Io chiudo i miei occhi per poter vedere Paul Gauguin
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C come creatività Creatività è sinonimo di “Pensiero divergente”, cioè capacità di rompere continuamente gli schemi dell’esperienza. È “creativa” una mente sempre al lavoro, sempre a far domande, a scoprire problemi dove gli altri trovano risposte soddisfacenti, a suo agio nelle situazioni fluide nelle quali gli altri fiutano solo pericoli, capace di giudizi autonomi e indipendenti (anche dal padre, dal professore e dalla società), che rifiuta il codificato, che rimanipola oggetti e concetti senza lasciarsi inibire dai conformismi. Tutte queste qualità si manifestano nel processo creativo. E questo processo – udite! Udite! – ha un carattere giocoso: sempre. Gianni Rodari
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23 Elena Lietti Segni creativi osservando
34 bastimenti d'animo vagabondo
il mondo
24 dal teatro niccolini
4 Anna Foglietta 14 Laura Marinoni Tutto il mondo Tra luce 26 provando in una donna e ombra mandragola “Purtroppo o “La curiosità è per fortuna, io fondamentale, così non riesco a come lo studio. risparmiarmi… Coraggio, costanza, O faccio bene le dedizione atletica, cose oppure non disciplina e molta le faccio. Nel pratica: per essere nostro lavoro attori serve tutto” tutto dipende dal 28 Gianfelice personaggio che Imparato interpreti” 19 Lucia Mascino Segni creativi L’esperienza che insegna sempre all’erta
10 Sergio Rubini Quella parola non detta “Il mestiere dell’attore si poggia necessariamente sulle fragilità e le debolezze dell’essere umano. È un mestiere che, per sua stessa natura, si fonda sull’incertezza”
30 Andrée
Ruth Shammah
20 Federico
Marignetti
A passi di fantasia “Avere fretta, cercare di fare sempre cose nuove. Solo così si può crescere. E io spero di continuare a fare sempre di più...”
Amore e sfide
33 Marina Rocco Segni creativi la fantasia che salva
36 mi unisco alle parole e mi lascio dire
38 Roberto Bacci In cerca di domande “Dobbiamo imparare a ragionare al contrario, riflettere su come fare a perdersi per ritrovare noi stessi...”
40 La Storia racconta... tempi di ricreazione
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65 la poesia
58 Elena 42 L’Oltrarno intuito, talento, disciplina
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Orlando Bloom
Una vita da sogno “Le mie scelte sono sempre molto istintive: leggo un testo e capisco subito se a quel certo personaggio io sono in grado di dare qualcosa di mio. Mi piacciono le sfide, questo è il punto”
Favilli Francesca Cavallo
74 Walter
Sardonini
Nella pancia C’era una della balena 66 Nicola Piovani volta... Passione e “A volte vado in “Leggiamo volontà sala quando non sempre ad alta “Ci vuole coraggio c’è nessuno, a voce le storie che per osare e provare sipario aperto, e scriviamo perché ad andare in in quei momenti si vogliamo sentire un’altra direzione. potrebbe pensare come le parole Accettando il che il teatro sia suonano. La parola immobile; invece, rischio e mettendosi scritta che può alla prova può quegli stucchi e essere detta è quelle maschere, le arrivare il sempre stata una corde che scendono cambiamento” nostra grande dalla graticcia passione” sul palcoscenico, è come se si animassero e cominciassero a 62 Dai racconti muoversi” di una giovane scrittrice...
a teatro in oltrarno
64 Luigi
Lo Cascio
A proposito di Orazio Costa
gettarsi oltre l'ostacolo
70 Carlo Cracco A lenta lievitazione “Dietro ogni piatto c’è la passione e se cucini a casa per gli amici o per le 79 La dolce persone a cui vuoi Vitti “Essere comici non bene, è anche una cosa divertente. Ma è facile, devi avere dentro qualcosa se il tuo obiettivo è quello di fare il ancora prima di fare l’attore, come cuoco, o ti ritieni tale, allora il la capacità di ridere di te stesso” discorso cambia. Ci vogliono rigore, dedizione, serietà”
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Anna Foglietta
Tutto il mondo in una donna “Purtroppo o per fortuna, io non riesco a risparmiarmi… O faccio bene le cose oppure non le faccio. Nel nostro lavoro tutto dipende dal personaggio che interpreti”
di Angela Consagra
Spesso in scena interpreta delle figure materne, da Pia – la mamma e la moglie della fiction scritta e diretta da Pif La mafia uccide solo d’estate – alla madre di Una guerra (secondo capitolo di Storie dal Decamerone di Michele Santeramo nell’ambito del FestiValdera) costretta per salvare i suoi due figli dalla guerra del suo Paese a compiere una scelta estrema.
La maternità ha milioni di declinazioni diverse. Ognuno di noi è abituato a considerare questo ruolo secondo una propria personale concezione dell’idea della figura materna, che è culturale ed emotiva: a volte viene intesa positivamente, in altre circostanze invece viene stravolta in maniera negativa. Nel racconto di Santeramo la madre deve affrontare una scelta drastica, però necessaria: si ritrova, per sfuggire
alla guerra, ad imbarcarsi senza alcun tipo di certezze. È una storia che fa parte della nostra cronaca perché è una rifugiata che rimane da sola in mezzo al mare, con due figli e una barca rovesciata a cui aggrapparsi. Si tratta di un fatto realmente accaduto: lei dovrà scegliere quale dei due figli far sopravvivere, entrambi non riuscirà a salvarli. La scelta è violentissima e soggetta a provocare dibattiti, senza per questo metterla in discussione. La madre che interpreto nella serie di Pif è decisamente diversa, calata nelle cose che la circondano, ma certamente più ironica. A me piace molto interpretare la maternità, e non solo perché nella vita sono io stessa una madre di tre figli… Penso che qualunque donna contenga in sé l’essenza della maternità, anche se non ha figli. Se una donna non è diventata madre e non lo diverrà
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mai, non importa: noi siamo geneticamente predisposte ad accogliere e ciò fa di noi quegli esseri straordinari che siamo, fragili ma anche forti al tempo stesso. La maternità le ha regalato un’energia diversa per affrontare il palco?
La maternità è qualcosa che amplifica tutta una gamma di emozioni, estremamente profonde. I figli fanno parte del mio processo creativo perché li coinvolgo e gli parlo del mio mestiere. Ogni giorno il mio intento è quello di creare all’interno del“Oggi la mia valigia di la quotidianiattrice contiene più essenza tà una piccola e sensibilità; al suo interno, opera d’arte, nel hanno trovato posto il peso senso che cere la responsabilità di questa co di rendere vita che ci sfugge, ma di cui artistica la mia gradualmente acquistiamo esistenza e loro consapevolezza” contribuiscono a questo progetto. Però, ti posso garantire che il mio essere donna ed artista si è sempre espresso, a prescindere dal fatto di essere madre. I figli sicuramente hanno reso tutto molto più interessante: quello che faccio è finalizzato a loro, ma io tengo molto alla mia indipendenza e alla mia autonomia di donna. E credo che ciò contribuisca, alla fine, a rendere i miei figli anche più felici.
che per questa ragione che sei inevitabilmente portata a prenderti cura di ciascun nuovo progetto, proprio come ti prendi cura di un figlio. Esprimersi sul palcoscenico attraverso il mezzo della lettura come avviene, appunto, in Una guerra: dal punto di vista dell’attrice, questo aspetto contribuisce a far emergere la creatività?
Credo di essere in un momento della vita che mi ha reso pronta alla lettura come mezzo interpretativo. Non è semplice perché, per dedicarsi davvero alla lettura, occorre lasciarsi andare: devi essere un’attrice libera, capace di vivere il palcoscenico con godimento e affrontando una dose di estemporaneità irreversibile. Se tu non riesci a dare quello che vuoi trasmettere al pubblico in quel preciso momento, l’occasione è persa. Però, al contrario, se invece arrivi a darti alla platea in maniera totalmente libera, la lettura ad alta voce diventa una forma d’arte assolutamente efficace. La lettura implica una concentrazione sinergica perché bisogna affidarsi al piacere dell’ascolto. Secondo Lei, da dove nasce la creatività?
Dalla personalità, ed è qualcosa che non si insegna. Bisogna avere il coraggio di mostrare e di riconoOgni suo film e ogni nuovo scere la propria creatività perché c’è spettacolo teatrale, è come un sempre bisogno di omologazione infiglio per Lei? torno a noi, come una coperta sotto Non tutti, ma molti dei perso- cui ripararsi… È il fatto di ammetnaggi che ho scelto di interpreta- tere di essere unici, anche nelle nore hanno lasciato in me dei segni stre imperfezioni, a renderci speciali. profondi, proprio come quelli che I più grandi creativi hanno avuto il lascia un figlio nell’anima. Ed è an- coraggio di affermare loro stessi: da
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Andy Warhol a Jean Paul Gaultier, da Coco Chanel a Pablo Picasso… Personaggi dalla personalità spiccata e che esprimevano forza.
fortuna… O faccio bene le cose oppure non le faccio… Il nostro è un lavoro di totale abnegazione e tutto dipende dal personaggio che
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
Il set o il palcoscenico: due luoghi in cui, per fare bene, occorre darsi completamente sotto il profilo attoriale?
Personalmente non riesco a risparmiarmi, purtroppo o per
si dovrà interpretare. Teatro e cinema necessitano di una diversa preparazione. Il teatro è l’esercizio costante verso la perfezione: come interprete tendi necessariamente verso la perfezione e anche se il re-
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gista precedentemente ha preparato tutto in maniera precisa e puntuale, ogni sera sta a te, attore, ricercare un’intonazione, una parola o un significato in più. Invece al cinema e in TV devi affidarti completamente al regista facendo in modo che ciò che tu sai dare segua un percorso suo, plasmandoti interamente ai
Ho tutta una mia preparazione scaramantica per prepararmi al palcoscenico o ad andare sul set. Ecco, la poetessa Alda Merini – che io ho interpretato per due anni a teatro nello spettacolo La pazza della porta accanto di Claudio Fava e la messa in scena di Alessandro Gassmann – arriva sempre a darmi le
dettami del regista e a quello che a lui serve in quel momento. Per arrivare a questa costruzione reciproca, ad un giusto rapporto attore-regista, occorre darsi e affidarsi completamente.
giuste risposte e attingo quindi ad alcuni suoi versi (“Ogni vera gioia ha una paura dentro”) per descrivere i miei sentimenti. Io sono pronta a salire sul palco, che per me costituisce una gioia infinita, ma conservo sempre dentro di me una paura incredibile. Sono un’emotiva; prima di iniziare a girare una scena, vivo sempre un sentimento legato all’inquietudine e all’incertezza…
Il logo di Every Child is My Child, la Onlus di cui Anna Foglietta è Presidente. L’Associazione è formata da attori, cantanti, musicisti, artisti e cittadini, per dare sostegno e istruzione ai bambini nelle zone disagiate e colpite dalla guerra.
Quale pensiero o sentimento le dà l’energia necessaria per andare in scena e affrontare l’impatto con il pubblico?
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Anzi, credo di essere diventata più insicura ora rispetto a quando ero più giovane: i timori si amplificano, ma io ne sono felice perché è come se avessi acquisito con il tempo maggiore spessore. L’insicurezza in questo mestiere ti consente di aprirti e di essere più disposta ad accogliere suggerimenti, quindi di conseguenza a migliorarti. Sicuramente sento di aver vissuto una crescita da questo punto di vista, anche se ho sempre una paura fottuta prima di entrare in scena! Anche sui vari set cinematografici si ha il proprio pubblico davanti, formato dai tecnici: ti accorgi che cerchi anche la loro attenzione e il loro consenso. Infatti, quando finisco una scena chiedo sempre al capo elettricista: “Ma com’era?”. Recentemente, per esempio, ho fatto un film in cui Gigi Proietti aveva un monologo incredibile; io lo ascoltavo e si vedeva che ero sinceramente emozionata, così alla fine Proietti mi ha chiesto: “Com’era?”. Se Gigi Proietti, con l’enorme esperienza che ha, è venuto a chiedere a me com’era andata significa che siamo proprio dei matti noi attori! Il suo essere attrice si esprime con una duplicità che la caratterizza: in scena Lei riesce ad essere drammatica e comica allo stesso tempo…
L’ironia è qualcosa che coltivo fin da quando ero molto piccola, ma non so dire bene verso quale tipologia recitativa sia più portata, se comica o drammatica… Sono i personaggi che comandano perché contengono al loro interno tante sfaccettature: anche se un personaggio si presenta come profonda-
mente drammatico ha comunque in sé l’ironia, un proprio lato buffo e grottesco. E ogni personaggio destinato alla commedia tout court deve necessariamente mostrare anche un piccolo grande dramma, altrimenti si rischia di non essere convincenti. Comico e drammatico si intrecciano e il risultato è qualcosa che va di pari passo con l’esperienza e la vita. Più diventi matura e più, in maniera assolutamente naturale, sei pronta a coltivare una gamma di personaggi dalle mille sfumature. De Gregori, in una sua famosa canzone, cantava La valigia dell’attore… È cambiata la sua valigia di attrice nel corso del tempo?
Eccome se è cambiata… Oggi la mia valigia di attrice contiene più essenza e sensibilità; al suo interno hanno trovato posto il peso e la responsabilità di questa vita che ci sfugge, ma di cui gradualmente acquistiamo consapevolezza. “Ogni giorno il mio intento A volte questo è quello di creare all’interno può spaventare della quotidianità una piccola perché ti rendi opera d’arte, nel senso conto che non che cerco di rendere artistica sempre vai nel- la mia esistenza” la direzione che vorresti: quando sei giovane pensi che le cose cambieranno, quindi mantieni uno spirito rivoluzionario che ti aiuta ad affrontare i travagli dell’esistenza. Invece con la maturità ti rendi conto che tutto è più difficile, anche se la consapevolezza ti dà più armi per lottare in ciò in cui credi. Sai che la battaglia è diventata più dura, ma la affronti lo stesso.
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Sergio Rubini
Quella parola non detta
“Il mestiere dell’attore si poggia necessariamente sulle fragilità e le debolezze dell’essere umano. È un mestiere che, per sua stessa natura, si fonda sull’incertezza”
Da diversi anni è docente all’Accademia Nazionale d’Arte drammatica “Silvio d’Amico”; quale aspetto legato al mestiere dell’attore è maggiormente chiamato a trasmettere ai suoi studenti?
A destra foto di Enrico Iannone
Ritengo che la cosa più difficile, ma anche più necessaria, da far comprendere sia il fatto di accettare la dimensione precaria di questo mestiere. È un lavoro che per sua essenza ha molto a che fare con il pericolo: tutto è incentrato sul dover disimparare le cose; quotidianamente è necessario dimenticare quello che hai acquisito perché appena lo hai appreso e fatto tuo produci una tecnica. Il rischio è che la tecnica possa soffocare la vitalità e l’autenticità di quello che fai. Per quanto mi riguarda, di solito mi piace arrivare in palcoscenico lasciandomi guidare da una certa spregiudicatezza
perché ritengo che questo sia il luogo dove ci si debba buttare e in cui poter sperimentare. Si può comunque realmente imparare questo mestiere?
Certo che si può imparare! Il talento va indirizzato ed amministrato, anzi occorre anche tenerlo a bada certe volte… Può capitare che un talento eccessivo tolga vitalità ad un’interpretazione perché ci si sente troppo sicuri di sé, mentre il mestiere dell’attore si poggia necessariamente sulle fragilità e le debolezze dell’essere umano. È un mestiere che, per sua stessa natura, si fonda sull’incertezza. Da dove nasce la creatività? Per quanto mi riguarda, io sono un lettore: mi piacciono molto i libri, ed è da lì che traggo le mie idee. Sono portato a leggere anche i libri
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che non mi piacciono perché poi magari in coda è possibile trovare sempre una parola illuminante. Il mio amico Domenico Starnone dice che sono un lettore non professionista, un dilettante della letteratura: per essere professionisti, secondo lui, bisogna avere il coraggio di leggere una pagina e poi decidere anche di abbandonare la lettura se il libro non ci piace, passando ad altro. Io, invece, non riesco proprio a farlo; ci
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
sono degli scrittori che sono entrati nella mia vita nel corso degli anni: da ragazzo ho scoperto i classici russi oppure autori come Kafka, poi negli ultimi anni mi sono appassionato anche alla letteratura americana e a scrittori come Franzen o Murakami… La creatività nasce dalla voglia di dare senso alle cose ed è legata alla memoria personale: da questo punto di vista diventa importante il modo in cui riusciamo ad isolare certi episodi, come possiamo fotografarli e vederli da una prospettiva
piuttosto che da un’altra. Creatività è compensazione, è aggiungere un pezzo mancante a qualcosa che ti è piaciuto e dire delle parole che non hai mai detto… Creatività è qualcosa di istintivo, ma è anche come curare una pianta che cresce: se attorno la pulisci e la sistemi o se aggiungi, per esempio, il diserbante, quella pianta crescerà sicuramente meglio. In teatro penso che sia importante a volte non esagerare con la tecnica perché altrimenti si rischia di modificare quella che è l’essenza dell’individuo togliendone anche la selvatichezza e la spontaneità, aspetti fondamentali del mestiere di attore. Il carattere più intimo ed immediato deve esondare in maniera naturale sulla scena e anzi l’ideale è trovare un equilibrio tra spontaneità e preparazione. Ognuno ha il suo modo di esprimersi, anche se credo che alla base della creatività ci sia un sentimento comune a tutti dato dall’inadeguatezza. Si sceglie di fare gli attori perché in fondo ci si sente inadeguati: se si è felici e completamente a posto con se stessi, forse non si intraprende questa carriera. Questo è un mestiere che si fa quando si hanno dentro delle ammaccature emotive: è con la creatività e l’espressività che si cercano di compensare i colpi in-
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teriori. Il palcoscenico può, almeno momentaneamente, lenire le ferite. Spesso i suoi spettacoli sono frutto di adattamenti per la scena di grandi romanzi; la trasposizione teatrale aiuta a rispondere a tutti gli interrogativi posti durante la lettura?
Per realizzare la riduzione di un’opera occorre tornare e ritornare sul libro, va smontato e modificato il testo originario: è importante parlarne con altri che l’hanno letto perché bisogna cercare di capire, per esempio, se sono rimasti fissati nella memoria gli stessi elementi che hanno colpito anche te. Un buon libro mi dà sempre questo desiderio di approfondire e discutere, come si faceva una volta con i dibattiti dopo i film, pratica andata ormai in disuso e che ha affievolito la forza della proiezione. La voglia di confrontarsi, di interrogarsi su cosa un film sia stato in grado di lasciarti dentro, è sempre qualcosa di molto prezioso. E’ vero che Lei fu scelto per interpretare il ruolo di Fellini da giovane nel film Intervista perché la foto che aveva mandato al provino corrispondeva alla sua immagine reale?
Fellini mi disse: “Complimenti, signor Rubini, Lei all’opposto della maggioranza degli attori assomiglia alle sue fotografie”; io sul momento ho pensato che mi prendesse in giro, rimasi fortemente sorpreso di essere stato preso, e poi il reale motivo per cui mi scelse per il suo film non l’ho mai capito. Forse semplicemente si è trattato di una coincidenza: il mio cognome è Rubini e Mastroianni ne La dolce vita si chiama Marcello Ru-
bini. Fellini credeva molto nei segni e nel destino, andava sempre in cerca di coincidenze. E’ stato quello il momento in cui ha pensato di iniziare a fare questo mestiere per davvero?
Ho scelto realmente il mestiere di attore a 18 anni, partendo dal mio paesello in Puglia per trasferirmi a Roma e frequentare l’Accademia. Quello è stato il momento in cui ho dovuto decidere di fare un cam- “La creatività nasce dalla voglia biamento per as- di dare senso alle cose ed è secondare la mia legata alla memoria personale: passione, anche da questo punto di vista perché io stavo diventa importante il modo molto bene in in cui riusciamo ad isolare Puglia con mio certi episodi, come possiamo padre e mia ma- fotografarli e vederli da una dre, avevo degli prospettiva piuttosto che da amici fantasti- un’altra” ci. In seguito il resto della mia carriera è avvenuto abbastanza naturalmente e non è stato tutto frutto di scelte quello che ho fatto… A volte tu non fai niente di intenzionale, ma ti ritrovi in balia di certi flussi esistenziali che ti conducono da una parte, piuttosto che da un’altra. Il Sud è qualcosa che porta sempre dentro di sé?
C’è sempre il pensiero del Sud… Tutti hanno un posto dell’anima verso cui ritornare, anche dopo un lungo viaggio in cui hai dimenticato quello che eri in precedenza. Il mio luogo della memoria fa parte della mia storia personale: è il posto dove sono nato, in cui ritrovo i miei genitori, i miei ricordi, le mie origini. Grumo Appula è il mio paese, anche se non vivo più lì da quarant’anni.
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Laura Marinoni
Tra luce e ombra “La curiosità è fondamentale, così come lo studio. Coraggio, costanza, dedizione atletica, disciplina e molta pratica: per essere attori serve tutto”
Spesso viene definita come un’artista eclettica, cantante e attrice allo stesso tempo; come sceglie i diversi personaggi da interpretare?
Non siamo noi a scegliere i personaggi, ma in qualche modo sono loro a sceglierti… Poco è dato al caso: la carriera di un attore dipende molto dall’offerta, dalla scrittura di un’opera e dalla sensibilità dei registi, da quello che loro riescono a vedere in te come interprete. Io ho avuto molta fortuna perché ho sempre potuto recitare grandi ruoli, sia drammatici che brillanti e sicuramente tutti estremamente complessi. Questo aspetto ti aiuta a crescere e a diventare particolarmente duttile in scena: acquisisci una certa capacità di trasformazione, sai ogni volta come cambiarti d’abito nell’interpretazione. Quando insegno ai miei allievi nei corsi allo Sta-
bile di Torino o alla Paolo Grassi e al Piccolo di Milano, dico sempre che il più grande pregio che deve avere un attore è la duttilità perché non bisogna mai rimanere inchiodati né a come ti vedono gli altri né a come tu vedi te stesso. Fare l’attore costituisce un’enorme opportunità di conoscenza, e non solo di se stessi, ma proprio della vita e del genere umano nel suo complesso. Io ho avuto grandi incontri, con veri Maestri – da Giuseppe Patroni Griffi a Giorgio Strehler e Luca Ronconi – e sono loro ad avermi trasmesso una qualità attoriale fatta di più sfumature espressive, definita da molti appunto come eclettismo. Sono un’attrice che ama molto giocare, anche quando interpreto personaggi davvero drammatici; il teatro per me è sempre un divertimento dato dalla possibilità Foto di di distaccarsi da se stessi per in- Paolo Carlini
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terpretare ruoli che nella vita reale sarebbero impossibili. Questo è l’aspetto che più mi appassiona: avere
FOTO FILIPPO MANZINI
E’ vero che non giudica mai i suoi personaggi?
Il giudizio da una parte è necessario, nel senso che occorre avere discernimento, altrimenti non si possono compiere delle scelte artistiche. Però, dall’altra parte, il fatto di non giudicare può essere un grande insegna mento, valido proprio nella vita: non bisogna mai giudicare né se stessi né gli altri perché ognuno di noi ha sempre dei lati nascosti. Nei personaggi positivi in scena cerco delle ombre, e viceversa, nei personaggi più complessi e negativi tento di trovare lati belli. Non esiste solo il bene o il male, e ne sono convinta a livello filosofico: ecco perché essere attori significa avere fiuto ovvero la capacità di intuire anche ciò che sta dietro alle parole di un testo e che l’opportunità di tuffarsi in esperien- appare meno scontato. Del resto, è la ze anche molto distanti da quella che vita a non essere mai scontata; Tenè la mia sensibilità di partenza. nessee Williams a chi lo criticava
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per la complessità del personaggio di Blanche di Un tram che si chiama Desiderio – che ho avuto la fortuna di interpretare grazie alla regia di Antonio Latella – rispondeva: “People are so complex”, quindi è la gente ad essere complicata ed è inutile far finta che i personaggi che Williams scrive
mente intimo, ad un dato ruolo. Il vero nemico in questo lavoro è la genericità, pensare che un personaggio si possa definire solo con tre aggettivi… Bisogna immaginare la sua vita, che sicuramente sarà fatta di luci ed ombre: ecco perché ogni personaggio è soggetto al cambiamento. A me, per esempio, è capitato di riprendere uno stesso spettacolo dopo tanto tempo: essendo cambiata io nella vita, sicuramente si è trasformato anche il mio modo di interpretare lo stesso personaggio. Prima parlava di formazione e di insegnamento; secondo Lei, il talento è qualcosa di innato e raggiungibile in maniera spontanea ?
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
non esistano. Per capire le ragioni di un personaggio occorrono discernimento, sensibilità e ascolto, queste sono caratteristiche che non possono mancare mai. Come diceva Giorgio Albertazzi, un altro dei miei Maestri, il personaggio in sé non esiste: sono la fisicità e il carattere degli attori a dare colore ad un personaggio. Nel lavoro di interpretazione è necessario mettersi a disposizione e offrire qualcosa di personale, di estrema-
Credo che tutti noi siamo dotati non solo di un talento, ma di tanti talenti, a seconda della fortuna che abbiamo di crescere in un ambiente che stimoli la creatività. Da questo punto di vista, gli incontri sono fondamentali: ad alcuni capita di fare incontri importanti per la propria crescita personale da ragazzi, altri sbocciano dopo, ma esistono certe caratteristiche dalle quali non si può prescindere per coltivare il proprio talento. La curiosità è fondamentale, così come lo studio: se si hanno delle doti, si ha anche il diritto e il dovere di lavorare. Citando ancora un pensiero di Albertazzi: “Altro che genio e sregolatezza, ci vuole determinazione per fare questo mestiere”. Coraggio, costanza, dedizione atletica, disciplina e molta pratica: per essere attori serve tutto. Bisogna saper suonare, leggere, fare dei viaggi e avere anche una vita affettiva piena: è dalla vita, infatti, che noi attingiamo per raccontare una storia sul palcoscenico.
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Segni creativi
sempre all'erta Lucia Mascino
Come attrice, da dove nasce la creatività?
Nasce da un’ispirazione e l’ispirazione è uno stato che si può raggiungere attraverso la visione di un’opera artistica, che diventa contagiosa: per esempio, si ascolta una musica e allora si ha un’ispirazione. Io stessa quando vado a teatro sono portata ad avere dei pensieri ispiratori; secondo me, la creatività è come l’arcobaleno o il battito cardiaco, nel senso che è frutto di una serie di cose che capitano, ma nessuno è mai riuscito a trovare la ricetta di questa ispirazione: può essere quella persona che cammina attraverso la sala e ti guarda in un certo modo oppure vedi un gesto che ti colpisce… Ci sono dei momenti nella vita capaci di ispirarti e allora devi essere in grado di catturarli; è uno stato d’apertura, forse, l’ispirazione. Creatività ed eccentricità: qual è il confine? Vale tutto ai fini di una vita creativa?
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
Ognuno ha la sua creatività. Forse tutti gli attori sono degli eccentrici, alla fine. L’eccentricità è una specie di capriccio dell’ego e a volte viene vissuta come un difetto, però in realtà si tratta soltanto di una creatività più visibile e più aderente ad una certa personalità. La creatività è un’attitudine istintuale oppure è qualcosa che necessita di una preparazione?
Quando ero piccola ricordo che si parlava tanto di stimolare la creatività, come se si trattasse di una muscolatura. Nella creatività una parte è natura, l’altra è il risultato dell’azione volontaria. L’importante è applicarsi. Danio Manfredini, per esempio, dice che l’attore non smette mai di lavorare: è l’attitudine creativa che ti fa stare sempre all’erta. Anche quando aspetti l’autobus può arrivare l’intuizione giusta; io spesso registro dei memo vocali, come è accaduto una volta che stavo alla stazione di Mestre: mi sono venuti in mente all’improvviso il personaggio e la parlata di una poetessa russa che ancora non ho utilizzato in scena. Ho avuto un’ispirazione, e magari dopo dieci minuti non l’avrei avuta più…
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Federico Marignetti
A passi di fantasia “Avere fretta, cercare di fare sempre cose nuove. Solo così si può crescere. E io spero di continuare a fare sempre di più...”
Come ha iniziato la carriera nel campo del teatro musicale?
Devo molto alla realtà di Montepulciano, il luogo in cui sono nato, che ospita manifestazioni di opera musicale, in cui l’ambiente del teatro si fonde con la musica. Inoltre, mia madre mi ha sempre spinto a studiare gli strumenti musicali. La passione per la musica può essere anche qualcosa di immediato e quasi inconsapevole, proprio come approccio, mentre credo che il teatro abbia bisogno di una maggiore maturità. Mi accorgo che più vado avanti e più il teatro trova spazio dentro di me. Come si riesce sulla scena a raccontare musicalmente una storia?
Pensando che musica e parola siano la stessa cosa. Se reciti su delle note musicali stai raccontando comunque una storia, non bisogna mai fare l’errore di dire “ora recito, ora
canto”. Credo che essere attori sia un lavoro di artigianato, per cui non si può mai smettere di studiare: come attore devi avere un immaginario vasto da affinare a seconda del periodo storico che rappresenti sulla scena. La tua fantasia deve essere ben nutrita e contano molto anche le persone che incontri: io ho ancora un’insegnante a Roma, Silvia Luzzi, da cui continuo ad imparare e un altro mio grande insegnante è stato il regista Emanuele Gamba. Abbiamo fatto diversi spettacoli di teatro musicale insieme e lo considero un Maestro, a cui devo tanto. Per arrivare a costruire un personaggio occorrono metodo e disciplina?
Il metodo è disciplina. E per fare questo mestiere occorre disciplinarsi nello studio perché c’è bisogno di A sinistra passare proprio del tempo concen- foto di trati a costruire un personaggio che Daniele Cruciani
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deve quasi diventare il tuo pensiero fisso. Penso a Jimi Hendrix che non ha mai seguito una scuola di musica, ma che viveva in simbiosi con la sua chitarra, la teneva perfino sotto il letto… Non basta semplicemente immedesimarsi in un ruolo e appren-
rare fuori nella relazione con il pubblico, a cui bisogna imparare a darsi con generosità. Il pubblico, dal palco, io lo vedo: spesso cantando mi rivolgo proprio agli spettatori, è come se aprissi una parentesi per raccontagli una cosa che non è stata verbalizzata.
FOTO FILIPPO MANZINI
“Il mestiere dell’attore dere la parte a è quello dell’equilibrista” memoria: è ne-
Recentemente ha vinto il Premio come Migliore Attore Emergente*; c’è mai stato un momento in cui ha pensato di avercela fatta e di essere ormai arrivato?
cessario crearsi un background, un bagaglio evocati*Nel 2016 Federico vo da cui attingere per le richieste del Marignetti ha vinto regista. Altrimenti il mio immaginail Premio Persefone rio inconsapevolmente viene filtrato No, assolutamente, non c’è mai come Migliore Attore solo dalla TV e dalla pubblicità, allo- stato. Anzi, io penso continuamenEmergente. Nelle ultime ra diventa vuoto: ecco perché occorre te l’opposto e mi ripeto sempre che stagioni ha lavorato non ho ancora fatto abbastanza… leggere, conoscere ed approfondire. nei musical Romeo e Sono nato prematuro, due mesi priGiulietta di David Zard, Se dovesse spiegare che cos’è ma del temine, e forse questo è un Spring awakening e il mestiere di attore, che cosa aspetto che mi appartiene fin da Musica ribelle (regia direbbe? quando stavo nell’utero: avere fretta, di Emanuele Gamba), È quello dell’equilibrista perché cercare di fare sempre cose nuove. Dorian Gray-La bellezza non ha pietà prodotto stare in scena è come muoversi nel Solo così si può crescere. E io spero da Pierre Cardin. vuoto. Ma il vero coraggio lo devi ti- di continuare a fare sempre di più…
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Segni creativi
Elena Lietti
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
osservando il mondo Come attrice, da dove nasce la creatività?
Non ricordo dove ho letto questa spiegazione – credo di averla trovata in qualche libro – ma la creatività si ottiene quando si nascondono bene le proprie fonti di ispirazione. Il colpo di genio può nascere seguendo tante sollecitazioni: l’osservazione del mondo è fondamentale, ma anche leggere e guardare i film, andare alle mostre, così come semplicemente vivere e lasciarsi guidare dalla propria sensibilità e dall’intuito… Sono convinta che nulla nella vita si crea né si distrugge, ma tutto si trasforma: occorre far sedimentare quello che già abbiamo dentro di noi e poi farci ispirare. L’espressività è un’operazione di elaborazione, più che di creazione. Creatività ed eccentricità: qual è il confine? Vale tutto ai fini di una vita creativa?
L’eccentricità può essere qualcosa anche di molto superficiale, quindi non vedo la creatività e l’eccentricità come due categorie in relazione tra loro. Si può essere creativi ed eccentrici, ma anche eccentrici e non avere niente a che fare con la creatività. Comunque non credo che l’artista, per sua natura, sia particolarmente eccentrico: io conosco molti più attori orsi, timidi e depressi che attori bizzarri… A volte perfino un ingegnere, per esempio, può essere eccentrico, molto più di un attore! La creatività è un’attitudine istintuale oppure è qualcosa che necessita di una preparazione?
La creatività dell’attore è la creatività che vedi nel bambino: bisogna riuscire a mantenerla anche quando si diventa adulti. L’istinto creativo uno ce l’ha oppure no, ma non basta. Puoi avere tutti gli stimoli creativi del mondo, ma se non hai forza di volontà e disponibilità al lavoro le cose rimangono lì ferme, senza prendere il volo. La creatività dell’attore serve per esprimersi e per stare bene, sia con se stessi che per fare stare bene gli altri. Quando le persone escono contente dalla visione di uno spettacolo o di un film, ecco che capisci di aver contribuito come interprete all’esito di un lavoro creativo onesto.
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D A L T E A T R O N I C C O L I N I Il Progetto Niccolini è basato sui principi elencati nel manifesto Per un attore artigiano di una tradizione vivente
1. Il teatro d’arte nasce dal rapporto tra giovani e maestri: trasmissione e scambio sono i principi su cui si fonda ogni realizzazione.
2. La materia prima testuale è la letteratura italiana, la lingua italiana in ogni sua forma e declinazione per un teatro di parola.
3. La dotazione economica per ogni realizzazione sarà delimitata, limitata e sempre uguale.
4. Ogni attore è chiamato a sperimentarsi in ogni mestiere del fare teatro per divenire strumento totale, creativo e consapevole di un nuovo teatro.
5. Costumi, scene e apparati sono realizzati dal Laboratorio d’arte del Teatro della Toscana.
6. Rigore, umiltà, integrità e sincerità sono il metro di valutazione di ogni realizzazione, decisivi per la sua messa in scena.
I
l progetto del Teatro Niccolini che coinvolge i diplomati del primo corso della Scuola per attori Orazio Costa della Fondazione Teatro della Toscana e diplomati di altre scuole di teatro italiane (riuniti sotto il nome de iNuovi) si propone di mettere in atto un percorso per formare quello che pensiamo possa e debba essere il nuovo attore, un attore totale, che agisca secondo un’innovativa idea di teatro dove ci si occupa di tutto, dalla recitazione all’organizzazione, alla comunicazione, alla gestione del luogo teatrale stesso. Questa idea di nuovo attore è connessa all’idea di un teatro nuovo che abbia come scopo quello di ripensare il teatro oggi e riscoprire il valore profondo del mondo classico per metterlo in relazione con pensieri, suggestioni ed esperienze contemporanee. Un dialogo costante tra presente e passato per comprendere meglio le nostre radici e poter lavorare sul futuro, un teatro d’arte che, facendo riferimento alle grandi teorizzazioni di inizio Novecento (Appia, Craig, Antoine, Stanislavskij, Copeau), parta dalle esperienze di Orazio Costa, patrimonio ineguagliabile della Fondazione Teatro della Toscana, per leggere il mondo di oggi e immaginare e preparare quello di domani. Tutto questo passa attraverso una nuova visione e una nuova modalità di lavoro. La nuova visione si basa sulla scelta di un teatro di parola e della letteratura italiana come materia prima testuale: la lingua italiana in ogni sua forma, quindi testi di autori italiani o autori stranieri con autorevoli traduzioni, con riferimento alla tradizione ma anche alla nuova drammaturgia. La nuova modalità di lavoro è quella Giovani/Maestri, dove un maestro, di volta in volta individuato dal gruppo, coordina, sulla base di un progetto formativo e realizzativo condiviso, la messa in scena di uno spettacolo. Il Teatro Niccolini viene, così, interamente gestito da iNuovi. L’attività del nuovo attore quindi, supportato da tutor specifici della Fondazione Teatro della Toscana per ogni attività, comprenderà non solo l’attività di recitazione, ma anche l’apprendimento dei vari mestieri del “fare teatro”, sia artistici che tecnici. In particolare si identificano i seguenti ruoli a cui si dedicheranno gli allievi e che saranno svolti sulla base di una turnazione in modo che tutti si occupino di ogni aspetto: direttore (organizzazione generale del lavoro), amministratore di compagnia, addetto alla organizzazione funzionale (produzione, programmazione, promozione), addetto alla comunicazione, direttore di scena e responsabile tecnico, custode, maschera, pulizie (riassetto serale della sala). Per questo progetto, strutturato su un percorso di tre anni, ad ogni allievo/attore viene versata una borsa di studio mensile. È prevista anche attività formativa su temi come: drammaturgia, inglese contemporaneo, canto, teatro comico, legislazione teatrale, management teatrale, consulenza lavoro, gestione del personale, sicurezza e organizzazione, programmazione e produzione, gestione delle risorse. In conclusione, iNuovi sono il Giovane Teatro della Toscana. Nel contesto del Niccolini di Firenze, rappresentano il volto che questo teatro d’ora in avanti intende mostrare alla città. Lo rappresentano abitandolo operativamente, in tutte le mansioni e funzioni proprie della gestione di un teatro, con lo scopo di costituire un’identità unica, innovativa, e un progetto vero di sostegno tanto alla formazione quanto all’inserimento delle giovani generazioni nel mercato del lavoro artistico e culturale.
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di Pier Paolo Pacini
I Maestri con cui il gruppo dei giovani attori, riuniti sotto il nome de iNuovi, lavoreranno nella stagione 2018/2019 sono: Marco Baliani, Gianfelice Imparato, Andrée Ruth Shammah, Beppe Navello e Glauco Mauri.
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Provando Mandragola... di Marta Bianchera
È
primo pomeriggio, scendo dalla tramvia e arrivo al Teatro Studio, seguo le prove da qualche giorno. Spazzo il palcoscenico e butto qualche cartaccia, qualche bicchierino di caffè. Il disordine degli attori… Spero di doverci fare l’abitudine! I ragazzi, iNuovi, così li chiama il progetto che li riguarda, arrivano alla spicciolata, tutti rigorosamente vestiti di nero. Qualcuno sembra teso, qualcuno affaticato, c’è chi mangia e chi scalda la voce sbuffando mugolii buffi. Dal corridoio centrale arriva Marco Baliani, trafelato ma con lo sguardo dritto, diretto alla sua sedia di regia. Tutti si zittiscono e salutano con rispetto, ma senza soggezione. Ha il tono deciso ma assolutamente mai perentorio: “Ora uno alla
L’attore e regista Marco Baliani durante le prove di Mandragola con iNuovi.
FOTO FILIPPO MANZINI
volta, al centro del palcoscenico, fate un gesto o una brevissima sequenza di movimenti che rappresenti il vostro personaggio. Nulla di descrittivo, meglio una sensazione o un simbolo. Ok? Vai, avanti il primo…”. Così, da poche semplici indicazioni nasce la danza-sequenza dello spettacolo Mandragola: un insieme di movimenti ripetuti, ritmati, che riassumono senza parole l’intera vicenda del Machiavelli. I ragazzi sono pronti, straordinariamente ricettivi. Il mio sguardo si muove curioso dall’attore al regista, nonostante la semioscurità in cui è calato Baliani riesco a cogliere sul suo viso così espressivo lampi di soddisfazione. È colpito da alcuni movimenti, da alcune idee: concetti che solo il corpo, più della parola, può rendere. I capelli stretti con forza in una coda, il segno della croce esegui-
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to con la sinistra (non a caso la mano del diavolo), un indice curioso che tocca qualcosa e subito il corpo rabbrividisce. In altre occasioni il regista mostra questo approccio al lavoro: chiede al gruppo di lavorare su una sequenza del testo improvvisando, lascia così spazio agli attori, giovani e volenterosi di esprimersi, che manifestano tutta la loro creatività. La parte più affascinante dell’assistere alle prove si rivela per me proprio questa: vedere come il regista rielabora gli input dei suoi attori, prende a piene mani e trasforma mettendo ora in gioco la sua di creatività. Rifletto e arrivo alla conclusione che questo spettacolo è un’opera di creatività condivisa. Sono abituata a concepire la creatività come la capacità di un uomo di esprimere la propria personalità in maniera unica e per questo originale. Associo a questo concetto l’artista in solitudine, sostenuto soltanto dal suo genio: immagino il pittore davanti alla tela intonsa o lo scrittore davanti al foglio bianco. Certo, anche il teatro di per sé può nascere dalla concezione unitaria di un regista che appone in toto la pro-
FOTO FILIPPO MANZINI
pria visione ad uno spettacolo, ma nel mondo del teatro la creatività si concretizza sempre nello sforzo comune di più elementi che collimano nell’opera finita. In quei giorni così meravigliosamente intensi ho visto la creatività in chi ha scelto quel preciso punto di rosso per il fondale, ho visto la creatività in chi ha tagliato il legno con così tanta passione, in chi ha pensato che il controluce fosse perfetto per quell’uscita di scena, ecco la creatività anche in chi ha cucito un bottone, nonostante l’abito fosse stato tagliato da un altro sarto. Non mi resta che ringraziare e ritenermi fortunata, perché per un po’ ho vissuto immersa in un mondo di creatività collettiva.
Marta Bianchera studia produzione teatrale, lavora al Teatro della Pergola e ha seguito iNuovi durante le prove dello spettacolo Mandragola, per la regia di Marco Baliani, che è stato in scena al Teatro Niccolini dall’11 al 22 aprile 2018.
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Gianfelice Imparato
comicità ha bisogno di una sapienza sia nella scrittura e sia nella rappresentazione: necessita dunque di una sua grammatica, di una tecnica che aiuti ad individuare i tempi giusti. Grazie a questi giovani attori ho cominciato a tramandare il mio sapere conquistato a bottega in tanti anni di lavoro. Sto fornendo loro delle basi di impostazione sulla tecnica dell’attore: il suggerimento è quello di lavorare per sottrazione, perché voglio far Insieme ai giovani attori de iNuovi capire a questi ragazzi che il teatro del Niccolini, Lei sta affrontando comico ha le medesime necessità di i vari meccanismi legati al teatro apprendimento del teatro drammacomico… tico. La comicità si deve imparare Ho sempre avuto l’idea di con- andando a bottega, proprio come durre un laboratorio sul teatro comi- ha fatto la nostra generazione di atco perché è da tempo ormai che vedo tori cercando di apprendere il teatro
l’esperienza che insegna
Nella foto il gruppo de iNuovi con l’attore e regista Gianfelice Imparato. In piedi da sinistra: Filippo Lai, Francesco Argirò, Sebastiano Spada, Nadia Saragoni, Beatrice Ceccherini, Francesco Grossi, Lorenzo Volpe, Luca Pedron. Seduti da sinistra: Filippo Stefani, Maddalena Amorini, Ghennadi Gidari, Laura Pinato, Davide Diamanti, Claudia Ludovica Marino, Athos Leonardi, Erica Trinchera.
FOTO FILIPPO MANZINI
la comicità relegata ad un ruolo stereotipato comprendente barzellette e sketch di bassa lega… Anni e anni di TV commerciale hanno fatto credere che quella sia l’unica via per la comicità, invece esiste anche una forma di comicità più nobile legata alla drammaturgia del teatro comico. La
nella sua complessità. Uno dei miei Maestri è stato Eduardo De Filippo: l’ho conosciuto nella fase in cui si chiudeva la Compagnia di Eduardo e cominciava la Compagnia del figlio Luca. Eduardo è stato un Maestro, anche se non faceva tanta didattica: piuttosto dava delle indicazioni sul
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campo, molto empiricamente e in modo assolutamente laconico, che nascondevano però delle grandi lezioni di vita. L’altro mio grande Maestro è stato Carlo Cecchi e alla fine ho scoperto che l’essenza delle lezioni era comunque la stessa: io dico sempre che l’attore non deve occuparsi del come e anzi bisogna che si occupi del cosa pensando a ciò che sta dicendo, rivolgendo attenzione all’ascolto. Soltanto così si arriva ad una naturalezza espressiva che è frutto di un percorso di ricerca talmente complesso, ma che si è riusciti ad assimilare e dunque a rendere naturale. E questo anche se non esiste niente di più innaturale del teatro... Grazie all’esperienza con questi ragazzi è un po’ come se si fosse chiuso un cerchio per me: con la prima Compagnia di Luca De Filippo e con la regia di Eduardo, infatti, debuttammo alla Pergola agli inizi degli anni ‘80, mentre negli anni in cui lavoravamo con Carlo Cecchi il Niccolini era la nostra casa. Sono felice di questa combinazione attuale che mi fa lavorare con iNuovi tra Pergola e Niccolini.
tere le qualità dei loro tempi e delle loro intenzioni drammatiche perché sarebbero stati più preoccupati di come dire la parola in napoletano corretto, piuttosto che stare attenti alla scena. Eduardo De Filippo è un autore universale ed il teatro non ha frontiere: anche traducendo il testo in un’altra lingua i meccanismi drammaturgici non cambiano, questo è l’aspetto che mi interessava
fargli capire. Questi giovani attori stanno utilizzando l’italiano, ognuno con la propria musicalità: ci sono settentrionali e meridionali, ma i A prima vista la napoletanità tempi comici funzionano lo stesso. sembra lontanissima da Firenze, Lavorando con i giovani ho scoperto anche se in realtà Eduardo ha che lo scambio è reciproco: questi raavuto in questa città la sua gazzi mi danno entusiasmo e la vobottega teatrale. Per lavorare glia di fare, di inventare sempre cose con iNuovi del Niccolini ha attinto nuove. Il loro entusiasmo è uno stimolto dal repertorio comico di molo anche per me e mi accorgo che, Eduardo? attraverso di loro, riesco a tirare fuoStiamo lavorando sugli atti uni- ri delle idee che avrei lasciato sopite ci di Eduardo, anche se ho deciso di se non ci fosse stata questa occasione. non far parlare i ragazzi in napole- E lo stesso credo valga per questi giotano. Non volevo che sembrasse una vani: se il talento nasce da un’esigencosa finta, in cui ci si sforzava di za inderogabile e vitale, il confronto parlare una lingua non propria. Ciò con i Maestri può aiutare a costruire avrebbe potuto anche compromet- e ad affilare la propria passione.
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
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Andrée Ruth Shammah
nuovamente a questo autore ma come partendo da zero. È come se avessi ricominciato insieme con loro a studiarlo. Se ci si pensa, Manzoni aveva compiuto un viaggio da Milano verso Firenze per “sciacquare i panni in Arno” dal punto di vista linguistico e per scrivere I promessi sposi: un viaggio Milano-Firenze, e ritorno, che assomiglia un po’ al viaggio verso la Con I promessi sposi alla prova cultura milanese intrapreso da questi di Testori ritorna ad un nuovo ragazzi che si confronteranno con la allestimento di questo autore, parlata lombarda, anche se non diafrutto anche dell’incontro con lettale. Con questo nuovo progetto è i giovani attori de iNuovi del come se tutto ricominciasse da zero, Niccolini ovvero i diplomati del con lo scopo di ritrovare insieme, anprimo corso della Scuola per attori cora una volta, il senso del fare teatraOrazio Costa della Fondazione le; anche per questo motivo io vorrei Teatro della Toscana… provare a non pensare al fatto che ho Conosco molto bene Testori per- già messo in scena questo spettacolo ché ho già allestito in passato le sue nel 1984 in un’edizione memorabile opere e invece per questi giovani era capitanata da Franco Parenti, l’interprete per cui è stato adattato il testo originario. Il mio desiderio è di individuare le ragioni di una riflessione su come sussista ancora oggi, più che mai, la necessità di rappresentare quest’opera. Testori e Manzoni hanno tanto da dare, in termini di poetica e bellezza. Ci sono dei testi che un autore tutto da scoprire; iNuovi diventano molto importanti da rihanno un modo di approcciarsi a proporre in certi momenti storici sia Testori in maniera quasi inconsape- per il pubblico che li vedrà e sia per vole perché conoscono poco la storia i giovani che li percorreranno sulla lombarda e, allo stesso modo, mi di- scena. I promessi sposi alla prova è vertiva il fatto di avvicinarmi anch’io sicuramente uno di questi. Riguar-
amore e sfide
FOTO FILIPPO MANZINI
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do a questo nuovo allestimento de I promessi sposi alla prova esiste una meravigliosa coincidenza: Luca Lazzareschi, che ricopre il ruolo del maestro nello spettacolo, ha avuto nella sua vita come Maestro Orazio Costa e la scuola da cui provengono questi giovani attori è dedicata, appunto, ad Orazio Costa. Sarà davvero una bella coincidenza nello spettacolo sentire come il maestro, Lazzareschi appunto, continui a ripetere ai giovani: “Come mi ha detto il mio Maestro…”. Si tratta di tramandare da una generazione all’altra lo stesso insegnamento e di trasmettere ciò che un maestro è in grado di dare.
sistere a delle prove aperte al pubblico è di per sé un fatto prezioso ed eccezionale, soprattutto quando si ha la possibilità di vedere provare la recitazione: la gente non si rende conto di quanto lavoro ci sia dietro ad un sipario. Nessuno pensa che una certa battuta abbia richiesto tanto lavoro. Io dico sempre che l’attore si può para-
Ne I promessi sposi alla prova i personaggi sono messi alla prova dalla vita, dai sentimenti e dalla quotidianità. Anche Filippo Timi si è messo, in qualche modo, in gioco al Teatro Niccolini con le prove del suo nuovo spettacolo, Un cuore di vetro in inverno. È vero che lo spunto iniziale di questo testo di Timi è partito da Lei?
Entrambi gli spettacoli presentano una messa a nudo dei sentimenti, una sincerità che è importante sia per affrontare i classici come I promessi sposi e sia per realizzare il nuovo spettacolo di Filippo Timi. Lui stava attraversando un momento meraviglioso di poetica fragilità e si è messo alla prova facendo nascere questo testo, così spontaneamente, senza una correzione. La prima volta che me lo ha letto, io mi sono incantata. Le parole avevano una tale purezza e bellezza… Filippo ha deciso di mettere in prova il suo nuovo lavoro a Firenze perché si sente amato da questa città. Si è sempre sentito a casa alla Pergola. Avere comunque l’opportunità di as-
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
gonare ad un funambolo che cammina sul filo: se il pubblico ne avverte la fatica significa che sta cadendo… Occorre invece muoversi con leggerezza perché tutto appaia facile, eppure quante ore e ore di duro lavoro per
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camminare su quel filo e non morire. Il funambolo rischia la vita, mentre in teatro si rischiano altri tipi di ferite e, anche se non si vedono, sono talmente profonde… Il progetto legato a Un cuore di vetro in inverno è nato un giorno in cui Filippo mi ha detto: “Vorrei ricominciare a recitare”, e io gli ho suggerito di preparare per ogni lunedì un monologo che ruotasse attorno a delle parole che per lui erano importanti in quel momento. Ogni lunedì una parola diversa: la paura, la purezza, la sfida, l’amore… Filippo
glioso ed ispirato, con lui che mi ha recitato leggendo ogni ruolo con tutte le voci differenti… In questo spettacolo di Filippo Timi un cavaliere affronta le proprie paure…
Il testo che Filippo mi leggeva era commovente perché conteneva gli stessi temi che lui stava affrontando come artista: un cavaliere umbro – luogo di nascita di Timi – che sfida i propri timori indossando una corazza che lo proteg-
FOTO SEBASTIANO MAURI
“Il funambolo rischia la vita, ma in teatro si rischiano altri tipi di ferite e, anche se non si vedono, sono talmente profonde…”
è arrivato a portarmi quello che poi è diventato il testo di questo nuovo spettacolo diversi giorni dopo rispetto a quanSopra Andrée Ruth do gli avevo fatto questa proposta, Shammah e Filippo Timi facendo un lavoro molto profondo alle prove del nuovo su se stesso. Mi ha detto che non gli spettacolo Un cuore di era venuto di scrivere per ogni lunedì, vetro in inverno, di e con ma aveva buttato giù invece il testo di Filippo Timi, al Teatro Un cuore di vetro in inverno partendo Niccolini. Lo spettacolo andrà in scena al Teatro da quelle parole che gli avevo suggedella Pergola nella rito di sviluppare. Mi sono ritrovata stagione 2018/2019. questo scritto davanti così meravi-
ge. Quando se la toglie arrivano la scoperta dell’amore e il coraggio di affrontare, utilizzando le proprie fragilità, i combattimenti della vita. Si indaga anche il senso della nostra esistenza perché appaiono le figure dell’angelo e della Madonna, che diventano come dei simboli. In questo spettacolo, di impronta esplicitamente autobiografica come tutti gli spettacoli di Filippo Timi, convivono tanti temi e uno in particolare che prevale su tutti: riuscire a superare la paura ed accettare la sfida dell’amore.
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Segni creativi
la fantasia che salva Marina Rocco
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
Come attrice, da dove nasce la creatività?
Dalla disperazione, è veramente la prima cosa che mi viene in mente… Quando ti ritrovi come in una stanza dove non individui più la porta, quando senti di non avere via d’uscita e di essere da sola, la creatività è quella forza che tiri fuori da te stessa per rialzarti. La mia creatività nasce essenzialmente da un dolore, ma non in senso negativo, anzi: semplicemente, ad un certo punto della mia esistenza, l’unica porta che ho trovato da aprire è stata quella della mia immaginazione e creatività. Ed è stata una fantastica porta per entrare nel mondo, l’unica possibile per me. Creatività è dare una risposta ad una domanda che hai dentro, una domanda a cui tu da sola non puoi rispondere… Per riuscire a sopravvivere devi inventarti qualcosa, ed ecco che nasce la creatività. Creatività ed eccentricità: qual è il confine? Vale tutto ai fini di una vita creativa?
Per me, nel momento in cui si riesce ad esprime se stessi vale tutto! E penso che ciò sia valido non solo per chi fa dell’espressione artistica il proprio mestiere, come l’attore, il pittore o lo scultore, ma proprio in generale per tutto il genere umano nel suo complesso, a prescindere dal mestiere: anche per chi va a lavorare in banca… L’eccentricità, quando si sposa con l’autenticità, va sempre bene. La creatività è un’attitudine istintuale oppure è qualcosa che necessita di una preparazione?
Diciamo che la preparazione e lo studio sono elementi che fanno aumentare la creatività. Lo studio è la principale fonte di ispirazione che si possa sperimentare nella vita: basta pensare a quando a scuola incontri l’insegnante giusto, capace di far sviluppare le tue passioni. Avere una passione e applicarsi, prendendosi cura dei propri sogni, è il motore più grande che si possa avere.
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Bastimenti d’animo vagabondo Il prodigio di padre in figlio di Girovago e Rondella Family Theater
di Matteo Brighenti
L
a creatività è la pratica dell’esperienza. Coltivare bellezza, condividere passione. Una collezione di momenti, avventure e rivelazioni, che Girovago e Rondella Family Theater raccoglie a teatro come a casa. Questa famiglia viaggiante è composta da Girovago e Rondella, i genitori Marco Grignani e Federica Lacomba, e dai loro 3 figli, Rugiada, Timoteo e Tommaso, che con i fratelli Facundo e Santiago Moreno formano la Compagnia Dromosofista. “La creatività – afferma Rugiada Grignani – va coltivata accumulando emozioni, vivendo le scelte di vita in modo che siano belle, che valga la pena ricordarle. È una questione di memoria”.
La creazione artistica nasce così dalla ricerca nel quotidiano, uno studio lungo decenni, che una volta in scena si deposita magicamente con leggerezza e semplicità assolute. “Nel nostro caso – dice Federica Lacomba – il racconto non ha bisogno della storia, ma di tutto quello “La creatività va coltivata che c’è intorno. Sono gli oggetti, le luci, lo spazio, a reaccumulando emozioni, stituire sensazioni e situazioni”. “Anche il pubblico fa vivendo le scelte di vita in modo uno sforzo creativo – interviene la figlia – l’artista non che siano belle, che valga esaurisce l’inventiva, lo spettatore la completa dando la la pena ricordarle” sua interpretazione di ciò che vede”. Riprende la madre: “C’è uno scambio energetico, per questo chi esce dai nostri spettacoli è felice, perché ha partecipato, ha ricevuto e donato emozioni”. Un rapporto di forze, nota Tommaso Grignani, “aiutato dal fatto di trovarci in luoghi intimi, dove l’attore è “nudo”, ma pure lo spettatore lo è, se voglio posso guardarlo negli occhi: quando capita in una sala canonica?”. Già, perché il loro raggio poetico è il teatro di figura, portato di recente a Modena, sulla piazza di Trasparenze Festival, con i Teatri Mobili: il TeatroBus e il Camion Teatro, in cui prendono forma Manoviva e Antipodi. Entrambi sono il risultato di attività sul campo dal Brasile all’India, passando per Francia, Olanda, Germania, Taiwan, Israele. Migliaia di chilometri iniziati da Girovago e Rondella negli anni ’80 su una barca-teatro nel mar Egeo (ricorda i TeatridiMare della Compagnia çàjka, ne parlammo con Francesco Origo precedentemente sui Quaderni della Pergola). “Marco compra un peschereccio di 18 metri – ricorda Lacomba – ci costruiamo sopra un teatro, con gli spettatori seduti sul molo. Cominciamo a fare spettacoli senza parole – continua – è più facile, non parlando la lingua del posto.
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Quando torniamo in Italia, dopo 15 anni di Grecia e Turchia, proviamo a rintrodurre le parole, ma capiamo che non ce n’è bisogno. Se non parli, puoi andare dove vuoi, ti capiscono tutti. Il teatro di figura l’abbiamo scelto perché ci piace costruire”. Dopo la barca, il teatro di strada, dopo aver fatto base a Rodi, Creta, nel Nord Italia, a Roma, adesso a Viterbo e Barcellona, sono arrivati all’idea di portarsi il palcoscenico direttamente in tournée, su un autobus e un camion. “Ti cali nella realtà sociale di paesi più o meno grandi, che magari non hanFOTO STEPHANIE GENGOTTI
no nemmeno un teatro – spiega Rugiada Grignani – entri a far parte di un Girovago e Rondella paesaggio e cambi, momentaneamente, il punto di vista di chi lo vive tutti Family Theater i giorni”. La meraviglia di Manoviva e Antipodi procede per visioni, non per temi. “Noi giochiamo con le apparizioni – prosegue – le ombre, la manipolazione di oggetti, il teatro fisico, evocano un’immaginazione, un mistero, che va oltre il mero racconto di una storia con un inizio e una fine”. La libertà in scena è lo specchio della libertà che vivono fuori. Forse, non c’è nemmeno differenza, il palco su un camion e un bus testimonia che il teatro è la vita e la vita è il teatro. Per tutta la famiglia. “È stata un’evoluzione naturale – concludono Federica Lacomba, Rugiada e Tommaso Grignani – il nostro non è un lavoro, è un modo di vivere. Nelle famiglie tradizionali se ti incastri in un ruolo sei costretto a mantenerlo, pure se non ti rappresenta. A teatro, invece, il ruolo che scegli rispecchia un tuo bisogno e comunque è temporaneo: noi abbiamo la possibilità di reinventarci continuamente”.
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Mi unisco alle parole e mi lascio dire
Adelaide Mancuso e l’orizzonte Collettivo Teatrale Informale
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FOTO ISABELLA GHIDDI
Adelaide Mancuso in Briciole
a creatività è sapere riconoscere i propri limiti. E avere l’umiltà di chiedere aiuto. Ogni punto di forza nasce da un momento che ha guardato oltre la sua evidente debolezza. “È lì che cresci, quando ti confronti – afferma Adelaide Mancuso – sono curiosa, non mi accontento, ho bisogno di sperimentare. Sennò, non avrei cambiato Paesi e modi di fare teatro”. L’ultimo nuovo inizio della trentenne attrice fiorentina è il Collettivo Teatrale Informale, all’origine della rassegna itinerante SEI Seincontri.Sei. “Ci siamo ingegnati, abbiamo fatto di necessità virtù, senza lamentarci come tanti altri. Il Collettivo non è passato per i circuiti tradizionali, è uscito dagli schemi. Io nella rete ci credo: è una cosa che oggi manca”.
Questa novità produttiva-distributiva ha affrontato l’altezza della sfida fin dai 1000 metri sul livello del mare del festival Montagne Racconta, l’estate scorsa a Larzana, comune di Montagne, provincia di Trento. “Ci sono andata per il Laboratorio di narrazione di Francesco Niccolini e Roberto Aldorasi. Dovevamo scrivere un monologo da presentare al festival.
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La sera finale, al tavolo dove facevamo riunione, ci siamo guardati e ci siamo detti: non vogliamo mollare”. Sono scesi in pianura insieme e hanno dato vita al Collettivo Teatrale Informale, che ha portato in tournée tra Toscana, Emilia Romagna e Sardegna, Alessia Cespuglio con Fango Rosso, Fabio Marceddu con Alfonsina Panciavuota, Francesca Grisenti ed Eva Martucci con Sorelle Prosciutti, Stefano Santomauro con Like, Giulia Vannozzi con Sottopelle e Adelaide Mancuso con Briciole. Non si conoscevano, eppure hanno avuto fiducia l’uno nell’altro, maturata dall’osservazione reciproca della dedizione al lavoro. “Unire le forze ci ha permesso di avere 6 date garantite nel 2017/2018. Ognuno si è mosso sul suo territorio, promuovendo se stesso e il Collettivo. Raggiunto l’obiettivo per tutti, siamo liberi di proporci singolarmente”. Quando è toccato a lei, Mancuso ha bussato a tanti sipari, tra cui quello del Teatro Comunale di Antella, a Bagno a Ripoli. “Riccardo Massai è stato l’unico che mi ha risposto. Ci ha messo in coda alla stagione, un testo a settimana il giovedì, da aprile a maggio. Sono stata per anni la sua aiuto regista: mi ha lasciato carta bianca sulla programmazione. Mi è sembrato giusto mettere in apertura Sottopelle e in chiusura Sorelle Prosciutti”. La produzione è no budget, l’inventiva è artigianale anche sopra al palco, non soltanto fuori. “Fa parte dell’arte dell’arrangiarsi, abbiamo cercato di ridurre i costi al minimo. Il teatro di narrazione lo permette, basta una sedia e un proiettore”. Briciole è il suo primo spettacolo solista, creato però “collettivamente”, dai testi confrontati con Niccolini alla regia curata da Anna Meacci. “Anna sa divertirsi, lavora con piacere e ha una grande profondità. Riesce a sdrammatizzare, a metterti a tuo agio, a farti ridere. Sì: avevo un sacco di paura”. Questo monologo segna per Adelaide Mancuso il ritorno al teatro di parola, lasciato nel 2013 dopo il diploma alla Scuola di recitazione del Teatro Metastasio di Prato. È stata in Francia e in Spagna, ha lavorato come organizzatrice, assistente, nel circo e nel Teatro de Los Sentidos di Enrique Vargas. “Il teatro sensoriale mi pareva la liberazione da tutti i mali, è un gioco fisico, non devi sforzare la gola. Durante la Scuola mi sono operata di due polipi alle corde vocali: sono stata muta per 45 giorni. Poi la voce non mi reggeva, non era più come prima. Un limite enorme e, allo stesso tempo, ciò che mi ha fatto maturare maggiormente”. Da un anno e mezzo è rientrata in Italia e il Collettivo Teatrale Informale le ha tolto dall’angolo l’orizzonte per ritrovare se stessa. E la voglia di dirlo. “Manco di equilibrio, mi devo rimisurare, la parola è importante come un gesto: è difficile, ma è bellissimo. Mi piacerebbe che aderissero altri narratori, che il Collettivo si ingrandisse. Scriviamo nuovi monologhi e la prossima stagione riprendiamo a girare”. (M.B.)
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Roberto Bacci
in cerca di domande
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Lei è stato, ed è, un rappresentante della sperimentazione e del teatro di ricerca in Italia. Che significato assume per Lei oggi la parola ricerca?
Bisogna prima cercare di capire qual è il senso del teatro nella sua accezione più generale. Fare teatro ha “Dobbiamo imparare a ragionare al contrario, sempre rappresentato il tentativo di riflettere su come fare a perdersi per ritrovare noi riflettere la realtà umana, costruenstessi… Bisogna ‘creare le condizioni’ - parole per done una artificiale sulla scena. E me fondamentali - per raggiungere la creatività” questa esistenza costruita è sempre stata alla fine più reale e più consapevole di quella che invece viviamo quotidianamente: nella vita noi siamo degli esseri umani più o meno addormentati e il teatro costituisce un tentativo di risveglio. Ciò è necessario per raggiungere la verità, o
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per lo meno la verità cercata che io potrei tradurre con la parola ricerca. La mia risposta alla tua domanda contiene, a sua volta, una serie di interrogativi: esiste un teatro che cerca, o che appunto ricerca, questa realtà sulla scena? La ricerca dell’oggettività e della verità non è una questione solo di linguaggi utilizzati, anche perché oggi esistono tante tipologie di linguaggi. Se invece ognuno di noi compie una ricerca dentro se stesso, potenziando la propria attività artigianale – perché il teatro può essere anche un’attività artigianale – e non rincorrendo solo il denaro o il successo, ecco che il teatro funziona e diventa il modo di portare fuori da sé qualcosa di profondo. Questo tipo di ricerca quindi può esistere, anche se è chiaro che in un mondo come il nostro è più difficile: oggi in teatro c’è bisogno di numeri e di compromessi. La ricerca esiste quando esistono domande vere, non esperienze superficiali. Quali sono gli interrogativi attuali più impellenti, che necessitano di una risposta?
Sono le domande, anche se rimangono inespresse, che ci poniamo tutti… Con Michele Santeramo, per esempio, abbiamo fatto lo spettacolo Il nullafacente; ci abbiamo lavorato due anni, ci siamo interrogati sull’esistenza: perché non possiamo rinunciare alla vita così come ci viene offerta dalla realtà? Stiamo già pensando al prossimo spettacolo che probabilmente avrà il titolo Svegliami e le relative domande, in cerca di una risposta, sono: che cosa è necessario svegliare? Che cosa dorme dentro di noi? È difficile che io faccia uno spettacolo che non contenga
domande come queste perché sono degli interrogativi universali. Spesso certe domande stentano ad affiorare alla coscienza degli individui, ma il teatro può sollecitare questo tipo di meccanismo interiore. Per questo mi ostino a fare spettacoli per sessanta persone, perché li considero come spettatori e non semplice pubblico: è la relazione che si instaura tra noi ad essere preziosa.
FOTO SIMONE ROCCHI
Per riuscire a fare teatro di ricerca occorre avere creatività?
Credo che il segreto di ciò che si chiama creatività sia riuscire a perdersi. È una cosa molto difficile perché la nostra formazione proviene dalla scuola, dalla famiglia e dalla società che ci circonda: l’apprendimento avviene per un’accumulazione di informazioni e di regole comportamentali. Cresciamo e diventiamo adulti sottomettendoci ad un ordine prestabilito, ad una certa economia e religione. La somma di questi doveri rischia di ostruire la nostra creatività, allora occorre liberare il pensiero che nasce dall’accumulazione. Dobbiamo imparare a ragionare al contrario e a riflettere perché bisogna creare le condizioni - parole per me fondamentali - per raggiungere la creatività.
Nella pagina accanto Roberto Bacci, Direttore Artistico del Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale di Pontedera, con Eugenio Barba in una foto di repertorio di Tony D’Urso.
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La Storia racconta...
Tempi di ricre-Azione
di Adela Gjata
T
ra le parole più elastiche, capaci di coprire una vastissima area semantica, è sicuramente il termine “teatro”: in origine indica lo spazio da cui si guarda lo spettacolo, nel Rinascimento comprende la messinscena e solo alla fine del Cinquecento la parola “teatro” denota anche le opere drammatiche, confermando così la tradizione occidentale che definisce la pratica scenica come interpretazione o rappresentazione di un testo. La difficoltà di definire univocamente il termine “teatro” è, del resto, sintomo della sua ingenita capacità di trasformazione e reinvenzione che, come la fenice, rinasce continuamente dalle proprie ceneri.
Nel corso del Novecento la prassi e la rilevanza sociale del teatro si trasformano irrevocabilmente; al teatro d’autore succede quello di regia e poi quello d’attore, al teatro di interpretazione il teatro immagine, il teatro rituale e cerimoniale, e ancora il parateatro che annulla definitivamente la distanza fra attori e spettatori. I capisaldi dello spettacolo borghese vacillano nel profondo: la quarta parete viene demolita; attori e spettatori stanno sullo stesso piano, scambiandosi, talvolta, i ruoli; l’attore è soppiantato dal performer; lo spettatore assume lo status di partecipante o testimone. La stessa nozione di “teatro” diventa inadeguata e inefficace. Dopo svariate dichiarazioni di ‘andare oltre il teatro’, si giunge alla performance, in cui l’attore non si nasconde più dietro il personaggio, ma recita se stesso, come gli antichi giullari. Il teatro si mette in gioco contaminandosi fin nelle viscere con le arti figurative, la musica, la danza, il mimo, le videoproiezioni, le cerimonie orientali, la sociologia e l’antropologia. Personaggi come Richard Schechner, Meredith Monk, Virgilio Sieni, Eugenio Barba e Pina Bausch hanno praticamente annullato i confini tra diverse espressioni artistiche. “Io lavoro tra le crepe, dove la voce inizia a danzare, dove il corpo inizia a cantare, dove il teatro diventa cinema”, questa frase di Meredith Monk sintetizza magistralmente la propulsione alla sperimentazione e alla ricerca dell’arte contemporanea. Le pratiche teatrali contemporanee rigettano la teoria mimetica risalente a Platone e Aristotele: l’arte non è più un modo di imitare la realtà, bensì un evento attraverso il quale l’artista esprime la propria visione del mondo. Da qui il dilagare di espressioni artistiche quali Action oppure Happening, termine, quest’ultimo, coniato per la prima volta dallo statunitense Allan Kaprow nel 1959, quando presentò alla galleria Reuben di New York la sua
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18 Happenings in 6 Parts, opera multidisciplinare ispirata all’action painting e alle performance di John Cage, che prevedeva l’interazione con il pubblico. Spesso il traguardo non è più lo spettatore, bensì il performer, che utilizza le pratiche teatrali come strumento di conoscenza ed esplorazione; il prodotto spettacolare diventa processo teso all’armonia psicofisica dell’uomo, in quanto solo cambiando l’individuo si potrà arrivare a cambiare, forse, il mondo. A quest’ultima dimensione vanno condotte le sperimentazioni di Jerzy Grotowski, regista pedagogo polacco tra i più influenti del Novecento, che ribattezzò le sue ultime ricerche post teatrali ‘arte come veicolo’: l’arte serve sostanzialmente a trasformare l’energia ‘grossolana’ del performer in un’energia ‘sottile’, più leggera e luminosa; trasformazione che può – per induzione – verificarsi anche nello spettatore-testimone. La performance art può essere interpretata, in ultima analisi, come educazione alla libertà e alla creatività, con esiti talvolta estremi. È il caso della controversa Marina Abramović, la “nonna della performance art”, che con le sue opere sfida i limiti della condizione umana e, di conseguenza, le reazioni degli astanti, a partire dalla celebre Rhythm 0 del 1974, quando l’artista montenegrina mise a disposizione dei partecipanti diversi strumenti di piacere e dolore – tra cui piume, Marina Abramović fiori, acqua, pistole, coltelli e rasoi – che essi potevano utilizzare liberamente in Rhythm 0, 1974 sul suo corpo inerme per sei ore consecutive. Ciò che era iniziato in sordina esplose poi in uno spettacolo pericoloso e incontrollato: le lamette furono utilizzate prima per tagliare i vestiti della performer e dopo la sua pelle. Il climax si raggiunse quando l’artista si ritrovava in mano un’arma carica con il dito posto sul grilletto, condizione che portò a un tafferuglio tra il pubblico diviso nel gruppo degli istigatori e quello dei protettori. La tensione a produrre ‘nuovo’, che dominò tanta produzione artistica e letteraria del Novecento, vige tuttora. I suoi fautori, spesso impegnati a contestare la mercificazione del teatro, non si sono resi ben conto che il concetto stesso di ‘novità’ è in fondo una nozione commerciale, in quanto come ha ripetuto Eric Hobsbawm, l’autore de Il secolo breve, “la novità è diventata il principale richiamo per poter vendere qualunque cosa, dai detersivi alle opere d’arte”.
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L’Oltrarno intuito, talento, disciplina Trienno 2015/2018 In questa pagina dall’alto a sinistra: Sara Bosi, Lorenzo Carcasci, Cecilia Casini, Giacomo Coen, Maria Costanza Dolce Nella pagina accanto dall’alto a sinistra: Camille Dugay, Maziar Firouzi, Giulia Lanzilotto, Luca Massaro, Stefano Parrinello, Giovanni Toscano
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ne reali che incarnavano altre vite, con il fine di intrattenere gli spettatori e facendoli stare meglio o comunSara Bosi que insegnandogli qualcosa. In una Il desiderio di essere attrice na- recita alle elementari abbiamo messo sce per amore. Mi ero follemente in scena Il piccolo principe e quello innamorata del mio maestro delle spettacolo mi ha cambiato la vita: elementari che mi scelse per fare Ce- non avevo mai fatto una cosa del generentola nella recita scolastica. Da nere prima, provavo e riprovavo perquel momento ho iniziato a fare tut- ché non sapevo come fare a stare in ti i corsi di teatro, tenendo sempre a scena. Ricordo che sul palco iniziai DA DOVE NASCE IL DESIDERIO DI ESSERE ATTORI?
FOTO FILIPPO MANZINI
mente le parole del mio maestro Pietro… Se dovessi spiegare che cos’è diventato ora il teatro per me direi che è il risultato di quei momenti in cui ti si apre il cuore per farci entrare i sentimenti che la quotidianità rende lontani. Il teatro è concime per il cuore.
ad improvvisare un balletto, non so cosa mi prese, era qualcosa più forte di me… Vedevo che la gente rideva con me e non di me: era la prima volta che capitava, così a 10 anni decisi che avrei votato la mia vita alla recitazione. Credo che alla base di ogni attore ci sia il coraggio di sacrificare Lorenzo Carcasci qualcosa di sé, in modo da coinvolHo sempre avuto una grande pas- gere più persone possibili e attuare sione per il cinema; mi affascinava un cambiamento in chi guarda uno guardare sullo schermo delle perso- spettacolo.
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Cecilia Casini
Da bambina io ero timidissima, mentre mio fratello era quello più spigliato e tutti pensavano che sarebbe stato lui l’attore in famiglia… Poi in teatro, in un corso al Goldoni a Livorno, ho incontrato delle bellissime persone che mi hanno fatto desiderare di fare lo stesso loro mestiere. Ho capito che giocare e raccontare storie poteva anche essere un lavoro: ne sono rimasta affascinata. La cosa più difficile dell’essere attrice è il fatto di mostrarsi davanti a delle persone che non conosci, ma di cui ti devi fidare perché comunque sveli una parte di te in scena che magari non mostreresti mai nella vita.
Camille Dugay
La mia famiglia lavora interamente nel cinema e il mio primo ricordo del set, che risale a quando ero molto piccola, è legato ad un film con la regia di mia madre, Francesca Comencini. Dovevo girare una scena di una litigata enorme tra una madre e una figlia, non avevo un copione e mi è stato chiesto di improvvisare: ad un certo punto mi è uscita una voce non mia, incrinata dalle lacrime. Per la prima volta ho sentito di poter dire una verità, ma attraverso la voce di qualcun altro. Se mi chiedo perché ho scelto di fare questo mestiere, è sempre quel momento lì che mi viene in mente… Trovo che avere l’opportunità di lavorare riuscendo a smuovere, attraverso la tua interpretazione, dei sentimenti o anche un solo pensiero nel pubblico sia un grande privilegio. Credo, dunque, che il compito del teatro sia quello di creare delle utopie.
Maria Costanza Dolce
Io sono di Roma e ho avuto la possibilità di vedere tanti spettacoli fin da molto piccola, quindi il teatro si è sedimentato e mi è cresciuto dentro, in qualche modo: per tutte le elementari ho fatto un corso di recitazione con Barbara Porta e io ero sempre quella più entusiasta, ci tenevo ad avere il mio nome in locandina come aiuto regia… Il mestiere di attrice è molto minuzioso perché comporta un lavoro continuo; il termine attrice, proprio etimologicamente, significa colei che agisce in funzione di una storia, la persona che porta avanti il racconto.
Luca Massaro
L’idea di fare l’attore è partita da piccolo: io parlavo e la gente rideva… Mi dicevano tutti che dovevo fare teatro e così ho iniziato con un corso amatoriale a Messina. Ad un certo punto della mia vita non mi bastava più la comicità, mi sentivo incasellato in un ruolo, ed è per questo motivo che ho provato ad entrare all’Oltrarno. Ho pensato che un attore come Favino mi potesse capire e al provino ho portato il monologo di Mercuzio da Romeo e Giulietta e un altro pezzo tratto da Mamet, anche se tutti mi sconsigliavano perché quel monologo lo aveva fatto in passato Al Pacino. Sono entrambi dei ruoli tragicomici, non vanno in un’unica direzione, e la cosa bella è che nessuno della commissione mi ha stoppato durante il provino: ho recitato fino alla fine, per più di dieci minuti. Ne sono stato estremamente felice: ho pensato che forse si fossero interessati a me…
L’Oltrarno, Scuola di formazione del mestiere dell’attore, nasce all’interno della Fondazione Teatro della Toscana. Sotto la direzione artistica di Pierfrancesco Favino e con il coinvolgimento di insegnanti di caratura internazionale, la Scuola è stata aperta nel 2015; nell’autunno 2018 partirà il secondo triennio di studi.
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QUESTA SCUOLA VI HA INSEGNATO AD ESSERE CREATIVI?
Stefano Parrinello
Credo che l’intento di questa scuola sia riuscire a far emergere
cano di farti conoscere intimamente e fisicamente per arrivare all’atto della recitazione svelando te stesso. Essere attori significa anche arrivare a conoscere le proprie paure, soltanto così è possibile esprimersi. La scuola ti dà degli strumenti per arrivare ad essere ciò che il regista richiede: l’importante è agire con consapevolezza e senza finzioni. Forse l’insegnamento che più mi ha colpito è stato il metodo Linklater che si fonda sul principio di liberare la propria voce naturale. Prima credevo che a teatro o al cinema fosse necessario impostare una voce ovvero studiare una voce che fosse fuori da me, che non mi appartenesse, mentre in realtà il punto è che bisogna semplicemente riconoscere delle abitudini che danneggiano la voce. Di solito si tratta di tensioni fisiche che partono dalle nostre paure: una volta che si è liberi dai propri timori, si è anche liberi di accettare se stessi.
Sara Bosi
FOTO FILIPPO MANZINI
Frequentare questa scuola è stato bello, ma anche terribile perché ti viene chiesto di essere te stessa e l’interiorità di ognuno di noi è fatta anche di ombre. Recitare significa mettersi a nudo, davanti a se stessi e al giudizio degli altri. La scuola mi ha dato delle responsabilità: frequenti l’Oltrarno e devi esserci al 100%, ogni giorno, provandoci almeno. Io ho avvertito molto il peso ogni singola voce individuale per del fatto che questa scuola fosse granon omologarsi ad una voce stan- tuita: è come se te la regalassero e dard. Non esistono imperfezioni, ma senti di dovertela meritare. Hai una c’è solo una ricchezza espressiva che responsabilità nei confronti dei tuoi ci contraddistingue tutti sul piano compagni di corso, degli insegnanattoriale. Le tecniche che abbiamo ti, della scuola e anche del pubbliappreso non ti comprimono dentro co perché sai che poi gli spettatori un’unica tipologia di attore, anzi cer- pagheranno un biglietto per venire
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a vederti. La scuola mi ha insegnato un mestiere, in cui lo strumento principale è il mio corpo di cui devo continuamente prendermi cura. La scuola mi ha quindi dato una disciplina e io ne sono davvero grata.
Giulia Lanzilotto
Quello che mi ha insegnato questa scuola è, prima di tutto, ad essere una persona. Favino stesso ci diceva che non c’è un metodo unico per diventare attori: ne esistono tanti,
FOTO RAFFAELLO GAGGIO
Lorenzo Carcasci
Ho imparato a lavorare sodo, ma anche a valorizzare la mia vita per riuscire così ad arricchire il mio lavoro. La base di partenza è la vita: se non la vivi è impossibile che tu possa fare l’attore in maniera credibile. Tra tutti gli insegnamenti la clownerie è la disciplina che mi ha sorpreso di più: non mi aspettavo che il lavoro sul clown potesse regalarmi così tanto in termini di umanità e di commozione nei confronti del mondo circostante. Il clown è una figura molto umana ed impulsiva, quasi bambina, e dunque riassume in sé tutto il carattere che, secondo me, dovrebbe avere un buon attore.
quanti sono gli attori. Credo che il metodo che ci è stato insegnato per affrontare la scena sia quello di essere presenti al momento e di prendere tutto dall’altro: da soli non si fa niente, questa è la lezione vera, valida anLe foto di scena dei che nella vita. ragazzi dell’Oltrarno, presenti in queste Giovanni Toscano La cosa più bella di questa scuo- pagine, sono tratte dagli spettacoli Il mercato la è stata la volontà di aver messo in della carne di Bruno evidenza quello che noi siamo, con le Fornasari con la regia di nostre imperfezioni e i nostri pregi, Juan Carlos Martel Bayod, affinandoci nella tecnica e facendoci Brecht Said con la regia credere che saranno anche i nostri di Juan Carlos Martel difetti a fare la differenza in futuro. Bayod, Il gabbiano di Tra gli insegnamenti mi è piaciu- A. Čechov con la regia di to molto il lavoro fatto con Wen- Serdar Bilis.
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dy Allnutt legato all’immaginario dell’attore, soffermandosi su come l’immaginazione sia capace di influenzare il corpo e viceversa il corpo influenzare l’immaginazione…
Giacomo Coen
nione, il suo personale talento, ma è solo il lavoro che ti può condurre ad improntare sulla lunga distanza una carriera solida.
Cecilia Casini
Io sto ancora cercando di capire cos’è il teatro e cosa ho imparato in questi anni… Per me il teatro è l’unica possibilità. Ricordo il discor-
La prima cosa che mi viene in mente è respirare: abbiamo imparato proprio ad aprirci e ad accettarci, sia nel fisico che nella personalità. Spesso si cerca nella vita di evitare
so fatto da Pierfrancesco Favino il primo giorno, una volta entrati in questa scuola: “Ragazzi, il mestiere dell’attore è come il lavoro di un artigiano: occorre veramente smussare gli angoli giorno dopo giorno, è un lavoro che non finirà mai…”. Infatti, io esco dalla scuola non con un’impostazione unica e, anzi, oggi ho tante più domande ed incertezze. Penso che ci abbiano voluto insegnare il valore del lavoro: ognuno ha il suo punto di vista e la sua opi-
ciò che è negativo, invece bisogna affrontarlo: sei un essere umano e la tua esistenza comprende tutto, i momenti sì e i momenti no. In questa scuola non ti dicono in che modo fare le cose: lo scopo è di farti scoprire gli strumenti che hai a disposizione per farti emergere come persona, come sei tu realmente, e non come qualcuno ha pensato che fossi. Sono tanti gli insegnamenti della scuola che mi piacciono: il corso di movimento con Wendy Allnutt, se-
FOTO FILIPPO MANZINI
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guendo l’idea di non fare gesti automatici ma di metterci sempre un immaginario dietro per arrivare a dare un senso; il lavoro con Susan Main sul metodo Linklater in cui impari a respirare, ad aprirti e a scoprire delle parti della tua voce che non conoscevi; danza con Carlotta Bruni e combattimento scenico con Francesco Manetti, dove sembra che ci si stia picchiando veramente e invece tutto è coordinato come una danza…
pacciavano e siamo più liberi. La libertà passa attraverso la conoscenza di te stesso in quanto attore e performer, in questo modo potrai utilizzare sempre in questo lavoro quello che tu realmente sei.
Maziar Firouzi
Il pittore utilizza i pennelli per esprimersi, mentre lo strumento per un attore è il corpo. La scuola mi ha
Camille Dugay
Sicuramente l’Oltrarno mi ha regalato una grande curiosità, in una direzione esplorativa: ho capito che occorre coltivare la curiosità come strumento di indagine verso se stessi, verso gli altri e tutto ciò che ci circonda. Rimettersi sempre in gioco, questo è il punto, ma senza sofferenza. L’acquisizione della curiosità intellettuale forse è la cosa più bella che ci è stata trasmessa, unitamente alla sperimentazione di una dinamica di gruppo sia dal punto di vista lavorativo che sotto il profilo umano. Si tratta di una scuola con un carattere anche internazionale: spesso si lavora con docenti provenienti da diverse parti del mondo e questo aspetto implica uno scambio comunicativo e un’apertura mentale.
Maria Costanza Dolce
Il primo anno è stato stranissimo, siamo tutti cambiati rispetto alle nostre esperienze precedenti e per capire che cosa effettivamente stavamo facendo c’è voluto del tempo… Susan Main, una delle nostre insegnanti, proprio l’altro giorno ci ha detto che è come se noi uscissimo da questa scuola senza zavorre: ci siamo tolti quelle impostazioni che ci im-
FOTO FILIPPO MANZINI
dato una maggiore conoscenza del mio corpo e una disciplina, volta alla cura del mio strumento lavorativo. Sono entrato in questa scuola avendo delle certezze e adesso esco senza sicurezze, nel senso che un attore
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deve buttarsi e trovare il coraggio per stare sul palco o davanti ad una macchina da presa. Non ci sono soluzioni prestabilite: importante è il contatto con l’altro; il mio mantra si riassume nelle parole occhi, orecchio, cuore, testa: occorre stare con gli occhi sull’altro che ti è accanto in scena, sentire quello che l’altro dice e poi con il
un uomo che vive realmente la storia che si sta rappresentando.
Luca Massaro
La creatività al giorno d’oggi è troppo bloccata da un tipo di educazione che abbiamo imparato per stare al mondo. Da bambini spesso fatichiamo a trovare il posto giusto per giocare e la creatività viene repressa, mentre in questa scuola accade esattamente l’opposto. Quando siamo in scena alla fine interpretiamo semplicemente noi stessi: si tratta di un incontro di esseri umani con altri esseri umani. Sul palcoscenico accade sempre qualcosa, tutto è viscerale e veramente arrivi a fare i conti con quello che davvero sei tu, con il tuo grado di maturità. COS’È IL TALENTO? SI PUÒ IMPARARE AD ESSERE ATTORI?
Stefano Parrinello
È una passione fortissima, la voglia di raccontare delle storie e mostrare al pubblico se stessi. Se hai veramente l’urgenza di raccontare qualcosa, ecco che il pubblico ti segue. Il teatro mi ha aiutato a fare uscire delle parti di me che ho sempre tenuto nascoste, quindi in un certo senso posso dire di voler fare l’attore per riuscire ad essere più sincero con me stesso, nella relazione con gli altri e sul palcoscenico. FOTO FILIPPO MANZINI
cuore e con la testa cercare di vivere davvero la scena che sei chiamato ad interpretare. Se veramente ci si riesce, non esiste più l’errore perché ad essere importante è la vita vissuta davvero in quel momento. Sul palcoscenico non vedi solo un attore, vedi
Giulia Lanzilotto
Il talento è frutto di un’intuizione, e non sempre arriva, ecco perché deve essere sostenuto da un metodo. Questa scuola mi ha dato una casa, un metodo e una struttura, tutte cose alle quali andare ad attingere, al di là del talento.
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Giovanni Toscano
Il talento è fondamentale, ma tutti noi ci siamo accorti che senza il vero lavoro artigianale e quotidiano non si va da nessuna parte. Solo così è possibile riuscire a far durare questo mestiere nel tempo. E questo vale anche per le repliche di uno spettacolo: la tecnica è ciò
un’intuizione, ma sicuramente occorrono anche la tecnica e il lavoro per amplificare quel certo talento. Altrimenti rimani fermo e immobile tutta la vita a fare esclusivamente quello che ti riesce bene, invece io aspiro ad un percorso che mi metta veramente in condizione di provare di tutto.
FOTO RAFFAELLO GAGGIO
che ti sostiene. A volte può accadere di andare in scena e non riuscire a trovare l’emozione… Uno degli insegnamenti dell’Oltrarno riguarda proprio questo tema: l’emozione non deve essere l’obiettivo, ma è un incidente, nel senso che bisogna andare avanti in scena e continuare l’interpretazione, lasciandoti libero di sentire quello che provi in quel momento… E poi il sentimento giusto arriverà.
Giacomo Coen
Io penso che ognuno abbia il suo talento specifico, che è come
Maria Costanza Dolce
È qualcosa che ognuno ha dentro di sé e che induce ad essere creativi. Una nostra voce interiore che ci indica la direzione da seguire.
Maziar Firouzi
L’artista contemporaneo palermitano Manfredo Belinati, che è un po’ il mio mentore, un giorno mi ha detto che bisogna sfatare l’idea del lampo di genio e dell’intuizione. L’arte è un lavoro che va sempre accompagnato dalla voglia di guardarsi dentro e di migliorare; la scuola, da questo punto di vista, mi
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ha dato tanto perché mi ha fornito degli strumenti precisi e concreti per lavorare.
proprio il racconto, da sviluppare in più modi e mestieri. E anche l’insegnamento mi sta molto a cuore, il concetto di riuscire a studiare l’arLuca Massaro te in sé e portarla avanti in modo È nascere pensando costante- da formare nuovi attori sempre più mente a quell’unica cosa che ti ap- bravi. passiona, una sorta di allenamento Sara Bosi psicofisico quotidiano, si potrebbe In futuro io mi vedo moglie e dire… Talento significa passione e così capita a volte di comportarsi mamma attrice, questa è la mia nella vita come se si fosse sempre su lotta: far convivere il mestiere della
FOTO FILIPPO MANZINI
un palcoscenico: per esempio, pro- mamma con il mestiere dell’attrivi a conquistare una donna pensan- ce… Mi piacerebbe fare veramente di tutto nel campo dello spettacolo: do di essere Romeo… nella vita sono molto autoironica e QUAL È IL VOSTRO SOGNO? questo aspetto mi ha salvato tante volte anche sul palco, però vorrei Stefano Parrinello un giorno riuscire ad interpretare i Il sogno più grande di tutti è ruoli comici e quelli più drammariuscire a fare più cose possibili: tici. Non voglio pormi limiti: recil’attore, lo scrittore, il regista, l’in- tare, cantare, ballare… Faccio teasegnante, il produttore… Mi piace tro perché non posso farne a meno,
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ne sento il bisogno: non so ancora sempre stata un’attrice non partibene come vivrò il teatro in futuro, colarmente comica. Invece, ultimama sono certa che ci sarà. mente sto scoprendo la mia comicità e mi piacerebbe sperimentarla anche Lorenzo Carcasci sul palco. Il mio sogno è riuscire a vivere Maziar Firouzi con questo mestiere, è la mia ambiVorrei non smettere mai di lavozione più grande, insieme al fatto di essere contento di quello che faccio e rare. Sono una persona che soffre di sapere di avere uno scopo: come atto- noia e che non riesce mai a stare ferre, sia sullo schermo che sul palcosce- ma. Il mio sogno è di ritornare a vinico, vorrei sempre tentare di aprire vere a Palermo e provare a costruire un canale diretto di comunicazione con chi mi guarda.
Giulia Lanzilotto
Voglio essere attrice. Ed il mio sogno è di lavorare utilizzando qualsiasi strumento espressivo, ma con dignità. Ho sempre visto il mio desiderio di fare l’attrice come qualcosa più grande di me, molto intimo, che quasi faticavo a confessare. Arrivando da Lecce e abituata alla mia salentinità – e dunque a relazionarmi ad un contesto piccolo – ho molta paura in questo momento ad intraprendere questa strada: spesso il mondo dello spettacolo viene descritto come un luogo smaliziato e con dinamiche più grandi di te, dove non tutto è sempre meritocratico… In genere a livello umano io sono una che tende a chiudersi, ma se devo lavorare sono un mulo: non ho bisogno di pause. Studio e faccio teatro così con piace- qualcosa nella mia città. Amo anche re… Non ho bisogno di altro in quei dipingere, per esempio, e so che non voglio diventare uno di quegli attori momenti. frustrati che si tiene i provini per sé e Cecilia Casini non li dice agli altri per avere meno Il mio sogno, volendo esagerare, concorrenza… Credo che debba essarebbe riuscire ad arrivare ai livel- sere annientata l’idea che in genere li di interpreti come Meryl Streep o si ha dell’artista come colui che deve Natalie Portman… Anche lavorare soffrire: più un attore è positivo e nel musical mi piacerebbe tantissimo generoso, più è capace di arrivare e e poi, per via della timidezza, sono comunicare con la gente.
Il Direttore Artistico della scuola dell’Oltrarno Pierfrancesco Favino con i suoi studenti.
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Orlando Bloom
Una vita da sogno “Le mie scelte sono sempre molto istintive: leggo un testo e capisco subito se a quel certo personaggio io sono in grado di dare qualcosa di mio. Mi piacciono le sfide, questo è il punto”
Prima di diventare un attore di fama internazionale, Lei ha studiato recitazione a Londra e poi le si sono aperte le porte del mondo del cinema…
in scena… Quello che ho imparato durante il periodo della mia formazione è la consapevolezza di questo mestiere. Cerco di non dimenticarmene mai: l’importante per un attore è la lettura, da cui provengono un’infinità di impulsi creativi. Leggere è un viaggio e costituisce uno stimolo immenso per l’immaginazione, aiuta ad ampliare le capacità di attenzione e di concentrazione, espande la mente verso orizzonti sconosciuti. Io, in quanto dislessico, ho dovuto affrontare serie difficoltà da questo punto di vista ma non ho mai smesso di leggere.
Ricordo che avevo 16 anni quando sono arrivato a Londra per inseguire il mio sogno di diventare attore: avevo un agente che mi procurava continuamente dei nuovi provini. Contemporaneamente, però, mi sono diplomato alla Guidhall School of Music and Drama di Londra, una scuola dove si insegnava soprattutto una recitazione di impostazione anglosassone. Lavoravamo molto sui dialetti e sull’uso della voce, ma apCon Il Signore degli Anelli arriva profondendo anche i gesti e i moviil successo mondiale. Com’è stato menti. A volte, per esempio, ci portal’impatto con la notorietà? vano allo zoo per studiare da vicino il Molto surreale. Il Signore degli comportamento animale: il leone, la tigre, ma anche la lucertola da cui si Anelli è un film diffuso su scala monpuò apprendere l’immobilità, carat- diale ed è stato visto quindi ovunque, teristica fondamentale da riprodurre non esiste un Paese in cui non sia
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stato programmato. Quando è uscito il primo episodio della saga, io sono andato con i miei amici a fare surf in India; quelli sono giorni che non dimentico perché è stata forse l’ultima volta in cui ho potuto sperimentare l’anonimato.
si prepararmi al meglio per il set. Il regista Peter Jackson è una persona a cui piace molto giocare: anche se tutti i personaggi nascevano dalla visione di Tolkien, il regista ha aggiunto proprio un suo aspetto personale alle vicende, quindi il risultato è veramente
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
Sente mai la mancanza dell’anonimato?
A volte. Ma non cambierei mai niente di tutto quello che è stata finora la mia esistenza. Sono grato alla vita per tutte le opportunità che mi ha offerto. Il mestiere dell’attore è entusiasmante, spesso non immagini neanche le avventure inaspettate che riuscirai a vivere. Per esempio, per girare Il Signore degli Anelli siamo stati tanti mesi in Nuova Zelanda prendendo lezioni di tiro con l’arco, di scherma e di equitazione e spesso le numerose scene venivano preparate in studio: avevano creato per me un percorso ad ostacoli come quelli che fanno i militari, in modo che potes-
frutto della sua immaginazione. Il Signore degli Anelli è stata la mia prima vera esperienza professionale, quindi mi è servito molto potermi confrontare con un regista che sosteneva le varie opinioni degli attori, dando importanza a quello che avevamo da dire. Ricordo che la sera gli mandavo dei fax dicendogli: “Senti, ma Legolas è molto importante che arrivi alla riunione del Consiglio tenendo una pergamena in mano”, e lui mi rispondeva: “Tranquillo, domani ne parliamo sul set…”. Ero un giovane attore e avevo le mie idee sul personaggio, ma il regista aveva una visione più grande delle cose e ci faceva vedere lui stesso, in prima persona, come
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un’azione doveva svolgersi. Tutti noi, durante le riprese sul set, non sapevamo bene come sarebbe stata la reazione del pubblico davanti alla trasposizione filmica di un libro così leggendario: eravamo solo animati da una grandissima passione, non ci aspettavamo il successo planetario che ha seguito il film. Come evolve il rapporto con gli altri attori recitando in serie di successo che si sviluppano nel corso del tempo?
Per quanto riguarda Il Signore degli Anelli, stare su quel set è stato come trovarsi in famiglia. È stato particolare anche fare in quel momento una trilogia: non se ne giravano tante all’epoca. Successivamente è arrivata la saga dei Pirati dei Caraibi e anche in questo caso nessuno credeva molto al successo di quest’idea: da tempo non si facevano più film sui pirati e quelli che ci avevano preceduto non è che fossero andati così bene al botteghino. Alcune delle sequenze più famose sono state girate non in mezzo al mare o in luoghi avventurosi, ma in uno studio di posa con la ricostruzione di una gigantesca nave bagnata da una macchina della pioggia.. Sicuramente a fare la differenza è stato il personaggio di Johnny Depp e inizialmente, infatti, Jack Sparrow in sceneggiatura non era assolutamente come poi l’ha creato. Con quell’interpretazione è cambiata la sua vita, ma anche la nostra: il film Pirati dei Caraibi è stata una delle produzioni più popolari della storia del cinema. A Broadway, è stato Romeo in una versione moderna di Romeo e Giulietta: è vero che questo era uno dei ruoli a cui ambiva di più? E
che un suo sogno sarebbe quello di interpretare Amleto?
La prima occasione di impersonare Romeo è arrivata grazie al direttore d’orchestra Gustavo Dudamel, la mente musicale dietro alla Filarmonica di Los Angeles. Dudamel aveva organizzato cinque serate con un accompagnamento musicale ad alcune opere di Shakespeare. Questa esperienza mi ha permesso di cominciare a conoscere come si muove in scena il personaggio, ne ho assaggiato il carattere, e in seguito sono andato a New York per provare a lavorare a Broadway, soprattutto nel teatro dell’Off Broadway. Ho incontrato una produttrice che voleva mettere in scena Romeo e Giulietta e mi ha chiesto se me la sentivo di interpretare il protagonista. Allora avevo 36 anni e ho pensato che probabilmente sarei stato non il Romeo più giovane della storia del teatro, ma neanche quello più vecchio, e ho accettato la sfida. È stata un’avventura meravigliosa che considero come una tappa che mi condurrà un giorno, spero, ad interpretare Amleto. Essere Romeo mi è piaciuto molto perché mi ha dato modo di lavorare sul palcoscenico esplorando il tema della follia. La storia shakespeariana lo ritrae immerso nella follia estrema, la follia d’amore, che lo condurrà a togliersi la vita. E io ho lavorato proprio su questa pazzia che si sviluppa gradualmente nel corso della narrazione: per me, attore, è stato veramente un dono. Spero in futuro di continuare ancora a fare teatro… Amo i classici. Le mie scelte sono sempre molto istintive: leggo un testo e capisco subito se a quel certo personaggio io sono in grado di dare qualcosa di mio. Mi piacciono le sfide, questo è il punto.
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S P E C I A L E S C R I T T U R A
Elena Favilli Francesca Cavallo
Com’è nato il titolo del vostro libro, Storie della buonanotte per bambine ribelli?
Elena Favilli: Il titolo è nato prima in inglese – Goodnight stories for rebel girls – perché vivendo negli Stati Uniti quando elaboriamo nuovi progetti ci viene ormai abbastanza naturale pensarli in questa lingua. Il desiderio è stato quello di provare a raccontare storie diverse da quelle “Leggiamo sempre ad alta voce le storie che a cui siamo abituati, lontane dallo scriviamo perché vogliamo sentire come le parole storytelling classico sia delle fiabe, sia suonano. La parola scritta che può essere detta è dei racconti fatti sui media o nei libri. sempre stata una nostra grande passione” In genere le donne sono sempre relegate a ruoli secondari di compagne o aiutanti: mai vengono presentate come le eroine principali e al centro di grandi avventure eroiche. Così abbiamo iniziato a raccontare delle sto-
C’era una volta...
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rie in formato breve, prima attraverso una newsletter con cui abbiamo comunicato con i nostri lettori. L’idea è stata quella di attingere a racconti del passato e anche del presente, con personaggi del costume e della nostra contemporaneità: la prima storia, per esempio, riguardava Maria Sybilla Merian, una scienziata tedesca che ha scoperto per prima la metamorfosi delle farfalle, e la seconda invece parlava di Beyoncé che in quel momento aveva appena cantato al Super Bawl negli USA. Questo è un libro che ha avuto una genesi molto ribelle perché è nato al di fuori del percorso classico che segue un manoscritto che viene presentato ad un editore tradizionale. Storie della buonanotte per bambine ribelli è il frutto di una campagna di crowdfunding, la più finanziata nella storia dell’editoria. Dall’uscita del primo volume fino al secondo, abbiamo costruito una comunità di lettori internazionale: il libro è stato tradotto in quarantadue lingue, ci sono arrivati tanti suggerimenti da Paesi che conosciamo poco o che comunque saremmo riuscite a scoprire con più difficoltà. Il secondo volume di Storie della buonanotte per bambine ribelli è un libro ancora più inclusivo ed internazionale del primo. Con che criterio avete scelto le donne da raccontare?
Francesca Cavallo: Prima di tutto abbiamo tentato di includere donne provenienti dal più grande numero di Paesi possibile: una delle sfide più importanti del femminismo oggi è di riuscire ad essere molto inclusivo e questo aspetto è diventato una delle bandiere del nostro libro. Abbiamo voluto fare in modo che ciascuna bambina o donna che volesse legge-
re i nostri volumi, a prescindere dal diverso background religioso, geografico o culturale, trovasse qualcosa per sé all’interno. Quindi abbiamo inserito donne dalla più ampia tipologia di carriere: tromboniste, giudici, astronaute, pompiere, chirurghe… Crescendo come bambine, spesso ca-
pita di formarsi in delle stanze molto piccole dal punto di vista delle prospettive e degli orizzonti. Ecco, noi volevamo che il nostro libro riuscisse ad aprire improvvisamente queste pareti, mostrando un mondo che è molto più ampio rispetto a quello che ci fanno credere. Per la costruzione di Storie della buonanotte per bambine ribelli ci siamo concentrate sulla ricerca delle biografie di queste donne, individuando delle immagini intorno alle quali costruire il racconto e capaci di creare uno stile che stia a metà tra la fiaba e la biografia più pura. Nella storia dedicata a Samantha Cristoforetti, per esempio, l’immagine che abbiamo scelto è quella di una ingegnere-astronauta che pre- Nella pagina accanto para il caffè nello spazio, cosa che lei immagine ha fatto veramente ed è stata la pri- di Clara Bianucci
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ma in assoluto nella storia. Un’altra immagine che ci è sembrata straordinariamente potente è stata quella della bambina che invece di avere a che fare con un cagnolino, un coniglietto, un criceto o un pesce rosso, per animale domestico sceglie uno dei più letali che esistano al mondo ovvero l’aquila. Lei decide di essere la prima bambina al mondo a diventare una cacciatrice con le aquile.
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
Quali sono le storie più belle che vi sono state suggerite dai lettori?
F. C.: Forse la storia delle black mambas. Sono donne sudafricane che si sono costituite come gruppo per difendere e proteggere i rinoceronti in Africa che vengono cacciati illegalmente dai bracconieri. È una storia poco conosciuta, contemporanea e molto avventurosa perché questa squadra di donne si è un po’ improvvisata in questa professione, utilizzando delle tecniche molto alternative. Queste pattuglie femminili sono disarmate, ma usano degli spray e delle pratiche totalmente diverse rispetto a quelle che in genere si possono immaginare. Sfidano dei bracconieri inferoci-
ti, riuscendo comunque in questa impresa abbastanza incredibile di ridurre drasticamente il numero degli animali uccisi ogni anno. Quando scrivete tenete conto della dimensione orale sottesa a queste storie? Il titolo rimanda immediatamente alle classiche fiabe che si raccontano ai bambini prima di addormentarsi…
F. C.: Assolutamente sì; noi leggiamo sempre ad alta voce le storie che scriviamo, proprio perché vogliamo sentire come le parole suonano… I nostri libri sono pensati perché i genitori li leggano ai bambini, inoltre anche tra gli adulti vengono organizzate tante letture in tutto il mondo. La dimensione della mia scrittura è sempre passata dall’oralità perché in passato ho scritto anche per il teatro: la parola scritta che può essere detta è sempre stata una mia grande passione. Fin dall’inizio abbiamo avuto in mente che Goodnight stories for rebels girls potesse diventare anche un podcast, aggiungendo a queste storie anche l’elemento del suono, proprio per far abituare le persone alle voce delle donne. Pensiamo, per esempio, alle campagne elettorali, quando le candidate vengono costantemente criticate per avere la voce antipatica o da strega. Ecco perché è importante abituarsi ad accettare la varietà in cui si manifesta la voce femminile. Nel podcast le voci sono un po’ l’equivalente di quello che nel libro rappresentano le immagini: ci sono tante illustratrici con stili estremamente diversi, proprio per far emergere le differenze di queste donne, ma nella loro unicità.
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Le eroine che descrivete incontrato i nostri lettori a Londra e provengono sia dal mondo molte bambine sono arrivate vestite occidentale e sia da parti del come la loro eroina preferita nel libro mondo come l’Iraq dove forse è più – da Cleopatra a Audrey Hepburn – difficile essere delle donne ribelli… ed è incredibile come si identifichino
E. F.: Siamo orgogliose che i nostri libri abbiano avuto una grande risonanza anche in Paesi dove le donne tradizionalmente e storicamente sono più marginalizzate, oggetto anche delle violenze più brutali. I posti
in questi personaggi. Spesso vengono a farci vedere il disegno che hanno fatto nell’ultima pagina del libro in cui chiediamo di raccontare la loro storia. Ciò significa che sperano un giorno di essere anche loro nel libro,
Elena Favilli e Francesca Cavallo, le autrici di Storie della buonanotte per bambine ribelli 1 e 2, editi in Italia nel 2017 e 2018 da Mondadori Ragazzi
in cui sono state vendute più copie sono la Turchia e il Messico, luoghi in cui le donne non hanno vita facile. In Paesi come questi il libro ha assunto una propria dimensione ed è diventato un oggetto di libertà e di resistenza, incarnando quei valori di speranza che spesso mancano. Che impatto pensate abbiano avuti i vostri libri sui lettori?
E. F.: Il nostro pubblico è veramente eterogeneo: si spazia dalle bambine alle nonne, dalle mamme alle zie, ma anche ai papà… È un libro che ha intercettato un movimento transgenerazionale ed è diventato parte delle letture quotidiane di intere famiglie. Recentemente abbiamo
si sentono all’altezza di poter essere incluse. Questa è una delle cose che mi emoziona di più. Scrivere questo libro è stato un atto di ribellione per voi?
E. F.: Negli USA siamo autrici, editrici e anche il distributore esclusivo del libro sperimentando un modello di editoria che prima di noi non era mai stato collaudato. E tutti infatti ci dicevano che non ce l’avremmo fatta… Crescendo come donne accade che le persone costantemente ti disegnino dei confini intorno. Abbiamo paura ad oltrepassarli, ma una volta individuati i nostri limiti, essere strafottenti e superarli diventa meraviglioso.
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Dai racconti di una giovane scrittrice...
A TEATRO in olTRARNO
“C
osa prendi?” “Una Coca cola.” di “Nemmeno un bicchiere di vino? Orsola Lejeune “No, sono troppo stanca, mi addormenterei a teatro.” Con poche ore di sonno, sento la stanchezza pesarmi addosso come un macigno, vorrei essere a casa nel mio letto. “Mi si è rotta la macchina..” “Davvero? La puoi riaccomodare?” I dialoghi mi scorrono addosso. La routine quotidiana si prende tutte le mie energie e in quel momento penso che l’unico modo per ricaricarle sia dormire. “Andiamo ragazzi, è tardi.” Prendiamo le biciclette e in pochi minuti siamo a teatro, come ospiti questa volta e in effetti ha già un’atmosfera diversa, siamo arrivati puntuali e inizio a rilassarmi. Le luci rischiarano l’aria e l’odore dei velluti è morbido. “Dove ci sediamo?” “Palchi?” “Vada per i palchi.” Mi accomodo su una poltrona morbida e mi preparo a rimanere sveglia. E’ sempre stato un mio gran difetto quello di aver bisogno di tanto sonno. Mi sveglio presto e la sera crollo. Ascolto tutto il chiacchiericcio di sottofondo, l’aspettativa e l’attesa. Nessuno ride a squarciagola nell’attesa di uno spettacolo, nessuno alza la voce, nessuno mai esagera con le emozioni, è un’attesa diversa dalle altre, è come se ci fosse un punto interrogativo sospeso sulla testa di ognuna di quelle persone sedute in sala. Le luci si spengono e le persone fanno silenzio. Con tante persone quel silenzio è prezioso, siamo sempre di più abituati a parlare in continuazione, a muoverci, a produrre confusione, non c’è più tempo per il pensiero e il silenzio. Per tacito accordo tutte quelle persone in sala producono silenzio, tutte insieme, nessuno muove un dito. Si apre il sipario ed ecco che inizia. Parecchi di quei ragazzi li conosco fuori dal palco e ogni volta che li vedo interpretare nuovi personaggi, mi stupiscono. Vedo scorrere sui loro visi espressioni conosciute e mi chiedo come facciano a farle comparire immaginandosi una storia, come facciano a muovere il loro viso come se quella cosa stesse succedendo nella realtà. Riconosco il sarcasmo, il nervoso, la gioia, la tristezza, lo stupore come se si stessero muovendo davanti a me nella vita di tutti i giorni. La storia procede e mi rendo conto che la storia mi ha coinvolto. Mi sono scordata chi sono quei ragazzi, mi sono scordata quello che stanno facendo, mi sono
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scordata di essere a teatro e di essere stanca. E’ una storia che parla dei giorni nostri, delle difficoltà quotidiane, dei problemi con il lavoro e con il realizzare i propri sogni, della disonestà e l’imbroglio. Una guerra quotidiana da combattere per fare riconoscere il proprio valore, una guerra in cui forse il valore non ha neanche tanta importanza. I sogni sono diventati l’ultimo dei nostri problemi, a volte urge di più riuscire a vivere in maniera dignitosa. Tutto questo si riassume in una storia su un palco e la finzione si dimentica nel momento in cui riconosci il mondo in cui vivi. Il sarcasmo e l’ironia è il linguaggio giusto per l’oggi, risate amare trapuntano la storia e sono le nostre risposte. Il pubblico è rapito e anch’io. E’ meraviglioso sentire un’unica emozione provenire da tanti corpi intorno a me che rispondono con lo stesso accordo, è come sentirsi un’unica identità guidata da quel gruppo sul palco. La stanchezza ormai è dimenticata e l’energia sta crescendo dentro di me. Non c’è un lieto fine, non c’è una fine, tante domande e poche risposte, come nella vita vera, come piace a me, perché in fondo non c’è una verità, non c’è una risposta vera, non c’è nemmeno una sola soluzione. Ecco forse cos’è la creatività, è un dono che ci invade, che ci obbliga a scandagliare le nostre profondità, che ci obbliga a far faticare il pensiero per tirare fuori quel prurito, per dare la nostra interpretazione a quel fatto della vita, che ci solletica fino a che non gli diamo voce. Rimane lì, a volte più silenziosa, a volte più prepotente, ma comunque c’è. La vedo su quel palco, la sento, l’hanno risvegliata in me. Il sipario si chiude e partono gli appalusi. Mi iniziano a fare male le mani, ma continuo ad applaudire, perché se lo meritano, perché sono riusciti a farmi dimenticare di essere stanca, perché mi hanno emozionata, perché mi sono dimenticata chi sono loro, mi sono dimenticata di essere a teatro, perché mi hanno ricordato che siamo tanti respiri con idee comuni, che in fondo tutto può cambiare, che tutto è imprevedibile, che la vita è fatta così ma può essere affrontata con un risata, che non ci sono soluzioni, ma alternative. Continuo ad applaudire fino alla fine con la mia emozione. Le luci si riaccendono e mi brillano ancora gli occhi.
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Orsola Lejeune è una spettatrice curiosa, una grande lettrice, una scrittrice in erba e lavora presso la biglietteria del Teatro della Pergola.
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A proposito di Orazio Costa
gettarsi oltre l'ostacolo
di Luigi Lo Cascio
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G
li effetti che si possono ricavare dall’azione che il metodo mimico ha su chi lo adotta, coincidono poi con le sue premesse teoriche, con le intuizioni originarie che il nostro maestro (noi lo chiamavamo dottor Costa) ha continuamente messo alla prova delle più recenti acquisizioni della scienza, in particolare della neurologia e, ancor più a fondo, della biochimica in gioco nei processi cellulari. La prima acquisizione (talmente evidente e sotto gli occhi di tutti da passare forse per questo inosservata) è quella che porta l’attore a constatare su di sé l’illimitata plasticità dell’essere umano. [...] L’attore si abitua a pensarsi come un essere costituito da una sostanza che somiglia alla creta e che pertanto può consolidarsi, in virtù dell’effetto demiurgico dell’immaginazione, in infinite forme. Gli effetti più considerevoli di questa prospettiva sono legati alla torsione che l’allievo compie in direzione di una maggiore attenzione per l’esterno che non verso il proprio (soprattutto all’inizio) minuscolo quoziente di proprietà. Il metodo mimico, favorendo il gioco dell’immaginazione che si diverte a scoprire le fisionomie più varie della realtà circostante (sia gli aspetti eclatanti che quelli più minuti e riposti), dismette l’eccesso di attenzione che il giovane attore potrebbe indirizzare verso un se stesso ingiustamente incensato, per favorire la moltiplicazione delle potenzialità e delle risorse. Oltre a ridimensionare l’io [...] e liberarlo da forme d’ingiustificata e precoce megalomania, il metodo mimico sviluppa nell’attore una spiccata curiosità e capacità d’attenzione nei confronti di tutto ciò che si presenta al suo sguardo. Della natura delle cose si osservano struttura, ritmo e segreta melodia racchiusa nel mistero delle forme.
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Sono salti, Sono carezze, Sono baci, Sono chiacchiere, Sono dispetti, Sono briciole. Sono mani Sono piedi, Sono occhi. Lettere variopinte, Parole inventate, Abbracci improvvisi, Foglie che danzano, Ninna nanne mugolate. Così piccola, Così grande, Così perfetta. Grazie Vita.
A.
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S P E C I A L E M U S I C A
Nicola Piovani passione e volontà
“Ci vuole coraggio per osare e provare ad andare in un’altra direzione. Accettando il rischio e mettendosi alla prova può arrivare il cambiamento”
Oltre ad essere un grande creatore di musica, Lei è anche un regista ed un intellettuale: il suo modo di essere musicista si avvicina, per esempio, alla complessità di una figura come Pasolini, capace di estendere la sua arte in più settori. E in una sua poesia, infatti, Pasolini scrive: “(…) vorrei soltanto vivere/pur essendo poeta/perché la vita si esprime anche solo con se stessa./Vorrei esprimermi con gli esempi./Gettare il mio corpo nella lotta”. Queste parole rispecchiano il dissidio esistente tra la poesia – rappresentata da chi vive esclusivamente nell’arte e nella musica – e l’azione: dal punto di vista dell’artista,
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com’è possibile risolvere questa dicotomia?
Queste parole di Pasolini appartengono ad un lungo componimento, Poeta delle ceneri, in cui lui rispondeva in versi ad un’intervista di un ipotetico giornalista americano. In passato, io ho messo in musica questa poesia che ha un finale strano: Pasolini prima dice di voler “gettare il suo corpo nella mischia” e ripete che “non c’è altra poesia che l’azione reale”, ma allo stesso tempo anela ad essere “uno scrittore di musica” in cui “la poesia è azione stessa”, un artista chiuso nella sua torre di Viterbo – che, dice, non riuscirà mai a comprare – senza avere legami con la realtà. I versi finali di questa poesia sono molto emozionanti, anche se in fondo credo che possano indurre in un equivoco: pensare che una musica svincolata da contenuti semantici, come la musica da camera o sinfonica, sia deresponsabilizzata da qualsiasi tipo di implicazione etica. Ciò non corrisponde al vero perché il rapporto con la composizione, musicale o testuale che sia, inevitabilmente ti porta ad una responsabilità che non è relazionata solo alla correttezza del contenuto logico: è la tua esigenza interiore, un sentimento impossibile da verbalizzare, a contare. Io, nella mia vita, ho fatto musica in tutti i modi possibili: ho cominciato, per esempio, andando nei night club e poi mi sono dedicato al teatro canzone e alla musica cinematografica. Non ricordo di aver messo mai una nota su un pentagramma che non partisse da una mia intima convinzione. Il lavoro del musicista ha molto a che fare con la creazione e la voglia di superare gli ostacoli, a volte anche di provocare e di rompere gli schemi.
Il suo percorso è costellato da incontri leggendari, a partire dal rapporto artistico con Silvano Agosti per arrivare a figure come Elsa Morante o Fabrizio De André… In che modo questi personaggi hanno segnato il suo essere artista contribuendo ad indicarle una strada? E al tempo stesso, qual è il cammino giusto da suggerire ad un giovane, in modo che possa un giorno a sua volta diventare un Maestro?
Il termine Maestro mi piace perché si avvicina a parole come mastro o artigiano: nel Meridione, per esempio, nei cantieri ancora si usa dire il mastro falegname e in teatro esiste il maestro d’arme ovvero colui che insegna come fare un duello in scena. Allo stesso modo mi piace pensare che noi musicisti siamo come dei capi bottega, capaci di trasmettere delle emozioni alle nuove generazioni e facendo comprendere loro il senso del bello e dell’armonia. Quando ho cominciato a lavorare con Fabrizio De André avevo solo 22 anni; lui era già Fabrizio De André: aveva scritto La canzone di Marinella, La buona novella e La guerra di Piero, per alcuni il meglio di tutta la sua produzione. De André era andato in crisi con il suo arrangiatore storico e per un caso ha ascoltato alcuni miei arrangiamenti. Mi ha telefonato allora chiedendomi di lavorare insieme ad un disco tratto dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters che poi sarebbe diventato il concept album Non al denaro, non all’amore né al cielo. Sono andato a casa sua a Genova e sul pianoforte c’era il testo di una poesia di Masters che Fabrizio De André aveva tradotto in italiano: la storia di un medico che curava la
Le domande dell’intervista sono di Marco Giorgetti, Direttore Generale della Fondazione Teatro della Toscana (foto di Filippo Milani), e sono tratte dall’incontro di Nicola Piovani con il pubblico nell’ambito della rassegna Sulla scia dei giorni organizzata da Fondazione CR Firenze.
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gente senza soldi, andando anche contro ai dettami dell’ordine dei medici. Io, già all’epoca, mi svegliavo presto la mattina rispetto alle abitudini degli artisti, così ricordo che giravo per casa cercando di musicare quella canzone e aspettando Fabrizio che dormiva fino alle due del pomeriggio… La sera, dopo il tramonto, a me non riesce comporre: rimane-
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vano quindi solo poche ore centrali per lavorare insieme, Fabrizio ed io. La musica di quella canzone del medico è finita poi nell’album finale e abbiamo iniziato a scrivere tutte le altre canzoni. Come spiegare, dunque, ad un giovane quale percorso intraprendere per diventare in futuro un artista e un Maestro? Il successo
è frutto di una serie di componenti alchemiche: a volte è difficile riuscire a provocarle perché vanno avanti da sole, anche al di là della volontà personale. L’unica cosa che si può fare è cercare di essere fedeli a se stessi, non travestendosi per ragioni di convenienza o di mercato. C’è una parte nella vita che dipende dalle stelle e tu non ci puoi fare niente: se le stelle girano bene, tu vai bene e se invece le stelle girano male, tutto non funziona… Fortunatamente però esiste un altro lato dell’esistenza e quello dipende unicamente da te, dalla tua passione e volontà. Soltanto così è possibile fare la differenza. E questo mi sembra un concetto ottimistico, che mi permette ancora oggi di andare avanti. Tornando al concetto di bottega, Firenze è stata la città per eccellenza in cui gli artigiani prendevano i ragazzi a bottega per trasmettere un mestiere. La Fondazione Teatro della Toscana prosegue oggi questa tradizione, affidando interamente ad un gruppo di giovani attori, iNuovi, la gestione artistica ed organizzativa del Teatro Niccolini. In questo senso insegnare la musica e il teatro alle nuove generazioni diventa oggi una nostra responsabilità, in modo che siano a loro volta in grado di produrre nuova arte…
Il concetto di andare a bottega è fondamentale. Quando qualche giovane musicista mi chiede di imparare a comporre la musica per il cinema, io li invito a venire in sala di registrazione per vedere le prove. Spesso rimangono delusi perché pensano che il lavoro più importante
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della musica da film sia farsi venire un’idea, volta a costruire una poetica, quella particolare melodia che si ricanticchia anche nei titoli di coda. In realtà, la musica da film implica un lavoro proprio da mastro falegname: è una musica scritta in maniera sincronizzata, difficile far combaciare tutto al millesimo. Ricordo il lavoro del grande Franco Ferrara, direttore di musica da film, soprattutto di genere western. Spesso accadeva che sul ritmo di una cavalcata al galoppo la musica arrivasse troppo lenta, i cavalli si fermavano e il suono continuava… A volte si utilizza il ritmo dato da un cronometro, ma non sempre si riesce a risolvere il problema. Può capitare che la copia del film arrivi in sala di registrazione e sciaguratamente il montatore abbia deciso di togliere un’immagine di quattro secondi: sembra un taglio ininfluente, ma in realtà musicalmente ciò provoca lo spostamento di tutti i sincroni e la partitura non torna più. Bisogna allora andare a cercare il taglio di quelle battute e stuccarle come fa lo stuccatore sulle pareti quando deve coprire un buco. Questo è il senso di andare a bottega: gli allievi escono dalla sala di registrazione avendo imparato qualcosa che non si apprende nei corsi di composizione. E questo penso sia l’insegnamento più prezioso che auguro possano ricevere anche iNuovi in questa loro avventura teatrale e di vita: per fare arte, lo studio e il lavoro “d’artigianato” quotidiano sono indispensabili. Lavorando tanto nel cinema, con registi come Bellocchio, i fratelli Taviani, Moretti, Monicelli, Tornatore e Fellini, arriva anche il sodalizio con Roberto Benigni
e l’Oscar per La vita è bella vinto per la migliore colonna sonora. Parallelamente in teatro insieme allo scrittore Vincenzo Cerami fonda negli anni Novanta la Compagnia della Luna, con cui decide di dar vita ad una nuova forma di teatro musicale.
In realtà già nella tragedia greca e in tanto teatro del passato era presente la musica, ma siamo stati quasi come obbligati a fondare la Compagnia della Luna perché la nostra idea di teatro musicale non trovava albergo nella realtà italiana. A quell’epoca il teatro musicale si suddivideva solo nel teatro musicale d’evasione, il teatro leggero ed allegro della Rivista per intenderci, e nel teatro di tradizione rappresentato dall’opera lirica. Non esisteva uno spazio teatrale dove la musica e la parola si integrassero e avessero pari dignità dal punto di vista espressivo, sostenendosi a vicenda. Abbiamo formato questa compagnia rischiando – infatti economicamente fu un disastro – ma con l’obiettivo di affermare un’idea di teatro. Per quanto riguarda il cinema e l’Oscar per La vita è bella, anche in questo caso l’importante è stato accettare una nuova sfida. All’inizio il film non riusciva a trovare produttori perché tutti volevano che Benigni facesse solo parti comiche, altrimenti il pubblico non sarebbe andato al cinema. Ci sono state tante riunioni con i distributori e i finanziatori per cambiare il finale: volevano che il personaggio interpretato da Benigni non morisse ucciso dai nazisti, ma che risbucasse vivo da dietro un carrarmato… C’è voluto coraggio per osare e provare ad andare in un’altra direzione. Accettando il rischio e mettendosi alla prova può arrivare il cambiamento.
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S P E C I A L E C U C I N A
Carlo Cracco
a lenta lievitazione “Dietro ogni piatto c’è la passione e se cucini a casa per gli amici o per le persone a cui vuoi bene, è anche una cosa divertente. Ma se il tuo obiettivo è quello di fare il cuoco, o ti ritieni tale, allora il discorso cambia: ci vogliono rigore, dedizione, serietà. L’essere appassionati non basta. La leggerezza non è prevista”
La versione di Cracco – Lunga vita alla pizza! è un audiolibro dove si racconta il piacere della cucina…
L’atmosfera che si vuole trasmettere è proprio quella del racconto, magari davanti ad un bicchiere di vino… L’ascolto è pensato per creare un momento di calma e di riflessione dove si trascorre il tempo cullati dal suono delle parole. Il fatto di ascoltare e non di leggere la costruzione di un certo piatto, probabilmente contribuisce molto a rendere unica questa piccola esperienza culinaria. Io ho tante passioni in cucina, anche se il libro mantiene nel titolo una dedica alla pizza per un semplice motivo: una pizza è capace di suscitare emozioni perché si rapporta ad
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un mondo che è quello della lievitazione. Si tratta di una dimensione anche magica, per certi versi, perché fatta di tecnica ma anche di attesa. Il mondo della lievitazione implica di non avere fretta perché deve svilupparsi un volume, inteso come spazio che viene occupato dopo la lavorazione dell’impasto. Per me il risultato è una magia, io giudico sempre il processo della lievitazione come una di quelle cose che semplicemente accadono: non è come saltare un cibo in padella, che con un colpo di polso in ogni caso riesci a recuperare, anzi la lievitazione si fa da sola e l’intervento umano consiste soltanto nel riuscire a capire come far lievitare un certo impasto. Dentro al forno avviene ancora un’ulteriore modificazione e alla fine otteniamo la pizza: credo che sia una delle poche pietanze che parte con certi ingredienti e arriva poi a trasformarsi in un prodotto finito completamente diverso. Un altro aspetto fondamentale della pizza è la digeribilità perché può essere fatta con un impasto diretto – in due ore abbiamo già la base di una pizza – oppure ci sono pizze in cui per fare una base occorrono tre giorni… Sono due modi di vivere ed interpretare una stessa realtà.
è diventata molto più nobile e bella è merito di questi giovani pizzaioli che hanno creduto in un prodotto che altrimenti sarebbe stato lasciato andare senza cura o per lo meno sarebbe stato sfruttato in un modo non propriamente degno del suo nome. Inoltre, questo cibo rappresenta anche un’opportunità lavorativa: per l’arte della panificazione e della lievitazione non esiste nessuna scuola dove imparare, quindi la pratica è importante. È un’arte che si trasmette facendola, ma che poi fai tua e ognuna è diversa: c’è chi utilizza la farina bianca, chi adotta invece i grani antichi, ci sono tantis- “ Una pizza è capace di suscitare sime varietà tra emozioni perché si rapporta cui scegliere. Ri- ad un mondo che è quello della uscire a mangiar lievitazione. Si tratta di una bene dovrebbe dimensione anche magica, per essere l’obiettivo, certi versi, perché fatta di tecnica soprattutto ca- ma anche di attesa” pire cosa si mangia per riuscire poi a compiere delle scelte con consapevolezza in cucina. Com’è cambiata la filosofia della ristorazione in questi ultimi anni?
Quando si fa da mangiare come faccio io, con una formazione classica, i clienti li conosci tutti e il tipo E la pizza di Cracco com’è? di offerta rimane molto settoriaOvviamente io propendo per la le, anche nella scelta dei piatti da seconda via, anche se non sono un servire. Così era fino a vent’anni fa, pizzaiolo e dunque non possiedo oggi la ristorazione si è trasformaquel tocco magico tipico di un piz- ta: offrire anche solo un caffè, una zaiolo vero, che vive in simbiosi pro- brioche o un toast può essere ristoprio con la pizza. Però, comprendo razione. Nel caso, per esempio, del tutto il procedimento che sta dietro ristorante che abbiamo aperto in ad una lavorazione di questo tipo: Galleria Vittorio Emanuele a Milasi tratta di usare un metodo impor- no è presente anche al piano terra tante e capace di fare la differenza un bar caffetteria bistrot e per conel risultato finale. Oggi se la pizza noscere il nostro mondo non è ne-
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cessario accedere ad un pasto dalla Lei dice sempre di non aver iniziato nel mondo della prima fino all’ultima portata come ristorazione e che dunque il suo avviene al primo piano, al ristoranpercorso è stato molto lungo e te gourmet. Il fatto di poter entrare faticoso. I ricordi della cucina liberamente e scegliere di prendedella sua famiglia le sono stati re un cioccolatino, piuttosto che d’aiuto? una monoporzione di pasticceria, Ognuno di noi ha delle sintonie consente comunque di raggiungere quello che noi consideriamo un con il cibo a seconda dell’età in cui obiettivo: incontrare gente diversa si trova: le verdure, per esempio, IMMAGINE CLARA BIANUCCI
“La creatività di ogni chef ed essere più con i bambini non sono mai un è ciò che gli permette aperti, in li- grande abbinamento e sicuramente di fare cose straordinarie” nea con quello cibi come la pasta o la pizza riscuoche accade nel mondo. Questo genere di approccio all’estero è già molto attivo e per noi questa è una scelta davvero bella: hai la sensazione di non aver aperto un unico tipo di ristorante, ma di stare sperimentando invece qualcosa di diverso.
tono un maggiore successo. Tutto sta nelle abitudini a cui ti hanno abituato fin da piccolo: se sei abituato a riconoscere i sapori attraverso l’olfatto, a sentire le differenze, sviluppi un valore aggiunto in questo mestiere e acquisisci una tua speciale sensibilità.
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Un programma come Masterchef ha fatto bene alla cucina italiana?
In Italia questo programma è arrivato quando all’estero era già una realtà molto affermata, solo che nel nostro Paese nessuno all’inizio pensava che sarebbe stato un ottimo investimento e tutti avevano paura. Mi ricordo la prima volta che ci proposero di fare il programma, era il 2007, e dissi immediatamente senza pensarci: “Non ho tempo”. Dopo tre anni sono ritornati alla carica e me lo hanno richiesto; io avvertivo già che qualcosa nel nostro mondo si stava modificando e ho riflettuto, scegliendo di credere in Masterchef. Alla fine è scoppiata questa mania della cucina e ancora oggi, anche se non sono più nel programma, io spesso lo guardo in TV. È un modo molto leggero e molto colorato per raccontare l’universo che ruota attorno alla cucina: Masterchef è un programma televisivo che si sofferma su una realtà legata alla gara ma in fondo si affrontano delle fobie, certe insicurezze, che ci riguardano tutti. Molti giovani chef sognano di lavorare nella sua cucina. Cosa deve avere un giovane per convincerla?
Il mio approccio è sempre molto diverso rispetto alla media, nel senso che per me è il ragazzo che ha scelto di venire a lavorare con me e non viceversa. Per evitare fraintendimenti o anche di non capirsi, cerco di mettere subito le cose in chiaro: sei tu ad aver chiesto di lavorare con noi, io non ti ho chiamato. Se poi il ragazzo in questione decide di rimanere, tutte le porte della
nostra realtà gli verranno aperte. È difficile per me scegliere sulla base di un curriculum ragazzi ventenni che hanno poca esperienza: ciò che conta è la loro voglia di imparare o di mettersi in discussione. Solo in un secondo momento capiranno cosa potranno scoprire da noi. Dietro ogni piatto c’è la passione e se cucini a casa per gli amici o per le persone a cui vuoi bene, è anche una cosa divertente. Ma se il tuo obiettivo è quello di fare il cuoco, o ti ritieni tale, allora il discorso cambia: ci vogliono rigore, dedizione, serietà. L’essere appassionati non basta. La leggerezza non è prevista. Nel lavoro di uno chef, quanto è importante la tecnica rispetto alla creatività individuale?
Occorre un giusto mix tra entrambe le cose. Se vuoi lavorare a grandi livelli devi studiare tantissimo e concentrarti sulle basi, le tecniche e una ricerca costante e quotidiana. Ma senza talento saresti solo un bravo esecutore: la creatività di ogni chef è ciò che gli permette di fare cose straordinarie.
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SPECIALEDIETROLEQUINTE
Walter Sardonini
La sua mostra Pagine al vivo-Manifesti per il teatro 1997/2018 passa in rassegna vent’anni di opuscoli, brochure, programmi di sala e manifesti di spettacoli… La mostra è nata per celebrare vent’anni del mio lavoro come graphic designer per lo spettacolo dal “A volte vado in sala quando non c’è nessuno, vivo. Ho cominciato con il Teatro a sipario aperto, e in quei momenti si potrebbe della Pergola con l’immagine della anche pensare che il teatro sia immobile; invece, stagione 1996/1997 e da allora il mio quegli stucchi e quelle maschere che si affacciano intervento si è esteso ad altre realtà dalle decorazioni dei palchi, le corde che scendono (Fabbrica Europa, Estate al Bargello, dalla graticcia sul palcoscenico, le assi appoggiate il Centro per la sperimentazione e la in fondo palco, tutte queste componenti è come se ricerca teatrale di Pontedera e tanti si animassero e cominciassero a muoversi...” altri) con le quali abbiamo realizzato innumerevoli eventi nel corso di questi anni. Una collaborazione che naturalmente ha contribuito e con-
nella pancia della balena
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tribuisce a costruire un tratto identitario molto forte, con il vantaggio della riconoscibilità e dell’affermazione di quelle attività. Com’è cambiata l’identità del Teatro della Pergola da allora?
Più che cambiata direi che si è sviluppata ed affermata; ricordo che quando abbiamo iniziato si cominciò a parlare di uno stile-Pergola che emergeva sui muri. Cercavo – e cerco ancora – di realizzare immagini che fossero un po’ come affreschi, sogni, spezzoni di un film… Immagini in movimento e non fisse. Nella mia concezione il manifesto di uno spettacolo non può essere una semplice foto di scena accompagnata da una scritta sopra, perché l’esigenza è quella di mettere in moto un meccanismo di interesse e approfondimento da parte del pubblico che ancora non ha visto lo spettacolo. C’è bisogno di richiamare l’attenzione affinché, come diceva Strehler, il pubblico si riconosca in quello che accade in sala oppure addirittura arrivi a criticarlo trovandovi una rappresentazione contraria alle proprie aspettative. L’immagine deve sempre essere condivisa o rifiutata, non può essere qualcosa che rimane nel mezzo a questi due stati d’animo: anche nel rifiuto avviene la crescita, perché ti spinge a porti delle domande. Io leggo sempre i testi degli spettacoli di cui dovrò concepire l’immagine e raccolgo spunti anche dalle altre opere che gli autori hanno realizzato. L’obiettivo è di riuscire a catturare la dimensione globale di un autore e ad immaginare i personaggi dell’epoca, così come valutare l’eventuale rilettura che ne verrà fatta: tutta questa ricerca contribuisce all’immagine
che andrò a realizzare. Ognuno degli spettatori che vedrà poi il manifesto finito recupererà qualcosa di personale all’interno di esso, qualcosa che appartiene magari anche ad un suo immaginario e che lo condurrà
FOTO FILIPPO MILANI
a dipanare un filo. È dentro se stessi che si cerca l’interesse per quel testo, per quello spettacolo o per quell’autore. Chi fa il mio mestiere deve far scattare una molla e mostrare quello che non si vede, non quello che poi esattamente si vedrà in scena. Il lettering, il carattere della scrittura, è qualcosa di fondamentale nella sua grafica?
Per me immagine è tutto l’insieme. Il testo non è qualcosa da sovrapporre sul lavoro finito, anzi fa parte della composizione visiva e dunque la scrittura è un elemento importante del risultato grafico nel suo complesso. Per un certo periodo ho fatto degli esperimenti tentando di individuare delle soluzioni tipografiche da applicare nei vari
La mostra Pagine al vivo-Manifesti per il teatro 1997/2018 è stata recentamente allestita nella Sala Oro del Teatro della Pergola. Nella pagina accanto il manifesto della stagione teatrale 2018/2019 della Fondazione Teatro della Toscana.
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progetti grafici: l’idea era quella di attingere dai caratteri appartenenti alla vecchia classica tipografia ovvero a caratteri mobili, con dei fuori
registro e degli inchiostri di tipo artigianale. Questo tipo di soluzione tipografica rispecchia molto dello spirito che metto quando costruisco un’immagine: l’esito deve essere pittorico, con una rappresentazione piuttosto impastata e sporca, lontana dalla tipografia attuale che è netta ed inappuntabile. Il risultato è qualcosa dove il passaggio individuale ed autoriale, l’artigianalità dell’intervento, ha lasciato un segno.
Quali sono le linee da seguire nella realizzazione di un’immagine che inauguri una nuova stagione teatrale?
Difficilmente si riesce a rappresentare la varietà dell’offerta degli spettacoli, frutto delle scelte di programmazione della Direzione, in un’immagine unica. Io mi sono sempre riferito al teatro come luogo. Per me il teatro è come il ventre della balena di Pinocchio: al suo interno si trovano tanti elementi capaci di stimolare il sogno e la rincorsa dell’immaginario: ci sono i diversi meccanismi scenici, i materiali più eterogenei, le luci, gli angoli, gli anfratti… A volte vado in sala quando non c’è nessuno, a sipario aperto, e in quei momenti si potrebbe anche pensare che il teatro sia immobile; invece, quegli stucchi e quelle maschere che si affacciano dalle decorazioni dei palchi, le corde che scendono dalla graticcia sul palcoscenico, le assi appoggiate in fondo palco, tutte queste componenti è come se si animassero e cominciassero a muoversi. Vedi una sedia sul palcoscenico abbandonata in un angolo e ti immagini l’attore che l’ha messa da parte mentre usciva di scena… È l’anima del teatro ad essere fonte di ispirazione. In che modo la linea grafica ha accompagnato il passaggio della Pergola a Teatro Nazionale?
Per le stagioni teatrali proposte dalla Fondazione (che riunisce realtà diverse come la Pergola, il Teatro Era di Pontedera, il Teatro Studio di Scandicci e il Niccolini), all’inizio è stato necessario insistere sull’immagine istituzionale ricavando da questa l’immagine promozionale.
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I primi manifesti del Teatro della Toscana, infatti, erano costruiti attraverso la ricomposizione del lettering del logo con cui l’Istituzione si affermava sul territorio della Toscana. Successivamente, i quattro teatri sono diventati quattro profili che richiamavano la geografia della nostra regione, ognuno con una propria fisionomia a segnalare la specificità - nell’unità di intenti - di ciò che si
Ci parli dell’immagine della nuova stagione.
Il manichino di legno possiede pressappoco le sembianze dell’essere umano, ma senza movimento, senza vita. Non ha occhi, respiro, sentimento. Il manichino rappresenta dunque l’uomo senz’anima, senza carattere. Rappresenta la difficoltà, l’inadeguatezza umana rispetto al mondo circostante, alla sua storia. ImparegFOTO FILIPPO MANZINI
andava a rappresentare in ciascuno di questi spazi. Poi l’unità è diventata stilistica e ogni teatro ha ritrovato una propria specifica immagine per la promozione della stagione di prosa. Così anche per il 2018/2019, dove quattro manichini di legno, quattro automi, interpretano ciascun teatro, si vestono delle sue decorazioni, in una rappresentazione grafica fortemente coerente sebbene declinata a rappresentare i singoli spazi.
giabile metafora “Il teatro è il luogo della magia, del tempo pre- del sogno. E non c’è niente sente. L’ho im- nella vita di più vero e reale maginato nel dell’immaginazione. Perché buio al centro è l’immaginazione che ci fa di una scena, in stare vivi” mezzo al palcoscenico. Nel luogo in cui, attraverso la scrittura e la parola, aneliamo esattamente al suo contrario, vale a dire alla finzione della vita pulsante. Nell’appassionata ricerca della sua
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essenza più vera, più profonda. La sua immobilità, la sua inespressività, la sua mancanza di vita appariva, in quella collocazione, ancora più odiosa. Ma se ci soffermiamo in un teatro vuoto, immobile, saremo investiti, come osservavo poc’anzi, da quei frementi richiami, sotterranei ma pronti a misurare le vicende umane con il racconto della messa in scena. Ho immaginato allora che il luogo stesso fosse il deus ex machina, portando riscatto e vitalità a tanta inadeguatezza e dolorosa fissità. Il teatro, mosso a pietà, si è calato sull’uomo
FOTO FILIPPO MANZINI
in movimento. Poi, via via, l’uomo diventa teatro, il teatro uomo. Agli inizi del Novecento Toulouse Lautrec è stato uno dei primi a porre l’attenzione sulla grafica legata a delle immagini che convogliassero un contenuto…
Sì, Toulouse Lautrec è stato il primo e lo ha fatto partendo dalla sua condizione di pittore. Anch’io ho lavorato molto in pittura, è un’arte che mi ha sempre affascinato. Cassandre, un grafico dei primi del Novecento che è l’epoca in cui questa materia ha cominciato ad esplodere, diceva di vedere molti giovani pittori lasciare le Accademie e gli ennesimi ritratti o nature morte per scendere nelle strade. Questi artisti andavano nelle tipografie e mettevano le loro conoscenze a disposizione di questa nuova materia, la grafica. In questo privo di vita per soccorrerlo, vestirlo, modo si aprivano al mondo esterno per infondere calore a quelle mem- e riuscivano meglio ad incontrare gli bra rigide nell’assenza di intelletto uomini, non stavano più chiusi nel e di spirito. Così, immergendosi e loro studio. E io è a questo che vorrei specchiandosi in ciascuno dei luoghi, tornare con il mio lavoro: alla gente. lasciandosi investire dalle storie che Che cos’è per Lei dunque in essi aleggiano e si possono palpare, il teatro? ogni automa, pian piano, si desta dal È il luogo della magia, del sogno. sonno, ricomincia a sorridere, a stupirsi, a schernirsi, a soffrire. Ognuno E non c’è niente nella vita di più conquista o riconquista la propria at- vero e reale dell’immaginazione. titudine di essere sensibile. Il mecca- Perché è l’immaginazione che ci fa nismo interiore lentamente si rimette stare vivi.
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“Anche lei, come me aveva iniziato sul palcoscenico. E non a caso ci trovammo subito bene insieme, perché due attori di teatro quando recitano al cinema hanno una capacità diversa. Il teatro abitua a improvvisare, a risolvere difficoltà impreviste. Per me si tratta di un gioco e del resto il termine ‘recitare’ sia in inglese sia in tedesco ha anche il significato di ‘giocare’. E Monica era una che giocava proprio per le sue origini, era già una grandissima attrice, eccezionale nel genere comico e altrettanto in quello drammatico, dove aveva trovato un maestro come Antonioni. [...] Il senso del gioco, del divertimento veniva naturale a Monica. Essere comico non è facile, devi avere dentro qualcosa ancora prima di fare l’attore, come la capacità di ridere di te stesso. Si è infatti comici quando si ironizza su se stessi e si prendono poco sul serio le cose della vita. Questo modo di essere lo si comunica ad un pubblico che si diverte nel vederti prendere in giro te stesso, e ti considera un personaggio alla pari o addirittura inferiore. È un po’ come la capacità di Chaplin o Keaton in cui l’attore deve diventare un clown, un pagliaccio. [...] Ecco il gioco, la trasformazione di Monica, una delle pochissime attrici italiane, come la Magnani e la Loren, divenuta una colonna del nostro cinema e della commedia all’italiana capace di cambiare improvvisamente faccia, diventando la donna enigmatica di Antonioni.”
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di Giancarlo Giannini
La mostra La Dolce Vitti, organizzata dall’Istituto Luce di Cinecittà, celebra la donna e l’icona Monica Vitti al Teatro dei Dioscuri al Quirinale. Accompagna l’esposizione il volume La Dolce Vitti, edito da Istituto Luce-Cinecittà e Edizioni Sabinol, da cui è tratto il ricordo di Giancarlo Giannini.
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Quaderni della Pergola | La creatività
Materiale raccolto da Angela Consagra, Alice Nidito, Chiara Zilioli, Gabriele Guagni, Filippo Manzini, Orsola Lejeune, Clara Bianucci, Matteo Brighenti, Riccardo Ventrella, Marta Bianchera, Adela Gjata, Anna Tanzi, Carlotta Rovelli
Via della Pergola 12/32 - 50121 Firenze Centralino 055.22641 www.teatrodellapergola.com www.teatrodellatoscana.it
Progetto Grafico Walter Sardonini/Social Design Impaginazione ed elaborazione grafica Chiara Zilioli Interviste Angela Consagra
Info e contatti quaderni@teatrodellapergola.com
La poesia a pag. 65 e l’editoriale in quarta di copertina sono di Alice Nidito I disegni del sommario a pag. 2-3, i disegni dello speciale dedicato all’Oltrarno a pag. 42-43 sono di Clara Bianucci
Fondazione Teatro della Toscana Presidente Dario Nardella Consiglio di Amministrazione Antonio Chelli, Barbara Felleca, Antonia Ida Fontana, Giovanni Fossi, Maurizio Frittelli, Duccio Maria Traina Collegio Revisore dei Conti Roberto Giacinti Presidente, Roberto Lari, Adriano Moracci, Giuseppe Urso Direttore Generale Marco Giorgetti
La fotografia del Teatro Niccolini a pag. 24, la fotografia di Luigi Lo Cascio a pag. 64, la fotografia di copertina, la fotografia in seconda di copertina e la fotografia della lavagna di Eduardo De Filippo sono di Filippo Manzini Le fotografie degli allievi dell’Oltrarno a pag.42-43 sono di Raffaello Gaggio L’intervista a Orlando Bloom è stata ispirata dall’incontro con il pubblico dell’attore in occasione della Festa del Cinema di Roma 2017 Le interviste a Carlo Cracco, Elena Favilli e Francesca Cavallo sono frutto degli incontri nell’ambito della rassegna Tempo di Libri di Milano L’articolo di Luigi Lo Cascio è tratto dal libro Orazio Costa prova Amleto, a cura di Maricla Boggio, edizioni Bulzoni Roma 2008 Si ringraziano Micle Contorno, Raffaello Gaggio, Paola Mazzoni e la piccola Maddalena per l’amichevole collaborazione
© 2018 FONDAZIONE TEATRO DELLA TOSCANA
CHIUSO IN TIPOGRAFIA IL 07/06/2018
La lavagna con la scritta EDUARDO viene conservata nei locali del teatro e fa riferimento al corso di drammaturgia che Eduardo De Filippo realizzò nei primi anni Ottanta al Teatro della Pergola. Questa citazione ha ispirato la nascita dei Quaderni della Pergola come elemento figurativo delle prime copertine. E ancora continua ad essere un simbolo del nostro modo di concepire il teatro.
Il Teatro della Toscana nasce votato alla creatività. Lo fa in tanti modi, con tante persone, in tanti luoghi; con suoni, parole e movimento. Il Teatro della Toscana in questi ultimi anni ha, infatti, sentito l’esigenza di raccontarsi attraverso varie identità dove trovano spazio la tradizione, l’innovazione e la sperimentazione, i giovani e i Maestri. Un teatro che porta i suoi spettatori a vivere la creatività in ogni sua sfaccettatura donando domande, ispirazioni e riflessioni sempre nuove. Creatività come etica da seguire; come ricerca di se stessi; come possibilità di salvezza, di crescita personale, unica e mai banale.