Quaderni della Pergola | Le mutazioni

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Possa la mia anima rifiorire innamorata per tutta l’esistenza Rudolf Steiner



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T

utto è condurre a termine e poi partorire. Lasciare che ogni impressione

e ogni germe di un sentimento si compia tutto dentro, nell'ombra, nell'indicibile e inconscio e inattingibile

alla propria ragione, e con profonda umiltà e pazienza attendere l'ora della nascita di una nuova chiarezza: questo solo significa vivere d'artista: nel comprendere come nel creare. Qui non serve misurare con il tempo, a nulla vale un anno, e dieci anni non son nulla. Essere artisti significa: non calcolare o contare; maturare come l'albero, che non incalza i suoi succhi e fiducioso sta nelle tempeste di primavera, senza l'ansia che dopo possa non giungere l'estate. L'estate giunge. Ma giunge solo a chi è paziente e vive come se l'eternità gli stesse innanzi, cosÏ sereno e spensierato e vasto.

Rainer Maria Rilke


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25 Giovanni

13 Antonio

Esposito

Catania

Pensieri mutanti

17 Gigio

Alberti Pensieri mutanti

Giuseppe Battiston Dove tutto ha un senso “Il pubblico è parte integrante di quell’atto politico che si esercita nel momento preciso in cui si decide di fare teatro”

quello che vorrei

4 Silvio Orlando Oltre la maschera “Ogni ruolo è come una seconda pelle che ti si attacca addosso e il mio lavoro può dirsi, da sempre, una 14 Barbora Bobulova ricerca dell’anima. Mostrarsi senza Tra finzione maschere o corazze: e realtà questa è l’essenza “Ad un certo punto, la recitazione e la del mestiere dell’attore” vita, in qualche modo, si fondono ed è qualcosa di inevitabile”

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Pensieri mutanti

Rigore e tempo

sguardo allargato

18 Isa Danieli Nata in teatro “Essere attrici è il mestiere più in trasformazione che ci sia, perché si vivono tante esistenze”

26 Tommaso

Sacchi

22 Giuliana

De Sio

Contro tutte le mie paure “Mi chiudo in camerino e cerco disperatamente, nella testa e nel corpo, la mia energia”

La politica delle idee “Mutazioni nei linguaggi, mutazioni nei rapporti tra le comunità, mutazioni sociali, mutazioni generazionali”

32 inventare dal vero

34 esserci fino IN FONDO


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46 Riccardo

Benassi

dietro le 36 Charles

Chemin

quinte L´istante perfetto

56 La Storia racconta... metamorfosi dell'ATTORE 66 Nora Venturini Ti racconto una storia

Essere più che attori 58 Ludovico

39 un cavallo tutto blu

Einaudi

48 Pedro

Almódovar

40 Carolina Rosi Con la schiena dritta “Francesco Rosi è stato un uomo di responsabilità”

Tutto su di me “L’importante è essere sinceri, questo è l’unico modo per potere veramente raccontare le cose”

La voce della musica “Bisogna essere pronti al cambiamento, capaci di mutare le proprie certezze”

70 Livia Firth La mia vita sostenibile

73 la poesia

61 Beatrice

Venezi

43 Andrea

Baracco

Quello che io sono “Il teatro ti dà infinite possibilità di costruire ciò che sembra impossibile”

54 Luca Marinelli La mia strada “Con il successo bisogna mantenere i piedi per terra”

Ritmo e melodia “La musica classica è di tutti, non solo degli intellettuali”

74 Ludovica

Sebregondi

64 Dai racconti di una giovane scrittrice...

Eclettica e libera “Passato e futuro in arte convivono”

78 Il ricordo di Andrea Camilleri


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Silvio Orlando

Oltre la maschera “Ogni ruolo è come una seconda pelle che ti si attacca addosso e il mio lavoro può dirsi, da sempre, una ricerca dell’anima. Mostrarsi senza maschere o corazze: questa è l’essenza del mestiere dell’attore” Dal punto di vista dell’interprete, è possibile rimanere sempre se stessi anche dopo aver reso in scena personaggi molto diversi da ciò che si è nella realtà?

Io ambisco sempre alla trasformazione; sono un attore che entra nelle storie e che cerca, con tutte le sue forze, di non essere troppo ingombrante con la propria personalità. Ogni ruolo è come una seconda pelle che ti si attacca addosso e il mio lavoro può dirsi, da sempre, una ricerca dell’anima. Sento di dover essere un attore pronto a tutto, capace di giocare in scena e di rivelare contemporaneamente anche le proprie fragilità, che poi corrispondono – come un riflesso – agli stessi sentimenti del pubblico… Mostrarsi senza maschere o corazze: questa è l’essenza del mestiere dell’attore, riuscendo perfino ad andare oltre se

stessi… Il punto di partenza rimane comunque la mia individualità, che è sempre presente in scena. Una sua grande trasformazione è rappresentata dal personaggio interpretato in The New Pope, il Cardinale Angelo Voiello… Recitare la parte del ‘cattivo’: per un attore, che sfida è?

di Angela Consagra

The New Pope costituisce il seguito di The Young Pope, la storia di un Papa così sexy interpretato da Jude Law… In questa seconda parte mi pare che il racconto sia diventato più corale e che sia sbocciato, per quanto riguarda il carattere delle vicende narrate, un tono più comico e dal tratto spiccatamente sentimentale. Inoltre, la squadra del cast è composta da attori che riescono a parlarsi con una certa complicità, Foto di capendosi reciprocamente, un po’ Gianmarco Chieregato


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anche grazie al meccanismo delle tante puntate che si susseguono e che creano ore e ore di girato collettivo. Attraverso questo tipo di narrazione le possibilità espressive diventano infinite. In particolare, per quanto riguarda il mio personaggio, credo di essere riuscito a tirare fuori un lato oscuro che è vivo, in ognuno di noi. “Il pubblico deve domare Il male assoluto il linguaggio, anche quando non è così uniappare impervio e, lasciandosi versale: la Stoandare all’ascolto, ci si accorge ria, quella con la che la musica dello spettacolo esse maiuscola, sono proprio le parole” ci ha fornito diversi esempi ma è vero che in genere l’essere umano conserva, nella propria interiorità, sia il male che il bene. È interessante scoprire come una certa persona sia arrivata ad essere cattiva, spiegando perché abbia scelto di comportarsi in un certo modo, e questo tipo di ricerca va oltre il tratto di efferatezza o morbosità che serve per descrivere un malvagio. Il Cardinale Voiello raccontato da Paolo Sorrentino sembra un uomo capace di fare qualsiasi cosa, appartenente al Vaticano, proprio come ci immaginiamo debbano essere in generale gli uomini di potere. Ma è un personaggio che mantiene nella sua anima un nocciolo di solitudine, talmente cosmico… Insomma, nella vita mai niente è totalmente nero o totalmente bianco e, anzi, sono le sfumature ad abitare ogni essere umano. Si nota all’imbrunire è lo spettacolo scritto e diretto da Lucia Calamaro, di cui Lei è protagonista; che cosa realmente ‘si nota’ in questo

testo? Quali sentimenti emergono, alla fine, sulla scena?

Da Dante in poi, il tramonto, oltre ad essere il momento in cui il sole scompare e tutto diventa gradualmente più scuro, è anche un punto simbolico: è all’imbrunire che si fanno dei bilanci, è un tempo in cui si abbassa il rumore di quello che ci sta intorno ed emerge prepotentemente, invece, il nostro rumore interiore. Affiorano le nostalgie: si pensa alle cose che avremmo dovuto fare e che non siamo riusciti a compiere, ricordiamo le persone che non ci sono più e gli altri che invece ci sono ma che, per una serie di motivi difficili da spiegare, non vediamo più… È un complesso di sentimenti, diversi e profondi, quello che viene a galla. Sono rumori che non ti fanno dormire, ma sono dei suoni diversi rispetto al giorno: sono i rumori dell’anima. Come fa un attore a trovare le parole giuste per la scena e a comunicarle, poi, al pubblico?

Con la nostra Compagnia – insieme a mia moglie Maria Laura Rondanini abbiamo creato una casa di produzione chiamata Cardellino – siamo ossessionati dalle parole da dire in scena. Spesso ci capita di utilizzare delle parole, anche meravigliose, che però appaiono molto remote: la sfida da vincere è di riuscire a trovare un linguaggio utile oggi, capace di descrivere la realtà che ci circonda e che contenga al suo interno anche elementi di cronaca, ma senza impoverire lo spettacolo che deve rimanere sempre in una dimensione classica. Lo spettacoloSi nota all’imbrunire rappresenta il punto più alto della nostra ricerca


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di questi anni, perché abbiamo fatto una scommessa: il pubblico deve domare il linguaggio, anche quando può apparire impervio e, lasciandosi andare all’ascolto, ci si accorge che la musica dello spettacolo sono proprio le parole. Il nome Cardellino, la società che la vede anche in veste di produttore, da dove deriva?

Nel momento in cui abbiamo scelto di fondare una società per produrre spettacoli abbiamo pensato – soprattutto metaforicamente e anche come buon auspicio – ad un immagine particolare, quella del cardellino, che è sempre molto presente nei testi del teatro di Eduardo De Filippo. La gabbietta con l’uccellino da tenere in casa è una delle ossessione dei napoletani: il cardellino, in particolare, è un animale piccolo e

senza pretese, ma longevo. Si muove facendo dei tratti piccolissimi, però è un volatile migratore e il suo canto è melodioso. D'accordo, forse è meno potente di molti altri ma, pur regalando leggerezza, non si arrende e il suo suono è soave. Oltre ad essere impegnato tanto nel cinema, Lei continua comunque sempre a ritornare al teatro…

È un falso problema cercare una preminenza dell'uno o dell'altro. Un attore nel suo percorso non può non passare e ripassare attraverso il teatro, è qualcosa di cui non si può proprio fare a meno. Il teatro è il luogo dove cresci, dove riesci a porti quelle domande essenziali per il tuo lavoro. Il cinema è il luogo delle risposte, non delle domande. A teatro ci si ‘svezza’, in qualche modo, e si rinasce, anche fisicamente.


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Giuseppe Battiston

Dove tutto ha un senso “Il pubblico è parte integrante di quell’atto politico che si esercita nel momento preciso

in cui si decide di fare teatro”

In teatro porta in scena una figura politica come Winston Churchill…

Foto di Noemi Ardesi

Lo spettacolo Winston vs Churchill è diretto da Paola Rota ed è tratto da Churchill, il vizio della democrazia di Carlo C. Gabardini che ne mostra il lato più politico, senza tralasciare però l’uomo-Churchill, l’icona che esso rappresenta. Si racconta in scena la sua storia pubblica e privata, la sua genialità e la sua capacità di fare politica, creando consenso. La sua è una politica basata sui fatti: stiamo parlando dell’epoca più buia della nostra storia mondiale, che lui ha saputo gestire in maniera miracolosa. Grazie alle sue scelte politiche ha salvato l’umanità dall’autodistruzione durante la Seconda guerra mondiale. È una figura dal privato turbolento, con un carattere difficile e tanti vizi, preda delle sue passioni. Churchill

incarna la storia un uomo che mi ha sempre colpito molto: aveva una straordinaria capacità di prefigurarsi il futuro, infatti esercitava il mestiere della politica per guardare in avanti, non soltanto per gestire il presente. E questa è già una piccola lezione di vita che ci arriva dal personaggio. Un altro aspetto che rende estremamente interessante la figura di Churchill è la sua capacità di vedere nell’Europa una risorsa preziosa: lui si spese tanto per unire questo continente perché capiva che, sebbene lacerata da tanti contrasti, l’Europa è la culla di noi tutti. Churchill è stato il primo ad affermare questo concetto, prima ancora che si verificassero gli strappi e le tensioni dei nostri tempi. Il teatro, in sé, ci permette sempre di pensare: la visione di un personaggio come Churchill potrà aiutarmi quindi a


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riflettere, così come condurrà anche il pubblico a ragionare.

Io sono affascinato più dai perdenti che dai vincenti, anche perché i personaggi che vincono sempre alla lunga diventano noiosi. I perdenti somigliano di più alla realtà, anzi, direi

sé: è così che il lavoro dell’attore diventa veramente divertente, quando tramite la recitazione tu stesso fatichi a riconoscerti. Io mi diverto moltissimo quando sto in scena. In fondo, l’attore è spinto a cercare una comunicazione con gli altri attraverso esistenze diverse, dei personaggi che ti fanno dire cose o provare sentimenti che nella vita magari neanche penseresti mai. È una sensazione molto bella perché la recitazione allora costituisce un momento di pura libertà espressiva: senti che, trasformandoti

che ne diventano perfino il paradigma perché rappresentano un modo per raccontare il nostro contemporaneo e per riconoscerci, in qualche modo… Con il mio lavoro voglio cercare di dare carne e vita a delle figure che presentano delle contraddizioni, figure che devono riscattarsi rispetto a un’esistenza che li vede sfavoriti nel mondo. Questo tipo di ricerca è qualcosa a cui gli attori comunque mirano, per tentare di essere altro da

nel personaggio, puoi avvicinarti di più alle persone o forse comunicarci in maniera più sincera di come lo faresti vis à vis, in mezzo alla strada, dove le convenzioni o il carattere ti bloccano. Quando mi viene proposto un nuovo progetto, prima di accettare mi chiedo sempre cosa posso realmente fare io in questa operazione: cerco di indovinare cosa dare al personaggio in termini di interiorità e poi scelgo di interpretare il ruolo

In genere, soprattutto al cinema, siamo abituati a vederla interpretare dei ruoli che sfuggono a una tipologia precisa, dei personaggi che stanno sempre un po’ ai margini…


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che meno mi appartiene, quello su cui c’è davvero da lavorare. Quando un regista pensa a me per un ruolo che convenzionalmente non mi sarebbe assegnato, allora diventa una sfida davvero stimolante e sento che il mio mestiere ha senso. Tutte le attività legate all’arte sono mestieri precari, sia economicamente e sia sotto il profilo della creatività. La difficoltà vera per un artista sta nella capacità di autorigenerarsi e di evolversi, di riuscire sempre a crescere artisticamente. L’attore racchiude in sé quindi molteplici esistenze, quelle di tutti i personaggi che incarna sulla scena.

Sì, noi viviamo più vite. L’importante, come già dicevo prima, è riuscire ad interpretare sempre personaggi diversi tra loro. Per quanto mi riguarda, cerco di mettermi nelle condizioni di rivivere quel percorso che conduce all’interpretazione ogni volta come fosse la prima, oppure l’ultima: con la stessa profonda intensità. È però molto difficile, non sempre ci si riesce. Te ne accorgi quando accadono degli imprevisti e qualcosa non va come dovrebbe: allora si crea un livello di attenzione e di allerta nell’attore che è purissimo. È questa energia, splendida, che dovrebbe ripetersi sempre. So bene che non è sempre possibile raggiungere questo risultato perché non siamo delle macchine, ma almeno non bisogna mai perderne di vista la ricerca. Il suo bagaglio di attore è cambiato con l’esperienza?

dita su me stesso. Teatro e cinema sono due mondi espressivi distinti, anche se con vari punti in comune. Per quanto riguarda l’attore, che è lo strumento che collega i due mondi, è importante considerare che con il suo mestiere mette in moto attitudini estremamente diverse. Il teatro è il luogo della fisicità e dell’uso del corpo, dove compi delle azioni da abbinare alle parole del testo che, grazie al lavoro degli attori, diventa vivo. Il cinema, invece, lo intendo più come un lavoro di squadra, ho sempre “Sono affascinato più dai visto il set come perdenti che dai vincenti. una creazione I perdenti somigliano di più collettiva, in cui alla realtà, ne diventano il qualsiasi movi- paradigma. Voglio cercare mento appare di dare carne e vita a delle ingigantito dal figure che presentano delle grande schermo. contraddizioni, figure che Ogni azione ci- devono riscattarsi rispetto nematograf ica a un’esistenza che li vede rimane impressa sfavoriti nel mondo” per sempre nella pellicola e bisogna focalizzare l’attenzione sulle piccole cose, sul modo di guardare o di gesticolare. Lo stato d’animo di ogni personaggio si racconta attraverso ogni dettaglio: un modo di sbattere gli occhi o di muovere le palpebre, la scelta di fare un respiro profondo o di guardare più o meno intensamente verso una direzione… Lo sguardo diventa allora un codice espressivo molto affascinante. Il mestiere di attore è caratterizzato dalla gioia, ma allo stesso tempo anche dalla responsabilità, di incontrare il pubblico.

In questi anni il mio percorso è Sono e sarò sempre convinto che stato parallelo tra teatro e cinema, e chi compie e porta avanti un’attività, questa dualità mi ha dato modo di di qualsiasi tipo, deve credere in quellavorare in maniera più approfon- lo che fa. Altrimenti non sarà mai


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brillante nel suo lavoro. E, a maggior ragione, ciò è valido in teatro, dove occorre un’adesione profonda, una grande umanità, insieme ad un forte desiderio di conoscere gli altri. Non

il mestiere si manifesta in tutta la sua stanchezza e pericolosità. Il rischio è che si crei una sorta di ‘calcare professionale’, una ruggine durissima da rimuovere. Non si tratta soltanto di ripetitività: è proprio la mancanza di punti di contatto con il mondo esterno a renderti distante. Quando ti trovi di fronte a questa sclerotizzazione del mestiere, te ne accorgi subito. Quindi a teatro, l’attore che incontra il pubblico, lo fa sempre con una grande emotività?

FOTO FILIPPO MANZINI

Sì, anche se io fatico a sentire l’ansia del palcoscenico. Il passo che mi conduce verso il tempo della rappresentazione lo vivo con gioia perché è il momento in cui ritrovo il pubblico. Non ho paura. Anzi, cerco di vivermi sempre fino in fondo questa bisogna mai smettere di desiderare esperienza unica. Senza il pubblico l’incontro con il pubblico, occorre non è possibile fare il teatro. Infatmantenere vivo il rapporto atto- ti, il pubblico è parte integrante di re-spettatore. Se tu, attore, non sei quell’atto politico che si esercita nel sorretto dall’entusiasmo, da una vi- momento preciso in cui si decide di sione del mondo di questo tipo, allora fare teatro.


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Pensieri mutanti

quello che vorrei Antonio Catania

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

Dopo l’interpretazione di tanti personaggi diversi è possibile rimanere sempre se stessi?

Penso di sì, anche perché se si riuscisse davvero ad assimilare ogni volta l’anima del personaggio, figurati, a quest’ora sarei una persona veramente completa… Purtroppo, invece, nella realtà non è così. L’attore è caratterizzato dalla finzione e questa condizione allo stesso tempo indica un limite, dal punto di vista umano, e anche una ricchezza, sotto il profilo professionale. Un uso sapiente della finzione ti permette di entrare nel personaggio in un modo migliore. Io, come attore, miro alla trasformazione. Non sono mai riuscito a legarmi ad un carattere o a una maschera sola, a un modo di essere preciso: quando faccio una parte marcatamente riconoscibile, cerco subito di farne un’altra all’opposto. È come se avessi paura di rimanere chiuso in un mondo unico: a volte non riesco a capire bene come mi veda la gente dal punto di vista dell’attore, la mia non è un’immagine ben definita. Quando un attore termina una tournée, il percorso di verità intorno al personaggio può dirsi realmente concluso?

Cerco subito di fare un nuovo ruolo, proprio per lasciarmi alle spalle il personaggio appena terminato, per tentare di dimenticarlo. Ci sono attori che rimangono talmente legati al personaggio, tanto da sentirsene ossessionati o perseguitati per tanti anni: ecco che il mestiere può diventare anche sofferenza, ma io non ho mai avuto questo tipo di problema. Una mutazione o un cambiamento che vorrebbe vivere in questo momento, in qualsiasi ambito: spirituale, materiale, sociale, artistico…

Vorrei vivere un cambiamento climatico, prima di tutto. E poi mi piacerebbe sperimentare una vita diversa: vivere in altro luogo, fare altre cose, lavorare e poi anche non fare niente passando, per esempio, il tempo in barca, in un posto bello di mare… Insomma, avere la possibilità di cambiare vita.


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Barbora Bobulova

Tra finzione e realtà “Ad un certo punto, la recitazione e la vita, in qualche modo, si fondono ed è qualcosa di inevitabile: sono io che presto qualcosa di me stessa per costruire il personaggio, e viceversa” Lei ha detto di stabilire un rapporto molto intimo con i personaggi che è chiamata ad interpretare, ponendosi in dialogo continuo con loro e definendo questa relazione quasi una sorta di perversione…

to che più differenzia questi mezzi espressivi è il fatto che in teatro non si può sgarrare: non c’è un secondo ciak da ripetere che ti salva dall’errore e non esiste il montaggio che elimina le scene più inesatte. Il cinema è un’arte più collettiva e il risultato di un film non dipende soltanto dagli attori come avviene prevalentemente, invece, a teatro. Al cinema l’attore deve affidarsi – oltre che a se stesso, al proprio fisico e alla propria voce – anche al regista o al direttore della fotografia… Sul palcoscenico, una volta che uno spettacolo parte, tutto è nelle mani degli attori.

Credo che i diversi ruoli mi siano sempre arrivati addosso in momenti della vita in cui ero pronta ad accoglierli. E più sono strani, più mi piacciono, perché sfogo attraversi i personaggi anche i miei lati più oscuri. In scena, infatti, mi sorprendo ad osare, anche ciò che nella realtà non farei mai… Anni fa, per esempio, non sarei stata capace di affrontare una commedia come Anfitrione con La concentrazione e l’immersione la stessa leggerezza. Come attrice, nella storia da raccontare tra TV, cinema e teatro, non ho un sono totali, quando si racconta campo in particolare che prediligo. un personaggio? Penso che il mio mestiere debba Si scava nella propria interiorità, comprendere tutto; forse, l’aspet- ma con il tempo e l’esperienza riesci


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a scindere quella che è la realtà dalla finzione. Anche se è un processo molto difficile: spesso io penso ai personaggi anche a casa, non riesco ad abbandonarli completamente dopo la recitazione. Nella vita mi è capitato spesso di usare dei tratti che appartengono ai ruoli che sto interpretando, oppure a volte mi ritrovo a pensare: “Così si sarebbe comportato il mio personaggio”; ad un certo punto, la recitazione e la vita, in qualche modo, si fondono ed è qualcosa di inevitabile: sono

io che presto qualcosa di me stessa per costruire il personaggio, e viceversa. Il pubblico: che cos’è per Lei? Senza il pubblico noi attori non esisteremmo, quindi il pubblico è fondamentale in questo mestiere, però credo che alla fine lo scambio sia reciproco: anche per il pubblico l'attore diventa fondamentale, non potrebbe esserci l’uno senza l’altro… E il pubblico, inoltre, muta continuamente, di città in città e anche in base ad ogni replica. Credo che il pubblico – attraverso l’e-

nergia che arriva dalla platea – sia addirittura in grado di cambiare l'esito di uno spettacolo, quindi è sicuramente qualcosa di vivo che entra in una relazione molto stretta con la rappresentazione e con quella che è l’interpretazione degli attori. Su un set cinematografico questo fenomeno viene vissuto in maniera estremamente diversa perché la percezione visiva degli spettatori viene sostituita dalla macchina da presa, e si tratta di un occhio completamente differente.

C’è una mutazione che Lei vorrebbe vivere in questo momento della sua vita?

A me piacciono i cambiamenti, non mi spaventano e, anzi, li trovo fondamentali per sopravvivere. Un attore dovrebbe essere sempre in continua evoluzione, variando i personaggi, i registri espressivi o anche quegli aspetti più esteriori, come il colore dei capelli. Cambiare look o rasarsi la testa: mi piace entrare in un personaggio partendo dal fisico. Il senso della trasformazione mi appartiene profondamente, fa parte del mio stile di vita.


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Pensieri mutanti

rigore e tempo Gigio Alberti

Dopo l’interpretazione di tanti personaggi diversi è possibile rimanere sempre se stessi?

Una parte del piacere legato al mestiere dell’attore sta proprio nel fatto di riuscire, per un po’ di tempo, a liberarsi di sé per entrare in qualcosa di completamente diverso e che ti mette alla prova. Però, quella magia al termine di uno spettacolo o di un film inevitabilmente finisce e ti accorgi che sempre quello rimani, con il tuo carattere che deve esprimersi nella vita vera. Ma non smetti mai di cercare una nuova trasformazione: il succo della recitazione è nella ricerca, non nel risultato finale, ed è qualcosa che non smetterai mai di rincorrere. Un nuovo personaggio è solo un passo in più, in una direzione verso un traguardo a cui mai arriverai… Quando un attore termina una tournée, il percorso di verità intorno al personaggio può dirsi realmente concluso?

IMMAGINE DALILA CHESSA

Il percorso sul personaggio deve necessariamente concludersi, però tutte le cose sono perfettibili: per esempio, lo stesso ruolo riproposto per il secondo anno consecutivo di solito può essere anche meglio, e questo accade senza sapere bene perché è cambiato. Certi tratti del personaggio ormai ti sono entrati dentro e tutto risulta più limpido e fluente, senza bisogno di fare sforzi per sottolineare certe linee interpretative. Occorrono rigore e tempo: solo così si costruisce davvero un personaggio. Una mutazione o un cambiamento che vorrebbe vivere in questo momento, in qualsiasi ambito: spirituale, materiale, sociale, artistico…

Sarebbe bello se tutti noi ritornassimo ad incontrarci di più, a vivere meno nelle nostre case per uscire fuori, nelle strade. In questi anni stiamo assistendo ad una chiusura e una parcellizzazione nella conduzione delle nostre esistenze: anche quando lavoriamo o parliamo, siamo chiusi in noi stessi: pensiamo al telefonino, che utilizziamo anche quando stiamo parlando con gli altri… Tutto quello che ci chiude come in una bolla sembra darci sostegno perché l’abitudine ci rassicura, mentre nelle produzione artistiche, e soprattutto nella vita in generale, è importante creare uno scambio e un confronto con gli altri, curare i rapporti che si creano con le persone.


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Isa Danieli

Nata in teatro “Essere attrici è il mestiere più in trasformazione che ci sia, perché si vivono tante esistenze, ma alla fine tutto passa, e si ritorna quello che realmente si è”

ma attrice, ci ho messo piede mi sono profondamente emozionata. Per me, quel camerino era come una chiesa… Devo dire che, per certi versi, forse amo di più questo antico teatro di FiIl Teatro della Pergola era la no- renze, carico di memorie, che qualsistra casa quando, con la Compagnia asi altro teatro di Napoli, la mia città. di Eduardo De Filippo, venivamo a Firenze. Abbiamo fatto tanti debutti Qual è stata la lezione più grande alla Pergola, preceduti da lunghi peappresa da Eduardo? riodi di prove vissuti in questo teatro, Eduardo non teneva delle lezioni e quindi ci venivamo davvero con agli attori più giovani ed inesperti, tanto amore. Sono legata alla Pergola semplicemente si facevano delle proda un affetto immenso, e poi è pro- ve: venti, trenta giorni al massimo, e prio alla Pergola che esiste il primo poi ci faceva andare in scena. Tutto camerino, appartenuto a Eleonora quello che ho potuto imparare da Duse, e che Eduardo abitava con as- Eduardo, l’ho appreso dietro le quinsiduità. Ricordo che lui stava sempre te, mentre gli altri recitavano. A lui con la porta del camerino aperta, ma questo non piaceva tanto: non voleva velata con una tenda, in modo da es- folla dietro le quinte, quindi mi ansere salutato da tutti… Le prime vol- davo a nascondere dietro al sipario Foto di te che io stessa anni dopo, come pri- grande e lo ascoltavo. In scena lui era Tommaso Le Pera Nel corso della sua intensa vita di attrice ha interpretato dei personaggi femminili memorabili, spesso in scena proprio al Teatro della Pergola…


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incredibile, ed è così che ho imparaDopo tanti e tanti spettacoli, come to tutto quello che ho potuto. Non affronta oggi il palcoscenico? finirò mai di ringraziarlo, anche se Le emozioni sono sempre le Eduardo non l’ha mai saputo! stesse, anche se vivere l’attesa del palcoscenico con maggiore o minoÈ difficile rimanere, in qualche re intensità dipende molto dal camodo, sempre se stessi, pur rattere di un attore. A me è capitainterpretando personaggi tanto to, per esempio, di preparare degli diversi fra loro? sketch anche solo mezz’ora prima I personaggi sono il lavoro che un di andare in scena… Ho fatto tanattore deve fare ovvero bisogna riu- to teatro, e non soltanto commedie: scire a creare un carattere sulla scena, da giovane, io ero impegnata nell’ache nella realtà vanspettacolo e infatti ho comin“Io ci metto tutta me stessa, per non esiste. Ma ciato questo mestiere proprio con fare in modo che il personaggio questo tipo di la sceneggiata, dove si imparava la possa avere il suo momento di operazione, una propria parte in pochissimo tempo. amicizia con il pubblico. Faccio volta intrapresa, La prima volta che ho recitato in il possibile per convincere gli non significa as- uno spettacolo di prosa addirittura spettatori che io sono proprio solutamente che non conoscevo la commedia: sono lei, quel ruolo di donna che sto si debba toccare andata a sostituire all’improvviso recitando in quel momento” la vera identi- una ragazza che quella sera non potà della propria teva lavorare perché preda di un atpersona. Per diventare un nuovo per- tacco di appendicite. Ho imparato sonaggio, occorrono studio e concen- quelle poche battute e sono uscita trazione, però alla fine del percorso si sul palcoscenico: lo spettacolo era ritorna ad essere se stessi. Si possono Napoli milionaria! con la Compaamare i vari personaggi, oppure no, gnia di Eduardo, era il mio debutanche se per me questo diventa dif- to teatrale e il cuore mi andava per ficile: quando si inizia uno spettacolo aria… Non sapevo neanche bene e ci si trasforma in un’altra persona, cosa stessi andando a fare, questa è questa nuova individualità finisce la verità, e anche oggi, nonostante inevitabilmente per piacerti, altri- si facciano tante prove per prepamenti non lo faresti mai. Io ci metto rarsi ad un nuovo spettacolo, l’emotutta me stessa, per fare in modo che zione della scena si ripete sempre. È il personaggio da rappresentare pos- il pubblico che si va ad affrontare, sa avere il suo momento di amicizia che per me rappresenta il papà, la con il pubblico. Faccio il possibile per mamma, i figli o la zia, cioè persone convincere gli spettatori che io sono di età eterogenea che la pensano diproprio lei, quel ruolo di donna che versamente sul teatro, ma che sono sto recitando in quel momento. Esse- tutte lì riunite in quel momento. re attrici è il mestiere più in trasformazione che ci sia, perché si vivono Come figlia d’arte – sua madre tante esistenze, ma alla fine tutto pase i suoi zii lavoravano nella sa, e si ritorna quello che realmente sceneggiata napoletana – si è. Nella vita non possiamo essere ha respirato l’aria del diversi da ciò che siamo. palcoscenico fin da piccola…


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Io ho sempre voluto fare l’attrice o anche la cantante, ad un certo punto ho pensato anche al circo, senza però avere mai la possibilità di lavorarci: insomma, qualsiasi cosa, pur che fosse teatro… Non ho mai neanche ipotizzato di fare altro. Ho cominciato a recitare in collegio, dove preparavamo alcuni spettacoli e a me toccava anche di fare la scelta dei diversi ruoli da affidare agli altri. Ero piccolina: mia

e uscivano dalla sala, l’entrata era libera e si muovevano rumorosamente. Pagavano il biglietto, si mettevano in teatro fin dalla mattina e potevano restarci quanto volevano, non andavano via alla fine dello spettacolo… Una volta messi i piedi sul palcoscenico, non me ne sono mai allontanata. Non mi sono mai pentita di questa scelta. E poi i momenti pieni di emozione arrivano, via via, durante la vita: si debutta

FOTO FILIPPO MANZINI

madre mi aveva fatto andare in un collegio, proprio perché girava con una compagnia teatrale ed era difficile per lei portarmi dietro con sé. Diciamo che la prima volta che sono andata in scena con la consapevolezza di avere un pubblico davanti, avrò avuto sui 14 o 15 anni, poco prima del mio debutto con Eduardo. Ricordo che il pubblico era parecchio differente rispetto all’attuale: gli spettatori entravano

in un teatro nuovo, in un Festival importante, e come attrice non smetti mai di essere in gioco. Tutto ti sembra improvvisamente più complicato e difficile, ogni spettacolo nuovo che vai a portare in scena ti costringe di continuo a vivere come in una bolla d’ansia. Allora pensi: “Ora in scena non riesco neanche a parlare”, e invece parli… È una forza, quell’energia di attrice che viene fuori.


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Giuliana De Sio

Contro tutte le mie paure “Mi chiudo in camerino e cerco disperatamente, nella mia testa, nel mio corpo, nella mia energia, la forza per rendere fresco e nuovo, ancora una volta in più, il ruolo che ho già recitato centinaia di volte”

Essere attrice: è un mestiere in continua mutazione?

Sì, e guai se non fosse così… Mi ritengo fortunata, soprattutto quando riesco a trovare un ruolo che mi dia la possibilità di stupire me stessa rispetto all’ultimo personaggio interpretato in precedenza. Ho bisogno di cambiare, e per farlo occorrono le occasioni giuste. Io credo di essere un’attrice caratterista, che tenta con ostinazione di caratterizzare i vari personaggi, e avverto che ormai questa è un’esigenza valida per gli attori in tutto il mondo. Bisogna tentare anche di proporre delle idee, dei percorsi inediti, impersonando dei ruoli che si differenzino nel fisico, nei modi di fare e nel carattere. Ci sono attori bravissimi che in scena fanno sempre se stessi, e lo fanno anche molto bene; però, a me interessa di più un altro

tipo di ricerca, che è il risultato del lavoro sul personaggio e raggiunto spesso con una trasformazione anche fisica. In Signorine, per esempio, lo spettacolo che interpreto insieme a Isa Danieli, da lontano il pubblico non mi riconosce subito: in scena sono una zoppa claudicante, invecchiata e con degli sbalzi di isterismo bambinesco, molto buffo da vedere sul palcoscenico. Ed è proprio sul carattere comico che ho basato il mio lavoro: i personaggi devono offrirti degli spunti espressivi, ma sei tu poi a creare una certa tipologia. Questo è uno dei pochi spettacoli, forse l’unico, in cui la sera mi butto in piccole improvvisazioni perché, insieme a Isa Danieli, ci divertiamo insieme. Trovare sempre qualcosa di nuovo da poter fare, questo è il segreto del nostro mestiere.


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Bisogna essere sicuri di sé o, piuttosto, incoscienti per affrontare, sera dopo sera, il palcoscenico e il conseguente impatto con il pubblico?

Tutte le sere io ho la sensazione di avere davanti un muro da scalare, senza appigli: è un muro liscio e alto, che devo assolutamente saltare… Arrivo sempre in teatro molto presto, mi chiudo in camerino e cerco disperatamente – nella mia testa, nel mio corpo, nella mia energia – la forza per rendere fresca e nuova, ancora una volta in più, la parte che ho già recitato centinaia di volte. Mi pongo sempre questo tipo di problemi, “Lo spettacolo è come un filo legati alla sponsenza rete e l’attore che ci sale taneità e al fatto sopra sa benissimo che possono di essere sempre succedere tanti imprevisti, come la prima per cui bisogna essere pronti volta in cui si a fronteggiarli. Per il tempo affronta il ruolo. dello spettacolo la tua attenzione Un attore protaè assoluta, non deve passarti gonista dovrebneanche il più lontano be andare in pensiero in testa” scena sentendosi come un atleta alle Olimpiadi e invece io mi sento spesso non in forma: un po’ la paura, un po’ la preoccupazione o l’ansia da prestazione, questi stati d'animo mi rendono quasi infelice. Lo spettacolo è come un filo senza rete e l’attore che ci sale sopra sa benissimo che possono succedere tanti imprevisti, per cui bisogna essere pronti a fronteggiarli. Per il tempo dello spettacolo la tua attenzione è assoluta, non deve passarti neanche il più lontano pensiero in testa. Non devi guardare la gente che sta in platea: l’equilibrio della concentrazione è delicato, basta un piccolo movimento per portarti altrove…

Il pubblico, che cos’è quindi per Lei?

Penso che sia una sfida: affrontarlo e vincerlo è come vincere tutte le paure che ho avuto nella mia vita, come vincere i fantasmi e le forze del male che sono contro di me. Andare sul palcoscenico davanti agli spettatori, riuscire anche a renderli felici, per me è semplicemente una vittoria. Dopo lo spettacolo io vorrei sentirmi sempre bene e invece non ci riesco mai fino in fondo, nonostante il successo: è talmente tanta la fatica per andare in scena che non ho una percezione chiara di ciò che avviene a fine spettacolo. Mi devono raccontare della gente che applaude fragorosamente, che urla Bravi! o batte i piedi perché lo spettacolo gli è piaciuto: io rimango ancora, almeno per una mezz’ora, nel mood del personaggio. In una sua celebre canzone Francesco De Gregori canta La valigia dell’attore…

Che canzone meravigliosa, c’è tristezza e anche fascino nelle parole che accompagnano quella melodia. È una canzone che ascolto e che mi commuove sempre, nonostante io sia una persona che si commuove raramente. Questo testo racconta della vita degli attori, dando un’idea romantica del nostro mestiere, ma allo stesso tempo anche tratteggiando una grande solitudine. Anche se non sono mai riuscita a farmi un complimento nella vita, credo che oggi nella mia valigia di attrice dovrebbe esserci molta consapevolezza in più, tanta gratitudine e anche orgoglio, per non aver mai smesso di lavorare in questo mio lungo percorso.


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Pensieri mutanti

sguardo allargato Giovanni Esposito

Dopo l’interpretazione di tanti personaggi diversi è possibile rimanere sempre se stessi?

Io rimango sempre me stesso. Ho provato anche a cambiare, dopo aver interpretato un nuovo personaggio: mi piacerebbe che i personaggi mi rimanessero cuciti dentro, ma la mia personalità comunque riemerge. Diciamo che alcuni personaggi ti allargano lo sguardo e in qualche modo ti arricchiscono. E questo è un aspetto importante per un attore. Forse il grado di distacco che si crea alla fine di un ruolo è qualcosa di naturale, che non si può controllare. Quando un attore termina una tournée, il percorso di verità intorno al personaggio può dirsi realmente concluso?

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

Mi capita di ripensarci, a quel ruolo che ormai era arrivato a una giusta conclusione. A distanza di tempo, penso: “Caspita, in quel particolare momento avrei potuto fare così”: è l’atto legato al personaggio che ti arriva addosso, ma ormai sei fregato, perché il ruolo è finito. Il mestiere di attore mantiene al suo interno degli elementi di tradizione e al tempo stesso di innovazione, anche per quanto attiene la sfera personale: la recitazione costituisce sempre un motivo di crescita. Una mutazione o un cambiamento che vorrebbe vivere in questo momento, in qualsiasi ambito: spirituale, materiale, sociale, artistico…

Sono alla ricerca continua di cambiamenti. Vorrei che tutto fosse più democratico, ma veramente democratico, e parlo sia a livello teatrale che sociale. Vorrei che ci fosse una possibilità per tutti, che non fosse negata a nessuno la possibilità di esserci e di esprimersi.


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S APL T EE ACT RI O A D D E LL L EA T A O S RC ATN A E

Tommaso Sacchi

La politica delle idee “Mutazioni nei linguaggi, mutazioni nei rapporti tra le comunità, mutazioni sociali, mutazioni generazionali: le mutazioni diventano fondamentali per definire un teatro come il nostro, alla continua ricerca di bellezza”

Lei ripete spesso che essere il nuovo Presidente della Fondazione Teatro della Toscana è qualcosa che la rende orgoglioso…

Nel mio percorso professionale, ancora prima di incontrare le istituzioni di governo locale, c’è sempre stato il teatro. Avevo già diretto in passato delle rassegne all’interno del Teatro dal Verme e all’Auditorium di Milano, lavorando come operatore nel mondo della cultura sull’incontro tra teatralità, azione scenica e musica e muovendomi anche nel campo della performance, dei linguaggi del corpo e della danza. Ritornare oggi a Firenze con un ruolo di rappresentanza e di indirizzo di una Fondazione come il Teatro della Toscana che ha un ruolo primario nel nostro


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Paese, nella prosa ma anche nell’innovazione e nella ricerca teatrale, mi onora tantissimo. È una gioia, che mi dà l’entusiasmo per svolgere questo ruolo con passione e credendoci fino in fondo.

quel palco, e il loro è un desiderio che va oltre le semplici date di una tournée: è l’esperienza-Pergola che vogliono vivere. Ricorderò sempre la grandissima Franca Valeri che, all’alFOTO ALDO FALLAI

Tra le varie identità del Teatro della Toscana, quale trova più affascinante?

Considero il Teatro della Toscana nella sua natura consortile di unione di più luoghi – Firenze (Pergola e Niccolini), Pontedera (Teatro Era) e Scandicci (Studio Mila Pieralli) – come una vera porta d’Europa. Su questa identità investiremo molto nei prossimi anni, con l’obiettivo di costruire un teatro aperto verso differenti culture, che sia espressione di una pluralità di sguardi e capace di costruire una relazione vera tra le varie comunità artistiche. Per questo, abbiamo siglato, insieme al Direttore generale Marco Giorgetti, la Carta Firenze-Parigi con Emmanuel Demarcy-Mota, direttore del Théâtre de la Ville di Parigi: un impegno reciproco, volto a strutturare un rapporto di coproduzione, di stimolo e di iniziative comuni. Non dimentico, però, un altro ruolo veramente importante del nostro teatro che è quello di grande attivatore della prosa nazionale, con il lavoro dei più grandi attori presenti nel Paese: penso, per esempio, ad un gigante del teatro come Glauco Mauri, al grande lavoro che ha legato in maniera fortissima Gabriele Lavia a Firenze e anche ai tanti nomi della prosa teatrale che ambiscono non soltanto di passare dalla nostra città, ma sognano proprio il palcoscenico della Pergola. E il Teatro della Pergola, infatti, ha questa capacità catalizzatrice, per cui le compagnie cercano

ba dei suoi 91 anni intervistata da Serena Dandini nell’ambito della manifestazione dell’Eredità delle donne, alla domanda se in tutti questi lunghi anni di teatro passare con uno spettacolo per Firenze fosse stato importante per lei, rispose così: “Ogni volta che il mio agente mi comunicava: Franca, abbiamo la Pergola!, lo faceva con un’esclamazione gioiosa: per noi è sempre stato una meraviglia e un onore”. Ecco, secondo me questo racconto restituisce bene tutto il senso e l’autorevolezza di questa identità del nostro teatro: la Pergola, come primo teatro all’italiana, è il padre del teatro moderno, come lo intendiamo oggi noi tutti. E poi, in questa rappresentazione multipla delle varie identità da cui è formato il Teatro della Toscana, va sicuramente

Tommaso Sacchi è Assessore alla Cultura, alla Moda e al Design del Comune di Firenze e Presidente della Fondazione Teatro della Toscana

A sinistra immagine di Walter Sardonini Social Design


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aggiunto l’aspetto della formazione dei giovani. Oltre ad avere organizzato un sistema dedicato alla didattica teatrale, il nostro teatro sta cercando di incarnare davvero un’idea di passaggio generazionale nel settore della cultura e delle arti. E il progetto pilota de iNuovi, a cui è stato affidata la gestione del Teatro Niccolini nella sua complessa filiera e nei suoi tanti aspetti, dall’ideare uno spettacolo fino a calcarne la scena, rappresenta un’assunzione di responsabilità da parte del teatro per il futuro. Questo apertura del Teatro della Toscana verso l’Europa e gli altri Paesi del mondo assume per Lei, in questo particolare momento storico, anche un sapore politico?

Foto di Filippo Manzini

Sicuramente sì. Mi riconosco molto nel fatto di riuscire a intrecciare culture, mischiare la sperimentazione, creare ponti e possibilità di scambio tra i vari Paesi. Una città come Firenze ha sempre incarnato questo ruolo di dialogo tra le diversità: penso, per esempio, alla politica di La Pira o alla volontà di costruire un dialogo internazionale importante, fortemente sostenuto anche dal nostro Sindaco che ha recentemente convocato le città capitali della cultura al Salone dei Cinquecento. Io sono particolarmente orgoglioso di essere un cittadino europeo, un cittadino che è parte del mondo, e penso che le istituzioni culturali – con la Pergola in cima a questa lista – possano sviluppare i rapporti internazionali, mantenendo un senso di orgoglio e di appartenenza comunitaria al nostro continente. Credo che la nuova narrativa europea passi anche dai teatri delle nostre città: ecco perché firmare una Carta, come dicevo prima,

con il proposito di unire i giovani teatranti francesi e italiani, mettendo insieme gli assessori e i sindaci di Firenze e Parigi, è qualcosa di estremamente forte e che si carica di un significato altamente simbolico. In una società moderna e veloce, come quella in cui stiamo vivendo, non ci si può chiudere: con un’ora di volo si arriva nelle maggiori capitali europee, i confini tra i vari Stati potrebbero anche non esistere più… Soprattutto è nel dialogo tra le diverse istituzioni del mondo della cultura che avere dei confini non ha più senso. Il termine Mutazioni, che definisce con questa nuova stagione il percorso del Teatro della Toscana, che cosa evoca?

È un titolo che trovo molto appassionante, perfetto per indicare il teatro come una meridiana dei tempi che corrono: un teatro, dunque, che sia capace di seguire le mutazioni e in tutte le sfaccettature che questa parola comporta. Mutazioni nei linguaggi, mutazioni nei rapporti tra le comunità, mutazioni sociali, mutazioni generazionali: le mutazioni diventano fondamentali per definire un teatro come il nostro, alla continua ricerca di bellezza. Il teatro deve mantenere una propria voce rivoluzionaria, anche perché è il termometro delle mutazioni sociopolitiche del nostro vivere contemporaneo. Mi viene in mente una pubblicazione di qualche tempo fa, Mutations, che descriveva il progetto di Rem Koolhaas Harvard Project on the City: una pubblicazione ad opera di diversi intellettuali che analizzavano le condizioni urbane in tutto il mondo, a cavallo del XXI secolo. Si studiavano le mutazioni dal punto di vista architettonico e urba-


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nistico, le mutazioni nella condizione delle donne, le mutazioni nell’arte e nella cultura: è bellissimo pensare che, vent’anni dopo questa fondamentale ricerca, ci sia oggi un teatro interessato alle mutazioni. Il suo modo di vivere la politica è cambiato nel tempo?

di mettere in campo. Il capitale delle idee, la passione per una città e il senso di appartenenza a una comunità, unitamente alla voglia di contribuire a cambiare le cose: questo, secondo me, deve essere il modo di agire della politica di oggi. Questa spinta ideale, dentro di me, non è mai cambiata.

Affacciandomi da poco ad un priTeatro e cultura: una sua mo ruolo veramente politico – quello definizione per queste due parole di Assessore alla Cultura, alla Moda così importanti. e al Design del Comune di Firenze – Il teatro è un luogo, insieme fisisento di dovermi concentrare sull’i- co e metaforico, di sospensione dello

FOTO FILIPPO MANZINI

dentità e sull’immagine di me stesso come politico. Qualche tempo fa un giornalista mi ha chiesto se credo più nella politica degli ideali o nella politica della persona: ho risposto che il mio punto di riferimento è qualcosa di più globale, infatti io sono per una politica delle idee. Per me valgono le idee che un politico, soprattutto nell’ambito della cultura, è in grado

spazio e del tempo: il teatro è come una scatola, straordinariamente meravigliosa, che esiste nelle nostre città e che quando ne oltrepassi la soglia ti permette di entrare in una dimensione altra, dove spazio e tempo non esistono più. Infine, la cultura è la linfa delle nostre vite, nutre la coscienza del nostro Paese e del nostro essere italiani.


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Non ti affannare a seminare

noie e affanni nelle tue giornate

e in quelle degli altri,

non chiedere altro che una gioia solenne.

Non aspettarti niente da nessuno.

E se vuoi aspettarti qualcosa,

aspettati l’immenso, l’inaudito.

Franco Erminio

"Cedi la strada agli alberi"


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INVENTARE DAL VERO

Ciro Masella, Tebas Land e la scoperta della tenerezza

di Matteo Brighenti

L

a mutazione è vita. Se non accadesse, sarebbe la fine. «Muta tutta la natura – dice Ciro Masella, attore e regista – nulla è immobile. Per me è vitale stare nel mutamento e mutare continuamente. Nel senso che non mi fermo nello stesso punto, ancorato alle certezze». Tuttavia, è altrettanto naturale cercare qualcosa a cui aggrapparci, qualcuno che ci protegga. Il vuoto getta nel panico. «Io ho sofferto per dieci anni di panico – spiega Masella – ho capito cos’era quando mi hanno detto che la parola viene dal dio Pan. Nell’antichità era una condizione che ci si procurava per raggiungere lo stato della vera realtà: siamo tutti nel vuoto. Quindi – ragiona – siamo in un qualcosa che può andare ovunque ed essere tutto». La conoscenza è un patrimonio di opportunità per essere consapevoli. «I miti, le storie, sono ponti da attraversare per andare in luoghi che non conosciamo. Noi, invece, ci abbiamo costruito delle case, li abbiamo arredati. Per paura, per comodo, perché è complicato il vuoto, il non sapere cosa capiterà domani o un metro più avanti». Ci sono stati anni in cui il teatro, per Ciro Masella, ha significato “arredare il ponte”. «A un certo punto – ricorda – mi ero abituato a risolvere il personaggio nei primi giorni di lettura a tavolino. Così, eravamo tutti più sereni e potevamo, sosteneva chi mi dirigeva, “perfezionarlo”. Poi invece – precisa – ho capito che è molto più interessante se non si hanno già le risposte, ma si sta a guazzetto nel dubbio». La soluzione è maieutica, arriva da dentro il lavoro stesso. «È importante che ciò che faccio mi rappresenti in quel dato momento. Al contrario – chiarisce Masella – per diverso tempo alcune persone volevano che rifacessi Madre Ubu dell’Ubu Roi di Roberto Latini. Non mi si può chiedere di esserlo in eterno, perché, commentano, “ti è venuta bene”. Sarebbe comodo prendere quello stilema e metterlo in un Beckett, un Pinter, un Molière, un Goldoni. Ma – si chiede – che senso ha? Questo vale nel lavoro, ma anche nella vita». Giancarlo Mordini e Angelo Savelli, rispettivamente il direttore artistico e il regista stabile di Pupi e Fresedde - Teatro di Rifredi, sono presenze costanti nella carriera artistica di Ciro Masella fin dall’inizio, risalente a una ventina d’anni fa. «Ricordo Giancarlo e Angelo spettatori di tutti i miei spettacoli


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con Federico Tiezzi (mi prese da giovanissimo, avevo fatto solo una pièce con Luca Ronconi). C’è stato un affetto sincero fin da subito. Infatti, presto hanno voluto tirarmi nel loro mondo: producono, coproducono le mie opere e poi c’è la mia presenza nell’immaginario di Angelo». Il viaggio più recente insieme è Tebas Land, la prima produzione italiana di un testo del franco-uruguaiano Sergio Blanco, traduzione, scene, costumi e regia di Savelli. È il racconto di uno scrittore/regista (Masella) e del suo tentativo di mettere in scena le ragioni e i torti di un parricida (Samuele Picchi). «Blanco lavora sull’autofinzione. Manipola la sua biografia – commenta MaFOTO MARCO BORRELLI

sella – la riempie di menzogne e di invenzioni, per dire qualcosa che è più Ciro Masella intimo dell’intimo da cui è partito. È il gioco della recitazione: mettersi una e Samuele Picchi in Tebas Land maschera per svelare la verità». Il vero è finto, e viceversa. L’interprete è e non è il personaggio. Dunque, la grande sfida è ricostruire ogni volta una parvenza di naturalezza. «Ci vuole sapienza tecnica. So le parole che dirò, ma non precisamente come. Dipende da come sto io, il mio collega, dal pubblico. Probabilmente, cinque anni fa non sarei riuscito a farlo così». Ovvero, con una misura di dolcezza e ironia che ha sorpreso lo stesso Sergio Blanco, che si è commosso e ha applaudito per tre sere il debutto nazionale al Rifredi di Firenze lo scorso ottobre. «Tebas Land significa “terra di Tebe”. Il mito di Edipo – conclude Ciro Masella – è il cuore ossessivo dello spettacolo. Nell’affrontare l’archetipo del rapporto padre-figlio mi si è aperto un varco di tenerezza. Probabilmente, ciò di cui si parla è il fatto che siamo tutti figli».


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ESSERCI FINO IN FONDO

Francesca Sarteanesi, Almeno Nevicasse e la Bella Bestia dentro e fuori

M

utare è andare incontro a che ciò che resta, ma cambia continuamente. «Ogni volta che si esce di casa ci si muta – dice Francesca Sarteanesi – ci si mette una muta: le mutazioni sono le mute che ci mettiamo tutti i giorni per nascondere o esaltare quello che abbiamo dentro».

FOTO ILARIA COSTANZO

Francesca Sarteanesi e Luisa Bosi in Bella Bestia

Il teatro, ancora oggi, è la pelle che la fa sentire accolta. «È il posto dove sto meglio. Però, l’ossessione dell’attore canonico, il “non posso fare altro”, non ce l’ho. Anzi – riflette Sarteanesi – questo, che è il luogo del cambiamento, dà la possibilità di gettare ponti verso tanti altri mondi». Primo fra tutti, quello interiore. «Mi sento molto a mio agio in questo momento della mia vita. Finora – confessa – ho sempre avuto delle corazze rigide. Adesso, invece, ho scelto di indossare qualcosa di più morbido, che mi faccia stare più leggera».


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È la lana, il cachemire dei maglioni unisex di Almeno Nevicasse, il progetto fluo di parole prêt-à-porter realizzato con l’aiuto di Rebecca Ihle. «A ottobre 2018 mi sentivo persa, dentro e fuori. “Almeno Nevicasse” è il primo ricamo che ho fatto con l’unico punto che so, imparato dalle suorine. È come un grido: almeno succedesse, mi succedesse qualcosa». L’idea, tirata fuori da un cassetto quasi per gioco, è fulminante. La famiglia, gli amici, le consigliano di continuare. «Quando sei solo è fondamentale avere qualcuno che ti sprona – riconosce Francesca Sarteanesi – ho cominciato a ricamare parole, frasi molto ironiche, che però venivano dai miei buchi neri. Poi, una volta superata questa fase, ho capito che l’atto creativo non parte soltanto dai drammi interiori, ma anche dalla bellezza». Arrivare all’ironia passando dalle nostre zone oscure è proprio dell’arte di Sarteanesi e della sua compagnia per più di dieci anni: Gli Omini. Un filo ormai interrotto, ma che ha permesso la mutazione in atto oggi. «La mia non è stata una rottura, mi sento sempre legata a loro. Gli Omini – confessa – sono come la mia grande famigliona, gli voglio bene, ci voglio bene. Nelle vecchie produzioni ci sono ancora, continuano a essere un pensiero bello. I miei passi di ora vengono da lì: mi porto dietro tutto». Una fine maturata lentamente, aspettando che diventasse necessaria. «Non è stato un colpo di testa, ma un ragionamento che ho fatto nel tempo, crescendo con loro. A un certo punto – ricorda – mi sono resa conto che non ero più un motore positivo, ma una persona seduta. Quando vedi che non partecipi più attivamente, devi fare una scelta per il bene tuo e del gruppo. Ci fai il nodino in fondo, come per i maglioni, che serve a non rompere completamente, e vai avanti». Nel suo cammino di ritrovata apertura alla vita, Francesca Sarteanesi si è data la possibilità di un nuovo, ulteriore passo. Ovvero, Bella Bestia, scritto, diretto e interpretato con Luisa Bosi. «Non vedevo l’ora di incrociare altri occhi, perché negli ultimi anni mi sono confrontata, per lo più, solo con Gli Omini. Ne avevo voglia, sete. Una delle mie prime soddisfazioni è essere riuscita a godermi gli occhi di Luisa». Lo spettacolo, prodotto da Officine della Cultura, ha debuttato al Festival Inequilibrio 22 - Armunia, a Castiglioncello. Il tema centrale è la solitudine pubblica. «Ognuna di noi è dentro la sua bolla – spiega Sarteanesi – tende una mano per aiutare l’altra, ma il dialogo è così veloce che non fai in tempo a darti corda. Gli argomenti iniziati non finiscono mai, è tutto un abbozzo continuo. È una cosa reale, succede ogni giorno». Il risultato è ancora una volta l’ironia, ma è solamente una forma, tenuta coscientemente a bada. «Non so se l’ironia mi salva. Io, personalmente, ora come ora mi sento meno ironica e più in ascolto di prima. Inizio una cosa – ribadisce – e subito sono pronta, la corazza non me la sento più». Quando trovi la tua strada non ti fai domande: la percorri. «Tra l’istinto e la ragione – conclude Francesca Sarteanesi – ci sta la responsabilità. Ti prendi cura di portare avanti chi sei. Non è passare: vuol dire esserci fino in fondo». (M.B.)


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TE ATRO INTER N A Z ION A LE

Charles Chemin essere più che attori

Come si può descrivere il workshop che Lei ha condotto nell'ambito dei progetti che il Teatro della Pergola ha avviato a livello internazionale, riguardo soprattutto alla formazione dei giovani attori del domani?

Conduco un workshop, in cui “Conduco un workshop, voglio che gli attori, gli studenti di in cui voglio che gli attori, gli studenti recitazione, siano più che semplici di recitazione, siano più che semplici attori: attori. Per molto tempo, gli attori devono pensare, immaginare, inventare” sono stati al centro del teatro, basando il loro lavoro attorno al testo della pièce. Poi sono diventati come dei registi, con una loro personale visione, rendendo il lavoro teatrale più complesso. Questo dipende dalla tradizione dei diversi luoghi: alcuni hanno tradizioni più forti di altri. Quando lavoro con attori italiani,


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coinvolti in un workshop internazionale – e potrebbe valere lo stesso per Germania, Francia, Belgio e Olanda – ritengo importante collaborare con registi contemporanei, così che gli attori debbano fare molto di più che limitarsi a recitare: devono pensare, immaginare, inventare. Questo è ciò che voglio ottenere con questo workshop, in questa realtà specifica.

Svolgiamo varie sessioni e notiamo che i giovani studenti sono molto appassionati all’arte, alla ricerca di una sua definizione, ad esempio, creando un dibattito vivace riguardo ciò che stanno facendo. In generale, quando lavoro, non ho intenzione di ripetere

E in che modo gli attori italiani sono diversi da quelli di altri Paesi?

Per prima cosa, non tutti gli attori italiani lavorano in Italia, per cui hanno l’opportunità di relazionarsi anche con attori stranieri. Più in generale, sono sicuro che siano, in relazione alla performance, dei grandi sperimentatori, anche se, tradizionalmente, il teatro in Italia è essenzialmente basato sulla parola. L’Italia è un Paese con una tradizione storica e di rilievo, ma è vero che la Commedia dell’Arte viene insegnata anche in altri luoghi. Tutto si muove e si mischia, ma gli attori sono gli stessi ovunque: in una performance tendono a guardare sempre a loro stessi e hanno tutti la medesima fame di successo. Cosa devono fare, proprio da un punto di vista pratico, gli studenti di recitazione durante il suo workshop?

L’idea del workshop si basa sul simposio, che deriva dalla tradizione greca e latina di riunirsi a parlare intorno al tavolo della cena, a proposito di argomenti che non sono di immediata utilità, come l’arte, il cibo e le passioni. Argomenti diversi, con i quali conviviamo ogni giorno.

cose che sono già state fatte: preferisco ottenere, in ogni istante, qualcosa di nuovo dagli studenti, anche se so che non si tratta di un obiettivo semplice da raggiungere. Durante il workshop, svolgiamo varie attività:

FOTO FILIPPO MANZINI


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improvvisazioni, esercizi di recitazione, frasi che io chiedo di ripetere. Gli studenti sono coinvolti in varie situazioni e giochi: stanno in piedi, ascoltando la musica... Il mio scopo è anche quello di far scoprire, a questi studenti, la consapevolezza di essere attori. Tutto si basa sul condividere esperienze, sullo scambio e sulla comunicazione: noi stiamo costruendo una comunità. Lei è anche un insegnante del Watermill Center, un centro per le arti e le discipline umanistiche fondato dal regista Robert Wilson.

Ciò che faccio è condividere con Bob Wilson “Lavorare con Bob Wilson, quello che lui ha significa che, innanzi tutto, lui come obbiettiparte dai concetti e poi lascia vo: smuovere le molta libertà agli attori per cose, incontrare quanto riguarda la percezione e mischiare culdelle cose. È un processo ture, incoraginteressante: allo stesso modo, si giare persone può insegnare ai giovani attori a con background essere più ricettivi e aperti” ed età diversi a scambiarsi punti di vista differenti, con l’obiettivo di creare. Dal divario e dal contrasto che ne derivano, si ottiene qualcosa di interessante da osservare.

Teatro ed arte: cosa significano queste due parole per Lei? Sono qualcosa che si ripete o che invece è in costante movimento?

Ciò che veramente tento di raggiungere nel mio lavoro è l’evoluzione dell’arte. Ovvero, vorrei scoprire come le persone inventano nuove forme e cercano nuovi modi di fare le cose: questo è realmente quello che desidero descrivere. È vero che in questo procedimento un limite è rappresentato dal fatto che gli esseri umani hanno già fatto in precedenza tutto quello che è possibile, ma io credo fermamente che ci sia ancora spazio per l’inventiva e la creatività, anche se non credo nella pura immaginazione. Il corso dell’arte deve essere pronto e attento ad ogni tipo di mutamento, anche al di là di tutto quello che gli altri, prima di noi, hanno costruito in passato. E cosa è più importante sul palcoscenico, la realtà o l’immaginazione?

Tutto è realtà nella mia visione delle cose teatrali. Poi, accade spesso che si può trasformare la realtà in un mondo assurdo ma, come ho detto prima, non credo nella immaginazione totale, ad essere onesto. Certo, perché quando hai del- Da un certo punto di vista, il teatro le idee per uno spettacolo inserisci rappresenta uno strumento per fare spontaneamente il workshop nello in modo che i sogni dell'uomo dispettacolo. Lavorare con Bob, nello ventino realtà, ovviamente, ma per specifico, significa che, innanzitut- me l’immaginazione non è mai semto, lui parte dai concetti e poi lascia plicemente pura, perché parlo da un molta libertà agli attori per quanto punto di vista molto preciso: quello riguarda la percezione delle cose. È del regista. Ha lavorato allo spettacolo diretto da Bob Wilson Mary Said What She Said, con Isabelle Huppert, del quale Lei è co-regista: è stato rilevante ai fini del workshop?

A pag. 36 Immagine stilizzata dei principi della Carta 18/21 alla base dei rapporti tra Théâtre de la Ville di Parigi e Teatro della Pergola di Firenze

un processo estremamente interessante: allo stesso modo, si può insegnare ai giovani attori ad essere più ricettivi ed aperti.


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UN CAVALLO TUTTO BLU

L

o potreste vedere pedalare tranquillamente per Firenze. Un uomo comune, occhiali tondi dalla montatura sobria, capelli bianchi. Oppure lo potreste vedere seduto qualche fila avanti a voi al cinema all'aperto. Io l'ho visto lì, ma non l'ho voluto disturbare e non gli ho stretto la mano. Negli anni ’70, mentre i suoi colleghi sradicavano lo spettatore dalle poltrone rosse della platea nel tentativo di sradicare la borghesia dal teatro, lui e alcuni amici hanno costruito un cavallo di legno e cartapesta tutto blu. Lo hanno fatto all’interno dell’Ospedale Psichiatrico di Trieste, negli anni in cui quello era un manicomio e i partecipanti ai suoi laboratori teatrali erano definiti “matti”, certo non “pazienti”. Perché proprio un cavallo, mi direte voi. Un cavallo in carne ed ossa era già divenuto un simbolo per i ricoverati dal momento in cui tramite un’istanza riconosciuta dal Presidente della Regione erano riusciti a salvare dal macello il vecchio e amato cavallo dell’ospedale che da vent’anni viveva nella struttura. Questo cavallo era la prima accettazione, da parte di un’istituzione, di una richiesta diretta dei pazienti: il mondo esterno aveva riconosciuto la loro presenza e dato loro un valore. Un piccolo grande passo verso un cambiamento: verso la percezione prima, e l’accoglienza poi, di tutte quelle realtà difficili da integrare in un’ottusa società calibrata sul valore assoluto della “normalità”. Ecco perché Marco Cavallo è una durante le ore di laboratorio teatrale nella clinica friulana si decide di costruscultura di legno e ire un cavallo e si sceglie l’azzurro per dipingerlo: il colore della gioia secondo cartapesta in forma i pazienti-artisti, o forse della libertà, chi lo sa. Marco Cavallo sarà un cavallo di "installazione" e di Troia, nella sua pancia conterrà i folli sogni e i pazzi desideri di chi l’ha "macchina teatrale". realizzato. Nel momento in cui verrà condotto a passeggio per le vie di Trieste L'opera fu realizzata rovescerà il suo contenuto nella comunità e lo farà in maniera semplice: palenel 1973 all'interno del sandosi, mostrandosi, camminando e vivendo le strade della città, tutte azioni manicomio di Trieste fino ad allora vietate ai rinchiusi in manicomio. Il giorno della sfilata un bada un'idea di Giuseppe Dell'Acqua, Dino Basaglia, nale imprevisto delude gli animi emozionati: la macchina teatrale, con i suoi 4 metri di celeste speranza, non passa dalla recinzione dell’ospedale. Basaglia, Vittorio Basaglia e il direttore della clinica, decide allora di lanciare il cavallo contro la vetrata, Giuliano Scabia. frantumandola ovviamente, ma permettendo alla parata di esibirsi in città. È così che Marco Cavallo diviene segno di rottura e apertura, reale e simbolica. Se lo vedete per le strade di Firenze non fate il mio stesso sbaglio: stringete la mano a Giuliano Scabia e ringraziatelo per essere stato, con la sua esperienza di arte e di vita, veicolo di profondo mutamento. di Marta Bianchera


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Carolina Rosi

Con la schiena dritta “È stato un uomo che non si è mai tirato indietro, molto responsabile rispetto al lavoro che voleva fare. E il senso di responsabilità è il suo insegnamento più grande”

Citizen Rosi è il film documentario che ripercorre l’importanza civile del lavoro di suo padre, il grande regista Francesco Rosi. Chi era il citizen Rosi per Lei?

Questa definizione racchiude perfettamente quello che è stato l’impegno di mio padre come regista, che ha messo come fattore portante delle sue storie la società e i valori della democrazia. Attraverso i testi che lui affrontava al cinema cercava di porre delle domande, di cui lui non forniva mai una tesi nelle risposte. I suoi erano dei suggerimenti che costituivano una fonte di riflessione per gli spettatori, affinché potessero trarre delle conclusioni autonomamente. Francesco Rosi era un uomo che, in qualche modo, si è preoccupato attraverso la sua arte cinematografica di dare un contributo al proprio Paese.

Come è nata l’idea in Lei – figlia – di questo film dedicato interamente al lavoro di suo padre?

È nata in accordo con mio padre quando era ancora in vita, quindi nel corso del tempo – ci sono voluti cinque anni per portarlo a termine – è stato cambiato anche il progetto. Mio padre è venuto a mancare durante le riprese, così con la giornalista Didi Gnocchi, la coautrice di questo film che ho incontrato in una fase successiva, abbiamo un po’ cambiato il tiro. La scelta di fondo è di aver messo in fila i suoi film, non in ordine cronologico rispetto a quando erano stati girati, piuttosto seguendo il filo dei fatti accaduti nella storia d’Italia. Vedere tutti questi film in sequenza, ci ha fatto porre delle domande: cosa è davvero successo nel nostro Paese in questi cinquant’anni raccontati da


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mio padre? È venuto fuori un ritratto non solo del cineasta, ma anche una descrizione della nazione-Italia, con i suoi malesseri e le sue difficoltà. È questo aspetto che ci piacerebbe far conoscere, soprattutto ai giovani: spesso i ragazzi ignorano i film di Francesco Rosi, una filmografia che fa parte della storia del cinema, così come non sanno niente di quegli anni della storia contemporanea che hanno creato la coscienza collettiva del Paese. Ecco perché credo fermamente che questo film documentario andrebbe proiettato nelle scuole, proprio per attivare la conoscenza.

diamo per acquisiti. Questo film riassume il senso del suo lavoro: il magistrato Vincenzo Calia dice che Rosi era un cittadino, con la schiena dritta. Ecco, questo è il percorso che lui voleva trasmettere: dobbiamo lavorare per diventare sempre più cittadini e sempre meno sudditi. Si può dire che il modo di lavorare di suo padre al cinema fosse teatrale, in qualche modo?

La preparazione degli attori lo era: Rosi ha sempre lavorato con la gente che veniva dalla strada, non ha mai girato negli studios: tutti i suoi film usavano poco il digitale, senza tanti effetti Una parola molto bella e importante, speciali, se vuoi ancora con quell’artiche emerge sempre quando si parla gianalità che corrisponde al teatro. Il del lavoro di suo padre, è democra- teatro è ancora oggi artigianato puro zia. perché fatto dagli esseri umani, non da La democrazia viene messa in di- una macchina. scussione continuamente. Democrazia equivale a libertà: libertà di espressioLei è stata testimone del lavoro di ne, libertà nei comportamenti, senza suo padre; c’è un ricordo che consersubire restrizioni da parte del potere. va nel cuore della vita sul set? La democrazia va difesa strenuamenRosi si destreggiava sul set con te e fino a qualche anno fa si incideva sapienza e con una grande potenza maggiormente nella società per tenta- espressiva, ma allo stesso tempo con re di non perderla. Oggi, invece, tro- una dose di dolcezza. L’immagine vo che ci sia un grande silenzio e una che mi rimane nel cuore è averlo visto grande rassegnazione, un’incapacità nell’ultimo film che ha diretto, La trea voler cambiare realmente le cose, sia gua, mentre andava in giro in Ucraina da parte dei cittadini che di chi ci go- per fare i sopralluoghi: era già anziano, verna. ma non si lamentava mai della stanchezza. Ho l’immagine di un uomo Alla fine di questo film Lei stessa che cammina solitario nella neve e cita una frase del compositore Bern- che affrontava, anche faticando, cerstein: creare un’opera è come costru- te condizioni estreme pur di girare ire una democrazia. questa storia. Aveva ancora una forza In musica ogni giorno devi cam- straordinaria e ancora tanto da dire. È biare nota, per ottenere la perfezione. stato un uomo che non si è mai tirato Non si smette mai di lavorarci, e lo indietro, molto responsabile rispetto stesso accade per la democrazia, per- al lavoro che voleva fare. E il senso di ché bisogna stare molto attenti e cer- responsabilità è il suo insegnamento care di non perdere quei valori che più grande.


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S

PP EE CC I I AA L L E E R AE RG TI Dal punto di vista del regista, in che modo si riesce a pensare una regia di un testo dal carattere universale come, per esempio, Re Lear di Shakespeare che mette in scena con la Compagnia Mauri Sturno?

Prima di tutto si parte dall’analisi dell’opera, accompagnando questa fase con lo studio dei testi shakespeariani. In particolare, Re Lear presenta degli aspetti poetici molto alti e quindi forse sembra aderire poco al contemporaneo: sviluppa l’aspetto drammaturgico più su un piano astratto, però in generale nel momento in cui si mettono le mani sui testi di Shakespeare sono loro a guidare il racconto. La lingua di Shakespeare è universa-

Andrea Baracco QUELLO CHE IO SONO

“Il teatro ti dà infinite possibilità di costruzione, infinite modalità per tradurre concretamente ciò che apparentemente sembra impossibile: l’idea di un autore” le, soprattutto nel momento in cui questo autore parla di potere, di politica, di uomini che desiderano avidamente il trono ma che poi non sanno come fare a gestirlo… C’è sempre una profonda instabilità

A E


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nelle sue opere, che affrontano il tema dell’umano in maniera profonda e articolata. Rispetto ad altri autori, è più facile far parlare a Shakespeare un linguaggio contemporaneo: il mio compito è di riuscire

Nelle sue regie c’è sempre un elemento tecnico che rende il racconto contemporaneo; per Re Lear, su quali soluzioni sceniche si è basato?

Ci sono tanti luoghi in Re Lear: interni, esterni, momenti nella tempesta e situazioni più domestiche, personaggi che si muovono nella brughiera… Il tentativo è stato di racchiudere tutti questi elementi in uno spazio simbolico, in cui attraverso l’azione degli attori o l’apparizione di diversi elementi si potesse dare vita via via a luoghi diversi. Ci siamo appoggiati ad un elemento ferroso della scenografia per rimandare alla barbarie e alla violenza insite nel testo. Una scenografia che potesse essere anche luccicante, simbolo della situazione di pericolo in cui si trovano tutti i personaggi. Qual è l’elemento da cui parte quando costruisce una regia: l’attenzione agli attori, allo spazio in scena, l’uso delle luci…

FOTO MANUELA GIUSTO

Tutti gli elementi sono fondamentali, indistintamente. Io non riesco a costruire nulla, se non ho una musica che mi guida. Già in fase di studio, insieme a Giacomo Vezzani che è un musicista che mi segue da sempre, iniziamo a immaginare che tipo di suono il testo in questione, appunto, suoni. Ci interroghiamo sul testo e io credo che la funzione del regista sia principalmente cercare di individuare il lina dare una forma verticale all’oriz- guaggio, capire che suono rimanda zontalità della parola teatrale. E per quell’opera per poi poterla tradurre arrivare a questo risultato, devo sulla scena. A me piacerebbe che mi necessariamente riferirmi all’oggi, dicessero sempre: “Non sembra una a quello che sono io in questo mo- tua regia!”, ed è il complimento più mento. bello che mi potrebbero fare perché


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significherebbe che sono riuscito ad aderire completamente al testo, al di là dello stile personale. Il regista è comunque un mestiere che richiede trasformazione?

Assolutamente sì, non mi piace il teatro in cui si è sempre riconoscibili. In qualche maniera, è vero, il mio modo di lavorare può essere anche identificabile: tutti noi registi, però, siamo al servizio di un racconto. Partendo dalla nostra natura e dal nostro istinto, dobbiamo ascoltare quello che il testo ci dice. Lei ha detto che uno dei suoi obiettivi primari, come regista, è tentare di coniugare sempre la spettacolarità con la ricerca dell’umano.

Credo che, più in generale, questa sia proprio la funzione del teatro. Lo studio dell’essere umano, cercare di capire chi è l’uomo, soprattutto quando agisce in certe determinate situazioni e si ritrova al cospetto del potere, dell’amore e della violenza. Noi tutti siamo chiamati, proprio come individui, a chiederci chi siamo e nel teatro questa ricerca così profonda si coniuga con un aspetto legato alla spettacolarizzazione. La macchina del teatro è, dal mio punto di vista, il campo espressivo più affascinante che ci possa essere, forse anche più del cinema. Il teatro ti dà infinite possibilità di costruzione, infinite modalità per tradurre concretamente ciò che apparentemente sembra impossibile: l’idea di un autore. L’unione del suo lavoro con la storica Compagnia di Glauco

Mauri e Roberto Sturno: che tipo di avventura è per Lei?

Noi in precedenza avevamo già lavorato insieme e la cosa meravigliosa è che Glauco Mauri in questo spettacolo sia proprio Re Lear, e lo è per la terza volta nella sua carriera di attore. Glauco fa accadere il teatro, semplicemente con la sua presenza in scena, perché ha la capacità di rendere umano e concreto anche il testo più astratto. Anche un sonetto, per esempio, riesce a fartelo vivere e respirare perché se lo cuce totalmente addosso. Per me la collaborazione con Mauri e Sturno “Credo che la funzione del regista costituisce un sia principalmente cercare di g r a n d i s s i m o individuare il linguaggio, capire privilegio di stu- che suono rimanda quell’opera dio, di esempio per poi poterla tradurre sulla di umiltà e di scena. A me piacerebbe che contatto uma- mi dicessero sempre: 'Non no. È necessario, sembra una tua regia!', ed è proprio per la il complimento più bello che p r o s e c u z i o n e mi potrebbero fare perché del teatro stes- significherebbe che sono riuscito so, che ci sia un ad aderire completamente al testo, ponte tra la tra- al di là dello stile personale” dizione e la contemporaneità, tra i diversi approcci teatrali. Con Glauco e Roberto a volte discutiamo perché i punti di vista possono essere differenti, ma il nostro è un dialogo reciproco, mai uno scontro. Quando qualche anno fa ho conosciuto Glauco mi sentivo giustamente intimorito, mi chiedevo come avrei dovuto parlare con un così grande artista della scena, come avremmo potuto comunicare. Glauco Mauri è un artista, lavora senza preconcetti e sa esattamente dove deve stare, né un passo sopra, né un passo sotto. Ecco perché Mauri è un Maestro.


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D I E T R O L E Q U I N T E

Riccardo Benassi

Lavorare in teatro dietro le quinte: com’è iniziata questa avventura per Lei?

Lavoro con Gabriele Lavia da ventisei anni e ho seguito tutti i suoi spettacoli, da quelli più storici ad oggi. Nella mia vita precedente ero nel campo della navigazione e, in un periodo che non ero occupato in mare, sono arrivato per caso a lavorare in teatro. Inoltre, suonavo “Quello che mi piace è seguire la chitarra con un gruppo, avevo la gli attori attraverso il suono: passione per la musica e quindi è occorre individuare il momento giusto, stato abbastanza naturale, poi, occul’attimo in cui magari si girano in scena parmi del suono in teatro. È successo e la musica ne sottolinea il movimento…” che un giorno mi hanno mandato a Messina con un furgone a ritirare gli indumenti della sartoria e gli strumenti della fonica relativi ad uno spettacolo – io ancora non ero un

L´istante perfetto


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tecnico della Compagnia – e mentre ero lì, è passato Lavia e mi ha scambiato per il fonico… Ci siamo subito intesi. Io ero proprio digiuno del teatro e delle sue gerarchie: una volta, durante le prove, non mi piaceva il finale e lo dissi a Lavia, così, senza filtri. “E tu come lo faresti?”, mi ha chiesto allora; io, ho suggerito di accompagnare questo effetto luminoso e la battuta finale dello spettacolo con una musica sparata a tutto volume. A Lavia piacque questa idea e da quel momento è nata la nostra lunga collaborazione, caratterizzata anche da molto affetto. E come descriverebbe il suo mestiere di fonico?

Credo, per quanto mi riguarda, che il mestiere sia il risultato di un connubio tra saper maneggiare la tecnica del suono ed essere stato, io stesso, un musicista. Quello che mi piace è seguire gli attori attraverso il suono: occorre individuare il momento giusto, l’attimo in cui magari si girano in scena e la musica ne sottolinea il movimento… La musica entra, senza dubbio, nella partitura teatrale di ogni spettacolo. Per fare questo mestiere occorre, prima di tutto, avere passione: devi amare la vita di teatro, stare con gli attori e con gli altri tecnici… Io, per esempio, ancora oggi durante uno spettacolo non finisco mai di emozionarmi. Anche ne I Giganti della montagna, l’ultimo testo di Pirandello che abbiamo allestito, al momento della discesa dei fantocci in scena, cerco sempre di individuare il tempo esatto per far partire il suono che deve descriverli… Beccare quell’istante perfetto è sempre qualcosa di indescrivibile.

Il teatro: che cos’è per Lei? Per me, il teatro costituisce una fonte inesauribile di ricordi: le messinscena di Gabriele Lavia ti rimangono impresse nella memoria. Spettacoli come Chi ha paura di Virginia Woolf?, interpretato da Lavia e dalla Melato, oppure uno dei più recenti L’uomo dal fiore in bocca: si tratta di scene imponenti, nell’opera di Pirandello era stata ricostruita una stazione dell’Ottocento o nel caso del dramma di Albee ricordo che sul palcoscenico c’erano tredici televisori incastrati uno sull’altro, una Cadillac e un Jukebox veri… Quando si apre il sipario la gente deve rimanere meravigliata, rapita dall’emozione del teatro: questo è l’obiettivo primario per cui la Compagnia, tutta unita, lavora. Lavia si fida molto e così mi chiede in genere di preparare per i suoi spettacoli dei suoni particolari: il rumore dei cavalli o del treno, il suono dei tasti del telegrafo che battono e perfino quello dei gabbiani che volano da una parte all’altra della scena… Il famoso rumore dei tuoni di Lavia, presente praticamente in ogni suo spettacolo, l’ho registrato tanto tempo fa quando abitavo in collina, durante un temporale. Per arrivare a comporre il suono più adatto faccio continuamente delle ricerche, registro direttamente i suoni prendendoli dalla natura oppure traggo spunto dalle raccolte musicali o dai film. Sicuramente il teatro è vita. E il teatro non si ripete: ogni sera è come se fosse una prima, sia per gli attori che per noi tecnici… È l’ansia della diretta, il desiderio di non sbagliare e di essere capaci di superare qualsiasi difficoltà inattesa, ad ogni recita: sono questi i senti- Foto di menti, che non ti abbandonano mai. Filippo Manzini


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Pedro Almodóvar

Tutto su di me

“Osservare la realtà che ci circonda, dare una forma ai desideri della nostra coscienza: l’importante è essere sinceri, questo è l’unico modo per potere veramente raccontare le cose”

Quando è avvenuto, in Lei, il primo desiderio di fare cinema? Si ricorda la sua prima volta dietro la macchina da presa? La mia prima volta è stata utilizzando una Super8, che ho acquistato con il mio primo stipendio guadagnato a Madrid nel 1971, quando ero impiegato nel settore amministrativo di una società telefonica. L’idea che mi aveva portato a Madrid era di dare un senso alla mia esistenza facendo il regista. Desideravo entrare nella Scuola di cinema ma, nel frattempo, Franco l’aveva fatta chiudere. Ecco perché ho comprato questa prima macchina da presa: mi sono autonominato regista e ho cominciato a girare in modo sperimentale, scrivendo io stesso le mie sceneggiature. Ed è così che nel corso degli anni Settanta la mitica Super8 mi ha accompagnato

Cuándo surgió, en Usted, el primer deseo de hacer cine? Recuerdas su primera vez detrás de la cámara? Mi primera vez estaba usando un Super8, que compré con mi primer sueldo ganado en Madrid en 1971, cuando trabajaba en el departamento administrativo de una compañía telefónica. La idea que me llevó a Madrid fue dar sentido a mi existencia al ser director. Quería ingresar a la Escuela de Cine pero, mientras tanto, Franco la había cerrada. Es por eso que compré esta primera cámara: me convertí en director y comencé a filmar de forma experimental, escribiendo mis propios guiones. Y así fue que durante los años Setenta el legendario Super8 siempre me acompañó, hasta que llegó el momento de filmar con medios más sofisticados. Ciertamente, el cine se puede aprender


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sempre, fino a quando è arrivato il momento di girare con mezzi più sofisticati. Il cinema si può sicuramente imparare nelle scuole, ma credo che, come tutte le cose più importanti della vita, si possa davvero conoscere e capire soltanto mentre lo stai facendo. La scoperta del linguaggio cinematografico è qualcosa di sorprendente e magico: quando ti ritrovi a girare tu stesso per la prima volta, hai come l’impressione che il cinema lo stai creando tu e non importa quanto le diverse inquadrature siano state fatte già da altri registi prima di te. È l’eccitazione della creazione che conquista la “È importante che i film nascano tua anima. Se da me e che siano realizzati si ha il sogno in estrema libertà, a volte del cinema, se disattendendo le aspettative del si desidera farlo pubblico” con tutte le proprie forze, occorre guardarsi dentro: quando troviamo una storia da raccontare, bisogna cominciare a realizzarla immediatamente. Oggi, per esempio, tutto sembra più facile: non c’è bisogno di andare a comprare una Super8, basta girare un video con il proprio telefonino. Osservare la realtà che ci circonda, dare una forma ai desideri della nostra coscienza: l’importante è essere sinceri, questo è l’unico modo per potere veramente raccontare le cose.

en las escuelas, pero creo que, como todas las cosas más importantes de la vida, solo se puede conocer y comprender mientras lo hace. El descubrimiento del lenguaje cinematográfico es algo sorprendente y mágico: cuando te encuentras filmando por primera vez, tienes la impresión de que estás creando el cine y no importa cuánto hayan sido filmados por otros directores delante de ti. Es la emoción de la creación que conquista tu alma. Si tiene el sueño del cine, si quiere hacerlo con toda tu fuerza, debe mirar hacia adentro: cuando encontramos una historia que contar, debemos comenzar a realizarla de inmediato. Hoy, por ejemplo, todo parece más fácil: no hay necesidad de comprar un Super8, solo graba un video con tu teléfono móvil. Observando la realidad que nos rodea, dando forma a los deseos de nuestra conciencia: lo importante es ser sincero, esta es la única forma de poder contar cosas. Y cuáles fueron su primeras referencias cinematográficas?

Vivía en un pequeño pueblo de la región de Extremadura, donde mi familia había emigrado en la década de 1960, al igual que la familia que jugó el papel principal en mi última película Dolor y gloria, que traslada su hogar a las cuevas del centro de España. La oportunidad de ver las películas fue especialmente en el verano: recuerdo esta gran pared blanca donde se moE quali sono stati i suoi primi straron las películas, de una manera riferimenti cinematografici? muy desordenada y casual: spaghetIo ho vissuto in un piccolo paese ti westerns, cine mexicano, cine de della regione dell’Estremadura, dove fantasía, pero también películas de la mia famiglia era emigrata negli Antonioni y aquellos con Orson Welanni Sessanta, proprio come la fami- les. Alrededor de los 10 años, en la glia protagonista del mio ultimo film escuela, también tuve acceso al cine Dolor y gloria che trasloca la propria estadounidense y comencé a enamo-


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abitazione nelle grotte della Spagna centrale. L’occasione di vedere i film era soprattutto d’estate: ricordo questa grande parete bianca dove venivano proiettati i film, in modo molto disordinato e casuale: spaghetti western, cinema messicano, cinema di fantasia, ma anche i film di Antonioni e quelli con Orson Welles. Intorno ai 10 anni, a scuola, ho avuto accesso anche al cinema americano e così ho iniziato ad innamorarmi del technicolor. E devo dire che, probabilmente, tutto il colore che caratterizza i miei film rappresenta una mia personale ricerca dei colori dell’infanzia dati dall’uso del technicolor, proprio per una ragione sostanzialmente di chimica e anche per la modalità che c’era allora di sviluppare le pellicole. Ora ciò sarebbe impossibile perché i toni sono quelli più naturali, mentre prima i colori erano estremamente vibranti, dalle intensità forti e squillanti, e tutto si poteva dire tranne che fossero naturalistici. Ecco perché queste colorazioni, così esagerate e irreali, sono diventate perfette per i personaggi che creo e le storie che racconto. Però, non mi sono mai preoccupato di avere un mio stile riconoscibile: il mio unico timore è sempre stato quello di rendere comprensibile la storia che si racconta. Il potere di essere un regista mi consente comunque di pensare soltanto a ciò che voglio realizzare: al di là dello stile, è importante che i film nascano da me e che siano realizzati in estrema libertà, anche a volte disattendendo le aspettative del pubblico. In tutti i miei film i personaggi si trovano spesso in situazioni deliranti o difficili, però mantengono sempre una grande libertà di fronte a qualsiasi situazione che si ritrovino a dover

rarme de technicolor. Y debo decir que, probablemente, todo el color que caracteriza a mis películas representa mi búsqueda personal de los colores de la niñez dados por el uso del tecnicolor, por una razón esencialmente de química y también por la modalidad que entonces era de desarrollar películas Ahora esto sería imposible porque los tonos son los más naturales, mientras que antes los colores eran extremadamente vibrantes, con una intensidad fuerte y resonante, y IMMAGINE CLARA BIANUCCI

todo se podía decir, excepto que eran naturalistas. Es por eso que estos colores, tan exagerados e irreales, se han vuelto perfectos para los personajes que creo y las historias que cuento. Sin embargo, nunca me he molestado en tener mi propio estilo reconocible: mi único temor siempre ha sido hacer que la historia que se cuenta sea comprensible. Sin embargo, el poder de ser director me permite pensar solo en lo que quiero lograr: más allá del estilo, es importante que las películas provengan de mí y que se realicen con extrema libertad, a veces incluso sin tener en cuenta las expectativas del público. En todas mis películas, los personajes se encuentran a menudo en situaciones delirantes o difíciles,


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combattere. Nessuno di loro si fa influenzare dai pregiudizi, anche a prescindere da quella che è la loro classe sociale: può trattarsi di una suora, di una ragazza giovane, di una casalinga oppure di un assassino, tutti godono di una grande autonomia morale. Come autore e sceneggiatore di queste storie, io mi sento responsabile della libertà che gli concedo. Il desiderio di fare dei film è cambiato nel corso del tempo?

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

Spero davvero che i miei film, nel corso di più di trent’anni, siano cambiati… Il racconto non può essere sempre lo stesso, e non soltanto per il bisogno di non ripetersi, ma anche per ragioni pura mente biologiche: gli esseri umani mutano con il tempo. I miei film degli anni Ottanta riflettono la vita che conducevo allora e anche la vita del mio Paese: la Spagna stava attraversando una fase particolare perché era appena approdata alla democrazia e ciò ha significato un’enorme esplosione di libertà. Credo che la mia carriera sia stata segnata da diversi punti di cambiamento: Il fiore del mio segreto, per esempio, segna l’inizio di un diverso tipo di cinema per me. Io resto sempre la stessa persona, ma il mio cinema cambia e il culmine della trasfor-

pero siempre mantienen una gran libertad frente a cualquier situación en la que tengan que luchar. Ninguno de ellos está influenciado por prejuicios, incluso independientemente de cuál sea su clase social: puede ser una monja, una niña, una ama de casa o un asesino, todos disfrutan de una gran autonomía moral. Como autor y guionista de estas historias, me siento responsable de la libertad que le otorgo. Ha cambiado con el tiempo el deseo de hacer películas, el enfoque para hacerlas?

Realmente espero que mis películas hayan cambiado en el transcurso de más de treinta años... La historia no siempre puede ser la misma, y no solo por la necesidad de no repetirse, sino también por razones puramente biológicas: los seres humanos cambian con tiempo. Las películas que filmé en los años Ochenta reflejan la vida que vivía en ese momento y también la vida de mi país: España estaba pasando por una fase muy particular porque acababa de llegar a la democracia y esta condición significó una gran explosión de libertad. Creo que mi carrera ha estado marcada por diferentes puntos de cambio: La flor de mi secreto, por ejemplo, marca el comienzo de un cine diferente para mí. Siempre sigo siendo la misma persona, pero mi cine cambia y la culminación de la transformación tiene lugar al comienzo del nuevo milenio con Todo sobre mi madre, Habla con ella y La mala educación, tres títulos esenciales de mi filmografía porque expresan lo que aprendí en el curso del tiempo y reafirman lo que soy, incluso en comparación con el lugar donde vivo. Esta trayectoria continúa hasta una


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mazione avviene agli inizi del nuovo millennio con Tutto su mia madre, Parla con lei e La mala educación, tre titoli essenziali della mia filmografia perché esprimono ciò che ho imparato nel tempo e ribadiscono quello che io sono, anche rispetto al posto dove vivo. Questa traiettoria continua fino ad un film del 2016, Julieta, dove il mio stile diventa più contenuto e ciò accade anche nel mio ultimo film, Dolor y gloria. La scelta di una determinata inquadratura dipende da quello che si vuole raccontare: a volte un primo piano, che è una scelta registica semplice, può diventare una soluzione complessa e racchiudere tutta l’essenza di un film. Oppure l’utilizzo del piano largo come avviene, ad esempio, in Dolor y gloria può servire a rappresentare la solitudine di un personaggio. Io mi muovo sulla base dell’intuizione e ho notato che ultimamente vado avvicinandomi sempre più con la macchina da presa agli attori . Per essere registi ci vuole il duende, come diceva Garcia Lorca?

Duende è un termine spagnolo e la sua definizione non è così precisa. Tutto ciò che nell’arte è inafferrabile, sfuggente e che soprattutto non si può spiegare, questo insieme di emozioni si può chiamare duende. Garcia Lorca era legato alla tradizione del Sud della Spagna, quindi il duende nel suo caso si riferisce principalmente al flamenco e alla grazia che proviene dalla natura. Il duende c’è ogni volta che scatta qualcosa tra un attore e la macchina da presa, ogni volta che all’improvviso un artista riesce a creare qualcosa su una tela… Duende è emozione, è piacere, è tutto ciò che riempie la nostra anima.

película de 2016, Julieta, donde mi estilo se vuelve absolutamente más austero y esta línea tan contenida también se encuentra en mi última película, Dolor y gloria. La elección de una toma en particular depende de lo que quieras contar: a veces un primer plano, que es una simple elección de director, puede convertirse en una solución extremadamente compleja y abarcar toda la esencia de una película. O el uso del ancho “La scoperta del linguaggio paino como su- cinematografico è qualcosa di cede, por ejemplo, sorprendente e magico: quando en Dolor y glo- ti ritrovi a girare tu stesso ria puede servir per la prima volta, hai come para representar l’impressione che il cinema lo la soledad de un stai creando tu” personaje. Me muevo basado en la intuición y noté que últimamente me estoy acercando cada vez más con la cámara a los actores y a la expresión de los personajes que representan. Necesitas un duende para ser director,como solía decir García Lorca?

Duende es un término español y su definición no es tan precisa y exacta. Todo lo que en el arte es evasivo y, sobre todo, no se puede explicar directamente, este conjunto de emociones se puede llamar duende. García Lorca estaba ligado a la tradición del sur de España, por lo que el duende en su caso se refiere principalmente al flamenco y a la gracia, a la elegancia que proviene de la naturaleza. El duende, para mí, es cada vez que se toma algo entre un actor y la cámara, cada vez que un artista de repente logra crear algo en un lienzo ...Duende es emoción, es placer, es todo lo que llena nuestra alma.


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S P E C I A L E C O P P A V O L P I

Luca Marinelli

La mia strada

I personaggi che interpreta sono tutti, in genere, estremamente caratterizzati. Come si avvicina ad un nuovo ruolo?

È vero, parto sempre da una forte caratterizzazione perché ricerco una mimesi totale con il testo, con le idee del regista e con quelle che sono le mie più intime visioni. Il risultato di “Con il successo bisogna mantenere questo intenso lavoro mi conduce al i piedi per terra, continuando a osservare cambiamento, dal fisico all’atteggial’umanità che ci circonda e restando sempre mento. Il personaggio diventa come se stessi, saldi alle proprie idee ed emozioni. una seconda veste. Quando indossi È questa la mia strada...” gli abiti del personaggio, poi lo diventi veramente: se li togli, il ruolo ti si sfila lentamente dall’anima. Nella costruzione di un personaggio, l’istinto è fondamentale: bisogna fidarsi del proprio temperamento, è una forma di rispetto verso se stessi.


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Quando si arriva su un palcoscenico o su un set cinematografico, non bisogna stare tanto ancora a pensare al ruolo: si deve fare pagina bianca, buttandosi nell’interpretazione. Quel che serve per arrivare alla verità del personaggio lo hai ormai permeato dentro di te. Come ha lavorato per la costruzione del personaggio Martin Eden nel suo ultimo film?

Ringrazio il regista Pietro Marcello che mi ha fatto leggere questo libro di Jack London, da cui è tratto il film. È la storia universale di un ragazzo che diventa uomo, un racconto di emancipazione e riscatto che avviene attraverso la cultura. Ed è un film per sottolineare e farci capire, ancora una volta in più, che la cultura serve agli esseri umani. Solo la cultura può fornirti di strumenti critici e renderti capace di affrontare il mondo, per farti vivere appieno la tua esistenza. Non so spiegare bene quale sia il segreto interpretativo del personaggio, però ho sentito da subito che c’era qualcosa che la storia mi comunicava e che toccava la mia coscienza. Scrittori come Stevenson o lo stesso Jack London volevano toccare con mano la realtà, tenendo sempre uno sguardo aperto sulle cose. Martin Eden è un giovane uomo che affronta la lotta di classe per affermare il proprio talento, fino ad arrivare a combattere migliaia di delusioni e alla fine anche a perdersi. Il fatto di insistere a fare riconoscere agli altri il proprio talento è qualcosa che gli artisti sanno bene: non bisogna fermarsi alla prima tappa, anche se scopri che è davvero difficile: l’importante è imparare a fidarsi di se stessi, e crederci sempre. Martin Eden compie

una parabola meravigliosa perché la sua è una storia di formazione, che si svolge in un lungo arco di tempo, e per un attore interpretare un personaggio che subisce un cambiamento è un regalo prezioso. E, dal punto di vista tecnico, come è avvenuta la preparazione di questo carattere?

La preparazione ha avuto un'impostazione teatrale, perché ci trovavamo effettivamente in un teatro a provare e anche per la tipologia dell’impegno richiesto. C’è stato un lavoro fisico – nel libro viene detto più volte che il personaggio è forte e prestante – e un lavoro sulla lingua napoletana che è una forma di linguaggio, a tutti gli effetti. Sono “Quando indossi gli abiti stato aiutato da del personaggio, poi lo diventi un maestro di veramente: se li togli, il ruolo lingua napole- ti si sfila lentamente dall’anima” tano, io non conoscevo assolutamente il dialetto. All’inizio non mi davo il diritto di improvvisare: mi bloccavo e le parole mi si fermavano in gola, pensavo: “Non la sai dire la battuta in quella lingua!”, e invece piano piano mi sono lanciato e ho sentito che stavo acquisendo fiducia. Luca Marinelli ha vinto la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile Diciamo che è importante man- alla 76esima tenere sempre un certo equilibrio Mostra Internazionale interiore. Bisogna mantenere i piedi d'Arte Cinematografica per terra, continuando a osservare di Venezia Martin Eden è, alla fine, vittima del successo che ha tanto ricercato; e Lei, invece, come attore si sente mai vittima del suo successo?

l’umanità che ci circonda e restando sempre se stessi, saldi alle proprie idee ed emozioni. È questa la mia strada…

Foto di Gianmarco Chieregato


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La Storia racconta...

metamorfosi dell'attore di Adela Gjata

«G

li attori sono l’epitome e la cronaca del nostro tempo», dice Amleto affidando a Polonio, per un miglior trattamento, i comici in visita ad Elsinore. Epitome, cronaca, ovvero sintesi di un modo di essere, di una scelta di vita legata non solamente al momento creativo, ma, anche e soprattutto, alla società e ai fatti della propria epoca. Nessuno più dell’attore è direttamente impegnato nella vita collettiva. Personaggio ibrido, solitario, spesso eretico e anticonformista, egli appare nel corso della storia dapprima sciamano o sacerdote di riti civili, poi mediatore fra classi sociali, portavoce dell'identità nazionale e persino della Rivoluzione, altrove operatore politico o fautore del giudizio critico dello spettatore.

Tuttavia, nell’ingranaggio intricato delle strutture sociali spuntano contraddizioni che turbano il quadro favorevole della sua condizione. Nel Medioevo gli attori e le attrici vivevano ai margini della vita, equiparati ai giocolieri e alle prostitute. La chiesa accusava loro di pratiche sataniche per creare con il corpo e la parola un universo di passioni che sfuggiva all’ordine stabilito, maledizione di cui porteranno a lungo il peso. Vagabondi che la morale disprezza, che la religione scomunica, che la legge condanna. Certi luoghi comuni persistono anche diversi secoli dopo “l’età di mezzo”, inoltrandosi fino al tramonto del Settecento. Molière si seppellisce di notte, alla luce delle torce; Lekain, l’attore che fece commuovere il Re Sole, fa le devozioni nello stato del Papa, ad Avignone, perché non può farlo a Parigi, dove gli attori, dopo il Medioevo, sono scomunicati; gran parte dei signori si comportano con le attrici con insolenza. Se il comico non si fa lodatore delle potenze del tempo, se non accompagna il re come il suo doppio, ha poche possibilità di mantenersi. Nella maggior parte dei casi è recluso in un ghetto, e il mondo del teatro, di cui gli attori sono la manifestazione sociale, non è integrato nella società. Eppure la fascinazione del teatro è fatale. Goethe ha dato la forma più cosciente di questa attrattiva dell’attore sul pubblico. È il tema centrale della vicenda di Wilhelm Meister, il giovane che vuole liberarsi dell’essenza borghese per raggiungere un livello esistenziale superiore, che raggiunge grazie all’incontro con una compagnia teatrale che passa nella sua città. Lo stile di vita dei comici appare agli occhi di Meister come uno stato esperienziale


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completo e libero che porta alla realizzazione personale. In tempi più recenti l’attore si erige a creatore, allo stesso modo del poeta e del pittore; non è più soltanto un interprete, bensì un inventore che crea la forma di una partecipazione viva. La sua attività si evolve da mestiere ad arte. Gli attori e le attrici diventano membri privilegiati della società, oltre che protagonisti di quel luogo di scambio che è il teatro. Il Novecento genera un tipo di attore per il quale la preoccupazione artistica è parte attiva dell’esistenza sociale. Nel 1924 Jacques Copeau, all’apice del successo, abbandona Parigi e il teatro del Vieux Colombier per trasferirsi con una trentina di attori nella campagna della Borgogna. Qua dà vita a una vera e propria 'comunità', umana e teatrale al tempo stesso, in cui esigenze morali ed estetiche sono parimenti rispettate: lavoro collettivo, progetto d'allestimento in comune e scambio paritario dei ruoli. Nascono

così i Copiaus, che recitano in cittadine, paesi e villaggi della Borgogna, su palchi ogni volta ricostruiti all'aria aperta. Il loro esperimento dura cinque anni, sino al 1929. Ma nella riflessione successiva dei primi collaboratori di Copeau e futuri maestri (Louis Jouvet e Charles Dullin), nell'ammirazione stupefatta di centinaia di teatranti, l'idea, duplice e complementare, di 'vita comunitaria' e di 'comunione paritaria' del lavoro ha attecchito profondamente nel fragile e sempre smosso terreno della vita teatrale europea. In ultima analisi l’attore è l’immagine nel quale gli spettatori si decifrano e si riconoscono, riecheggia la metafora shakespeariana del teatro che porge uno specchio alla natura umana. Eppure, che sia portavoce di un'emozione collettiva, messaggero di modelli culturali o fermento di coesione sociale, l’attore si ritrova, in fin dei conti, solitario, rimanendo, citando Jean Duvignaud, un “escluso dall'orda”.

Mimmo Paladino Attori , 2010 Incisione su legno, Zane Bennett Contemporary Art, Santa Fe New Mexico


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D E N T R O L A M U S I C A

Ludovico Einaudi

la voce della musica

“Bisogna essere pronti al cambiamento, capaci di mutare le proprie certezze: a volte, il confronto con gli altri e la conseguente modifica di un’idea può portare a scoprirne una nuova, anche migliore, di ciò che si era pensato da soli”

Mary Said What She Said, lo spettacolo per cui Lei ha composto le musiche, con la regia di Bob Wilson e protagonista Isabelle Huppert: come avete lavorato insieme?

È stato un lavoro estremamente affascinante e che mi ha colpito molto. Io ho sempre amato il teatro di Robert Wilson, infatti seguo le sue produzioni da diversi anni. Mi piace soprattutto quel lato astratto di certi suoi spettacoli, un tratto che è anche, in qualche modo, non dichiaratamente narrativo. Piuttosto, la narrazione che propone in scena gioca con la conoscenza degli spettatori che completano, con la loro personale visione, quello che sanno dei soggetti messi in opera da Wilson.


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L’effetto che allora si crea è stimolante, anche per il pubblico: attraverso questa messinscena, talmente particolare ed estrema, si entra in un meccanismo inedito carico di immaginazione. Lo spazio luminoso dei suoi spettacoli rappresenta una firma inconfondibile nell'infinito panorama teatrale, così come l’elemento musicale che diventa anch'esso parte del racconto. Il successo del teatro di Robert Wilson è che si tratta di un teatro molto forte dal punto di vista dell’immagine. Bob Wilson ha dimostrato però di avere amore e rispetto anche nei confronti della musica, nelle sue rappresentazioni il suono è qualcosa di veramente importante. La combinazione tra lui e Isabelle Huppert, una grandissima attrice che stimo davvero molto, mi ha attratto fortemente e mi sono ritrovato subito coinvolto in questa operazione. È stato un lavoro, per certi versi, non così semplice perché Wilson di prassi costruisce praticamente tutto lo spettacolo durante la delicata fase delle prove: per un compositore poteva essere difficile, quindi, ideare una partitura che fosse già pensata e che allo stesso tempo potesse avere una flessibilità adattabile alle esigenze della regia e dello spettacolo costruito in fase di prova. Come in tutte le collaborazioni abbiamo affrontato dei momenti anche complessi, ma alla fine tutto si è risolto, nel migliore dei modi possibili: Isabelle – soprattutto nella prima parte dello spettacolo dove c’è la presenza di una musica che può sembrare invadente perché davvero potente – riesce a cavalcare quest’onda musicale che diventa una specie di apoteosi recitativa, dal carattere molto forte e molto bello.

Negli spettacoli di Bob Wilson spesso è la musica a comunicare con il pubblico e a diventare parola…

In Mary Said What She Said sono presenti tantissime parole: è un testo molto fitto, ma che fun-

ziona e diventa comprensibile anche se non si conosce il francese. È Isabelle Huppert stessa a rendere drammatico il testo, facendo in modo che il suono delle parole diventi musica. La sua voce si sposa indissolubilmente con la musica e il risultato che viene fuori è ‘un effet- A sinistra to altro’, capace di riflettere il senso immagine di delle parole. Clara Bianucci


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gli altri e la conseguente modifica di un’idea può portare a scoprirne una nuova, anche migliore, di ciò che si era pensato da soli. In tutti La dimensione del teatro è tal- gli ambiti esiste la mutazione e nel mente grande e importante… È bel- teatro, che è comunque frutto di lissimo riuscire a collaborare con un progetto di scambio reciproco, altri artisti che si occupano delle è bello, sebbene a volte anche difficile da accettare, ritrovarsi a cambiare ciò che avevi elaborato in precedenza. Per quanto riguarda le collaborazioni, l’aspetto più affascinante sta proprio nel fatto che si sommano i vari punti di vista: le idee degli altri arricchiscono le proprie, e viceversa. Come musicista e compositore, cosa significa per Lei creare un’opera destinata a uno spettacolo di prosa?

FOTO FILIPPO MANZINI

varie componenti di uno spettacolo: oltre alla musica, il teatro è fatto di luce, movimenti, parola e danza; la potenza di questi linguaggi uniti insieme completa ogni singola parte e contemporaneamente la amplifica, rendendola meno imperfetta perché sostenuta da un intreccio delle arti.

Quindi la musica può definirsi un linguaggio universale?

Io me ne rendo conto con il tipo di musica che scrivo: fondamentalmente si tratta di musica strumentale e, attraverso il potere del suono, riesco ad entrare in contatto non solo con gli italiani come me, ma anche con popolazioni molto diverse tra loro: cinesi, giapponeLei ha detto che per imparare si, americani, indiani… La musica, la musica bisogna conoscere non avendo bisogno delle parole regole e allo stesso tempo le per esprimersi, rappresenta un è necessario, però, avere la passaporto mondiale nella comconsapevolezza di doverle prensione reciproca. Io stesso cerco sovvertire. Ciò è valido anche di essere aggiornato su quello che quando un musicista scrive per il succede nel mondo musicale, per teatro o il cinema? una mia intima necessità di sentire Bisogna essere pronti al cambia- nuove energie, per cogliere spunti mento, capaci di mutare le proprie inediti e arricchirmi, proprio come certezze: a volte, il confronto con musicista.


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S EP NE T C R I O AL L D A M E U A SR I TC A E Nel suo libro Allegro con fuoco, Innamorarsi della musica classica, Lei spiega come la musica classica sia in verità molto più contemporanea di quanto siamo in genere portati a considerarla…

Bisogna cambiare il modo di pensare, proprio in generale: la musica classica appartiene a tutti e non soltanto, come in genere si pensa, agli intellettuali. Non è un genere di musica distante dal tempo contemporaneo, piuttosto è un’espressione artistica che ci appartiene profondamente, specialmente l’opera lirica: storie come quella della Bohème o della Carmen possono essere dei simboli trasportabili, proprio dal

Beatrice Venezi RITMO E MELODIA

“La musica classica appartiene a tutti e non solo, come in genere si pensa, agli intellettuali”

punto di vista narrativo, nella modernità. Prima di tutto occorre smontare certi cliché legati alla musica classica: il primo è sicuramente che questo tipo di musica debba essere capita per poterla apprezzare,


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mentre la classica è semplicemente un genere musicale come gli altri. È una musica complessa, è vero, e per capirla profondamente sono necessari studi di preparazione ma l’essenziale è riuscire a godersi l’emozione che suscita il suono, senza preconcetti. La melodia e il ritmo rappresentano dei mezzi per scoprire il mondo, tentativi per ascoltare

io lo considero come il mio Maestro di riferimento. Tutte le tappe più importanti del mio percorso artistico fino a questo momento sono sempre state collegate a Puccini: dal debutto in Giappone, che attraverso le opere di questo autore è diventato un mercato importante per me, alla mia nomina come direttore del Festival pucciniano a Torre del Lago.

noi stessi. Un personaggio come Paganini, per esempio, può essere considerato come una delle prime rockstar della storia: suonava il violino mettendo il virtuosismo al centro delle sue performance e c’erano letteralmente i fan che si strappavano i capelli per ascoltarlo… Il mio ultimo album, My Journey, è dedicato interamente a Giacomo Puccini; sono affezionata particolarmente a questo compositore, perché entrambi siamo nati a Lucca e

Ho iniziato il mio percorso come Maestro collaboratore in Germania, dove mi è stata offerta l’opportunità di dirigere un’opera come Madama Butterfly: è stata la mia prima volta nella direzione d’orchestra, ed è sempre grazie a Puccini, quindi, che posso dire di aver compreso cosa significa essere un direttore d’orchestra.

FOTO MARCO MAZZARI

La direzione d’orchestra è un mestiere in cui la presenza


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femminile non può assolutamente essere paragonata a quella maschile…

È vero, e questo dato di fatto spesso genera degli aneddoti, anche curiosi. Ad Osaka, per esempio, durante un mio viaggio di rappresentanza in Giappone, un impiegato dell’Istituto italiano di cultura non mi ha riconosciuta perché si aspettava di vedere “il Maestro Venezi”, dunque un maturo signore e non una donna di neanche trent’anni. Non riusciva a capire come fosse possibile essere donna, intraprendere questo mestiere e non dimenticarsi della propria femminilità nel modo di mostrarsi o di lavorare. Il femminismo oggi, per me, significa il contrario di ciò che ci è stato propinato per anni: una donna, per affermarsi nella propria carriera e sviluppare il talento, non deve necessariamente rinunciare al proprio aspetto fisico, alla famiglia o ai figli. Deve essere libera di scegliere come vuole essere davvero, senza seguire nessun stereotipo. Ottenere un posto o una qualifica, in qualsiasi campo, vuol dire preparazione, talento, merito, studio e rinunce: questi elementi non hanno niente a che fare con il genere, maschile o femminile, ma attengono esclusivamente alla qualità del lavoro che si svolge. Lei è la direttrice d’orchestra più giovane d’Europa e viaggia in tutto il mondo. Quando è all’estero, che cosa le manca dell’Italia?

Negli anni passati ho viaggiato in Canada, Argentina, Giappone, Ungheria, Armenia e Georgia… A parte il caffè e la qualità della vita italiana, che mi mancano costan-

temente, forse di luogo in luogo cambia il senso della collaborazione artistica. Le orchestre italiane hanno sempre quel quid in più, un carattere che rende particolarmente facile e fluido il fatto di fare musica insieme. La maggior parte delle volte io sono un direttore ospite e ciò significa avere a che fare con persone sempre nuove, appartenenti a una cultura diversa, con un senso “Ottenere un posto dell’umorismo e o una qualifica, in qualsiasi modi di pensa- campo, vuol dire preparazione, re differenti ri- talento, merito, studio e rinunce: spetto all’Italia. questi elementi non hanno niente Questo aspetto a che fare con il genere, rappresenta un maschile o femminile” grande fattore di crescita umana, oltre che professionale, e ognuno dei miei debutti nei vari Paesi ha avuto, per me, un sapore speciale. Forse, tra i momenti che più ricordo con particolare affetto citerei il fatto di aver suonato con Andrea Bocelli in Toscana nel suo Teatro del Silenzio, un posto pazzesco sostanzialmente in mezzo al niente e che viene aperto solo una settimana all’anno; con Andrea sono entrata in contatto sia artisticamente che umanamente, mi ha colpito per la semplicità, l’umiltà e la simpatia che ha saputo emanare. E poi non posso dimenticare di ricordare il Puccini Day che era stato organizzato al Lucca Summer Festival, una rassegna di musica rock e pop. In quel contesto ho deciso di proporre un concerto di un compositore classico e nessuno avrebbe scommesso sul successo di questa operazione, invece sono arrivate quasi 5000 persone: è stata una prova inconfutabile dell’universalità e modernità della musica classica.


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Dai racconti di una giovane scrittrice...

CAMMINANDO SUL FILO di Orsola Lejeune

H

o passato la vita cercando un equilibrio stabile. Fin da piccola avevo dei programmi ben stabiliti… Di quelli che ti racconti con le amiche, con delle tappe nella vita che sembravano fondamentali e obbligate. Cosa farai da grande? Avevo sempre la risposta pronta. Non ho mai avuto indecisioni. La stessa sicurezza però l’ho avuta quando poi decidevo di cambiare, ribaltare il tavolo. In cui mi accorgevo di vivere una vita che non volevo. Non ho mai voluto diventare grigia, persa nella quotidianità, dimenticandomi di me, di pensare, di tenere sveglia la mia coscienza, la mia sensibilità, la mia dignità e personalità. La vita è una. La mia vita deve essere il più bella possibile. Tutto stava nel capire quali fossero le mie priorità. Ho passato la vita cercando di crearmi un’idea sulle cose, o bianca o nera. Ho passato la vita cercando i mantenere i capelli in ordine, di mantenere sempre lo stesso peso, cercando di creare degli spazi per tenere le cose al posto loro, ho cercato anche di darmi degli orari nella vita quotidiana, ho cercato di capire cosa mi piacesse e cosa no, ho cercato di selezionare le persone in base al mio gusto. Ho cercato di decidere dove volevo andare e cosa volevo fare, ho cercato di creare un’immagine di me stabile e definita, ho cercato di mettermi delle etichette, ho cercato di staccarmi quelle che mi avevano assegnato, ho cercato di crearmi un ruolo e di non cadere, mai. Ho cercato di non sbagliare. Ho cercato di percorrere una linea retta, di mantenere un obiettivo, di crearmi delle abitudini che mi rassicurassero, sempre. Avevo paura dei cambiamenti, ho passato notte intere sveglia cercando di capire cosa sarebbe potuto succedere, immaginandomi tutti gli scenari possibili, ricoprendoli sia di patine piene di ottimismo, che di pessimismo. La verità è che tutto questo va contro la mia natura. Cercavo di dare un ordine esteriore per cercare di mantenere sotto controllo la vita che fuggiva.


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A un certo punto mi sono arresa. Non esiste nessun tipo di equilibrio se non quello precario, la precarietà rientra nella natura stessa dell’equilibrio. Ogni momento le cose cambiano. Non esiste nessun tipo di sentimento o emozione che rimanga uguale a se stessa attimo dopo attimo, si cambia idea sulle persone, non esiste né il bianco né tanto meno il nero, viviamo in un mondo fatto di sfumature cangianti. A un certo punto arrendermi mi è anche piaciuto. Nessuna stabilità ha importanza se non quella interiore. I capelli si spettinano e seguono il vento. I gusti non sono sempre gli stessi. Io non ho una etichetta e non la voglio avere.

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

Cerco di staccarmi di dosso quelle assegnate dagli altri, perché dovrei cercarne una da assegnarmi? Cerco persone che mi vogliano per quello che sono, con i miei capelli spettinati e la capacità di cambiare, di ascoltare e saper ascoltare, di assorbire quello che mi succede intorno, in bene e in male. Non mi preoccupano più i cambiamenti, li affronto con curiosità e emozione. Il mio equilibrio precario mi accompagna nelle continue mutazioni della vita. Nulla rimane come era. Tutto scorre.


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R E G I S T A - S C R I T T R I C E

Nora Venturini

Ti racconto una storia “La mia scrittura non parte dalla parola scritta, piuttosto è l’azione dell’essere umano, il suo agire in presa diretta, ad essere protagonista”

Buio in sala: da dove nasce questo titolo?

Fa parte di una serie di gialli con protagonista una tassista detective. È una giovane donna che ha avuto sempre il pallino di risolvere i casi di omicidio, che voleva fare la poliziotta, ma per una serie di vicissitudini famigliari si ritrova, invece, a fare la tassista. In ogni romanzo racconto un’anima diversa di Roma: nel primo libro il delitto avviene nella Roma bene dei Parioli, nel secondo voglio raccontare l’ambiente dell’immigrazione nord africana e degli invisibili che vivono intorno alla stazione Termini e in quest’ultimo, invece, mi sono dedicata al teatro e siamo in zona Monteverde vecchio, in un quartiere storico davvero affascinan-


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te. Siamo in un’estate torrida romana e la protagonista fa salire nel suo taxi questa curiosa figura, una vecchia signora che indossa un lungo vestito di velluto e una stola al collo e che si aggirava, un po’ annebbiata e sperduta, per il Gianicolo… Capisce che si tratta di una grande diva del teatro e del cinema, in realtà famosissima, ma che adesso è preda della vecchiaia. Con uno stile ironico e leggero, che caratterizza tutti i miei libri, volevo raccontare il mondo del teatro, soffermandomi su cosa succede dietro le quinte: che cosa avviene quando i riflettori si spengono sulla celebrità e sul mestiere dell’attore? E, non a caso, nel libro è inserita una dedica, un ringraziamento “a tutti coloro che sul palcoscenico e dietro le quinte lavorano in teatro e per il teatro e a quelli che seduti in sala si lasciano incantare dalla sua magia”: ecco, questo libro è dedicato a tutti i teatranti del mondo.

Che Roma è quella che esce fuori dai suoi libri?

La città di Roma è la terza protagonista di questi libri. La protagonista assoluta è la tassista Debora, con il suo carattere così dirompente e diretto, e il secondo protagonista è maschile: il commissario, che caratterialmente è l’opposto di lei, molto pacato e riflessivo. Ho scelto questa protagonista che è di Ostia, proprio perché attraverso i suoi occhi giovani è possibile far scoprire ai lettori le tante facce che compongono Roma. In quest’ultimo libro, per esempio, la protagonista scopre il teatro off fatto negli scantinati, di cui Roma è “Scrivere significa fare i conti sempre stata pie- con te stessa: la tua fantasia na. Mi piace rac- è l’unico soggetto a cui devi contare certi fat- rispondere. Sia come regista ti con lo sguardo che come scrittrice desideri vergine che può raccontare un pezzo di mondo avere una ragaz- al pubblico” za giovane senza sovrastrutture, molto curiosa dell’uIl fatto di essere una regista teatra- manità e della realtà: è il suo stesso le l’ha aiutata nella scrittura? senso dello stupore e della meraviglia Ogni capitolo del libro Buio in di fronte alle cose che vorrei trasmetsala è una scena. Quando scrivo im- tere al lettore. magino l’ambientazione proprio sotto un profilo registico: penso ai perQuando scrive pensa mai ai suoi sonaggi come se fossero degli attori, potenziali lettori? descrivo come si muovono, i gesti e Il primo libro l’ho scritto non le espressioni che fanno… Il ritmo pensando mai che potesse venire del racconto è estremamente dialo- pubblicato. Avevo questa storia che gato, quasi come fosse un copione mi frullava per la testa da tempo e teatrale in certi momenti: dialogo e così l’ho scritta. Per almeno un anno azione, proprio come avviene in te- ho tenuto nel cassetto quello che atro. La mia scrittura non parte mai avevo scritto e poi, veramente per dalla parola scritta, piuttosto è l’azio- caso, ho incontrato un agente lettene dell’essere umano, il suo agire in rario che l’ha voluto leggere: così è presa diretta, ad essere protagonista. cominciata la mia inaspettata e, diE poi, mentre scrivo, i dialoghi li reci- rei anche coraggiosa, avventura di A sinistra to sempre ad alta voce, per sentire se scrittrice. Come lettrice, ho sempre immagine di suonano bene. avuto la passione per il genere giallo Clara Bianucci


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e forse, proprio questa attenzione a Il teatro e la scrittura: che cosa un certo tipo di storie, ha contribuisono per Lei? to a farmi conoscere la strada giusta Il regista si appoggia su un lavoro per creare degli intrecci narrativi. di squadra: tu hai un’idea, ma è solo nel corpo e nella parola degli attori che il tuo pensiero può essere tradotto. La responsabi lità finale della visione è la tua, però quello che arriva al pubblico è un lavoro di equipe. Questo processo della condivisone è qualcosa di bello, che io non potrei mai sostituire, ma allo stesso tempo ho scoperto anche la libertà assoluta che soltanto la scrittura può darti. Scrivere significa fare i conti con te stessa: è la tua fantasia l’unico soggetto a cui devi rispondere. E la tua fantasia, in un libro, si sostituisce allo scenografo o al costumista: l’immaginazioLa scrittura dei libri gialli necessita ne diventa parola, corpo, musica… di una forte struttura drammati- La spinta creativa è la medesima, sia ca, dal carattere quasi scientifico: si come regista che come scrittrice: possono fuorviare i lettori con false toccare il cuore e la mente della genpiste, ma alla fine del romanzo tutti te, e magari per un attimo condivii conti devono tornare. Non si pos- dere gli stessi sentimenti: questa è la sono lasciare strade aperte. sfida più grande, per ogni autore.


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I

l mio messaggio è: vi teniamo d’occhio. Tutto ciò è sbagliato! Io non dovrei essere a parlare all'ONU, io dovrei essere a scuola, dall’altra parte dell’oceano. E invece voi avete chiesto a noi ragazzi di venire qui per la speranza. Come vi permettete? Avete rubato i miei sogni e la mia infanzia con le vostre parole vuote, senza considerare che io sono tra i ragazzi fortunati. Le persone soffrono, le persone stanno morendo e i nostri ecosistemi stanno collassando. Siamo all’inizio di un’estinzione di massa e tutto ciò di cui parlate sono i soldi e le favole su una crescita economica?! Ma come osate? Per più di 30 anni la scienza è stata chiara: come fate a guardare altrove? E venire qui, a dire che voi state facendo abbastanza, quando in realtà la politica e i governi sembrano essere ancora lontani. Voi dite di ascoltarci e di capire l’urgenza, ma non importa quanto io sia triste e arrabbiata, io non vi credo, perché se voi aveste capito effettivamente la situazione, continuando a fallire nell’agire, allora sareste da considerare come dei malvagi. E mi rifiuto di credere a ciò. L’idea popolare di tagliare le emissioni ci dà solo la possibilità di riuscire al 50%, rimanendo sotto 1.5 gradi di innalzamento delle temperature ed evitando una reazione a catena di eventi fuori il controllo umano. Il 50% forse è accettabile per voi, ma quei numeri non includono alcuni punti critici, come i cicli di retroazione, ulteriore riscaldamento dovuto all’inquinamento dell’aria, o le questioni riguardanti la giustizia e l’equità. Tutto ciò è da considerare in riferimento al fatto che io e la generazione di quelli che saranno i miei figli saremo costretti ad assorbire milioni di tonnellate di CO2 dall’aria con tecnologie che neanche esistono. Quindi il 50% di rischio non è accettabile per noi che vivremo le conseguenze. Per avere il 67% di possibilità di rimanere sotto 1.5 gradi – questa è la migliore prospettiva fornita dal gruppo intergovernativo per il cambiamento climatico – il mondo avrebbe solo 420 gigatoni di diossido di carbonio da consumare partendo dal 1 gennaio 2018. Come osate pensare che questa situazione possa essere risolta con l’economia di sempre e le tecnologie utilizzate finora? Con i livelli delle emissioni di oggi, il bilancio di CO2 da consumare rimasto disposizione (per rimanere sotto 1,5 gradi di innalzamento delle temperature) sarà completamente terminato in meno di 8-10 anni. Non ci saranno né soluzioni, né piani basati su questi numeri oggi perché queste cifre sono troppo scomode e non si è troppo maturi per arrivare a dire le cose come stanno. Ci state deludendo. Ma i giovani stanno iniziando a capire il vostro tradimento. Lo sguardo delle future generazioni è sopra di voi. Se scegliete di deluderci, allora non vi perdoneremo mai. Non vi lasceremo andare così. Qui e in questo momento è dove noi segniamo la linea: il mondo si sta svegliando e, vi piaccia o no, il cambiamento sta arrivando.

Greta T hunberg


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E C O L O G I C A M E N T E

Livia Firth

la mia vita sostenibile

La moda, un mondo rivolto apparentemente all’esteriorità, come può incontrare i diktat legati ai temi dell'ecosostenibilità?

La moda è, semplicemente, quello che indossiamo tutti i giorni… Come dico spesso: “Il mondo non è portato avanti da gente che “I giovani, guidati da Greta Thunberg, va in giro nuda!”. Inoltre, la moda ci stanno dicendo che dobbiamo muoverci costituisce un'industria a tutto in fretta e questa urgenza spettro – parte dall’agricoltura e forse ancora non è stata compresa, finisce con la comunicazione – e il ecco perché questo attuale stato suo impatto, sia sociale che ambiendi cose fa paura” tale, è enorme. ‘Essere ecosostenibili’: è qualcosa che richiede un impegno continuo o, una volta intrapresa attraverso la propria attività in questa


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direzione, tutto avviene in maniera automatica?

Non so realmente cosa voglia dire essere ecosostenibili… Forse è un termine che indica, mettendo il concetto in forte evidenza, il contrario di essere non sostenibili… Queste ultime parole già di per sé fanno orrore, non possono neanche più esistere, anche perché diventa oggi imprescindibile per ognuno di noi il fatto di comportarci da cittadini attivi e responsabili. Le nostre azioni, non dobbiamo dimenticarlo mai, hanno ripercussioni su tutto. Nessun atteggiamento, ormai, può dirsi individuale e ogni problema coinvolge l’intera collettività.

L’idea di un cambiamento nella gestione del lavoro deve dunque riguardare tutti, sia per quanto riguarda le materie prime, utilizzate rispettando l’ambiente, e sia con un investimento sul sociale, abbracciando l’ipotesi di una riduzione del sovraccarico della produzione e dei tempi di lavorazione. Ma, forse, è già troppo tardi per fare qualcosa? Il nostro futuro, da questo punto di vista, è in scadenza?

Dobbiamo assolutamente non smettere di credere che esista ancora un futuro, altrimenti sarebbe una catastrofe per l’essere umano! Però i giovani, guidati da Greta Thunberg, allo stesso tempo ci stanno dicendo Eco-Age, il primo negozio che dobbiamo muoverci in fretta e ecologico ed etico a Londra di cui questa urgenza forse ancora non è Lei è la direttrice creativa, aiuta stata compresa, ecco perché questo le grandi aziende, da Chopard a attuale stato di cose fa paura. SapGucci, a diventare sostenibili: è piamo che stiamo usando quantitadifficile riuscire a far coniugare tivamente le risorse di almeno due certe istanze sociali con un tipo di pianeti, ma invece ne abbiamo uno realtà dal carattere più lussuoso? solo… Che cosa realmente vogliaIn realtà Eco-Age non può defi- mo fare? Uno dei maggiori colpenirsi soltanto un negozio, piuttosto voli, in tutto questo, è il fast fashion si tratta di una società di consulen- (e fast food e, oserei dire, anche fast za e comunicazione specializzata tutto!) che ha alimentato il consusulla sostenibilità. Ormai tutti i più mismo sfrenato degli ultimi anni. Il grandi brand hanno capito che, se nostro dovere, da questo punto di vogliono ancora essere presenti e vista, è la ribellione al sistema. lavorare nei prossimi anni, devono iniziare da oggi a intraprendere un Una sua critica nei confronti cambiamento attuando delle stradella moda contemporanea è che tegie sulla filiera. Tale problematisia diventata troppo vorace ed ca deve necessariamente includere accumulativa… sia l’impatto ambientale che quelNella storia recente il fast falo sociale: è solo seguendo questa shion ci ha convinto a utilizzare la strada che le aziende, anche molto moda come una ‘cosa usa e getta’; conosciute ed importanti, possono al contrario, fin da quando ero picpermettersi di sostenersi (ecco che cola e poi sono cresciuta, la moda a ritorna, appunto, il termine sosteni- basso costo non esisteva: tutti avebilità) nel futuro. vamo l’idea di fare un investimento


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su dei capi che duravano per anni. Purtroppo, con l’avvento di questa società veloce, ci è stato fatto il lavaggio del cervello: sappiamo tutti che mangiare cheap da McDonald's fa male alla salute e che, così facendo, mangiamo delle schifezze, però ancora non abbiamo capito che comprare moda cheap è un danno comunque. Fa male ad altri essere umani (per produrre cheap la catena commerciale si avvale di schiavi IMMAGINE CLARA BIANUCCI

che producono per noi) e fa anche male al nostro portafoglio, perché se contassimo sempre il famoso “price per wear” ci accorgeremmo che alla fine, rispetto ai tempo passati, oggi spendiamo molto di più. Prima di lavorare nel campo della moda ha gestito insieme a suo marito, l’attore Colin Firth, una casa di produzione cinematografica: com’è avvenuto, per Lei, il passaggio dal cinema verso la moda? Il tema

dell’ecologia è un argomento capace di collegare entrambi questi mondi?

Prima di lavorare nella moda ero una produttrice di documentari e poi, anni dopo, mi sono ritrovata a farlo di nuovo. Con The True Cost, un documentario bellissimo diretto da Andrew Morgan e disponibile su Amazon Prime o iTunes, abbiamo descritto i retroscena della moda low cost nelle fabbriche del Bangladesh: in questo angolo del mondo, in stanze fatiscenti, si producono i capi di aziende gigantesche attive a livello globale. Il potere del cinema di raccontare le storie è incredibile: possiamo leggere quanti più libri possibili sul tema dello sfruttamento, ma quando vediamo sullo schermo le immagini di donne o bambini nelle filiere non ce li scordiamo più. In Italia, trovo che ci sia sensibilità verso questi argomenti: tanti brand stanno cambiando la loro organizzazione. Forse, direi che in Inghilterra c’è più sensibilità da parte del pubblico. È possibile un cambiamento globale che possa unire tutti da questo punto di vista? O le differenze tra i vari Paesi rimangono insormontabili?

Certo che è possibile! Dobbiamo crederlo, sempre. Basta guardare al movimento lanciato in tutto il mondo da Greta Thunberg che ha unito milioni di studenti, a prescindere dalla loro nazionalità: tutto ciò è bellissimo, no? Il cinema e la moda: una sua definizione.

Credo che il cinema e la moda siano due strumenti, necessari per agitare le coscienze!


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Come un sufi trovo l’equilibrio in questo perenne volteggiare.

Appena potrò cadrò,

appena potrò volerò,

appena potrò mi riposerò,

che sia oggi, non domani.

Domani un’altra me camminerà nella vecchia me,

su nuove strade, con nuovi indizi, nelle stesse trame.

Dimenticherò per poi ricordare la bellezza di ciò che c’è e resiste,

come un dono, in me, oggi come ieri.

A.


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S AP T E N A LCI AI GAO LN CE H AA RR OTV A E

ludovica Sebregondi

eclettica e libera

Da dove nasce il desiderio di raccontare Natalia Goncharova, un’artista dallo spirito anticonformista e che ha giocato un ruolo fondamentale nell’ambito delle avanguardie?

L’idea è nata in realtà qualche anno fa, quando a Palazzo Strozzi organizzammo una mostra dedicata all’avanguardia russa, alla Siberia e all’Oriente. In quell’occasione ci eravamo già innamorati delle opere “Vecchio e nuovo, passato e futuro: e della storia di questa artista russa, tutto in arte convive, così originale e controcorrente. La in un legame inscindibile” Tate Modern di Londra, che ha ospitato la scorsa estate una mostra monografica su Natalia Goncharova, ha collaborato con Palazzo Strozzi per l’allestimento di questa retrospettiva organizzata a Firenze. Il nucleo


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principale delle opere esposte è lo stesso, ma la mostra è stata declinata in maniera differente rispetto a Londra, soprattutto pensando alla specificità del luogo-Palazzo Strozzi. Gli artisti che in genere scegliamo – da Ai Weiwei a Marina Abramović, per esempio – entrano proprio in un dialogo creativo con l’edificio che li ospita. Da sempre, cerchiamo di collegare le rassegne allestite a Palazzo Strozzi con il territorio che le circonda: Natalia Goncharova in un suo soggiorno a Firenze era stata al Politeama e l’evento viene documentato in mostra nei ricordi di Primo Conti, ma più in generale il legame che affiora nelle opere di Natalia presenti a Palazzo Strozzi è con l’Italia. L’allestimento di Luigi Cupellini che è molto allegro e colorato, a differenza di quello londinese che invece si basava essenzialmente sul colore bianco, riflette visivamente il legame dell’artista con la vivacità culturale del suo tempo. Partendo da un’illustrazione che Natalia Goncharova ha fatto di un racconto di Pushkin, e seguendo un’intuizione del Direttore Generale di Palazzo Strozzi Arturo Galansino, abbiamo inserito un ulteriore elemento grafico come leit motiv iconografico per la nostra esposizione: il disegno di una carta da parati, molto allegra, declinato in vari colori. All’epoca di Natalia i quadri venivano appesi su carta da parati e l’idea di riprendere questo tipo di raffigurazione ne enfatizza la visione. Natalia Goncharova, insieme ad un’altra amatissima artista come Frida Kahlo, rappresenta un simbolo di libertà e indipendenza femminile…

Queste artiste hanno vissuto entrambe una vita per l’arte e questo aspetto le avvicina inequivocabilmente ma Frida, oltre ai gravi problemi fisici sofferti nel l ’ i ntero corso della sua vita, è stata distrutta dall’amore appassionato e anche profonda mente tor mentato con Diego Rivera. Invece, per quanto riguarda Natalia, la sensazione è di trovarci di fronte alla storia di u n ’e s i s t e n za vissuta in maniera più armoniosa: per cinquant’anni è stata la compagna e ha lavorato insieme all’artista Michail Larionov, in un rapporto paritario che non è così usuale trovare nel mondo dell’arte. Nel 1906 Larionov organizza insieme a Diaghilev una grande mostra a Parigi per presentare più di 700 opere di arte russa: ebbene, lui comunica a Diaghilev che non accetterà l’invito di esporre le sue opere senza anche quelle di Natalia. Dal canto suo, lei accetta l’invito di lavorare in teatro con Diaghilev che le invia cinquanta telegrammi, soltanto dopo che lui ha acconsentito al fatto che insieme a lei ci sia anche Larionov. Il loro è un rapporto di grande generosità e reciprocità: Larionov, per esempio, mette sempre i quadri di Natalia in posizione

Ludovica Sebregondi, della Fondazione Palazzo Strozzi, è curatrice insieme a Matthew Gale, Head of Displays, Natalia Sidlin, Curator, International Art, Tate Modern, della mostra Natalia Goncharova. Una donna e le avanguardie, tra Guaguin, Matisse e Picasso organizzata da Fondazione Palazzo Strozzi e Tate Modern, con la collaborazione di Ateneum Art Museum, Helsinki


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migliore nella mostre che organizza. Nel 1916, quello che doveva essere per loro un semplice viaggio in Europa, non ebbe “La teatralità di ritorno perché la Natalia Goncharova risiede Russia divenne nello stile, sempre indipendente, Unione Sovietiaperto e poliedrico, con cui ha ca e i due artisti scelto con determinazione diventarono dedi esprimere se stessa” gli esuli. La loro è stata una vita anche non facile: tutti i risparmi e la casa gli vennero confiscati, un amico fece finta che le opere fossero sue per evitare che anche queste venissero sequestrate… Non torneranno mai più nella loro patria, e questa è una condizione tristissima: per Natalia la campagna russa è sempre stata un'irrinunciabile fonte di ispirazione artistica. Forse un altro aspetto che differenzia Frida Kahlo e Natalia Goncharova è la tipologia delle opere: il colore strabiliante dei quadri di Natalia appare comunque più pacificato rispetto alla drammatica pittura di Frida…

A pag. 74: Natalia GoncharovaAutoritratto con gigli L’arte di Natalia si identifica con gialli, 1907-1908, olio il suo luogo ideale e ricorda la camsu tela, cm 77,5 x 58,2. pagna russa, la vita semplice dei conMosca, Galleria Statale Tretyakov, ZH-8965. tadini; da un certo punto di vista, è Acquisto, 1927. la malinconia dell’abbandono che si © Natalia Goncharova, raffigura: quando arriva in Spagna, by SIAE 2019 per esempio, sostituisce il folclore A pag. 75: spagnolo al folclore russo. I colori Natalia Goncharovache utilizza per rappresentare queste Modella (su sfondo donne spagnole sono gli stessi di un blu), 1909-1910, olio su Picasso di prima maniera, con i toni tela, cm 111 x 87. Mosca, Galleria Statale Tretyakov, bruciati del marrone scuro o dell’ocra chiaro… Certi colori incredibili ZH-1633. Lascito di A.K. presenti nelle sue opere, anche molti Larionova Tomilina, forti e utilizzati a contrasto, riflettoParigi 1989 no le sue influenze in ambito artisti© Natalia Goncharova, by SIAE 2019 co. Lei dice di aver rifiutato tutto, a

favore di una tradizione culturale figurativa russa, ma in sottofondo rimangono questi rimandi di stampo più occidentale: una delle sue opere può dirsi picassiana, un’altra ha dei ricordi di Gauguin o di Matisse, senza che ci sia la prevalenza di un artista in particolare: la tecnica utilizzata, oppure i soggetti rappresentati, tutto è assolutamente eterogeneo. Nel caso di Natalia Goncharova possiamo parlare sicuramente di eclettismo e di una dinamica lavorativa perfetta quindi per il teatro, un ambito espressivo in cui lei ha agito in totale libertà. In mostra a Palazzo Strozzi, ad accompagnare le opere, ci sono tre filmati d’epoca e ogni scena è stata pensata in rapporto ai suoi quadri: dai mietitori delle campagne russe ad un ballo o alla presenza dei militari: ogni video o immagine cinematografica – anche quella dei balletti a cui lei ha collaborato – si ritrova nelle vicine opere esposte, un po’ come se i quadri stessi prendessero vita. Natalia Goncharova può definirsi un’artista teatrale?

Assolutamente sì, anche se Natalia non amava molto il mondo del teatro: non le piacevano le prove, la quotidianità di questa dimensione. Ha lavorato per i Balletti Russi, è stata costumista e scenografa, ma non le piaceva il ritmo delle tournée. Diceva che le scenografie sono belle le prime volte che vengono utilizzate, poi quando vengono portate in giro di città in città invece diventano vecchie e polverose… La teatralità di Natalia Goncharova risiede nello stile, sempre indipendente, aperto e poliedrico, con cui ha scelto con determinazione di esprimere se stessa. Non bisogna


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dimenticare lo spirito controcorrente che caratterizza, nell’arte e nella vita, questa figura femminile: nel 1910 è la prima donna ad aver esposto dei nudi in Russia e le sue opere furono censurate, così come il rapporto d’amore con Larionov fece scandalo, essendo una delle prime coppie aperte della storia: Natalia Goncharova e Larionov vivevano con una terza donna, prima amante e poi seconda moglie di Larionov. E i tre sono in seguito stati sepolti tutti e tre insieme.

contemporaneo certi elementi che sono ricorrenti in tutte le epoche, anche quelle che ci appaiono più lontane, proprio come sensibilità. Natalia Goncharova, per esempio, guardava alle icone russe e si riferiva dunque a una tradizione, ma stravolgendola. Lei stessa, nel polittico Gli Evangelisti, dice di averci messo dentro le icone, El Greco e Cézanne (infatti, nel 1912 l’opera fu sequestrata per ordine del Santo Sinodo perché i personaggi rappresentati

Lei come vede l’arte, come qualcosa di statico o in movimento perpetuo? L’arte rappresenta l’espressione più alta dell’uomo, quindi non può essere statica per definizione. Però, il movimento artistico non può neanche prescindere dal passato, deve sempre entrare in relazione con ciò che è avvenuto prima. Un aspetto affascinante nell’arte è proprio di andare a ricercare nel moderno e

vennero ritenuti ritratti come buffoni); ogni artista asseconda, infatti, la propria indole, il modo di vedere il mondo, ma legandosi alla realtà che è sempre in divenire. Gli artisti contemporanei hanno assimilato dentro di loro la lezione del passato, non l’hanno cancellata: come si fa ad andare avanti senza riferirsi all’arte di sempre? Vecchio e nuovo, passato e futuro: tutto in arte convive, in un legame inscindibile.

Natalia GoncharovaIl vuoto, 1913, olio e gouache su tela cm 80 x 106. Mosca, Galleria Statale Tretyakov, ZH-1543. Lascito di A.K. Larionova-Tomilina, Parigi 1989 © Natalia Goncharova, by SIAE 2019


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A proposito di Orazio Costa

un ricordo di andrea camilleri

«I

l solo Maestro che ho avuto e che sono disposto a riconoscere come tale è Orazio Costa. Non riuscii mai a dargli del tu, non mi sentivo all'altezza, e questo significa riconoscere un Maestro: avere coscienza che non riuscirai mai ad arrivare al suo stesso livello di conoscenza, esperienze, sensibilità. Nel ’49 vinsi il concorso all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica. E così mi trovai di fronte Orazio Costa, cioè a dire uno dei cervelli più acuti che abbia mai incontrato in vita mia. Allora si portava una tesi scritta e non ci fu un punto, dico uno solo, della mia tesi (il tema era Così è se vi pare di Pirandello), sul quale Orazio si trovasse d'accordo. Costa, che era un trentacinquenne elegantissimo, aveva un'aria che diventava sempre più distaccata e inquisitoria. Dopo un'ora e mezzo, mi fermai. D'Amico mi chiese perché mi ero bloccato, ed io gli risposi che non vedevo per quale motivo dovessi farmi torturare dentro una stanza buia quando fuori c'era un sole bellissimo. D'Amico mi incoraggiò ad andare avanti. Con Costa restammo in disaccordo fino all'ultima domanda. Lui mi chiese quale titolo avrei scelto se avessi avuto molti soldi a disposizione per fare una regia. Pare che tutti rispondessero Edipo re, Amleto. Io risposi La Vedova allegra. Orazio disse: "Non è una risposta seria". D'Amico disse: "È una risposta serissima". Così me ne andai, convinto di non farcela. Decisi di andarmene ad Ostia da un mio amico. Dopo dodici giorni, comprai il biglietto per tornare in Sicilia ma mi venne l'ispirazione di passare da via del Lavatore: trovai un mucchio di telegrammi di mio padre che disperatamente mi cercava per comunicarmi che ero stato preso all'Accademia con la massima borsa di studio. Ero l'unico allievo ammesso. Ogni mattina mi svegliavo prestissimo, arrivavo in treno da Ostia e il Maestro Orazio Costa ‘picchiava’ quotidianamente sul mio cervello, fino a che mi prese come aiuto regista nel Poverello d’Assisi di Copeau: questo spettacolo cresceva, meraviglioso esempio del Metodo Mimico da lui ideato… Però, poco dopo mi capitò ‘l’incidente’, nel senso che venni cacciato dall’Accademia per condotta immorale: allora usava così, se mettevi il braccio attorno ad una compagna arrivava l’ispettrice e non c’erano scuse, venivi espulso. Anni dopo, pur condividendo una vera fratellanza di vita, Costa non venne mai a vedere i miei spettacoli. Non me lo motivò mai. Forse mi sentiva estremamente diverso da lui, anche se mi stimava moltissimo. Lui considerava il teatro come una chiesa e io invece ero forse il più infedele dei . suoi allievi… Eppure, quando lasciò l’insegnamento all’Accademia designò


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me come suo successore per l’insegnamento di regia, che ho svolto dal '74 al '98. Più volte intervenne nella mia vita privata. Io andavo a chiedergli spesso consiglio, convinto che le sue parole fossero sempre disinteressate e dettate da un affetto profondo per quello che lui era stato capace di vedere in me. Mi leggeva le sue poesie, i suoi diari e quella cosa meravigliosa che erano i suoi diari dei sogni. Quando mi sposai e nacque la mia prima figlia, volle fare da padrino. Poi, ha cominciato a frequentare la mia casa di San Miniato, a passare Natale con me, Capodanno con me. Eravamo capaci di fare le tre, le quattro del mattino, parlando non solo di teatro, ma anche di politica, letteratura, di noi stessi. Questo filo non si è mai interrotto: la distanza può avere indebolito la frequentazione, ma non la profondità dell'affetto. Proprio perché eravamo lontani, in realtà accadevano episodi misteriosissimi. Mia nipote nacque pri-

ma di quanto si pensasse. Alle sette del mattino squillò il telefono. Orazio era a Firenze e mi disse: "Ho sognato una grande gioia nella vostra casa. Cosa è successo?". Ci capitava anche di avere una contemporaneità di sogni. Orazio Costa mi ha insegnato a scrivere. Mi spiego meglio. Quando Orazio prendeva un personaggio da un testo e ti diceva in che modo lo si poteva far vivere, il suo esame era così esaustivo, così completo, il ricavo era così assoluto, che alla fine il testo era come un guscio vuoto. Lui diceva: questo personaggio lo devi pensare in modo tale che entri a casa tua. Ecco, con i miei personaggi cerco di vivere così. Mi chiamò una settimana prima di morire. Con una voce bellissima, squillante: "Ti cercherà un ragazzo che in partenza voleva fare una tesi di laurea su di te, poi si è convinto a farla su di me. Spero di farlo tornare alla vecchia idea, quindi preparati". Avevamo poi stabilito che una mia giovane amica che abita vicino Firenze, a Natale sarebbe andata a prenderlo in macchina per portarlo da me. Gli anticipai infine che il romanzo che stavo scrivendo (La gita a Tindari, Sellerio) l'avrei dedicato a lui. Perché racconto, tra le altre cose, il rapporto mimico di un uomo con un albero».

Un'immagine di Conversazione su Tiresia, uno spettacolo interpretato da Andrea Camilleri e diretto da Roberto Andò, messo in scena unicamente al Teatro greco di Siracusa, l'11 giugno 2018


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Quaderni della Pergola | Le mutazioni A cura di Angela Consagra, Alice Nidito, Clara Bianucci, Gabriele Guagni, Filippo Manzini, Orsola Lejeune, Matteo Brighenti, Adela Gjata, Marta Bianchera, Silvia Bedessi, Dalila Chessa, Valentina De Matteis, Daniela Lotti

Via della Pergola 12/32 - 50121 Firenze Centralino 055.22641 www.teatrodellapergola.com www.teatrodellatoscana.it

Progetto grafico di Walter Sardonini/Social Design

Info e contatti quaderni@teatrodellapergola.com

Interviste di Angela Consagra

Impaginazione ed elaborazione grafica di Clara Bianucci

La poesia a pag. 73 e l’editoriale in quarta di copertina sono di Alice Nidito I disegni alle pagine 2, 16 e 61 sono di Clara Bianucci

Fondazione Teatro della Toscana Presidente Tommaso Sacchi Consiglio di Amministrazione Vice Presidente Antonio Chelli, Antonia Ida Fontana, Giovanni Fossi, Maurizio Frittelli, Duccio Maria Traina Collegio dei Revisori dei Conti Presidente Roberto Giacinti, Tamara Governi, Adriano Moracci, Gianni Tarozzi, Giuseppe Urso Direttore Generale Marco Giorgetti

© 2019 FONDAZIONE TEATRO DELLA TOSCANA

Le fotografie di copertina, in seconda di copertina e della lavagna di Eduardo De Filippo sono di Filippo Manzini Il ricordo di Andrea Camilleri fa riferimento in parte all'intervista di Katia Ippaso apparsa sull'Etinforma, Speciale Orazio Costa, anno V-nr 1, anno 2000. Le immagini in copertina e in seconda di copertina fanno parte dello spettacolo Sconcerto per i diritti della Compagnia ErosAntEros, andato in scena al Teatro Studio Mila Pieralli di Scandicci. Le interviste a Pedro Almódovar e a Luca Marinelli sono tratte dalle conferenze stampa con gli artisti in occasione della 76esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. L'intervista a Beatrice Venezi è stata ispirata dall'incontro con il pubblico nell'ambito del Wired Festival 2019 a Firenze.

CHIUSO IN TIPOGRAFIA IL 13/11/2019


La lavagna con la scritta EDUARDO viene conservata nei locali del teatro e fa riferimento al corso di drammaturgia che Eduardo De Filippo realizzò nei primi anni Ottanta al Teatro della Pergola. Questa citazione ha ispirato la nascita dei Quaderni della Pergola come elemento figurativo delle prime copertine. E ancora continua ad essere un simbolo del nostro modo di concepire il teatro.


La parola ‘mutazione’ che cosa evoca? Il teatro è statico o si muove? L’arte ricerca punti fissi o è in continua mutazione? Si può intendere la mutazione come una ricerca di bellezza e verità? Al fine del cambiamento è necessario rinnegare il passato? La mutazione è una rivoluzione? E se sì, possono essere solo i giovani a farla? Mutazioni come sinonimo di trasformazione, cambiamento, variazione, sostituzione e modifica. Le risposte sono arrivate. Tutto è in continua trasformazione. Cambiare è crescere, evolversi, condizione senza la quale non è possibile arrivare a conoscere se stessi e poter così contribuire a portare luce, bellezza e significato dentro la nostra società, in ogni ambito della collettività. E quando tutto questo si muove all’interno del teatro diventa arte. E nell’arte si manifesta la vita in tutta la sua precaria mutabile perfezione.


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