libertà assume mille sfaccettature nelle opere di Shakespeare. All’emancipazione civile non sempre corrisponde la libertà interiore, più oscura e contradditoria. Otello raggiunge il riscatto sociale dopo la vittoria contro i turchi a Cipro, quello personale in seguito all’unione con la figlia del senatore veneziano, ma soccombe a causa di questo stesso amore. Il Moro aveva intuito già alla prima vista di Desdemona che la passione per la fanciulla potesse “circoscriverlo e delimitarlo “(I, 2). L’idea di essere ‘legato’ dal suo amore offendeva l’amor proprio di soldato e di uomo. Infine la gelosia,
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“mostro dagli occhi verdi che dileggia il cibo di cui si nutre”, lo stringe mortalmente tra le sue maglie. Alla penetrazione del veleno del dubbio fin dentro le viscere Otello dà l’Addio per sempre alla pace dell’anima. La libertà, oppure la sua mancanza, è quel che colloca e fa agire i personaggi shakespeariani sul grande palcoscenico della vita. Cosa significa essere liberi? ci interroga Shakespeare. Qual è la tua libertà? Cioè qual è la posizione con cui tu vivi, partecipi, accetti, ami, perdoni e combatti nel gran teatro dell’esistenza? Bruto, giustifica l’uccisione dell’amato Giulio Cesare in nome delle libertà repubblicane. Antonio è prigioniero della passione per Cleopatra, per la quale perde la fiducia dei suoi uomini, eserciti e flotte. Angelo di Misura per misura sperpera la libertà di governare il paese cedutogli temporaneamente dal Duca. Romeo e Giulietta incontrano la morte perché impossibilitati a vivere liberamente il loro amore. Nel Macbeth invece emerge la tragicità della libertà umana di fronte al destino. Il re di Scozia decide di avverare la profezia delle streghe e insieme di sfuggire invano al decreto del fato. Ma il domani, che arriva a piccoli passi dall’oggi, è già scritto nel nostro ieri.
Ariel Johann Heinrich Fussli, c.1800-1810
Il leitmotiv della libertà ritorna anche nella Tempesta, sigillo della creazione drammatica del Poeta. La libertà è l’anelito di Ariel, spiritello dell’area, un po’ angelo, un po’ carnefice. La reclama a Prospero subito nella sua prima scena. Prigioniero per dodici anni nelle viscere di un pino per l’incantesimo della maga Sicorace, può ora diventare della stessa trasparenza dell’aria, assumere le sembianze di una ninfa marina, di una chimera o di un’arpia, può persino trasformarsi in melodia e canto, ma rimane un servitore dello spodestato duca di Milano. Anche Calibano, il mostro schiavizzato da Prospero, un tempo signore dell’isola deserta, insegue la libertà, che per lui non significa altro che sonni tranquilli e cibo in abbondanza. “Libertà! Ehidà! Vita nuova!” esulta Calibano all’idea della congiura contro Prospero. “Il pensiero è libero”, echeggiano nel III atto i canti grotteschi dei suoi complici, Stefano e Trinculo, il cambusiere ubriacone e il buffone di corte. Alla fine tutto ritorna al mondo prima della tempesta: Ariel può spiccare libero il volo, Calibano è nuovamente il padrone solitario dell’isola, Prospero abbandona gli onnipotenti poteri magici per tornare, con saggezza malinconica, alla circoscritta libertà umana.
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I mestieri del teatro Il traduttore
Alessandro Serpieri TRA INCANTO E AZIONE Lei è uno dei traduttori italiani più importanti di Shakespeare… Shakespeare è un autore a cui sono particolarmente affezionato, ci ho lavorato fin dalla giovinezza. Mi sono dedicato poi a traduzioni e studi di teoria della letteratura di altri autori, soprattutto di aerea anglosassone, come Eliot e Conrad… La mia opera traduttiva è iniziata grazie all’incontro decisivo, negli anni Ottanta, con Gabriele Lavia. Avevo già affrontato sul piano critico certe opere di Shakespeare e non pensavo di iniziare a tradurre dei testi drammatici; dirigevo una ricerca a Milano sponso-
“In un dramma il linguaggio rivela una dinamica che non vuole solo incantare per la bellezza letteraria ma inequivocabilmente agire” rizzata dalla Rizzoli sulle qualità specifiche del linguaggio drammatico e Lavia, che avevo incontrato per caso in albergo, dopo una lunga chiacchierata decise di venire alle riunioni di questo gruppo. Voleva mettere in scena l’Amleto – il suo primo Amleto, che trionfò alla Pergola – e noi, come gruppo teorico, potevamo partecipare alla messinscena. Per Lavia Amleto è un punto fermo, credo che ab-
bia una vera e propria predilezione per questo testo, e così mi convinse a seguire anche la traduzione nonostante io non l’avessi mai fatto prima. L’esigenza primaria è stata subito quella di tenere conto della specificità del linguaggio drammatico in cui parole e azioni sono destinate alla scena. La traduzione venne rivista parola per parola da Lavia: si leggeva punto per punto e si comparava con il vocabolo originale, per rendere il significato il più aderente possibile. Le mie ulteriori traduzioni dei drammi shakespeariani – da Otello a Macbeth, fino al Re Lear che ho appena terminato – dipendono tutti da questa vicenda iniziale. Mi sono appassionato ai testi scritti per la scena, dove il linguaggio mantiene sempre una funzione formidabilmente immaginativa e allo stesso tempo presenta la caratteristica di essere stato fatto apposta per svolgere un’azione. Il linguaggio drammatico si distingue assolutamente dal romanzo o dalla poesia per il fatto di essere contemporaneamente inventivamente letterario e anche dinamicamente parlato. Per tradurre occorre non solo stare dietro alla bellezza letteraria di un testo, curarne la pregnanza intuitiva, ma bisogna unire la parte più squisitamente letteraria con un lato pragmatico che pone l’accento sui movimenti e le dimensioni della scena.
E da questo punto di vista il traduttore può prendersi delle libertà? Il traduttore è libero di agire secondo una propria linea interpretativa? Il traduttore dovrebbe riuscire fino in fondo a cogliere il personaggio, delineare bene quello che sta pensando e di-
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cendo in direzione dello sviluppo di una trama. Tutto anticipa l’azione dal punto di vista linguistico in un dramma, tendendo a rivelare una dinamica attraverso il linguaggio che non vuole solo incantare per la bellezza letteraria ma inequivocabilmente agire. Il linguaggio
tutto diventa rilevante: il testo originale o tradotto, la voce degli attori, l’enfasi che proviene dalla messinscena, i tagli apportati nell’opera. Un testo come Amleto potrebbe durare anche fino a 5 ore, quindi le riduzioni che si compiono indicano già una scelta ben precisa.
IMMAGINE DALILA CHESSA
Quali sono le difficoltà di tradurre in italiano la lingua inglese?
“Il linguaggio mantiene sempre una funzione formidabilmente immaginativa e il teatro costituisce una fantastica imitazione delle possibilità della vita” del teatro non può essere altro che performativo e avere la dimensione dell’azione, che può essere anche un’azione statica, ma ha comunque il compito di mandare avanti una linea immaginativa. La battuta può morire nel silenzio e anche quella è una conclusione; di solito la trama va a finire con morti, strani incontri ed incubi: caratteristiche tipiche di ogni testo drammatico. Per mettere in scena un’opera di Shakespeare
È più difficile tradurre in italiano dall’inglese, piuttosto che da un testo di teatro in francese o in spagnolo perché il corpo delle parole è molto diverso. Il centro della lingua inglese è di origine anglosassone, non latina, e quindi pur avendo molti vocaboli di origine latina si tratta comunque di un altro incontro di fremiti, di sillabe e di accenti. Particolarmente complesso è cercare di non tradire quello che una lingua vuole esprimere: è necessario coglierne fino in fondo il senso segreto perché il significato non è sempre necessariamente limpido. Molto dipende dalla collocazione della parola all’interno del discorso, da quali significati in contemporanea vuole esprimere – un termine può avere anche più biforcazioni di senso – e la traduzione sulla scena dovrebbe sempre riuscire a rendere questo movimento della lingua. Del resto il teatro imita l’esistenza, anzi costituisce una fantastica imitazione delle possibilità della vita.
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Dai racconti di una giovane scrittrice...
Il baratto di Orsola Lejeune
L’
ultima traccia di trucco se ne stava andando. Davanti allo specchio pian piano vedeva ricomparire il suo volto, nudo e vulnerabile. Era stata una serata dura, la metamorfosi gli era costata più di molte altre volte. Svuotarsi dai pensieri era stato difficile, erano pesanti e non si volevano scrostare in nessun modo: inspira, espira, inspira, espira. Si era dovuto concentrare sul flusso dell’aria dentro e fuori di sé, il battito del cuore che si palesava nella sua presenza costante.
Come sempre ci era riuscito e le risate che aveva suscitato lo avevano coinvolto al punto da scordare la sua vita, quella vera. Ora era di nuovo in camerino ed era tornato in sé, di nuovo se stesso. Di nuovo la sua tristezza. Fuori c’era una masnada di persone che lo aspettavano e avrebbero preteso sorrisi e battute. “Sei diverso dal palco…” Glielo dicevano spesso. Le persone confondevano il suo lavoro con il suo essere. “Possiamo fare una foto insieme?” A volte glielo chiedevano senza nemmeno presentarsi, a volte non gli dicevano nulla sullo spettacolo a cui avevano appena assistito. Su quello spettacolo lui aveva riversato tante energie.
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IMMAGINE CLARA BIANUCCI
“Certo.” Non si può dir di no… e allora davanti a una cascata di flash accecanti, sorrideva, come una sagoma cartonata. Faceva parte del suo lavoro. Cosa ne sarebbe stato del suo lavoro, senza il pubblico? Niente. Lui non sarebbe stato nessuno. Il problema era che quel lavoro gli toglieva umanità agli occhi degli altri: era un divo, perfettamente calato nei panni del personaggio. Un divo invincibile. Non lo associavano mai a una vita quotidiana. “No, Daniela non te ne andare di casa! Ne dobbiamo parlare, prima!” Era per strada al telefono, si stava precipitando a casa prima che potesse succedere l’irreparabile. “Ma io ti conosco!” Un ragazzo gli si stava avvicinando velocemente. Non c’era modo di fuggire. “Tu sei quel comico della TV!” Si era reso conto che era al telefono? Gli fece un gesto per fargli capire che stava parlando ed era impegnato. “Possiamo fare una foto insieme?” Il ragazzo non demordeva. Continuava a seguirlo. “Daniela, no! Aspetta ti richiamo!” Attaccò e guardò allibito il ragazzo. Lui avvicinò il viso al suo e scattò la foto. “Grazie mille! Arrivederci!” Rimase solo per strada, guardando un po’ il ragazzo che se ne andava e un po’ il telefono. Aveva barattato parte della sua libertà. L’aveva barattata con il successo e il suo lavoro. Non avrebbe mai potuto rinunciare a quel lavoro, era la sua vita. Non avrebbe mai potuto rinunciare al pubblico, suo miglior amico e suo peggior nemico. Poteva mescolare se stesso con i suoi personaggi e dimenticarsi di sé, poteva far ridere e regalare gioia. Poteva entrare nelle case degli altri e rallegrare momenti bui, poteva gioire dalle risate suscitate. Si trattava di scegliere. Si trattava di un compromesso. Si guardò allo specchio e si stampò un sorriso in faccia. Uscì dal camerino e venne accolto con un grande applauso. Il sorriso, che inizialmente era forzato, si rilassò e una grande gioia lo invase. Anche nei momenti peggiori loro c’erano, il suo pubblico, formato da tante persone singole e diverse, con tante vite e tante esperienze. Li amava. Anche nei momenti peggiori, continuava ad amarli, non ne avrebbe potuto fare a meno.
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Isabel Allende SCRITTURA MAGICA ¿Su concepto de escribir ficción cómo se desarrolla? Enseñando una verdad o la narración se enriquece gradualmente con mentiras? La primera mentira de la narrativa es que el autor aporta un poco de orden en el caos de la vida: un orden cronológico o de cualquier otro orden que él eligió. Como escritor, se selecciona una parte de todo: usted decide que esas cosas son importantes, y el resto no lo es. La vida no funciona de esa manera. Todo sucede al mismo tiempo, de una manera caótica. No es usted la cabeza: la vida es el jefe. Así que cuando se acepta como un escritor de la idea de que la ficción es falsa, entonces se convierte en libre. Usted comienza a caminar en círculos. Cuanto mayor sea el círculo, más verdad que llegue. Cuanto más amplia el horizonte, cuanto más se camina, más retraso en todas las cosas, la mejor oportunidad tiene de encontrar partículas de verdad. ¿De dónde viene la inspiración? Soy una cazadora de historias. Todo el mundo tiene una historia y todas las historias son interesantes si dicho en el tono correcto. Cuando hago una novela paso diez, doce horas al día encerrada en una habitación. No hablo con nadie. Soy sólo un instrumento de algo que está sucediendo más allá de mí, voces
Il suo concetto di scrittura narrativa come si sviluppa? Raccontando sempre una verità o la narrazione si arricchisce pian piano di invenzioni? La prima bugia della narrativa sta nel fatto che l’autore porta un po’ d’ordine nel caos della vita: un ordine cronologico o qualunque altro ordine abbia scelto. Come scrittore, selezioni una parte del tutto: tu decidi che quelle cose sono importanti e il resto non lo è. E scriverai di quelle cose dalla tua prospettiva. La vita non funziona così. Tutto accade in contemporanea, in modo caotico, e tu non operi scelte. Non sei tu il capo: la vita è il capo. Così quando tu accetti come scrittore l’idea che la narrativa è menzognera, allora diventi libero; puoi fare qualunque cosa. E poi cominci a camminare in tondo. Più largo è il cerchio, più verità raggiungi. Più è vasto l’orizzonte, più cammini; più indugi in ogni cosa, più possibilità hai di trovare particelle di verità.
Da dove trae l’ispirazione? Sono una buona ascoltatrice e una cacciatrice di storie. Ognuno possiede una storia e tutte le storie sono interessanti se raccontate con il tono giusto. Leggo i giornali e spesso piccole notizie nascoste mi ispirano un intero romanzo. In genere quando preparo un romanzo passo dieci, dodici ore al giorno chiusa in una stanza a scrivere. Non parlo con nessuno; non rispondo al telefono. Sono solo una medium o lo strumento di qualcosa che sta accadendo al di là di me, voci che parlano tramite me. Sto creando un mondo di fantasia ma che non mi appartiene. Non sono Dio; sono solo uno strumento. E in quel lungo e pazientissimo esercizio giornaliero di scrittura ho scoperto molte cose riguardo me stessa e riguardo alla vita. Ho imparato. Non
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que hablan a través de mí. Estoy creando un mundo de fantasía, pero que no es la mía. No soy Dios. Y en ese largo y más paciente ejercicio de escribir descubrí mucho sobre mí mismo y sobre la vida. He aprendido. Es un proceso extraño; es como si a través de esta mentirosa ficción descubrí pequeñas cosas reales de mí, de la vida, de las personas, sobre cómo funciona el mundo.
FOTO WILLIAM GORDON
¿Y cómo nace la idea de un personaje? Cuando creo un personaje busco a alguien que pueda actuar como un modelo. Si me refiero a la persona específica es más fácil crear personajes que son creíbles. La gente es complicada, rara vez se exhibe todos los aspectos de su carácter, y hasta los personajes deben ser así. Dejo que los personajes vivan. A veces siento que no controlo ellos. La historia viaja en direcciones inesperadas. El final feliz
sono conscia di quello che scrivo. È un processo strano; è come se attraverso questa finzione bugiarda io scoprissi piccole cose vere sul mio conto, sulla vita, sulla gente, su come va il mondo.
E come nasce un personaggio? Quando creo un personaggio di solito io cerco qualcuno che possa fare da modello. Se ho in mente quella persona precisa mi è più facile creare personaggi che siano credibili. La gente è complessa e complicata, raramente mette in mostra tutti gli aspetti del proprio carattere, e anche i personaggi dovrebbero essere così. Io permetto ai personaggi di vivere, nel libro, di vita propria. A volte ho la sensazione di non controllarli. La storia viaggia in direzioni inaspettate e il mio compito è quello di scriverla, non di farla rientrare a forza nell’idea originaria. Il lieto fine di solito non fa per me. Io amo i finali aperti. Ho fiducia nell’immaginazione del lettore.
Nei suoi primi romanzi, nel caos politico dell’America latina, il mondo reale è un luogo insicuro. Spesso nei suoi libri il posto dello spirito diventa un luogo più affidabile… Il mondo spirituale è un luogo in cui non esistono bene e male. Non è un
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no suele ser para mí. Me encantan los extremos abiertos. Tengo confianza en el lector. En sus primeras novelas, en el caos político de América Latina, el mundo real es un lugar inseguro. A menudo, en sus libros el lugar del espíritu se convierte en un lugar más fiable ... El mundo de los espíritus es un lugar donde no hay bien y mal. No es un mundo de blanco y negro. En el mundo espiritual existe sólo la intención, sólo ser. Todo simplemente es muy estable y en calma. Las cosas existen de una manera que flotan o - no sé cómo decir - que son simplemente allí. En una forma muy, muy suave. Para mí es un lugar seguro. Ese es el lugar donde vienen las historias. Este es el lugar del amor. Mi vida ha sido determinada por dos elementos: el amor y la violencia. Hay dolor, sufrimiento y muerte, pero también hay una dimensión paralela, que es el amor. Hay muchas formas de amor, pero el tipo de amor que estoy hablando es incondicional. Su tío, Salvador Allende, de qué manera ha afectado su vida? No creo que influyó en mi vida, hasta su muerte, ya que siempre había tenido una gran admiración por él. Cuando hubo el golpe militar en Chile, en 1973, no era para él que se cambiò las vidas de muchos chilenos, pero para el golpe. Salvador Allende era un tío en una familia extendida. Después del golpe de los militares, me di cuenta de que el tenía una dimensión histórica. Lo vi sólo después de haber salido de Chile, ya que, una vez que el golpe de Estado fue ocurrido en Chile su nombre fue prohibido. Se había convertido en una figura legendaria, un héroe.
mondo in bianco e nero. Nel mondo spirituale esiste solo l’intenzione, solo l’essere. E non c’è alcun senso del giusto o sbagliato. Ogni cosa semplicemente “è”, in modo molto costante e tranquillo. Le cose ci sono e tu in un certo senso ci gal-
“Quando permetti ai sogni e alle visioni di entrare nella tua vita quotidiana, la realtà sembra espandersi”
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
leggi o – non so come dirlo – semplicemente sei lì dentro. In una forma molto, molto delicata. Per me è un posto sicuro. Quello è il posto da cui vengono le storie. Quello è il posto dell’amore. La mia vita è stata determinata da due elementi che sono stati estremamente importanti:
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Su estilo de escritura se define como “realismo mágico”... Creo que cada personaje tiene una voz. El realismo mágico, predominantemente en La casa de los espíritus, no existe en los otros mis libros. Durante un tiempo en los EE.UU. y en Europa se impuso un enfoque práctico a la literatura, pero no duró mucho tiempo.
l’amore e la violenza. Ci sono il dolore, la sofferenza e la morte, ma c’è anche una dimensione parallela, che è l’amore. Esistono molte forme d’amore, ma il tipo d’amore di cui sto parlando è quello incondizionato.
Suo zio, Salvator Allende, in che modo ha influenzato la sua vita? Io non penso che lui abbia influenzato la mia vita, finché non è morto, per quanto io avessi sempre avuto una grande ammirazione nei suoi confronti. Quando ci fu il golpe militare in Cile, nel 1973, non fu lui a cambiare le vite di così tanti cileni, ma il golpe. Salvator Allende era uno zio in una famiglia estesa. Dopo il colpo di Stato dei militari, capii che Salvator Allende aveva una dimensione storica. Lo vidi solo dopo aver lasciato il Cile perché, una volta avvenuto il golpe, in Cile il suo nome era bandito. Era diventato una figura leggendaria, un eroe.
Lo stile della sua scrittura viene definita come “realismo magico”. I suoi libri sono scritti seguendo questo canone?
FOTO FILIPPO MANZINI
Esto se debe a que la vida está llena de misterio. Y el propósito de la literatura es explorar estos misterios. Cuando usted permite que los sueños, las visiones y premoniciones que entran en su vida diaria y en su trabajo como escritor, la realidad parece expandirse realmente.
Io penso che ogni storia abbia un modo particolare di essere raccontata e che ogni personaggio abbia una voce. E non puoi ripetere sempre la stessa formula. Il realismo magico, presente in maniera preponderante ne La casa degli spiriti, non esiste in altri miei libri. Per un certo periodo negli Usa e in Europa è prevalso un approccio logico e pratico alla letteratura, ma non è durato molto a lungo. Questo perché la vita è piena di mistero. E il fine della letteratura è quello di esplorare questi misteri. Essa allarga realmente i tuoi orizzonti. Quando permetti ai sogni, alle visioni e alle premonizioni di entrare nella tua vita quotidiana e nel tuo lavoro di scrittore, la realtà sembra davvero espandersi.
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Dieci anni di Gomorra: il valore delle parole
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da Roberto Saviano*
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
*dall’intervento di Roberto Saviano in occasione del Salone Internazionale del Libro di Torino 2016
on sono state le mie parole, né l’inchiesta né la denuncia ad aver fatto la differenza per quanto riguarda Gomorra. È il lettore che ha deciso di prendere il libro, come accade con qualsiasi altro libro, per dedicargli del tempo e approfondire la lettura senza spaventarsi della sua complessità. Io credo che la complessità sia la cosa più erotica e potente che ci sia. Diffondere e condividere quelle parole, farne un tema di discussione a casa, sul posto di lavoro o a scuola, ha esteso le questioni del libro e, nonostante Gomorra non sia un movimento politico ma un semplice libro, ha creato una pressione sulle istituzioni. È un miracolo che accade raramente: la lettura che cambia le cose. Si legge, si condivide, le persone si trasformano e diventano quindi più libere. È successo a certi scrittori di pagare delle conseguenze per la loro scrittura: in Sud America, per esempio, Ken Saro-Wiwa - l’autore africano nigeriano di Sozaboy - per quel libro è stato impiccato. D’improvviso un libro ha un’immediata incidenza nella carne del quotidiano ed è quello che è successo a me. È difficile capire poi cosa si diventa: sei uno scrittore, hai realizzato un libro ma ti trasformi in qualcos’altro, qualcosa che è generato da Gomorra: un simbolo, un eroe, ma ogni volta che mi si accostano queste parole io tremo perché gli eroi sono morti e io non ho nessuna intenzione di morire… E siccome sei vivo, allora significa che non è vero che facevi paura, ma che la tua è solo una grande operazione pubblicitaria. Per Gomorra io ho studiato Giovanni Falcone, non solo come giudice o nella sua declinazione morale del coraggio, piuttosto come un intellettuale capace di creare un nuovo modo di fare indagine, nel caso specifico di ricerca e analisi del capitalismo criminale. In un’intervista con Corrado Augias, dopo essere sopravvissuto ad un attentato, dirà che “in Italia si è credibili solo quando si muore e se si muore”. Augias gli risponde: “La sua è una riflessione amara, ma non è così”, invece lui si guarda i piedi e dice: “No, è proprio così”. Ecco, allo stesso modo anch’io non avrei mai immaginato di dovermi giustificare di essere vivo.
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Gomorra usa il metodo del romanzo, ma applicato su nomi e cognomi veri, quindi seguendo un percorso che invece era solito del saggio. Questa struttura costituisce una novità; io l’avevo appresa dal mio giornalismo di riferimento – autori come Lina Dolci, Giustina Fortunato e Carlo Levi – e l’impatto sui lettori è talmente forte… Con rigore racconto una storia non di finzione, ma ci metto dentro le mie sensazioni e il mio punto di vista. È un plusvalore del racconto, in cui confluiscono tutti gli elementi che ho letto nelle cronache e nelle agenzie di stampa, soprattutto la fonte primaria è quella giudiziaria. Infine aggiungo a quelle parole me stesso, descrivendo cosa ho provato a conoscere quella storia o a vederla, immedesimandomi in cosa hanno provato e penso stiano provando gli altri… Insomma, il meccanismo anglosassone della scrittura dice di “mantenere la giusta distanza” e io invece volevo avere “la giusta vicinanza”, volevo azzeccarmi alla realtà e che le cose mi vedessero, non soltanto che io vedessi loro. Scrivendo Gomorra io ho voluto dare potere al lettore, che così conosce una storia - la verità - ed è in grado di difenderla.
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
Il libro una volta scritto non è più dell’autore: tu puoi dominare la parola prima di annunciarla, poi la volta che hai pronunciato la parola è lei che domina te. Il lettore protegge le storie e questo è fondamentale perché così continuano ad essere in vita. Con Gomorra si è creato è veramente un patto rinnovato tra il lettore e lo scrittore: il lettore è sempre più centrale ed esercita un potere sulla realtà. Il problema della rappresentazione del proprio Paese è un problema, come dire, complesso e dunque non dobbiamo abbandonare la volontà sistematica e dettagliata di raccontare come stanno le cose. Non si deve mai rinunciare alla complessità e per avere complessità bisogna avere tempo, che è necessario prendersi. Nel momento in cui lo fai stai proteggendo una parte di te fondamentale, ecco perché sono convinto che la letteratura abbia un grande potere: quello di farci capire il valore delle cose prima di perderle. Leggere, condividere ed informarsi aiuta ad aprirci e schiuderci verso la consapevolezza, la cosa più pericolosa che possiamo fare.
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Regime, teatro e libertà di Rossana Buffone
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urante il ventennio fascista il regime interviene sul panorama italiano con un impegno tale da influenzare anche la vita del teatro. Nel corso degli anni Venti, di fronte alle numerose proposte riformatrici, il potere fascista non prende mai decisioni chiare. Tuttavia, con la graduale trasformazione in regime reazionario di massa, il governo italiano inizia a comprendere l’importanza di dare maggiore attenzione al mondo dello spettacolo ed alle organizzazioni ricreative e culturali. L’intento dittatoriale punta quindi alla creazione di un teatro quale strumento di consenso, capace di smuovere le grandi passioni collettive attraverso un’organizzazione teatrale più moderna che non manchi mai di sottolinearne l’impronta fascista.
Parallelamente alla riforma delle compagnie, sottoposte ad una durissima selezione e che vede tacitamente escludere le compagnie di repertorio dialettale al fine di raggiungere un teatro nazionale esclusivamente di lingua italiana, il fascismo sostiene una serie di iniziative “Pirandello esprime la sua libertà pubbliche quali lo sviluppo dei Carri attraverso la sua ultima opera, di Tespi, (una sorta di teatro all’aperto ideato alla fine degli anni Venti che I giganti della montagna” viaggia in tutte le province italiane in lunghe tournée estive) e il Sabato Teatrale, iniziativa rivolta esplicitamente alle categorie sociali più deboli (operai, venditori ambulanti, lavoratori agricoli ecc…) alle quali viene offerto un biglietto ad un prezzo ridotto per uno spettacolo teatrale al fine di elevarne la cultura attraverso il diletto. Da un punto di vista strettamente testuale, in varie occasioni Mussolini si rivolge ai drammaturghi per convincerli ad abbandonare i tradizionali temi del teatro: il regime stimola gli autori italiani alla creazione di un teatro esplicitamente fascista sia nelle forme che nei contenuti. Insomma, la propaganda di quegli anni punta ad un repertorio che sia simbolicamente l’espressione dell’epoca fascista. Ciò nonostante, al di là della copiosa drammaturgia di carattere nettamente fascista, il regime sviluppa sì un intenso intervento politico nei confronti del teatro, ma questo non è sufficiente a provocare la nascita di una cultura teatrale dotata di linguaggi espressivi innovativi. Certo, all’apice del potere fascista è cambiata nettamente l’organizzazione teatrale, tanto che la selezione e la supervisione dei repertori ha portato soltanto al predominio di forme teatrali di intrattenimento e, nonostante i numerosi ma mai espliciti interventi di allontanamento, una forte presenza del teatro dialettale. Dunque un teatro che potesse dichiararsi fascista a tutto tondo non ha mai visto la luce, anche grazie ad un ristretto numero di au-
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tori ed intellettuali accumunati da un atteggiamento non consenziente alle scelte ed alle imposizioni del regime che mostrano, invece, l’esigenza di esprimere una completa libertà artistica. In un tale clima di irrigidimento, di controllo e di forte propaganda, il teatro di Eduardo De Filippo avvia negli anni Trenta un’operazione unica che vede l’unione tra le proprie radici dialettali e un’ipotesi di drammatur-
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gia nazionale. Ci troviamo di fronte ad un caso che mostra una forte resistenza al regime fascista; questo contrasto mostra quanto il teatro italiano di quegli anni nasca da un rapporto drammatico e contraddittorio verso la propria epoca ma che allo stesso tempo si mostra capace di ricreare un orizzonte simbolico dentro al quale il pubblico del tempo riesce a ritrovare qualcosa della propria storia individuale e collettiva. Anche Pirandello, al di là della sua adesione politica al fascismo, esprime la sua libertà autoriale attraverso la sua ultima opera, I giganti della montagna, in cui viene riproposto il problema dell’autonomia dell’arte per la quale Pirandello si era fortemente battuto. La riflessione pirandelliana, che si sforza di indagare i principi fondanti dell’arte teatrale con grande consapevolezza e libertà della dimensione sociale attraverso la messinscena, e che sempre più vuole rivolgersi ad un pubblico selezionato e motivato, ci offre la sola immagine veramente libera e moderna del teatro e della società italiana in epoca fascista.
LA PAROLA AL PUBBLICO Attraverso l’Infinito di Alice Nidito
Come un’eco, lontano, negli abissi del cielo ogni verità svanisce. Tutto si azzera Quiete dentro di me Uno stato naturale di sincera intimità.
Nessun giudizio.
Vola l’anima pura e vera tra emozioni e turbamenti.
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Speicale Opera Il regista
Alessandro Talevi PASSIONE E FANTASIA
pisco bene come sono fatti: gli inglesi vogliono sempre coprire i loro veri sentimenti e cercare di fuggire dal conservatorismo delle abitudini della società è un’idea che intimamente ci appartiene molto. Alberto Herring ha una natura timida, non mostra i suoi sentimenti e ha paura della libertà incarnata dai suoi giovani amici che sono molto disinibiti: loro vivono apertamente i piaceri anche più fisici, mentre Albert è torturato dal fatto di nascondere i suoi desideri. Albert ha paura ad essere libero. Per gli inglesi una cosa non è mai bianca o nera, c’è sempre una sfumatura che sta in mezzo e che rivela il dubbio.
E dal punto di vista visivo, a cosa si è riferito per creare questa messinscena così libera ed ironica?
Che idea di libertà è presente in Albert Herring di Britten, una delle opere che ha caratterizzato l’ultimo Maggio Musicale Fiorentino? Mi sento molto vicino alla storia, forse perché sono mezzo inglese e ca-
La regia contiene un bel misto di cose. Si va dagli anni Venti fino ad assecondare visivamente la musica, che ha una qualità un po’ surreale ed esagerata ma con un suo realismo. Questo aspetto mi ha reso più libero di inventare: certe soluzioni sceniche sono state enfatizzate ma mai andando contro la storia, anzi cercando di spiegarla e met-
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terla in evidenza. Quando si crea una drammaturgia è importante anche divertirsi, con tocchi di fantasia. L’idea del baccanale, per esempio, che ho inserito nella storia all’inizio mi preoccupava: quasi un’orgia tra le Reginette del Maggio e tutti i bigotti del villaggio, come incarnazione delle fantasie più represse. La musica era perfetta, secondo me, per rappresentare quella scena: si tratta di una musica diabolica, quasi selvatica. Il timore era la reazione del pubblico, non
Italia mi ha reso più libero: in Inghilterra quest’opera è conosciuta, mentre il pubblico italiano ha meno aspettative rispetto a questo autore. La sfida è stata quella di riuscire a far arrivare la storia ad un pubblico che non conosce bene la lingua inglese, ecco perché ero forse più libero di inserire anche elementi meno naturalistici.
“Per gli inglesi una cosa non è mai bianca o nera, c’è sempre una sfumatura che rivela il dubbio. In Italia il pubblico è ferocemente entusiasta o ferocemente contro”
Il pubblico non è mai identico. Gli italiani sono appassionati; è una qualità che fa parte del carattere: quando vi piace una cosa esprimete tutto il vostro entusiasmo, così come manifestate con la stessa passione il vostro disappunto. Il gusto è diverso in ogni Paese: in America è conservatore, forse perché gli investimenti privati sono prevalenti, invece in Germania tutto è ardito perché i soldi per le produzioni arrivano dal governo. Gli inglesi sono più cortesi degli italiani rispetto al risultato di un’opera: in Italia il pubblico è ferocemente entusiasta o ferocemente contro.
volevo essere osceno solo per il gusto di esserlo: prendere in giro l’ipocrisia era il nostro intento e ci siamo riusciti. Alla fine tutto è stato condito dall’ironia. In alcuni punti la visione è addirittura fiabesca: si sente il suono dei corni durante l’opera che ricordano l’idea della caccia e delle donne intese come preda… Una delle ispirazioni è stata Alice nel paese delle meraviglie: il cibo che cresce, i vari elementi che girano… Anche alcuni riferimenti a Wagner e l’apparizione di un grande cigno contribuiscono ad enfatizzare il lato fiabesco.
Quali sono le difficoltà di rappresentare un’opera non tra le più popolari del corpus operistico? Noi registi dobbiamo sempre creare un legame tra palcoscenico e pubblico. Anche quando sfidiamo gli spettatori, l’importante è non perderli: l’energia che corre tra il palcoscenico e la sala non può mai essere interrotta. Per certi versi rappresentare Albert Herring in
Lei è abituato a viaggiare in tutto il mondo; il teatro, alla fine, è universale?
Per un regista qual è il momento più emozionante di un’opera? Sono le prove a darmi quel brivido in più… Quando hai un’idea che sta maturando dentro di te per mesi e poi vai in prova con i cantanti per la prima volta, è un momento speciale perché i tuoi pensieri si combinano con i loro. Quando le cose nascono per la prima volta è un’ispirazione.
La musica è libertà? Sicuramente la musica è libertà perché è una forma d’espressione che proviene dal subconscio dell’uomo. È nella profondità dell’essere umano che nascono davvero le idee.
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Il teatro in carcere...
Incontro fortunato di Claudia Casolaro
FOTO ANGELO REDAELLI
Carlo Bussetti in Che ne resta di noi
E
state del 2000 in Francia, durante un approfondimento di danza col grande Maestro Dominique Dupuy, pedagogo di rara finezza, io e Michelina ci incontriamo per la prima volta. E nel 2014 a Milano, io e Michelina ci ritroviamo sempre grazie a Dupuy. Michelina Capato Sartore (attrice, regista e drammaturga, fondatrice della cooperativa sociale E.s.t.i.a) mi invita a cena in carcere, non è uno scherzo: “Camerieri della vita” è una cena-spettacolo (cena di lusso) in un carcere modello. Oggi mi sento fortunata ogni volta che, ripensandoci, percorro gli 800 metri di corridoi dal primo cancello di accesso per arrivare al teatro. E “fortunati” sono anche loro, i detenuti che possono confrontarsi con noi professionisti scenografi, attori, costumisti, musicisti, ma anche cittadini liberi che si iscrivono al laboratorio teatrale interno al carcere, dove ogni martedì sera per 4 ore e per 7 mesi all’anno, si compie la magia. Liberi di essere insieme (i liberi e i non liberi) ma anche ex detenuti che, scontata la pena, chiedono di rientrare per seguire il teatro (laboratorio, prove, spettacoli). Dentro la II Casa di Reclusione di Bollate la volontà di una persona (intendo sempre Michelina) crea il Teatro, sia come spazio scenico autentico e bello, sia come attività di alto valore culturale. Lo si capisce bene dal pubblico che segue il Festival e tutte le varie proposte organizzate in carcere. Sento che si perpetua la fortuna di quell’incontro: una ballerina e una attrice, che fanno danzare dei detenuti. Raramente mi sono sentita così libera, in un progetto di ricerca di teatro e danza, concentrato sugli aspetti pedagogici e sull’analisi dei linguaggi possibili. Certo, non è facile, le relazioni chiedono delicatezza e fermezza, le complicazioni sono all’ordine del giorno, ci vuole molta pazienza per creare lo spirito di gruppo, per far assaggiare la soddisfazione che gratifica l’individuo, a chi viene da storie di incomunicabilità e di scontro. Ci fidiamo del Teatro, di tradizione e di innovazione.
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Firenze contemporanea...
E poi arrivò Peggy
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ccentrica e dotata di un’innata inclinazione alla libertà. Libertà di scegliere le città in cui vivere, da cui partire per tornare, la colta cerchia di amici da frequentare, le passioni da assecondare e gli uomini da sposare. New York, Parigi, Londra, Venezia, pellicce eleganti, frangette alla moda, gioielli over size; niente di scontato per una donna nata nel 1898. Invece Peggy Guggenheim, la brillante e inquieta ereditiera americana, per tutta la vita dedica tempo e risorse personali a ciò che ama, a dispetto del cognome ingombrante, dell’educazione ricevuta o dei confini sociali, alto-borghesi, da non valicare. E lei ama l’arte, senza un motivo preciso. Ne è talmente attratta, che spende ogni energia ad apprezzarla, difenderla da regimi e pregiudizi, scovarla nei lampi di giovani anonimi, raccoglierla per sé e farla conoscere ai più. È tra le prime donne ad aprire una galleria e a collezionare centinaia e centinaia di opere, perché non può immaginare di vivere senza i suoi quadri, «specchi che riflettono la sua stravaganza» e emblema di autodeterminazione. E Peggy originale lo è stata davvero tanto che, quando l’amico Marcel Duchamp le mostra quegli oggetti di uso comune, stravolti nella loro funzionalità ed elevati a simbolo d’idea pura, lei sussulta d’entusiasmo. Se l’orinatoio siglato nel ’17 dal signor Mutt, alias Duchamp, divenne una Fontana e diede avvio all’arte contemporanea, Peggy coi suoi gusti anticipa movimenti e tendenze e si fa promotrice di inneschi FOTO FONDAZIONE SOLOMON R. GUGGENHEIM, ARCHIVIO CAMERAPHOTO EPOCHE creativi. Organizza esposizioni a Tanguy Peggy Guggenheim e Kandinskij ancora sconosciuti, e sotto la guerra acquista pezzi da Arp, Moore, Calsul terrazzo di Palazzo der, Picasso e Braque, al ritmo di uno al giorno. Sempre in mezzo ad artisti suoi amici, Venier dei Leoni, amanti, confidenti e in qualche caso marito, Peggy incarna uno stile di vita emanciVenezia, primi anni ’50 pato e fuori dagli schemi, senza mai preoccuparsi di mischiare vita e arte, di abitare case che trasforma in musei e musei che abita come case. Mentre Hitler nel ’41 è alle porte di Parigi e ordina di bruciare qualsiasi opera avesse “degenerato” rispetto ai valori nazisti, lei d’origine ebraica, fa in tempo ad acquistare Uccello nello spazio, uno dei lavori più famosi di Brancusi e a fuggire in America con la stiva piena di quadri e sculture da salvare. I manuali di storia dell’arte sarebbero più poveri senza Peggy
di Sandra Gesualdi
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la temeraria che mette in salvo arte e artisti ed esporta le avanguardie europee nella Grande Mela, dadaismo, astrattismo, cubismo. Samuel Beckett, di cui subisce il fascino dell’intellettuale sagace, le consiglia: «Devi accettare l’arte del nostro tempo perché è una cosa viva» e lei quando incontra quello strano carpentiere, che nel pomeriggio lavora come custode nel museo dello zio Salomon e la notte riempie tele di spasmodico colore, ne riconosce immediatamente il genio. Gli offre un contratto di 150 dollari al mese e libera il talento impetuoso, impulsivo, imprevedibile e indisciplinato di Jackson Pollock. Per l’ingresso della sua casa newyorkese il padre dell’Action Painting, le realizza Murale, sei metri di tela satura di onde materiche che si succedono in una danza senza fine e diventa la «figura centrale» dell’attività dell’Art of This Century, lo spazio espositivo di Peggy in cui i giovani artisti americani, negli anni quaranta, trovano un ambiente stimolante e una possibilità d’espressione. E fino al 24 luglio 2016, a Palazzo Strozzi una grande mostra porta a Firenze proprio i pezzi della collezione della stravagante nipote e dello zio Solomon R. Guggenheim in un viaggio tra Kandinsky, Duchamp, Max Ernst, Burri, Vedova, Dubuffet, Fontana, fino a Pollock e Rothko. Peggy dopo la Seconda Guerra Mondiale torna in Europa e si trasferisce, con tutta la sua preziosa raccolta, a Venezia semplicemente perché «sentivo che lì da sola sarei stata felice», per sempre.
FOTO GIUSEPPE SCHIAVINOTTO
Sentieri ondulati Jackson Pollock, 1947
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A proposito di Orazio Costa...
Un Metodo per la vita di Marco Giorgetti
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
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l teatro è vita, e il teatro, come la vita, si realizza ogni volta che due individui si incontrano e condividono un’esperienza. Chi sta sul palcoscenico cerca di portare il pubblico in un altro mondo, in un’altra dimensione, e di farlo entrare dentro una storia. Questo è ciò che fin dalle origini è stato il racconto: e il teatro nasce così, come luogo del racconto. È inevitabile per me parlare di Orazio Costa, che è stato un grande Maestro di teatro e di vita. Costa partiva dalla consapevolezza che tutti nascono con un istinto: fin dalla nascita siamo animati da una spinta del tutto istintiva che ci fa ‘diventare’ come la prima persona con cui entriamo in contatto, per realizzare il nostro percorso di crescita, per diventare l’essere umano che poi saremo. Nel momento in cui nasciamo siamo del tutto inconsap evoli, non sappiamo chi siamo, ma facciamo una serie di incontri fra i quali prioritario quello con la madre, o comunque con il genitore di riferimento. Per costruire il nostro essere e per comprendere chi siamo, la natura ci ha dotato di un istinto che ci fa spontaneamente immedesimare nella persona con la quale entriamo in rapporto, che ce la fa imitare, per essere come lei, in un meccanismo che inconsciamente applichiamo in ogni incontro durante la nostra crescita. Ognuno di noi è capace di immedesimarsi in ciò che gli è vicino diventando altro rispetto a quello che originariamente è. È il meccanismo del gioco infantile, il quale gioco non è altro che un esercizio e un affinamento continuo di tale istinto, che ha sede addirittura nelle più infinitesimali cellule del nostro corpo, là
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dove avviene, ad un altro livello, questa possibilità di diventare altro. E’ il meccanismo che ci fa immedesimare in una storia, in un film, in un racconto. Via via che si cresce, questo istinto, se sappiamo mantenerlo integro, può diventare anche una salvezza: quando la nostra vita prende una piega che non ci soddisfa, che non coincide con i nostri desideri più profondi, è questo istinto che ci aiuta ad evadere dalla nostra dimensione quotidiana. La possibilità di evadere in un altro mondo, in un altro sé, porta nuovi orizzonti e nuove visioni nella nostra vita. William Shakespeare scoprì questo elemento istintuale molto tempo fa e lo introdusse all’interno dell’opera teatrale più importante di tutti i tempi, Amleto, che contiene al suo interno tutte le possibilità espressive del teatro. A quell’epoca infatti Shakespeare insegnò al pubblico e agli attori come il teatro non fosse solo semplice evasione o la creazione di una realtà illusoria, ma mostrasse invece lo specchio della natura. Quella società che si riuniva vedeva rappresentata se stessa sul palcoscenico: il teatro diventava allora un momento di confronto e di discussione con se stessi e con gli altri. Questo avveniva anche precedentemente, nel teatro di Sofocle, di Euripide o di Eschilo, ma con una connotazione diversa: il teatro antico era un rito, aveva in sé un senso sacro e religioso che il teatro moderno ha perso per diventare invece una forma di dialogo e un “ Il teatro di Orazio Costa è un teatro confronto diretto con il proprio essere, che pone domande, dove al centro un confronto che mette in discussione ogni certezza. Con il famoso monologo è sempre messo l’essere umano, “essere o non essere” nasce l’Uomo mo- in cui si ritorna alla parte essenziale derno: l’Uomo che si chiede se valga la e vera di se stessi” pena di esistere. E con lui nasce il teatro moderno. Un teatro che si riferisce all’individuo dotato di un corpo e di una propria personale capacità di essere presente a ciò che fa parte della sua vita, a ciò a cui partecipa, con tutti i suoi sensi e con la propria parte istintuale. Il Metodo Mimico di Orazio Costa incentra la sua ricerca partendo dal recupero di quella parte istintuale che tutti hanno, ma che viene persa a causa dell’educazione e delle sovrastrutture imposte dalla società. Il teatro di Orazio Costa è un teatro che pone domande, dove al centro è sempre messo l’essere umano, in cui si ritorna alla parte essenziale e vera di se stessi. Questo Metodo è un percorso che parte dal corpo per arrivare alla voce, che prepara l’uomo-attore ad affrontare la drammaturgia e la poesia attraverso un’espressione completamente libera dal fatto teatrale. Si parte dal respiro, per ritornare al respiro. Costa sapeva valutare gli attori soltanto guardandoli respirare, perché effettivamente quello è il momento in cui l’uomo si rivela. Ma la grande forza di tutto questo sta nel fatto che si tratta di un potenziale enorme che è e resta alla portata di tutti, poiché si fonda su qualcosa che fa parte di ognuno di noi, su qualcosa che, per quanto su un individuo possano aver influito negativamente i condizionamenti, le esperienze e tutti gli elementi di gravità della vita quotidiana, è recuperabile in ogni momento, come una energia potente che porta al cambiamento salutare di ogni essere vivente, in una nuova consapevolezza dell’essere.
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Sulle ali della libertà Marco Baliani
Un certo sguardo Una definizione di libertà Per me essere libero vuol dire conoscere molto bene i propri limiti. Se si riesce a capirne i confini e a non superarli, all’interno di questi limiti si ha il massimo grado di libertà possibile. La libertà è pericolosa quando tu quei limiti non ce l’hai e pensi di poter fare qualsiasi cosa.
Quando ti senti libero
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
Nel mio mestiere sempre. Il teatro è caratterizzato da tre limiti: lo spazio (la grandezza del teatro e del palcoscenico), il tempo (per creare un’opera non hai a disposizione un tempo infinito, ma devi rispettare delle scadenze) e la relazione (una volta che lo hai intimamente ideato, lo spettacolo deve arrivare davanti agli occhi esterni del pubblico). Se riesci ad affrontate queste barriere, poi ti senti libero. L’attore ha una grande libertà, che è quella di usare uno sguardo oppure un gesto diverso ogni sera per dire la stessa battuta. Sicuramente nella vita di tutti i giorni mi sento libero quando non devo pensare a quello che devo fare il giorno dopo: se entro in una situazione in cui non ho aspettative e ho tutto il tempo davanti, quello che avviene è miracoloso, anche guardare una foglia o il mare. Questa per me è l’essenza della libertà: un sentimento in cui senti che sei con te stesso e con il mondo, da solo e contemporaneamente con gli altri. In pace con la mia interiorità: perfettamente allineato con la natura, con lo spazio e con il tempo.
Quando non ti senti libero La burocrazia mi opprime. Mi sento costretto quando devo perdermi in queste formule assurde. L’Italia è uno dei Paesi più burocratici del mondo e siamo ancorati ad un concetto che rende il cittadino succube dello Stato.
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Sulle ali della libertà Iaia Forte
Senza limiti Una definizione di libertà Libertà è riuscire ad assecondare la propria immaginazione, essere aderenti ad un’immaginazione che suggerisce non solo le strade dell’identità ma che forma il desiderio. Libertà è possedere un’immaginazione: chi non ce l’ha, è più vincolato ad una chiusura. È difficile seguire la strada dell’immaginazione, ma è una grande possibilità che tutti noi abbiamo: l’oggettività della realtà è sempre faticosa, così l’azione dell’immaginazione permette la libertà dello spirito che è l’unica condizione oggettiva di libertà esistente.
Quando ti senti libera
IMMAGINE DALILA CHESSA
Devo dire che nella vita è difficile sentirsi veramente liberi perché abbiamo dei vincoli che ci costringono maggiormente di quando si è, per esempio, sul palcoscenico. Il mio lavoro mi ha regalato la libertà. Se hai la fortuna di rapportarti con un personaggio potente da interpretare, avverti totalmente la libertà e la possibilità di poter entrare in quei panni. Tutto è sempre vincolato alla libertà dell’immaginazione: un grande personaggio ti permette di essere o di vivere qualcosa che va al di là del tuo quotidiano. Per libertà io intendo sempre una dimensione psichica, più che oggettiva o reale. Nella quotidianità forse un esempio di libertà estrema può darla solo il mare: per me è un elemento fondamentale, mi ci accosto con una sensazione non mediata da filtri celebrali. È come se non ci fossero più argini o confini chiusi, come se potessi adagiarmi in uno spazio senza limiti.
Quando non ti senti libera Non mi sento libera quando mi si oppone contro la orribile burocrazia italiana. E anche nel mio mestiere può accadere di vivere situazioni costrittive: quando incontro punti di vista artistici molto diversi dal mio, allora non avviene un vero incontro e tutto diventa più faticoso.
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Sulle ali della libertà Lucia Poli
Gioco e fantasia! Una definizione di libertà Credo che nella triade francese Liberté, Égalité, Fraternité la libertà sia la componente più importante perché si identifica con la vita. La libertà è stata una scoperta dell’infanzia: sono nata in tempo di guerra e la prima vera coscienza acquisita è stata quella di un’Italia libera dalle bombe e dall’oppressione. Ho assimilato un senso di vitalità e da allora per me la vita si identifica appunto con la libertà. Inoltre fin da piccola ho goduto anche di un’estrema libertà di apprendimento perché mia madre considerava l’educazione come qualcosa di naturale, un po’ rousseaunianamente, e non ci mandava a scuola. Ci sono andata quando avevo già otto anni, fino ad allora avevo goduto pienamente della libertà dei giochi e della fantasia. Il massimo grado di libertà è rappresentato dai bambini che con il gioco ne colgono l’essenza. E noi teatranti, infatti, manteniamo il senso del gioco per tutta la vita.
Quando ti senti libera
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
Ho scelto un mestiere difficile e faticoso, ma per passione e amore, non certo per routine o coercizione. Inoltre la mia carriera è stata particolare: mi sono inventata da sola la mia Compagnia. Indubbiamente questo può comportare delle ricadute negative, come avere maggiori difficoltà a raggiungere certi traguardi più impegnativi sotto il profilo economico o tecnico. La libertà assoluta è però qualcosa che non baratterei con niente al mondo. Nella vita privata mi sono presa la libertà di fare un figlio anche con un mestiere difficile, con orari completamente sballati dovuti alle tournée. Del resto io ho sempre avuto ben in mente la lezione di mio fratello, che ha vissuto tutto – sia nel teatro e sia nel privato – all’insegna della libertà più assoluta. Ho privilegiato una linea nella mia esistenza: la mia libertà, prima di tutto, insieme al rispetto per quella degli altri.
Quando non ti senti libera Non sono mai stata forzata a fare qualcosa contro la mia volontà. Ci sono magari certi traguardi che non ho realizzato: cose che non ho capito o che non mi sono riuscite, piccole delusioni, degli errori… Non tutto va sempre bene, però esiste anche un’altra forma di libertà: il diritto, a volte, anche di poter sbagliare…
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Sulle ali della libertà Guido Caprino
Libero di scegliere Una definizione di libertà Libertà è guardare avanti senza provare tristezza o malinconia per il passato. È anzi sorridere al futuro.
Quando ti senti libero
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
Forse il momento in cui mi sono sentito più libero è stato agli inizi, quando cominciavo a studiare per fare questo mestiere. Penso a quella freschezza, al senso della scoperta, che in questo mestiere non mancano mai… La fase degli inizi è come la prima volta con una donna: non si dimentica mai ed è irripetibile. E poi i contratti rendono vivi gli attori! Scherzi a parte, quello che ci dà libertà è la possibilità di lavorare bene, scegliendo tra proposte caratterizzate da una materia di base forte ed interessante. Solo così puoi entrare in empatia con il personaggio e la storia che dovrai interpretare. Storie belle, con compagni di lavoro che vedono il mestiere come lo intendi tu: queste sono le condizioni ideali che ti permettono di lavorare senza condizionamenti e di esprimerti al meglio delle tue possibilità. La libertà non dipende dal tipo di personaggio che ti trovi a dover affrontare. Non importa se il ruolo è del cattivo o del buono, non si è più o meno liberi da questo punto di vista: di solito l’attore non esprime un giudizio nei confronti del suo personaggio. L’atteggiamento attoriale deve essere univoco: tentare di dare comunque una dignità al ruolo, al di là delle azioni dettate dalla storia che viene raccontata: devi amare chi interpreti, in qualche modo, e considerarne anche le debolezze.
Quando non ti senti libero Non mi sento quasi mai libero. L’attore è l’ultimo gradino di una serie di passaggi che vanno dalla scrittura fino alla messinscena; la libertà te la devi guadagnare con il mestiere. Questa è una conquista difficile da ottenere, bisogna lottare sempre.
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Quaderni della Pergola Materiale raccolto da Angela Consagra, Alice Nidito, Chiara Zilioli, Filippo Manzini, Matteo Brighenti, Riccardo Ventrella, Orsola Lejeune, Clara Bianucci, Dalila Chessa, Adela Gjata, Sandra Gesualdi, Rossana Buffone, Marco Giorgetti Progetto Grafico Walter Sardonini/Social Design
Via della Pergola 12/32 - 50121 Firenze Centralino 055.22641 www.teatrodellapergola.com www.teatrodellatoscana.it Info e contatti quaderni@teatrodellapergola.com
Impaginazione ed elaborazione grafica Chiara Zilioli Le inverviste sono di Angela Consagra La fotografia di copertina e dell’editoriale, l’album fotografico Dalle prove de La Controra, la fotografia a pag. 65 e la fotografia della lavagna di Eduardo De Filippo sono di Filippo Manzini L’introduzione ai Quaderni a pag. 2 di Italo Calvino è tratta da Il barone rampante (Collana Gli elefanti Editore Garzanti – 1988)
Fondazione Teatro della Toscana Presidente Dario Nardella Consiglio di Amministrazione Antonio Chelli, Barbara Felleca, Maurizio Frittelli, Raffaello Napoleone, Duccio Traina Collegio Revisore dei Conti Giuseppe Urso Presidente, Roberto Lari, Adriano Moracci Direttore Generale Marco Giorgetti © 2015 FONDAZIONE TEATRO DELLA TOSCANA © 2015 EDIZIONI POLISTAMPA
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L’intervista dedicata a Dario Fo è parte del suo intervento in occasione del Salone Internazionale del Libro di Torino 2016 L’intervista a Paolo Sorrentino è stata ispirata dall’incontro con il regista nell’ambito del Lucca Film Festival 2016 L’intervista a Vasco Rossi prende spunto dall’incontro con i fan dell’artista condotto da Ernesto Assante e Gino Castaldo all’Auditorium Parco della Musica di Roma Si ringraziano Elena Capaccioli, Carlo Gobbi, Gabriele Guagni, Simona Mammoli, Silvia Martin, Silvia Meneghini, Chiara Tognolotti e Giovanni Maria Rossi per l’amichevole collaborazione Errata Corrige: l’immagine a pag. 75 del precedente Quaderno sul femminile relativamente alla rubrica Dai Quaderni di Orazio Costa è di Dalila Chessa
La lavagna con la scritta EDUARDO viene conservata nei locali del teatro e fa riferimento al corso di drammaturgia che Eduardo De Filippo realizzò nei primi anni Ottanta al Teatro della Pergola. Questa citazione ha ispirato la nascita dei Quaderni della Pergola come elemento figurativo delle prime copertine. E ancora continua ad essere un simbolo del nostro modo di concepire il teatro.
Libertà è partecipazione... Giorgio Gaber