Quaderni della Pergola | Il desiderio

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Tutto quello che puoi fare, o sognare di fare, incomincialo. Il coraggio ha in sĂŠ genio, potere e magia. Incomincia adesso. Goethe



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“A tutti gli illusi, a quelli che parlano al vento. Ai pazzi per amore, ai visionari, a coloro che darebbero la vita per realizzare un sogno. Ai reietti, ai respinti, agli esclusi. Ai folli veri o presunti. Agli uomini di cuore, a coloro che si ostinano a credere nel sentimento puro. A tutti quelli che ancora si commuovono. Un omaggio ai grandi slanci, alle idee e ai sogni. A chi non si arrende mai, a chi viene deriso e giudicato. Ai poeti del quotidiano. Ai “vincibili” dunque, e anche agli sconfitti che sono pronti a risorgere e a combattere di nuovo. Agli eroi dimenticati e ai vagabondi. A chi dopo aver combattuto e perso per i propri ideali, ancora si sente invincibile. A chi non ha paura di dire quello che pensa. A chi ha fatto il giro del mondo e a chi un giorno lo farà. A chi non vuol distinguere tra realtà e finzione. A tutti i cavalieri erranti. In qualche modo, forse è giusto e ci sta bene… a tutti i teatranti.”

Miguel de Cervantes


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32 Marco

Giorgetti

Un teatro d'arte “Vorrei augurare a tutti di riuscire a superare sempre i propri limiti, di andare a vedere cosa c’è oltre e di farsi cullare dal desiderio della curiosità. Questo è l’unico messaggio possibile"

12 Sonia 4 Luisa Ranieri 22 Emilio Solfrizzi Con stupore Bergamasco Paola e leggerezza Un cuore Minaccioni “Credo che si che batte La risata debbano inseguire i “Far ridere e far che sorprende propri desideri fino piangere, raccontare “Occorre guardare allo strenuo: solo anche al rovescio da attrice la realizzati possiamo vita nelle sue della medaglia aspirare ad essere per capire la realtà. tante sfumature al massimo delle facendo emergere i Bisogna avere nostre potenzialità, consapevolezza chiaroscuri: e ciò a favore cambiare costituisce della verità del non solo di noi un punto di forza” mondo al contrario” stessi, ma anche 34 oRIZZONTE degli altri”

36 l'alba di un nuovo canto

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Gabriella Pession Fuori e dentro le emozioni “Bisogna fare un percorso insieme al proprio personaggio, al di là degli estetismi. Per raccontare una storia è ‘la pancia’ che conta, o meglio il cuore”

18 Serra Yilmaz Come tu mi vuoi... “È bello pensare che qualcuno abbia sognato su di te, su quello che potresti diventare. Questo mestiere dipende totalmente dal desiderio degli altri”

26 Filippo Timi Cavaliere dal cuor gentile “I testi dei miei spettacoli nascono nel momento in cui le battute incontrano la vita sul palcoscenico”

38 non si vive di solo pane


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67 bologna 1977

40 Terry Gilliam Terra e cielo “Voglio fuggire dal successo della bellezza creata virtualmente. Nel mondo reale si può fare esperienza toccando le cose, sentirne il profumo”

50 Paolo Valerio Impegno e passione “Registicamente il mio ideale è riuscire a montare lo spettacolo il più rapidamente possibile e poi lasciarlo andare"

54 Michele

68 La Storia racconta...

56 Pino Micol sentieri ignoti Lasciando un segno “Il desiderio nasce 70 PROGRESSIVI da un bisogno ed SPOSTAMENTI è qualcosa che DEL DESIDERIO viene maturato e concepito nel tempo, in maniera reale e razionale; al 74 LA Poesia contrario, il sogno rappresenta la pura irrazionalità”

Santeramo

44 Vanessa

Redgrave

Nata attrice “Fin da quando avevo quattro anni ho sempre sentito il desiderio di un palcoscenico”

48 Dai racconti di una giovane scrittrice... in controluce

Dalla parola alla scena “Eduardo diceva che lo spettatore deve riconoscersi tra i personaggi in commedia. È una lezione impagabile che provo a seguire sempre”

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Marina Abramović

Qui e ora “Non credo che l’arte possa cambiare il mondo, però sicuramente può risvegliare le coscienze per vedere il mondo in modo diverso”

75

Massimo Recalcati

La nostalgia del desiderio

78 A proposito di Orazio Costa LE RADICI DEL METODO MIMICO


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Luisa Ranieri

Con stupore e leggerezza “Credo che si debbano inseguire i propri desideri fino allo strenuo: solo realizzati possiamo aspirare ad essere al massimo delle nostre potenzialità, e ciò a favore non solo di noi stessi, ma anche degli altri”

di Angela Consagra

A destra foto di Gianmarco Chieregato

qualcosa da raccontare, molte pieghe da rivelare e che portino a riflettere, sorridere, emozionare e commuovere. Spesso ho accettato storie di donne forti che, in qualche modo, hanno preso in mano la propria vita e quella degli altri per cercare la salvezza, di qualunque genere essa sia, attraversando strade non sempre dritte. Ciò non deve stupire: quello di voler salLa scelta di un personaggio non è vare è un destino comune per le donmai una cosa semplice. A volte lo de- ne, ognuna a modo suo. cido d'istinto, affascinata dalle donne In particolare, per quanto che mi vengono proposte; altre volte riguarda The Deep Blue Sea, è una conquista che avviene piano e Hester Collyer Page subentrano altre variabili: l’urgenche donna è? za di una storia, la complessità dei È una donna complessa, arsa da temi. Di certo non è la vicinanza con personalità simili alla mia che amori che la lacerano e la annientano. mi convince: può succedere che un Una donna che ama in maniera assopersonaggio mi assomigli, ma non è luta e senza aver praticamente nulla quello che ricerco. Mi piace scegliere in cambio, ma che allo stesso tempo dei personaggi che abbiano sempre sa rinascere dalle sue ceneri. Spesso viene chiamata ad impersonare dei personaggi femminili forti, dal carattere intenso – da Maria Callas a Luisa Spagnoli, fino alle più recenti Carmela Carrizzo de La vita promessa alla Hester Collyer Page di The Deep Blue Sea – ; che cosa deve avere un personaggio per convincerla ad interpretarlo?


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Dal suo punto di vista, dettato dall’immedesimazione sulla scena, in quale “mare profondo” è persa la protagonista?

Nel mare profondo della passione, ma anche nel suo stesso lato oscuro. Con questo amore convive anche il mare profondo della disperazione, l’altra faccia della medaglia. In do-

Assecondare i propri desideri significa essere egoisti o invece responsabili verso se stessi?

Dipende dal contesto. Io credo che in generale si debbano inseguire i propri desideri fino allo strenuo: solo realizzati possiamo aspirare ad essere al massimo delle nostre potenzialità, e ciò a favore non solo di

FOTO FILIPPO MANZINI

dici ore, il tempo in cui si svolge il dramma, la protagonista è sommersa da questo amore e da questa disperazione; lei risale e ne viene inghiottita, per poi risalire ancora. Da dove nasce il suo desiderio di essere attrice?

noi stessi ma anche degli altri. Tuttavia, le variabili e i contesti sono innumerevoli ed è quindi difficile fare un ragionamento universale. In una famosa canzone Francesco De Gregori cantava La valigia dell’attore; che cosa contiene la sua valigia di attrice oggi e com’è cambiata nel corso del tempo?

L’incontro con la recitazione è stato casuale, come spesso accade. Inizialmente volevo affiancare il teatro Amo dire che la mia è una valiagli studi di legge, ma la recitazione è diventata subito una passione esigen- gia leggera, anche se questo è vero solo in parte. È chiaro che tutte te: ho lasciato tutto per seguirla.


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le esperienze che ho accumulato Quindi il pubblico: che cos’è per Lei? Una sua definizione. come attrice e anche come donna Credo che il pubblico sia un amiincidono profondamente in tutto quello che faccio, e soprattutto in co che non ti tradisce, se non lo tradicome lo faccio. Ma quando mi con- sci tu per primo. fronto con una nuova esperienza, Il teatro, il cinema, la TV: mezzi con una sfida mai affrontata prima, differenti, ma che attraverso ogni volta mi piace pensare di farlo una storia possono arrivare a anche con leggerezza, lasciandomi toccare il cuore dello spettatore. un po’ stupire da quello che potrà Nel prepararsi ad affrontare succedere in futuro, senza nessun questi diversi strumenti, qual è pregiudizio e senza opporre alcuna il momento più emozionate per resistenza. un’attrice? Un’attrice impegnata in Sicuramente la scelta della storia ruoli teatrali, televisivi e che interpreterai e quella particolare cinematografici, è spesso fase di lavoro per portarla in scena, in riconosciuta e fermata per cui inizi a vederstrada. Quali sono i vantaggi ne i profili pre- “Amo dire che la mia è una e gli svantaggi legati alla cisi… Alla fine, valigia d’attrice leggera, anche popolarità? quando capisci se è vero solo in parte. È chiaro In passato ci sono state volte in che sei padrona che tutte le esperienze che ho cui è capitato di avere problemi con del personaggio accumulato come attrice e l’invadenza di alcuni fotografi e e sai come l'hai anche come donna incidono paparazzi che non si sono fermati fatto tuo, quan- profondamente in tutto quello neanche davanti allo sgomento del- do la storia stes- che faccio e in come lo faccio” le nostre figlie, mie e di Luca Zinga- sa ti appare in retti. L’apprezzamento del pubblico, modo diverso, quello ritengo sia uno invece, è solo un vantaggio: per la dei momenti più emozionanti per strada, sui social o al supermerca- un’attrice perché hai iniziato a vivere to, davvero dappertutto, devo dire davvero la storia in prima persona. che trovo continuamente manifeL’attore è quella persona che stazioni molto garbate di stima e sembra compiere un passo di grande affetto. Sono conferme piccolissimo, ma che in realtà è belle e importanti per noi attori; l’ienorme: fa un salto e diventa un dea di fare parte, in qualche modo, altro: dalla quinta ha il coraggio dell'esistenza di così tante persone di arrivare sulla scena per darsi è qualcosa che è, insieme, inebrianal personaggio e al pubblico. Lei te e stimolante. Il rapporto di fiducome affronta quei particolari cia con il pubblico è fondamentale istanti che la separano dal e non deve essere mai scontato: palcoscenico? gli spettatori ti seguono e tu devi Con grande agitazione e consempre essere all’altezza delle loro aspettative, dalla scelta del proget- centrazione. E poi, all’ultimo, è to a cui aderire fino a come viene come tuffarsi da un trampolino altissimo nel deep blue sea… portato a compimento.


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Gabriella Pession

Fuori e dentro le emozioni “Bisogna fare un percorso insieme al proprio personaggio, al di là degli estetismi. Alla fine per raccontare una storia è ‘la pancia’ che conta, o meglio il cuore”

È difficile trovare personaggi femminili interessanti da interpretare?

Al cinema o in TV sicuramente sì, perché in genere i ruoli più interessanti sono sempre quelli maschili. C’è una lotta in questo Paese per trovare personaggi femminili importanti, che abbiano delle sfaccettature e delle complessità psicologiche. È difficile trovare ruoli di donne che non siano al servizio di un personaggio maschile: io alcuni me li sono costruiti addosso e su altri, invece, ci sto lavorando anche adesso insieme a degli sceneggiatori con cui stiamo cercando di creare dei progetti basati su una figura centrale femminile. Devo dire che io sono stata molto fortunata: ho avuto la possibilità di incontrare grandi personaggi come, per esempio, la protagonista de La porta rossa. È la parte di una donna silenziosa e

che lavora molto d’inconscio, non si tratta di un ruolo didascalico, cosa assolutamente inusuale per il linguaggio televisivo. Ho voluto dare libertà al personaggio, senza stereotiparlo, e mi sono buttata a capofitto in questo progetto, innamorandomene. In teatro, indubbiamente, c’è una maggiore attenzione alla scrittura del personaggio. Il lavoro che si compie è totalmente differente rispetto a quello richiesto in ambito televisivo o cinematografico e infatti confrontarmi adesso con un testo come After Miss Julie di Patrick Marber − una riscrittura moderna, drammatica e seduttiva del classico di Strindberg − mi ha fatto un po’ paura. Ho avuto inizialmente timore di questa esperienza perché non provengo come impostazione dal teatro, ma io ho un rapporto con A sinistra la paura molto bello, nel senso che il foto di sentimento della paura riesce a dar- Gianmarco Chieregato


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mi la carica giusta. Nel momento in cui non provo più nessun timore e subentra l’abitudine, credo di non riuscire a dare il meglio di me. Il fatto di essere completamene esposta su un palcoscenico, anche se supportata da una squadra così meravigliosa come il nostro gruppo di lavoro, è comunque per me una grande responsabilità. Ma da ex atleta della Nazionale di pattinaggio, sono abituata a gettarmi sempre in cose più grandi di me… Il mio desiderio primario è quello di imparare indagando nuovi modi espressivi, altre zone del mio mestiere di attrice. Quindi il sentimento della paura fa parte di questo mestiere?

Per me è uno stato d’animo essenziale. La ripetitività è la peggiore nemica del nostro lavoro. Ogni ciak sul set ed ogni spettacolo teatrale sono differenti, ed è vivendo con emozione la diversità che questo mestiere può prendere il volo. A volte è bello anche ristrutturare certe cose che si erano già fissate dal punto di vista dell’interpretazione, cercando di tro“Ogni ciak sul set ed ogni vare un imprespettacolo teatrale sono visto sulla scena. differenti, ed è vivendo con Quando ci sono emozione questa diversità dei piccoli errori che questo mestiere può o dei lievi ritarprendere il volo” di, allora accade che possano nascere dei momenti inaspettati e sinceri: la soglia di attenzione cresce e diventa un valore aggiunto al lavoro artigianale della recitazione. Facendo molto cinema, mi accorgo dell’importanza della posizione della macchina da presa nei miei confronti: è qualcosa che entra dentro gli occhi e che ti legge l’anima.

Non si può mentire stando davanti ad una macchina da presa: la mia sfida, come attrice, è fare in modo che questo sconfinato e sotterraneo mondo interiore emerga, in qualche modo, attraverso un movimento o un primo piano. Tutto il mio Io deve poter trapelare attraverso il corpo e la voce, sia al cinema ma anche in teatro, fino alle ultime file di platea. In teatro il lavoro è quasi all’opposto: il pubblico non può soffermarsi sulle mie pupille, sull’immediatezza dell’immagine del mio volto ingrandito sullo schermo. Credo che il lavoro dell’attore sostanzialmente sia far entrare e uscire le emozioni da se stessi in maniera più autentica possibile, riuscendo poi a comunicarle al pubblico e mirando al cuore di chi guarda. Come attrice, io cerco l’emozione continuamente: bisogna fare un percorso insieme al proprio personaggio, al di là degli estetismi. Alla fine è ‘la pancia’ che conta, o meglio il cuore: raccontiamo storie proprio per toccare l’anima delle persone. La sua valigia di attrice, quella cantata da De Gregori: che cosa contiene oggi?

È cambiata moltissimo nel corso del tempo. Oggi mi muovo con il mio bambino e quindi la mia valigia si è moltiplicata… C’è un’immagine bellissima, che una volta mi disse una psicologa con cui intrapresi un lungo percorso di analisi: lei descriveva gli attori come delle lumachine, con la loro casa sulle spalle. Soffrivo molto, allora, di non avere una centralità e un luogo di appartenenza: io viaggio spesso, vivo oltreoceano… La casa, alla fine, è un po’ dovunque vai: ecco perché in questi anni ho


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tentato di ricreare sempre un posto Lei ha lavorato molto anche negli Stati Uniti: esiste una mio, anche attraverso le cose che via americana alla recitazione mi fanno stare bene. Per esempio, oppure, alla fine, questo mestiere in ogni nuova città in cui andavo è qualcosa di universale? per lavoro cercavo un corso di yoga, Il modo di lavorare sui personagproprio per ristabilire una continuità; oggi è diverso: la valigia, quando gi è qualcosa di intimo e molto persi diventa genitori, è difficilissima sonale: sei tu, come essere umano, a doverti mettere in gioco e a conda gestire per gli attori. frontarti con ogni nuova storia. InCom’è nata in Lei la voglia dubbiamente il mercato americano di essere attrice? è differente, forse più impersonale. Fino a quindici anni ho fatto In Italia spesso noi attori scriviamo i pattinaggio agonistico e avrei vo- personaggi insieme agli autori: capiluto continuare a vivere la mia vita ta di aggiungere una scena di una fisul ghiaccio, ancora oggi la rimpiango… Quando ho smesso di pattinare mi è capitato di fare dei provini per delle pubblicità, ma non mi piaceva molto, anche se continuavano a scegliermi. Poi ho incontrato Lina Wertmϋller che mi prese per fare la protagonista nel film Ferdinando e Carolina e mi ha buttato in questo mondo sconosciuto, di cui mi sono inna- ction fatta insieme al regista che non morata pian piano. Il teatro ha tan- era nella sceneggiatura originaria. te similitudini con il pattinaggio: In America questo è un fatto impenle prove continue, la disciplina, il sabile: tutto è suddiviso per reparti, lavorare ogni giorno su qualcosa in il regista cambia ad ogni episodio… maniera minuziosa, la ricerca sem- In Italia forse si è più incasinati a pre di un miglioramento, i viaggi, il livello organizzativo, ma si è anche fatto di vivere in gruppo come se si più viscerali: ci mettiamo sempre fosse una famiglia… più cuore, non c’è niente da fare.

IMMAGINE CLARA BIANUCCI


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Sonia Bergamasco

Un cuore che batte “Far ridere e far piangere, raccontare da attrice la vita nelle sue tante sfumature facendo emergere i chiaroscuri: cambiare costituisce un punto di forza”

Lei è spesso autrice, regista e interprete dei suoi spettacoli; lo stesso accade con L’uomo seme, l’ultimo lavoro con cui sta girando in tournée…

Sicuramente essere direttori di se stessi è molto faticoso e dispendioso, proprio dal punto di vista dell’energia. Però è un’energia che ti ritorna indietro, in qualche modo, e ti arricchisce. L’idea di mettere in scena L’uomo seme parte dalla lettura di un libriccino di Violette Ailhaud di qualche anno fa, edito da una casa editrice che si chiama Playground: per me è stata una vera rivelazione. La storia è ambientata in una comunità montana, in cui si ritrovano a vivere solo donne perché l’ennesima guerra ha portato via tutti gli uomini. Nasce allora un pensiero che diventa poi circolare e condiviso, tanto da fare un patto: il primo uomo che arriverà nel villag-

gio sarà quello di tutte, proprio per ridare la vita. Si tratta di un memoriale raccontato dalla protagonista − la figlia del sindaco − che ricorda, ormai arrivata ai suoi ottant’anni, questa avventura vissuta a sedici anni insieme alle altre donne, tutte contadine che lavorano la terra. È così che lei ha vissuto il suo primo amore perché è stata la prima delle donne di quest’uomo, diventato ‘l’uomo del villaggio’. Sembra una storia magica, ma che attinge anche al reale: può essere una storia vera, come può non esserlo, il linguaggio è talmente forte e semplice allo stesso tempo, tutto è talmente emotivo ma anche sobrio… A me come lettrice, attrice e regista non interessa tanto la veridicità del testo: quello che diventa importante è che la narrazione possa essere creduta come una storia per poterle dare una vita. Io ho studiato musica e in-


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fatti la musica fa sempre parte della mia scrittura di scena: ho pensato subito che questa storia dovesse essere raccontata anche attraverso la

hanno un repertorio immenso di canti popolari a cui hanno attinto per cercare di costruire una sorta di colonna sonora di questa comunità di donne. Sono un coro di attrici-cantanti e Rodolfo Rossi è ‘l’uomo seme’, un percussionista con cui ho lavorato molto in questi anni e anche a lui ho chiesto di stare in scena da attore, non soltanto come musicista. Sono fiera di questo lavoro di gruppo, nato dalla voglia di alcuni artisti di unirsi e mettersi in gioco sulla scena, proprio per dare vita ad una fiaba musicale. Io tengo la linea narrativa dall’inizio alla fine e dopo poco entro anche nel gruppo delle donne: sono una di loro, una voce tra le voci che intreccia la trama del tessuto drammaturgico.

FOTO FILIPPO MANZINI

lingua del canto e mi sono rivolta al Quartetto vocale Faraualla, un gruppo pugliese di quattro cantanti che conosco da diversi anni e che

Quindi il desiderio femminile, unitamente ad un’idea di potere, sono l’anima di questa storia?

Il desiderio è uno dei temi cen-


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trali. Mi ha incantato, e anche molto turbato, la capacità di riuscire a raccontare una notte d’amore e di sesso tra un uomo e una donna con parole così semplici e concrete: sono parole di terra, capaci forse meglio di mille metafore o immagini poetiche a rendere il mistero dell’alchimia di due corpi diversi che si uniscono. Potere invece è un

l’altro, non c’è mai il discorso della donna contro l’uomo, anzi sono l’amore, un senso di nostalgia e il desiderio puro nei confronti dell’altro a prevalere. Le donne sanno di poter vivere anche da sole, lavorano e fanno anche la parte dell’uomo, però il loro desiderio le porta a cercare un completamento. Esse desiderano ristabilire un rapporto FOTO LUCA DEL PIA

termine che maneggio con cautela perché al centro, oggi più che mai, di tutto quello che è la devastazione del nostro presente; ecco perché mi piace pensare a L’uomo seme essenzialmente come ad una storia di donne che prendono la parola e il loro spazio, essendo consapevoli di questo. Sono donne potenti, è vero, ma il potere femminile è un potere che rigenera, non ha niente a che vedere con il narcisismo o con l’autocompiacimento. Nessuno schiaccia

con il ciclo na- “Mi piace lavorare sui testi turale, diciamo in una certa chiave: è come che aspirano a se dovessi sempre fare chiudere il cer- un’operazione di traduzione chio: il passag- dell’autore da affrontare, ma gio delle stagio- attraverso la mia interiorità, per ni, per esempio, riuscire poi a raccontare una ha molto a che storia al pubblico” vedere con questo spettacolo e con il grande potere di rigenerazione che ha il femminile come elemento, non solo umano, ma anche naturale.


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lavorato sulla drammaturgia insieme ad un mio carissimo amico, lo scrittore Emanuele Trevi. La forma-roQuasi sempre scelgo testi non te- manzo sicuramente mi attrae molatrali, che nascono per la narrativa e tissimo, forse anche perché mi piace che mi spingono però ad una riscrit- lavorare sui testi in una certa chiave: tura per la scena. Gli autori a cui ri- è come se dovessi sempre fare un’oUn testo, perché nasca il desiderio per Lei di metterlo in scena, che cosa deve avere?

L'opera Amour di Paola Bolletti, giornalista fiorentina, è esposta al Caffè Guido Guidi presso il Teatro della Pergola. Nella personale l'artista presenta, per la prima volta, lavori realizzati con tecniche e materiali diversi: olio, gesso su corro per i miei spettacoli sono molto tela, legno, spugna e fil diversi tra loro, da Lev Tolstoj a Irène di ferro, in cui soggetti Némirovsky oppure Honoré de Baldal valore simbolico si zac, ma esistono due fili che corrono integrano con frasi, in sempre nelle scelte di questi anni di lingua francese, creando lavoro in autonomia: da una parte è una felice combinazione presente la fragilità e dall’altra invevisiva e concettuale che ce il desiderio. Mi piace attraverso le stimola l’osservatore e lo grandi narrazioni riuscire ad avviciinvita a riflettere, spesso narmi a questi temi, come è stato, per con ironia, su temi della nostra contemporaneità. esempio, con Il ballo ispirato a Irène Un originale gioco tra Némirovsky o a Karénina prove aperarte grafica e parole te d’infelicità da Lev Tolstoj, in cui ho

perazione di traduzione dell’autore da affrontare, ma attraverso la mia interiorità, per riuscire poi a raccontare una storia al pubblico. Uno dei miei nuovi lavori, non a caso, è tratto dall’opera di Primo Levi: la sua è una scrittura forte e io ne sono attratta perché implica una traduzione scenica quasi immediata. Essere interprete di lavori estremamente popolari, dai film di Checco Zalone alla serie di


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Montalbano, cambia la percezione di sé come attrice, soprattutto nei confronti del pubblico?

E il pubblico, che ruolo gioca in questo meccanismo?

Il pubblico è il respiro dello spettacolo e lo spettacolo vive proprio in funzione di chi lo guarda. Sento una fortissima empatia con il pubblico e infatti ogni sera mi metto in ascolto: lo spettacolo cambia e vive sensibilmente in maniera diversa a seconda dell’attenzione e dello sguardo degli spettatori. Ed ecco che essi diventano, a loro volta, protagonisti dello spettacolo.

Ormai gli attori e le attrici passano da un mezzo all’altro agevolmente. Io non ho nessuna preclusione: teatro, cinema o TV, semplicemente si tratta di strumenti espressivi diversi. Penso che quello dell’attore sia un mestiere che debba dialogare con la diversità. Far ridere e far piangere, raccontare la vita nelle sue tante sfumature facendo emergere i chiaroscuri: cambiare costituisce un punto di forza. Riuscire a realizzare un La scoperta della comicità è stato un desiderio porta sempre con sé desiderio covato a lungo perché dopo, un senso di soddisfazione o per esempio, La meglio gioventù in può condurre a volte, anche in cui avevo il ruolo di una terrorista la maniera sotterranea, verso una mia linea espressiva era molto definidelusione? ta: è stato importante per me avere la Mi ritengo una privilegiata perpossibilità di non essere incasellata soltanto come un’attrice drammatica. ché faccio un mestiere che amo, in cui il desiderio e l’amore non posAndando avanti con questo sono mancare mai: prima di entramestiere, come si è arricchita la re in palcoscenico mi batte ancora sua valigia di attrice? sempre forte il È cambiata sicuramente perché c u o r e…R i c o r- “Le donne sanno di poter vivere dentro ci metto dieci anni di espe- do, per esempio, anche da sole, lavorano e fanno rienza come attrice di compagnia Carmelo Bene, anche la parte dell’uomo, che sono stati indispensabili per il che è stato un però il loro desiderio le porta a mio percorso. Uscita dalla scuola incontro fonda- cercare un completamento” del Piccolo ho lavorato con Glauco mentale della Mauri, poi c’è stato l’incontro con mia vita: è stato lui ad insegnarCarmelo Bene… Tutti mi hanno in- mi tanto, soprattutto nel teatro in segnato tanto. Ad un certo punto è campo musicale. Ecco, Carmelo scattata in me la scintilla necessaria Bene quando stava lavorando ad per cominciare a prendere in mano uno spettacolo aveva già pronti alautonomamente gli strumenti del tri quattro progetti, proprio perché mestiere e raccontarmi attraverso provava una sorta di turbine intequella che poi è diventata la mia lin- riore che lo portava a non fermarsi gua teatrale. Ho cominciato a lavora- mai. Quando sentiva che una cosa re in solitaria e credo che questo sia stava per compiersi, non era sodstato un percorso per me imprescin- disfatto e subito doveva creare un dibile: avevo bisogno di una fase di altro vaso in cui riversare le sue autogestione sulla scena, per affinare energie. E in fondo così è la vita: si le tecniche. va sempre avanti…


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Serra Yilmaz

Come tu mi

“È bello pensare che qualcuno abbia sognato su di te, su quello che potresti diventare: mi hanno visto perfino come una nuova Sancho Panza e io lo trovo geniale… Questo mestiere dipende totalmente dal desiderio degli altri”


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Il romanzo Don Chisciotte della Mancia è uno dei testi più affascinanti della letteratura perché incarna il desiderio della pazzia…

Per essere attrici, qual è la corda che deve prevalere: la corda della follia o quella della praticità?

Penso entrambe, per essere attori serve di tutto: la follia, la praticità, Mi è piaciuta subito l’idea di l’intuito, il romanticismo, il materiacollaborare con Alessio Boni, che lismo… Non c’è niente che non possa cura anche la regia, nello spettacolo servire a un attore, anche la minima Don Chisciotte e soprattutto avere osservazione che si può compiere la possibilità di interpretare San- nella vita di tutti i giorni oppure una cho Panza: è una bella novità, che frase sentita in un luogo pubblico: evidentemente diverte, quella per gli attori rubano qualsiasi cosa dalla un’attrice di fare la parte di un ma- realtà, per poi trasportarla nella dischio. Il mio personaggio ha il com- mensione della scena. pito di tenere a bada la pazzia di Pensando ai personaggi che ha Don Chisciotte: Sancho ha i piedi interpretato, dagli spettacoli La ben piantati in terra, i suoi bisogni bastarda di Istanbul e L’Ultimo e i suoi desideri sono molto primaHarem ai film con Ozpetek: che ri. Sancho vuole mangiare, gli piace cosa deve avere un personaggio il cibo e aspira ad avere sempre dei per convincerla ad interpretarlo? soldi per non essere picchiato dalDevo dire che sono una persona la moglie. Sono pensieri che attenmolto curiosa e dunque io voglio sempre interpretare tutto. Inoltre, in scena rappresento un carattere: non sono la giovincella che deve sempre essere la bella fidanzata e basta… Io faccio di tutto: posso interpretare un uomo oppure una vecchia; anni fa, gono alla vita quotidiana: Sancho per esempio, in un film sono dovunon deve combattere contro i mu- ta diventare la nonna di Maria Gralini a vento perché a lui ogni gior- zia Cucinotta e non avevo per niente no tocca lottare contro la fame. La l’età, ma con una bella parrucca e sua visione della vita è molto meno un po’ di convinzione ci sono riusciromantica e stoica di quella di Don ta. Una volta ho interpretato anche le Memorie di una prostituta, una Chisciotte.

vuoi...


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storia completamente diversa, ed è questa la forza di essere un carattere: si è aperti e pronti a tutto. È sempre bello pensare che qualcuno abbia sognato su di te, su quello che potresti diventare: mi hanno visto perfino come una nuova Sancho Panza e io lo trovo geniale… Questo mestiere dipende totalmente dal desiderio degli altri.

visto fare in teatro. Questo spettacolo è diventato un successo tremendo nel quartiere, ci hanno chiesto di rifarlo altre due volte e non c’era neanche un palco su cui esibirsi: avevamo utilizzato i tavoli della mensa e portato da casa dei tappeti per coprirli. I giorni a seguire, quando andavo per strada la gente mi fermava e mi diceva: “Ma sei tu che hai fatto lo spettacolo? Brava, ci siamo divertiti tanto”, e questo E il suo desiderio di essere attrice, mi ha conquistata totalmente. Recida dove nasce? tare è mantenere quel gusto del gioco Nasce dal fatto che io prima di che ci appartiene fin da piccoli: un atessere un’attrice sono stata una spet- tore non riesce mai a consolarsi della tatrice molto assidua, grazie ai miei perdita della sua infanzia. Sul palco genitori che dai quattro anni in poi facciamo finta di mangiare, di essere mi hanno sempre portato a teatro e al morti, di uccidere, di baciare qualcinema. Man mano, anche ad un’età cuno: noi ci crediamo e lo facciamo molto precoce, credere anche al pubblico. E anche i “Recitare è mantenere quel gusto ho iniziato a ve- bambini fanno così, quando giocano. del gioco che ci appartiene fin dere delle pièce E’ vero che in Turchia Lei ha fatto, da piccoli: un attore non riesce per adulti e non da regista, il remake del film mai a consolarsi della perdita solo spettacoli Perfetti sconosciuti? della sua infanzia” per bambini: il Sì, perché quel film mi era piateatro ha sempre fatto parte integrante della mia vita. ciuto tantissimo. Ci è voluto un po’ Ogni tanto, tornando a casa recitavo di tempo, ma Ozpetek mi ha aiutale parti che avevo appena visto e una to per la produzione: non abbiamo volta sono riuscita pure a fare paura a mollato ed è stata davvero una bella mia nonna materna recitandole alcu- esperienza. Ma se mi chiedi di scene scene dal Diario di un pazzo: certi gliere tra attore e regista io ti dirò passaggi glieli dicevo senza specifi- di optare sempre per il mestiere di carle che si trattava di uno spettacolo attrice. Dirigere è un lavoro pesante e mia nonna si preoccupava un po’ e io sono pigra… Da attore, quando perché era convinta che nella fami- arrivi sul set tutti stanno lì a coccoglia di mio padre ci fossero tanti paz- larti; per esempio, ti chiedono: “Cosa zi… Ricordo che mi divertivo molto; vuoi mangiare, la pasta in bianco o inoltre, nelle scuole in Turchia si or- la mozzarella?” E se magari risponganizzano ogni anno delle rappre- do: “Oggi vorrei il rognoncino…”, sentazioni teatrali e siccome la scuola tutti si fanno in quattro per andare che allora frequentavo non aveva a trovarlo. Invece il regista tutte le questo tipo di tradizione, allora pre- mattine deve alzarsi alle sei ed esserparai io stessa uno spettacolo intero ci, proprio di testa, per l’intera giorcon danze, dialoghi, monologhi e nata: non è come l’attore che la sera anche dei pezzi senza testo che avevo mette la testa sul cuscino e si addor-


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menta tranquillo, il regista ha ancora il lavoro che gli gira in mente: “Avrò fatto bene? Avrei dovuto scegliere di fare in maniera diversa?” Il lavoro del regista è molto più pesante, proprio a livello di responsabilità: se come attore reciti una parte da cani si va avanti lo stesso, mentre se non riesci a dirigere bene è l’intero film che si perde.

giapponese’: alla fine può darsi che ci sarà un’ovazione incredibile, ma durante lo spettacolo la platea non risponde. Io sono un’attrice che viene motivata e comincia davvero a recitare sentendo la presenza degli spettatori: è il soffio del pubblico, la sensazione del respiro che ci accomuna in una sala teatrale, a darmi la forza. È lì, durante il tempo della

La recitazione è qualcosa di universale oppure esistono diverse vie – quella italiana oppure quella turca – alla recitazione?

Penso che la recitazione sia universale, anche se i modi di arrivarci sono differenti. Esistono vari tipi di preparazione provenienti da tradizioni molto lontane: quando vediamo il kabuki giapponese, per esempio, sentiamo di confrontarci con un’arte diversa da noi ma ne avvertiamo anche l’universalità, in maniera anche molto seduttiva secondo me. Ho avuto la fortuna di recitare tra Paesi come l’Italia, la Francia o la Turchia e mi sono accorta che alla fine il pubblico non cambia tanto: soltanto in Giappone si notano delle vere differenze perché i giapponesi sono molto differenti da noi. Sono stata in un Festival sperduto nella campagna giapponese e quando dietro le quinte stai aspettando l’entrata del pubblico ti sembra che le persone non arrivino mai. Gli spettatori ci mettono tanto tempo perché devono togliersi le scarpe prima di fare l’ingresso in teatro: sono molto silenziosi e rispettosi durante la rappresentazione, solo alla fine arriva l’applauso. È per questo che in Turchia quando c’è un pubblico che non reagisce tanto alle battute lo chiamano ‘pubblico

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

rappresentazione, che escono tutti i sentimenti accumulati nelle prove: ecco perché ho bisogno di registi che mi diano fiducia in anticipo, il tempo della preparazione per me è un’attesa e a volte può sembrare che io non sia al meglio delle mie potenzialità. Ma una volta che sono sul palcoscenico a me passa tutto: la febbre, la stanchezza, le preoccupazioni o i pensieri della quotidianità…


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Emilio Solfrizzi Paola Minaccioni

La risata che sorprende “Occorre guardare anche al rovescio della medaglia per capire la realtà. Bisogna avere consapevolezza della verità del mondo al contrario”

Perché il vostro spettacolo si intitola A testa in giù?

nasce dal sentimento del contrario, per usare un’espressione pirandelliana. I personaggi dicono tutto e il contrario di tutto. Questo aspetto conferisce umanità alla vicenda perché quando non capisci veramente nella realtà come stanno le cose, fatichi ad orientarti e crollano le tue certezze, così cominci a metterti in discussione. Il titolo originale, L’envers du décor, è una frase idiomatica francese che significa ‘dietro le quinte’ e sta ad indicare proprio che occorre guardare anche al rovescio della medaglia per capire la realtà. Bisogna avere consapevolezza della verità del mondo al contrario.

Solfrizzi: Perché l’universo femminile e quello maschile si capovolgono continuamente… Florian Zeller è un autore famoso in tutto il mondo, soprattutto in Francia, e la genialità della sua scrittura sta nel fatto che fa esprimere ai suoi personaggi in scena non solo quello che dicono, ma anche quello che pensano, rivolgendosi direttamente alla platea. Non si svolge solo l’azione sul palcoscenico: anzi, viene dichiarato anche il non detto ed il pubblico è il solo a conoscere la verità, a differenza dei personaggi che vengono rappresentati. E i pensieri contradMinaccioni: Questo autore ha dicono quasi sempre quello che si dice… La messinscena risulta allora avuto l’intelligenza di mettere in molto divertente perché il comico evidenza la differenza del desiderio

A sinistra foto di Mario D’Angelo


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maschile rispetto a quello femminile e di non mascherare l’animo umano, per rivelarne invece le complessità e debolezze. Il mio personaggio ha messo a fuoco i limiti del compagno, lo ama così com’è, però sa anche quali sono le strategie per tenerselo vicino. Florian Zeller è uno scrittore spietato dal punto di vista dell’analisi dei sentimenti, un autore che diventa anche tragicamente comico.

stai sul palcoscenico, sai che sei al posto giusto nel momento giusto: avverti l’attenzione degli spettatori su di te e qualunque cosa tu faccia diventa un segno che si amplifica, acquistando senso. Da dove nasce il desiderio di essere attori/attrici?

Solfrizzi: Riuscire a contrastare quella che è ‘la pancia dello spettatore’ ovvero accontentarsi dell’immediatezza e della facilità con cui si fa ridere il pubblico. Quando i comici trovano qualcosa che funziona tendono a proporre quel meccanismo all’infinito e il divertimento può anche risultare superficiale o troppo ripetitivo. Occorre avere invece il coraggio di intraprendere percorsi non sempre facili, anche osando e scontrandosi con quegli espedienti che non ti mettono a tuo agio. Soltanto così, sperimentando, può nascere l’invenzione sulla scena.

Solfrizzi: Nel mio caso, sicuramente dalla voglia di essere amato e accettato. Addirittura c’è stato un momento, quando ero più giovane, in cui mi sentivo più a mio agio dietro ad un personaggio che non nei panni di Emilio Solfrizzi… Con il mestiere dell’attore sono riuscito a fare pace con me stesso, con quello che sono. Inoltre, al liceo ho avuto la fortuna di frequentare una scuola con un teatro al suo interno e con dei professori che ci hanno spinto a frequentarlo come un luogo di incontro e di scambio di idee. È stato a quell’età che ho capito quanto il teatro potesse essere un modo per piacere agli altri: a quindici anni hai bisogno di essere accettato dal gruppo, dagli amici e dalle ragazze, e il teatro mi ha aiutato ad accelerare quel processo di crescita già in corso.

Minaccioni: Secondo me l’effet-

Minaccioni: Anche per me la

Quali sono le difficoltà maggiori del teatro comico?

to comico è il risultato del pensiero. Bisogna conoscere molto bene ciò di cui si sta parlando per riuscire a far ridere le persone: se non hai un tuo punto di vista e non vedi le cose prima di tutto a modo tuo, non puoi far ridere. Ed il pubblico che si diverte e ti guarda diventa il tuo amante ideale, la persona da cui vorresti sempre sentirti amata. Il mestiere di attrice ha molto a che fare con l’amore perché quando

passione nasce a scuola. Al liceo facevo le imitazioni dei professori, tutti si divertivano e piano piano il fatto di esibirsi è diventato il mio lavoro. Credo di non aver mai voluto fare altro… Quali desideri si sono realizzati e quali invece devono ancora essere esauditi?

Solfrizzi: Il più grande desiderio che ho realizzato è di fare


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dell’essere attore un lavoro. Con questo mestiere ci vivo e con me tutta la mia famiglia: arrivare ad avere questa consapevolezza non è una cosa da poco, specie in campo artistico. Faccio il lavoro che ho scelto: io adoro stare sul palco o dietro ad una cinepresa, mi piace così tanto che questo può anche distrarmi dai

re gli altri, ma soprattutto te stesso, che puoi e devi continuare a farlo, questo mestiere.

Minaccioni: Un desiderio che ho espresso, e che poi si è realizzato, riguarda proprio questo lavoro. Volevo cominciare a fare l’attrice: desideravo incontrare persone FOTO FILIPPO MANZINI

miei affetti e infatti mia moglie a volte è perfino gelosa del mio lavoro. Ed è sempre restando all’interno di questo mestiere che ho ancora tanti sogni da realizzare: ci sono artisti con cui amerei lavorare, mi sento ancora un ragazzino sotto il profilo della novità e della ricerca. Se si è attori non si arriva mai ad un punto definitivo, si è preda della precarietà: quando fai un film o un nuovo spettacolo, l’unico obiettivo è farne ancora un altro… Tutti i giorni devi metterti in discussione e convince-

sempre diverse “Questo mestiere ha molto a che e avere una vita fare con l’amore perché quando curiosa. Sono stai sul palcoscenico, felice di esserci sai che sei al posto giusto riuscita. Di de- nel momento giusto” sideri da realizzare ne ho a bizzeffe: interpretare ruoli tragicomici, solo comici oppure drammatici, anche dei classici… Insomma, fare tutto. E anche, per esempio, andare in India o in Africa: sento di dover fare un sacco di cose e che i desideri non si esauriscono mai.


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Filippo Timi

Cavaliere dal cuor gentile “I testi dei miei spettacoli nascono nel momento in cui le battute incontrano la vita sul palcoscenico”

In Un cuore di vetro in inverno, il suo ultimo spettacolo, Lei e il resto della compagnia indossate dei vestiti da sposa: perché questa scelta?

A destra foto di Gianmarco Chieregato

Siamo vestiti da sposa perché la scena finale dello spettacolo presenta questi cinque personaggi che, dopo aver accompagnato il cavaliere protagonista del racconto ad affrontare il drago delle proprie paure, si sposano con l’amore e con la gioia. È un omaggio al matrimonio, all’unione e, più in generale, è un festeggiamento alla vita. In fondo oggi siamo tutti un po’ come delle spose: una volta, infatti, guardando le foto di matrimonio di mia mamma o dei miei zii ricordo che lo sposo stava sempre un po’ in disparte, quasi si vergognava, mentre la sposa appariva tutta contenta e fiera, protesa a farsi fotografare. Adesso invece l’abitudine all’immagine è cambiata:

siamo sempre pronti a farci scattare una foto e a non nasconderci, siamo tutti, appunto, come delle spose… In una battuta dello spettacolo si dice che i mulini a vento stanno dentro ad ognuno di noi…

La rappresentazione in scena è metaforica – è come fare un viaggio all’interno della mia testa e del mio cuore – e partiamo però ritrovandoci realmente in questo strano Seicento, in cui ci sono delle prove da superare. Si tratta di combattimenti che appartengono alla nostra intimità, ma che toccano anche il mondo esterno. Forse ci troviamo in un paesaggio quasi lunare, chissà, al di fuori del tempo e dello spazio e che esprime un’idea di desolazione: nel Seicento un cavaliere che doveva affrontare il drago passava anche tanti giorni da solo in mezzo alla neve per inseguire questa creatura mitologi-


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ca. A chi mi domanda qual è oggi il viaggio che deve affrontare il cavaliere, io rispondo che, al di là dei molteplici draghi interiori, forse ne esiste uno che ci accomuna tutti: abbiamo l’urgenza assoluta di provare a salvare il mondo dalla desertificazione e dai repentini cambi climatici. Questa è una delle paure più grandi da demonizzare per la nostra generazione.

avere la possibilità di essere io l’autore dei miei spettacoli con a disposizione degli attori di riferimento, a cui far provare via via il testo per avvicinarlo proprio anche a loro e quindi ai personaggi, sia un regalo molto bello. Questa condizione mi dà l’occasione di approfondire gli argomenti, piuttosto che imporre una mia visione a priori: la mia idea

FOTO NOEMI ARDESI

naturalmente esiste, ma è esaltante scoprire che la tua visione sposa alla fine anche l’interpretazione degli altri attori. Ed ecco che a volte caDa sempre io scrivo e poi scelgo, pita che affiorino certi elementi che in relazione con la scrittura che va neanche ti aspettavi tu per primo: avanti, i vari attori che saranno in il personaggio di Elena Lietti, per scena. I miei testi nascono nel mo- esempio, è uscito fuori così concremento in cui le battute incontrano to dalla scrittura anche grazie ad la vita sul palcoscenico. Trovo che una sua intuizione durante le prove Oltre ad essere interprete e regista dei suoi spettacoli, Lei è anche l’autore: come nasce l’idea per la scrittura di un testo?


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e così, a due giorni dal debutto, mi sono presentato con sedici nuove battute scritte apposta per lei. Lo stesso vale per le scenografie: sono partito volendo proiettare un video della Luna ma confrontandomi con Albertino, il macchinista, e con le altre preziosissime persone che hanno collaborato a questo spettacolo ci siamo accorti che il video poteva risultare troppo fuorviante. Ci siamo spostati quindi verso una specie di macchinazione più da teatro medioevale: un carrellino con sopra un angelo che va avanti e indietro, senza toccare mai terra… Le scelte relative ad ogni mio spettacolo cambiano dunque in base all’incontro con gli attori, con i tecnici e soprattutto con il pubblico. La messinscena è continuamente in ascolto e in dialogo con il pubblico, per questo ogni rappresentazione mantiene una propria poeticità: noi in scena andiamo avanti a raccontare una storia, ma non facciamo mai finta di avere già delle risposte da dare a chi ci guarda. È la storia stessa che svela il suo intreccio, attraverso lo sguardo del pubblico. Stiamo parlando di una legge scientifica: quando si fanno degli esperimenti lo sguardo dello scienziato, la luce della sua intuizione, è capace di modificare il risultato dell’esperimento stesso. Allo stesso modo la luna che, come già detto prima, è presente in Un cuore di vetro in inverno, quando non è illuminata appare come un semplice sasso grigio, ruvido, pesante e pieno di crateri. Quando viene illuminata invece diventa stupenda: così è lo spettacolo, che quando viene illuminato dalla forza dell’amore può farsi poesia. E credo che questo valga proprio per

ogni essere umano: noi siamo sassi, illuminati dall’amore… In che modo la sua recitazione, quando interpreta testi scritti da altri, si modifica rispetto agli spettacoli in cui è Lei l’autore?

Quando sono io a scrivere uno spettacolo, ne avverto maggiormente la responsabilità, soprattutto verso gli attori che ho chiamato in causa e che recitano con me. È anche per questo motivo che provo ad avere sempre un confronto: vorrei che anche loro fossero contenti di quello che dicono e di come arrivano ad esprimerlo. La parola è un mezzo per trasmettere dei sentimenti: ogni volta, nel racconto di una nuova storia, è uno scambio di emozione quello di cui abbiamo bisogno. Anche nei suoi precedenti spettacoli il tema della solitudine, della fragilità del protagonista e dell’amore sono sempre presenti: da Il Don Giovanni, un uomo che rifugge l’amore, all’Amleto che esprime un logorio estremo su se stessi o a Favola in cui una donna scappa da un amore in corso. Perché, invece, in Un cuore di vetro in inverno il cavaliere si apre all’amore?

È un percorso, nel senso che ogni spettacolo nasce non isolato, ma in risposta a quelli precedenti. Dopo aver interpretato una casalinga anni Cinquanta in Favola, con Il Don Giovanni volevo andare proprio tutto da un’altra parte dal punto di vista del racconto e così con Skianto, il mio ultimo spettacolo come autore prima di Un cuore di vetro in inverno: ero solo in sce-


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na per raccontare l’evasione massima, la storia di mia cugina nata con la scatola cranica sigillata… Dopo quello spettacolo è successo che mi sono messo a scrivere monologhi su delle parole chiavi suggerite dalla regista e direttrice del Franco Parenti Andrée Ruth Shammah – la paura, la purezza, la sfida, l’amore – che poi si sono composte insieme e hanno creato il mondo del cavaliere che affronta i suoi draghi. Forse questo spettacolo è una risposta ad un testo come Skianto, in cui il personaggio inev itabi lmente non è in una condizione di affrontare il drago. In questo caso, invece, il ‘sì alla vita’ ha preso il sopravvento. Ma in fondo credo che in tutti i miei spettacoli si riconfermi un ‘sì alla vita’. Ne Il Don Giovanni si dice 'sì a se stessi' nell’ultima scena, quella determinante, quando Don Giovanni non riesce a pentirsi del suo modo di essere e preferisce scomparire, piuttosto che essere ipocrita con se stesso. La decisione di fare un nuovo spettacolo è già, di per sé, un ribadire ‘un sì alla vita’: altrimenti staresti a casa e non ti metteresti in gioco. Quando scrivi getti al pubblico delle suggestioni e delle provocazioni, doni loro quello che è il tuo immaginario.

Il cavaliere umbro di Un cuore di vetro in inverno è totalmente immerso nella paura, ma ha anche il desiderio di muoversi, per riuscire a vincerla. Seguire i propri desideri è una forma di responsabilità verso se stessi?

È vero che seguire i propri desideri è una spinta per vivere e per capire meglio se stessi. Quando i desideri si sposano con una causa

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

non egoistica è “Il teatro quando viene stupendo: se il illuminato dalla forza dell’amore desiderio si apre può farsi poesia. E credo che a l l ’at ten z ione questo valga proprio per ogni verso gli altri, essere umano” all’ascolto del mondo, è qualcosa che ti può far crescere veramente. Credo che tra la parola sogno e la parola desiderio ci siano delle differenze: il desiderio è più concreto proprio perché forse si porta dietro un retaggio più umano.


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DA LT E AT RO D E LL ATOSC A N A

Marco Giorgetti

Qual è il desiderio del Teatro della Toscana per questa stagione?

Il desiderio è quello di continuare a porre delle domande, alle quali il pubblico non trovi una facile risposta. Considerando i tempi tecnologici e veloci in cui viviamo, credo che sia molto importante riuscire a focalizzarci sulle difficoltà. Il nostro è un “Vorrei augurare a tutti di riuscire a superare mondo in cui attraverso uno smarsempre i propri limiti, di andare a vedere cosa c’è tphone e una ricerca su Google siamo oltre e di farsi cullare dal desiderio della curiosità. in grado di trovare la risposta a qualQuesto è l’unico messaggio possibile” siasi cosa: è una dimensione in cui gli obiettivi devono essere facili perché ci interroghiamo su aspetti sempre risolvibili. Il teatro invece, quando è vero, arriva ad una parte del tuo cuore ed è per questo che ad ogni domanda non sempre corrisponde una semplice risposta… Porsi delle do-

un teatro d'arte


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mande rappresenta uno dei più grandi valori che accompagnano la nostra esistenza: noi ci interroghiamo continuamente, durante ogni passaggio della nostra vita. Ecco perché il tentativo, per quanto riguarda le stagioni del Teatro della Toscana, è cercare di mantenere vivo il senso di inadeguatezza del nostro essere rispetto alle vere domande della vita. Questo è il mio desiderio più sincero. Che cosa desidera raccontare il Teatro della Toscana attraverso i titoli, gli artisti e gli spettacoli proposti?

Un teatro si identifica per il suo volto e per l’anima, come se fosse un essere umano. Con questo cartellone io volevo riuscire a raccontare una diversità, declinata secondo una vasta gamma di temi, di storie e di umanità. Soprattutto di umanità. Il desiderio è quello di raccontare umanità talmente differenti, proprio utilizzando il mezzo teatrale: diverse sono le compagnie, diversi i temi e le sollecitazioni… E in un’epoca di grande omologazione il patrimonio della diversità è qualcosa di molto importante, non ce ne dovremmo dimenticare mai. Occorre coltivare la diversità. C’è un’idea generale che accomuna tutte le sale del Teatro della Toscana - Teatro della Pergola, Teatro Niccolini, Teatro Era di Pontedera, Teatro Studio di Scandicci - ma ognuna preserva una sua identità, sempre comunque con delle grandi mescolanze e intersezioni dal punto di vista artistico e organizzativo. Che cosa il Teatro della Toscana desidera per il suo pubblico?

Desidererei che ogni spettatore si facesse vettore di diffusione di

questo meraviglioso luogo che è il teatro. Un luogo che non si vive a volte facilmente o che è difficile da raggiungere: bisogna uscire e muoversi per venire a teatro, non sempre è una cosa semplice o scontata. Quello che mi piacerebbe è che il pubblico stesso si lasciasse contagiare dal desiderio di teatro e trovasse il modo di coinvolgere ancora altre nuove persone: l’ideale sarebbe che il grado di partecipazione si allargasse non solo alle zone più vicine ai nostri teatri, ma anche alle periferie, in posti molto lontani. Sarebbe bello se la comunità convogliasse verso il teatro come un luogo sacro, per ritrovarci, tutti allo stesso livello. Qual è il messaggio, come Direttore, che desidera mandare al pubblico e anche a chi non frequenta il Teatro della Toscana?

Forse, quello che posso dire e che vale per tutti – per chi sta con noi e frequenta spesso le nostre sale, ma anche per chi ci conosce meno ed è più diffidente – riguarda il sentimento del desiderio legato al concetto di limite. Vorrei augurare a tutti di riuscire a superare sempre i propri limiti, di andare a vedere cosa c’è oltre e di farsi cullare dal desiderio della curiosità. Questo è l’unico messaggio possibile. Il focus, l’obiettivo ultimo, del Teatro della Toscana in una parola.

Essere un teatro d’arte. E questo significa essere tantissime cose: dedicarsi ai giovani e all’apprendimento, alla trasmissione di un mestiere attraverso la tradizione, ma proiettandosi sul nuovo e verso il futuro.

Marco Giorgetti è Direttore Generale della Fondazione Teatro della Toscana.


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orizzonte di Mario Biagini

I

l lavoro umano è reale, concreto – anche quello teatrale. La specie umana con sforzo e ingegno applicati trasforma la materia del mondo, quella tratta dall’albero per costruire un tavolo, come quella attinta all’esperienze e alle relazioni e scolpita in forma, per esempio, di narrativa: in letteratura, I fratelli Karamazov ci racconta le vicissitudini di tre fratelli. Ma è questo il contenuto, la materia del romanzo?

Quando lavoro con un attore mi sembra talvolta di toccare assieme un territorio che chiamo del non detto. Tutto quello che non è e non sarà mai nominato, messo in voce, in forma – in azione: aspirazioni, o forse un destino nascosto in ognuno di noi come un codice genetico o stellare. Il desiderio. È questo il compito del teatro, dare voce a ciò che non ha voce? Sarebbe come dire: dar voce al mondo, ai deserti, agli oceani, alle albe e alle moltitudini di esseri. Alle stelle. Eppure, nella costruzione della forma artistica, questo momento sfuggente in cui il non detto splende per un attimo mi è (ci è, forse) il più caro.

Mario Biagini e il gruppo dell'Open Program a Venezia

Il mondo si è manifestato a se stesso nei modi della vita biologica, attraverso la quale la natura si esprime in appetiti violenti e ciechi, producendo in milioni di anni l’autocoscienza e una complessa capacità di rappresentazione. Gli appetiti si associano nell’essere umano a sentimenti e pensieri, in relazione agli altri. Appare il desiderio, aggiogato a obiettivi immediati, all’interno di un orizzonte stabilito dalle circostanze di nascita e vita. Vivere all’interno di quest’orizzonte ci dà a volte un’impressione di libertà (di realizzazione, pienezza), altre volte ci soffoca e costringe. A questo contribuiscono senza dubbio fattori biografici e sociali. Ma che cosa nella nostra vita “mette in forma” la forza del desiderio? Cioè, che cosa stabilisce i limiti delle aspirazioni, l’ampiezza e la profondità dell’orizzonte, la capacità di desiderare come esseri completi e di relazionarsi agli altri in modo pieno e responsabile? Si dice che il mondo sia diviso in deboli e forti. Oggi, nella vita e cultura di tutti i giorni, l’orizzonte proposto alla nascita a un essere nato uomo è diverso da quello proposto a un essere nato donna. Qual è l’orizzonte dell’aspirazione possibile per una donna, una persona discriminata a causa della forma del corpo o il colore della pelle, omosessuale, portatrice di una grave


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patologia psichiatrica, e quanto delle sue aspirazioni può essa esprimere in parole e atti senza temere il giudizio e la sentenza schiaccianti degli altri – senza sentire il peso di un orizzonte costretto, con il quale ha fatto i conti tutti i giorni della propria esperienza? Gli esseri umani hanno bisogni e diritti. Anche diritto al desiderio. Concepiamo i diritti pensandoli; siamo capaci di rappresentarci un futuro migliore. Da cittadini, come riuscire a sentire il diritto dell’altro, oltre a pensarlo? Gli scienziati ci spiegano come il meccanismo principale dell’evoluzione

non sia la sopravvivenza del più forte, ma la cooperazione empatica. L’evoluzione della specie ci ha fornito strumenti raffinati per arrivare a vivere assieme come sembriamo poter essere capaci di fare. L’arte si basa sulla nostra capacità di percezione empatica del mondo e dell’altro, attrezzati come siamo a cooperare in quanto specie. Il desiderio è la forza che pulsa tra le righe de I fratelli Karamazov – il contenuto del romanzo, il non detto. La narrazione, Mario Biagini la storia dei tre fratelli, è ciò che magistralmente crea il mondo immaginario è Direttore Associato in cui percepiamo questa potenza in noi. del Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Dopo l’ultima nota di una musica che ci fa vibrare, attraverso la struttura Richards e dal 2007 della melodia resa trasparente dal silenzio che la segue, per qualche istante dirige il gruppo splende nello spazio della nostra mente il non detto. Ancora una volta, nel di lavoro dell'Open Program. silenzio.


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L'alba di un nuovo canto

Il collettivo Amigdala e il valore Elementare della comunità

di Matteo Brighenti

I

l desiderio è avvicinamento. Ridurre la distanza tra sé e gli altri, i luoghi, il tempo, attraverso l’ascolto, è il passo che fonda il cammino del collettivo Amigdala. “Siamo un gruppo che lavora insieme – afferma Federica Rocchi – questo richiede l’impegno di sentire le diverse opinioni e la disponibilità ad abbassare le proprie difese. «Bisogna intrecciare in ogni scelta importante», scrive il paesologo Franco Arminio, «politica e poesia, economia e cultura, scrupolo e utopia». La coscienza di muoverci nelle contraddizioni è necessaria per vedere le cose nella loro complessità.”

E articolato il gruppo multidisciplinare, di cui oggi fanno parte anche Gabriele Dalla Barba, Meike Clarelli, Sara Garagnani, Silvia Tagliazucchi, lo è fin dal 2005, anno in cui Rocchi fonda a Modena l’associazione con Alice Padovani. La sede era allora un ex capannone industriale nel quartiere La Sacca, dove Amigdala avvia delle piccole rassegne teatrali e il festival Periferico. “Pensiamo sempre all’architettura come l’insieme degli edifici pieni, ma in realtà esistono parti vuote, i “luoghi banali” dei surrealisti e dadaisti, che rappresentano, in qualche modo, l’inconscio della città. Ecco, lì sta una forma di futuro.” A un certo punto, Padovani prende la strada dell’arte visiva e si stacca dal collettivo. Nel frattempo, Amigdala perde la sua sede. La crisi viene affrontata cominciando ad attraversare gli spazi di Modena e facendo di tale attraversamento una poetica. L’accresciuta multidisciplinarietà portata dai nuovi componenti sposta il linguaggio artistico del gruppo e, di conseguenza, di Periferico, dall’ambito teatrale, in senso stretto, al confine tra la musica e la performance. Inizia un periodo, potremmo dire, di nomadismo stanziale. “Nelle Vie dei canti – riflette Rocchi – Bruce Chatwin racconta di come gli aborigeni australiani, cantando, facevano coincidere la necessità di orientarsi con quella di appropriarsi del paesaggio. Per noi, il nomadismo, storicamente prodromico della stessa architettura, ha assunto la forma di una presa in carico dei luoghi, anche molto fisica.” Nel 2017 viene affidato loro dal Comune lo spazio Ovestlab nel Villaggio Artigiano, a Modena Ovest. Qui la riflessione sull’urbanistica si lega ancora di più alla salvaguardia della comunità. “La prima volta ti mette quasi paura, per il diffuso senso di abbandono e rovina. Poi, addentrandoti nel Villaggio,


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scopri l’umanità, le storie che l’hanno costruito. Il suo valore è un bene immateriale. Mario Calderini ha rilevato sul “Sole 24 Ore” che gli asset dismessi valgono zero, acquistano un prezzo immobiliare solo se generano progettualità sociale e culturale. È una rivoluzione copernicana.” «Il futuro dei luoghi», per citare ancora Arminio, «sta nell’intreccio di azioni personali e civili». Com’è Elementare con Meike Clarelli, Elisabetta Dallargine, Vincenzo Destradis, Davide Fasulo, Fulvia Gasparini, Antonio Tavoni. Si tratta della “via dei canti” di Amigdala, una performance musicale vocale, della durata di una notte, a cui abbiamo partecipato a luglio ad FOTO MARCO PAVONE

Altofest di Napoli, il non-festival dedito quanto Periferico a rigenerare l’arte Elementare attraverso i luoghi, e viceversa. “È un provare ad appropriarsi di un tempo at- del collettivo Amigdala traverso il canto, che precede il linguaggio, e costruire uno spazio poetico, per ad Altofest 2018 cercare parole, suoni, che tornino ad accomunarci. Lo si fa di notte, perché sono ore più sensibili, libere da distrazioni. E poi c’è un’alba da aspettare e far nascere: per me, oggi, ha un forte valore politico.” L’esperienza vissuta, quindi, non è affatto elementare. Si è portati a mettersi in gioco completamente. Affidarsi al canto, alla notte e, di conseguenza, al sonno, fa cadere ogni maschera, verso gli altri e, soprattutto, se stessi. La comunità non è fra uguali, è fra diversi. “Ci piace l’idea – conclude Federica Rocchi – di dialogare con il singolo. Elementare, però, lo fa trovare tra tanti, l’individuo è da solo, ma insieme ad altri. In questo, è la nostra produzione più potente.” L’alba arriva per tutti solo se prima l’abbiamo vegliata dentro ciascuno di noi.


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Non si vive di solo pane

I Gogmagog portano a teatro Giovanni Succi, artista della fame

I FOTO FRANCESCO MARGAROLO

l desiderio è straniamento. Andare al di là del conosciuto, con il corpo e la mente. Un altrove che per i Gogmagog abita la libera composizione di un carnevale di immagini, musica, corpi, maschere. “Creare ha bisogno di spazio – afferma Tommaso Taddei – l’astenersi dal cibo di Giovanni Succi può ricordare il fare spazio in noi per aprirci all’invenzione.” Succi fece della fame un’arte e una professione: tra ’800 e ’900 fu il più grande digiunatore del mondo. Sulla scena di Giovanni per campare digiunava la rinuncia al mangiare diviene metafora delle privazioni per spingersi oltre natura.

Gogmagog (da sinistra Lo spettacolo, ideato e scritto da Virginio Liberti, diretto da Taddei e inCarlo Salvador, Cristina terpretato con Cristina Abati, Carlo Salvador, Rossana Gay, debutta, per il Abati, Rossana Gay, progetto Vivere di fame di Stefano De Martin, in prima nazionale al Teatro Tommaso Taddei) Studio ‘Mila Pieralli’ di Scandicci (24 - 28 novembre). È una produzione dei

Gogmagog, con il sostegno di Regione, Comune, Città Metropolitana, Fondazione Teatro della Toscana.


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La Compagnia, con Antonella Colella alla parte tecnica, è nata 20 anni fa a Scandicci. Una città cruciale anche per Succi, segnando non tanto l’inizio delle sue imprese (i natali sono a Cesenatico nel 1850), quanto la fine nel 1918. I Gogmagog sono risaliti a lui, nel centenario nella morte, dall’ultimo racconto di Kafka, Un digiunatore, ispirato, si dice, proprio al più famoso artista della fame. “Succi richiamava migliaia di persone. Famiglie intere pagavano per vedere uno che, pur non mangiando, andava a cavallo o tirava di scherma. Una forma d’arte che già quando Kafka ne scriveva, nel 1922, era abbastanza incomprensibile.” Inquadrare cosa rappresentava all’epoca lo spettacolo del digiuno è stato il tema al centro del laboratorio in cui la Compagnia, con Pietro Gaglianò, Luca Scarlini, Sergio Givone, ha coinvolto 100 studenti degli Istituti superiori cittadini Russell Newton e Sassetti Peruzzi. “Insieme a Kafka – precisa Taddei – abbiamo studiato la storia della performance (Giovanni Succi come una Marina Abramović ante litteram), il cibo e le sue derive patologiche, l’anoressia e la bulimia. I materiali prodotti sono nel libro Vivere di fame ovvero Fame di vivere, che accompagna l’omonima mostra alla Biblioteca di Scandicci (13 novembre - 1 dicembre).” Dello “spirito del leone”, il palcoscenico eredita innanzitutto il dinamismo. “Il ritmo di Giovanni per campare digiunava è incalzante: vogliamo parlare ai giovani. Le problematiche legate all’arte del digiuno si legano a una riflessione su cosa significa fare spettacolo oggi.” L’avvio è un “remix” di Tetris, un videogioco ormai anacronistico quanto lo sarebbe un digiunatore. I “mattoncini” che non riescono ad andare al loro posto sono le tappe della vita rocambolesca di Giovanni Succi. “La narrazione – spiega Tommaso Taddei – non è cronologica. Una donna barbuta tenta di raccontare la biografia di Succi, eppure viene sempre interrotta, il dispositivo non le permette di andare avanti.” In un’atmosfera da circo Barnum contemporaneo, “visitata” dalle tele originali di Marco Ferro e dai video di Ines Cattabriga, i Gogmagog fanno i conti, al pari di Overload dei Sotterraneo, con il calo dell’attenzione nell’era tecnologia (la pantera che rimpiazza il digiunatore kafkiano, una volta morto); parimenti, si riferiscono a quanto è successo loro in fase di ricerca. “Appena indaghi, tutto si fa sfuggente. Ad esempio, non si trovano all’anagrafe il certificato di morte né la tomba al cimitero di San Martino alla Palma.” Il confine tra Storia e leggenda è liquido, quanto il misterioso liquore verdognolo che beveva per sostenersi nelle esibizioni pubbliche. “Nel marzo 1888 – conclude Taddei – Giovanni Succi si fece esaminare da 220 medici dell’Accademia medico-fisica di Firenze per 30 giorni di digiuno. Il celebre Luigi Luciani, ordinario di fisiologia all’Università, decretò uno sdoppiamento: l’apparato digerente era addormentato, mentre il sistema nervoso lavorava normalmente.” L’uomo e il suo “doppio” magico erano il fascino apparecchiato da questo Houdini della resistenza fisica. Tuttora imprendibile. (M.B.)


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DA I F E S T I VA L D E L C I N E M A

Terry Gilliam terra e cielo “Voglio fuggire dal successo della bellezza creata virtualmente. Nel mondo reale si può fare esperienza toccando le cose, sentirne il profumo. Quando l’immaginazione non viene scalfita dalla realtà di come saranno davvero le cose, rimane sempre il sogno, che vince su tutto”

L’uomo che uccise Don Chisciotte, il suo ultimo film, ha avuto ben otto tentativi di realizzazione nell’arco di quasi vent’anni. Perché non ha mai rinunciato? Cosa l’ha convinta a sostenere, sempre e comunque, il desiderio di portare a termine questo film?

Originariamente non sono stato io a decidere di fare questo film, penso anzi che sia stato Don Chisciotte stesso a decidere per me… Abbiamo cominciato a girare le prime scene per cinque giorni con Johnny Deep e Jean Rochefort, ma dopo questo inizio il mondo si può dire che sia metaforicamente collassato perché a causa di vari contrattempi – un’alluvione improvvisa, la distruzione di alcuni materiali sul set e l’abbandono dello


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stesso Jean Rochefort per problemi di salute – il film venne cancellato in fase di riprese, nonostante i 32 milioni di budget stanziati. Allora tutti mi dicevano: “Fermati ora, non andare più avanti”, ma a me non piace quando mi viene detto di fermarmi… Ecco perché abbiamo continuato. Stranamente negli anni che sono seguiti i produttori venivano spesso a parlarmi perché volevano assolutamente che io girassi la storia di Don Chisciotte: credevano di poter fare un film incredibile e mi hanno promesso tanti soldi. Siamo stati tre anni a lavorarci, ma i finanziamenti non arrivavano mai. Quindi ci siamo fermati di nuovo, poi abbiamo ricominciato ancora a girare… Alla fine diciannove anni sono trascorsi e io, ora che finalmente L’uomo che uccise Don Chisciotte è uscito nella sale cinematografiche, sono stato molto preoccupato per la reazione del pubblico. Forse agli spettatori che avevano visto il documentario di alcuni anni prima, Lost in La Mancha – il girato che ripercorre la travagliata vicenda di questa produzione – pensavo che non sarebbe piaciuto il film, essendo il prodotto conclusivo: quando ancora infatti l’immaginazione non viene scalfita dalla realtà rimane sempre il sogno, che vince su tutto.

hai speso una parte considerevole della tua esistenza in quel progetto e ti sembra che il risultato sia bruttissimo… Allora, continui ancora a

lavorarci dei mesi per tagliare delle scene; alla fine posso dire che io amo questo film e penso sempre che abbiamo fatto qualcosa, tutti insieme con il resto della troupe, di cui sono particolarmente orgoglioso. Fare un film è qualcosa di veramente difficile e se riesci a coinvolgere davvero tutti quelli che ci lavorano, facendo in modo che essi sentano di farne La prima volta che ha visto il realmente parte, alla fine anche loro film finito è stato un momento arriveranno ad amarlo. Perché in profondamente emozionante particolare questo film è stato così per Lei? importante per me? In questo lungo Quando stai tanto tempo a girare, periodo di tempo di incubazione mi poi vedi il primo montaggio – il film sono impegnato anche in altri pronon è ancora completamente finito getti, ho lavorato perfino nell’opera ma tutti i vari pezzi sono legati insie- lirica, ma qualsiasi altra cosa facesme – e ti accorgi che stai per vivere la si sentivo che c’era sempre dietro la parte più dolorosa di questa avven- figura di Don Chisciotte ad aspettura: improvvisamente realizzi che tarmi che mi chiedeva se potevamo


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fare un film su di lui… Alla fine ti rendi conto che l’idea si è compiuta, in qualche modo, e sei arrivato al capolinea di un progetto: il sentimento che si crea non è un buon sentimento, perché sai che non c’è più niente che ti aspetta.

to così elevato perché sanno che le difficoltà della vita non possono Fellini per me è stato una delle distruggerli. Ogni volta che vengo più grandi divinità di cinema, ma in Italia sento di entrare in contatto anche Pasolini o De Sica… Molti con la realtà, invece vivendo a Lonregisti italiani sono stati un fonda- dra è facile rimanere imbrigliati nelmentale riferimento nel mio modo le fake news ovvero in notizie totaldi intendere il cinema. Nel vostro mente false e illusorie. Il racconto di Paese si vive con una qualità diver- una vera avventura non ha bisogno sa rispetto all’Inghilterra o all’A- di ricorrere ai super poteri di tanti merica; in Italia si trovano calore e film d’azione o agli effetti speciali: io intelligenza, non avete paura della amo le persone normali che sopravrealtà e questo è ciò che più amo: vivono e sono in grado, con coragÈ vero che uno dei suoi riferimenti cinematografici è Federico Fellini?

Terry Gilliam e Jonathan Pryce sul set del film L'uomo che uccise Don Chisciotte (2018), scritto e diretto da Terry Gilliam

non si raccontano storie inventate sul mondo com’è o come dovrebbe essere. Si tratta di un precario e delicato equilibrio: spesso gli italiani possono diventare addirittura troppo cinici, ma il più delle volte hanno un cuore così profondo e uno spiri-


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gio, di affrontare le difficoltà quotidiane. Voglio fuggire dal successo della bellezza creata virtualmente. Nel mondo reale si può fare esperienza toccando le cose, sentirne il profumo… Dal punto di vista visivo, sono appassionato meno nella costruzione di immagini altisonanti e sono profondamente interessato invece più sugli attori: mi preoccupo di come loro possano percepire i personaggi, in che modo la loro interiorità possa influire sul risultato finale dell’opera. Quando non hai tanti soldi per fare un film, tutto è più semplice: più esiguo sarà il tuo budget e probabilmente più semplice, ma anche intimo, sarà il tuo film. Il prossimo anno per i Monty Python, lo storico gruppo comico inglese di cui Lei ha fatto parte, ricorrerà il cinquantesimo anniversario: è possibile oggi trovare ancora persone disposte a scrivere testi così irriverenti e pronti a tutto pur di divertirsi?

dunque dobbiamo usare l’ironia che può essere un grande sostegno per noi, altrimenti moriamo... Quindi pensa che si possa scherzare su tutto?

Credo che tutto possa essere pretenziosamente divertente. L’importante per la commedia è trovare i tempi giusti: nessuno vuole ascoltare, per esempio, una barzelletta su un morente o un ammalato quando una persona vicina è recentemente scomparsa… Stai raccontando una barzelletta o facendo una battuta, ma non devi dimenticarti mai della sensibilità verso gli altri esseri umani. Essenzialmente, però, considero che non esista nessun argomento su cui non si possa scherzare. Senza una risata, moriremmo orribilmente! Alla fine, se dovesse scegliere tra le due figure di Don Chisciotte e Sancho Panza, chi salverebbe?

Abbiamo bisogno di entrambi: Don Chisciotte, il pazzo e sognatore, Non è impossibile, ma molte e Sancho Panza, il pragmatico che commedie sono diventate oggi più guarda alla stabilità. Essi rappresencoscienziose perché parte del mon- tano, con le loro diverse caratteristido si è sviluppato in una chiave più che, la terra e il cielo: senza questi sotterranea, le emozioni sincere due aspetti del mondo l’uomo non sono trattenute: è difficile riuscire può vivere. a distinguere tra odio e divertimento. L’humour appartiene al lato più vero dell’esistenza e la verità può anche essere scomoda, a volte. La sincerità non dovrebbe mai creare problemi e per arrivare a questo obiettivo tutto è permesso: caricature, cliché comici, insomma tutto quello che non limita l’espressività umana. Altrimenti è l’inizio dell’inciviltà. Dobbiamo imparare a ridere insieme agli altri e a supportarci a vicenda: la vita è così complicata e


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Vanessa Redgrave

nata attrice Dopo una lunghissima e straordinaria carriera di attrice, lo scorso anno ha esordito nella regia con Sea Sorrow-Il dolore del mare, un documentario prodotto da suo figlio Carlo Gabriel che punta i riflettori sull’emergenza globale dei rifugiati. Da dove nasce questa sua nuova necessità espressiva?

Sia io che mio figlio avevamo molto a cuore la situazione terribile dei rifugiati, forse il problema più urgente e complicato da affrontare in questo nostro mondo. Volevamo raccontare i fatti come sono, nudi e crudi, perché “Si stava recitando la fine tanta gente non dell’Amleto e Laurence Olivier li conosce. Forse disse: “È nata una stella, Laerte l’aspetto che più ha una figlia” e Laerte era ci stava a cuore impersonato, appunto, da mio era sottolineare padre Michael Redgrave” le similitudini tra il passato e la situazione attuale: la Storia, quella con la esse maiuscola, è ciclica e tutto è destinato, se pur nel cambiamento, a ripetersi. C’è somiglianza tra l’Europa nazista e fascista della Seconda guerra mondiale – da chi tentava di fuggire e trarre in salvo dall’orrore a bordo del kindertransport tanti bambini e ragazzi – e tutti coloro che oggi attraversano il mare in condizioni atroci per raggiungere l’Europa e soddisfare un proprio desiderio di

salvezza. Migliaia di bambini londinesi furono evacuati nei piccoli paesi delle campagne del Nord e le persone di quei luoghi si prendevano cura dei nuovi arrivati. Io stessa – ero una bambina molto piccola – sono stata trasferita in campagna lontano dai miei genitori insieme a mio fratello, più tardi arrivò anche mia sorella e ricordo che noi eravamo 'bambini di guerra' perché avevamo consapevolezza della guerra. Credo che l’arte possa aiutare a riflettere su questi argomenti. Nel nostro documentario, per esempio, è presente un monologo da La tempesta di Shakespeare interpretato da Ralph Fiennes: in queste parole che appartengono al teatro, Prospero racconta di come da re sia diventato un profugo e un padre angosciato. Lei è figlia di due celebri attori del teatro inglese: è vero che la sua nascita venne annunciata da Laurence Olivier sul palcoscenico dell’Old Vic?

Sì, si stava recitando la fine dell’Amleto e Laurence Olivier disse: “È nata una stella, Laerte ha una figlia” e Laerte era impersonato, appunto, da mio padre Michael Redgrave. Anche mia madre, Rachel Kempson era un mito della recitazione dell’epoca. Mio padre era in camerino e si stava cambiando di fretta: voleva precipitarsi per venire a vedermi, ero appena nata, e Laurence Olivier decise di fargli questo omaggio. E quando lei stessa ha capito che essere attrice sarebbe stato il centro della sua vita?

Fin da quando avevo quattro anni ho sempre sentito il desiderio


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di un palcoscenico. Forse la prima occasione per concretizzare questa mia passione così precoce risale proprio al periodo in cui mi trovavo tra questi bimbi rifugiati di guerra e uno di loro, mio amico e confidente, mi rivelò di adorare il teatro. Ricordo che mi mostrò il suo teatrino portatile: c’erano delle

ma volta sono entrata in scena e ho raccontato di aver perso tutto: fingevo di trovarmi su un’isola abbandonata in mezzo all’oceano e il mio autore mi aveva detto di elencare, su quella scena i mpr ov v i s a t a , “Fin da quando avevo quattro cinquanta cose anni ho sempre sentito che non avevo il desiderio di un palcoscenico”

piccole sicure che si potevano alzare e abbassare; lui stesso scriveva delle pièce e ne creò una apposta per me: avevo allora bisogno di un pubblico! Ho iniziato a recitare davanti a dodici persone paganti mezzo penny al biglietto a quell’epoca e i soldi li mandavamo poi alla nazione, per aiutare la marina mercantile britannica. Ecco che il mio primo sforzo per contribuire a salvare il Paese è arrivato recitando. La pri-

perso. Ovviamente io ho dimenticato quello che dovevo dire, era una descrizione troppo lunga, e mi bloccai davanti al pubblico. Non sapevo cosa fare, finché il mio amico entrò in scena e disse: “Ricominciamo tutto da capo!”, e così questo episodio costituì il mio primo approccio alla recitazione e a questo mestiere. È stato un battesimo di fuoco sulla scena, ma da allora ho comunque continuato ad usare la


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mia voce di fronte ad un pubblico al settimo cielo e pensavo: “Oddio, e sempre a favore di chi soffre per avrò un ruolo come Monica Vitti?”. la guerra. Adoravo questa attrice, una vera mattatrice della commedia italiana: Da attrice, la sua carriera è stata desideravo somigliarle, era così bracostellata da ben sei candidature va… Un altro film importante per ai premi Oscar – nel 1978 vinse me è stato Un tranquillo posto in con Julia – e dall’interpretazione campagna di Elio Petri, un regista

FOTO FILIPPO MANZINI

dalla sensibilità straordinaria. Non avrei mai potuto prendere parte a quel film se i miei genitori da piccola non mi avessero mandata a scuola per imparare il francese e l’italiano I ricordi nel mio cuore sono in- e, chissà, forse la mia vita sarebbe numerevoli. Considero Blow up di stata diversa… Condividevo quel Antonioni una delle svolte della mia set con Franco Nero, l’uomo della carriera. Prima di incontrarlo, lo mia vita. Con lui ci siamo conosciuconsideravo già un dio del cinema ti nel 1967 e nel corso di una vita ci e non potevo credere che mi aves- siamo trovati, persi e poi ancora rise scelto per una sua pellicola. Ero trovati. E mai più lasciati… di innumerevoli produzioni teatrali rimaste storiche. Se dovesse scegliere, c’è un ricordo che si porta più dietro di questa sua straordinaria avventura?


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Non è che la vita vada come tu te la immagini. Fa la sua strada. E tu la tua. Io non è che volevo essere felice, questo no. Volevo… salvarmi, ecco: salvarmi. Ma ho capito tardi da che parte bisognava andare: dalla parte dei desideri. Uno si aspetta che siano altre cose a salvare la gente: il dovere, l’onestà, essere buoni, essere giusti. No. Sono i desideri che salvano. Sono l’unica cosa vera. Tu stai con loro, e ti salverai. Però troppo tardi l’ho capito. Se le dai tempo, alla vita, lei si rigira in un modo strano, inesorabile: e tu ti accorgi che a quel punto non puoi desiderare qualcosa senza farti del male. È lì che salta tutto, non c’è verso di scappare, più ti agiti più si ingarbuglia la rete, più ti ribelli più ti ferisci. Non se ne esce. Quando era troppo tardi, io ho iniziato a desiderare. Con tutta la forza che avevo. Mi sono fatta tanto di quel male che tu non puoi nemmeno immaginare.

Alessandro Baricco


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Dai racconti di una giovane scrittrice...

in controluce

I

niziava a tirare un vento più fresco, le foglie iniziavano a cadere: autunno, stagione di nostalgia. di “Che cosa desideri più di tutto?” Orsola Lejeune “Non lo so, a volte la mattina desidero una bici che pedali da sola fino a lavoro, a volte la sera desidero un teletrasporto che mi porti a casa.” “Comprati un motorino.” “Non ho detto che voglio un motorino. Ho detto che voglio una bici che pedali da sola, non è la stessa cosa. Non lo so, viviamo in un mondo creato per suscitare desideri in continuazione, continuamente bombardati da pubblicità che sponsorizzano l’occasione che perderai da lì a poche ore. Compra ora, adesso, o potresti perdere l’occasione più importante della vita. È una corsa al massacro. Spendiamo soldi che non abbiamo, desideriamo scarpe che vanno di moda due mesi, cerchiamo di avere cellulari dell’ultima generazione e a volte in giorni in cui ho continuamente a che fare con le persone, l’unica cosa che desidero davvero e con tutto il mio cuore è l’umanità.” “Perchè l’umanità? Che vuol dire?” “Vuol dire che viviamo con rabbia, credendoci in una giungla sociale e forse così è davvero. Guardiamo con sospetto il prossimo, cerchiamo la fregatura ovunque. Ci facciamo male l’un l’altro senza nessun guadagno per nessuno. Che legna è? Scoppietta parecchio.” “ Sì... lasciala scoppiettare. “ “Questa immagine sempre al 100%. Tu ci credi a quelle persone sempre perfette? Tu ci credi a questi sorrisi che non arrivano agli occhi? A questi denti bianchi e queste risate sfrenate e sguaiate? Io no. Cerco la crepa, la fallibilità, desidero l’umanità di una persona.” “L’immagine prima di tutto.” “Sì, l’immagine prima di tutto, ma spesso se guardi le persone controluce vedi un’immagine che non corrisponde. A me quell’incongruenza fa impazzire. Li sento strisciare sulla pelle i personaggi che costruiscono, mi danno i brividi.” “ Lo vuoi un tè?”

IMMAGINE CLARA BIANUCCI


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“No. Io sono io, magari sono spettinata, magari non sono perfetta, magari un giorno non mi va di vestirmi ed esco in pigiama.” “Non è vero....” “ Sì l’altro giorno l’ho fatto... sono andata a comprarmi le sigarette con i pantaloni con i panda disegnati. Che soddisfazione. Vedi? Mi basta poco per essere soddisfatta.” “Lo vuoi un bicchiere di vino. Quello lo desideri?”

“Adesso sì, lo desidero, magari fra un po’ vorró un tè e dopo magari non lo vorrò più perché brucia e non mi va di aspettare.” “Che bello questo camino che scoppietta.” “Che bello questo caldo in contrasto con il vino fresco. Forse adesso, qui e ora non desidero niente. Sto bene così.” “È la cosa più bella che possa succedere.” Il camino continuava a scoppiettare, le foglie continuavano a cadere, il pomeriggio procedeva lento in una giornata in cui non c’erano orari, nè corse da fare. Si vive di momenti, qui e ora non c’è nessun desiderio, pochi minuti dopo ne può nascere un altro, in fondo è la spinta che ci obbliga a vivere, ad andare avanti, ad essere voraci, ad essere ingordi. Qui e ora il camino scoppietta, qui e ora c’è la felicità, non ci sono desideri.


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D I E T R O L E Q U I N T E

Paolo Valerio

impegno e passione

Da regista, qual è la molla che l’ha spinta a mettere in scena un testo di Shakespeare come Misura per misura?

L’idea di partenza è stata quella di raccontare una società corrotta, attratta dal male, in cui si intrecciano i destini; in scena il Sacro e il Rozzo del teatro elisabettiano, che “Registicamente il mio ideale è riuscire a montare diventano quelli del mondo di oggi, lo spettacolo il più rapidamente possibile continuamente confusi e sovrape poi lasciarlo andare: gli attori crescono così in posti. Il lavoro si è concentrato sulmaniera autonoma e personale, la figura di un regista presente sul lavorando sul personaggio e costruendolo palcoscenico che racconta la grande con uno studio graduale” umanità dell’opera di Shakespeare, in cui la commedia porta spesso alla tragedia. Abbiamo fatto ricorso ad un uso tecnologico della scena, inserendo delle telecamere e delle immagini che ricordano una sorta di


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Truman Show al contrario. L’idea di fondo che emerge si appoggia sulla figura del Duca che, come molti dei personaggi shakespeariani, è ambigua e misteriosa. Si tratta di un testo talmente attuale e forte, talmente pieno di sfaccettature e così metaforico: si parla di Misura per misura, delle fragilità della Regina Elisabetta e dei suoi tempi, ma il mondo di tensioni, cupezze ed incertezze non è molto diverso da quello in cui viviamo oggi. La crisi dell’ordine sociale è assolutamente contemporanea e gli attori contribuiscono alla storia portando la loro verità, all’interno di questo contesto. Non posso che dire grazie a Marco Giorgetti, Direttore Generale della Fondazione Teatro della Toscana, per la condivisione del progetto Misura per misura e per la sua sensibilità artistica. Speriamo in altre bellissime cose ancora da ideare insieme… Per la realizzazione di una nuova regia, che cosa diventa fondamentale per Lei? Il rapporto con gli attori, la costruzione dello spazio scenico…

Tutto è contemporaneo. Come regista − e questo vale per ogni spettacolo − al momento della messa in scena di un nuovo lavoro parti già da un tuo immaginario personale e anche per questa ragione cerchi di lavorare con degli attori che possano raccontare, proprio dal punto di vista fisico, quella che è la tua visione iniziale. Per quanto riguarda Misura per misura la distribuzione degli attori è stata assolutamente fondamentale, anche perché si tratta di un testo difficilissimo, dalle infinite sfumature. Il Duca e Angelo, i due caratteri maschili interpretati

da Massimo Venturiello e da Luca Toni, hanno un rapporto simile a quello di altri due famosi personaggi shakespeariani: essi sono come Jago e Otello, le due facce della stessa medaglia. Al tempo stesso, l’altra figura principale nella storia è il personaggio di Isabella che deve essere percepita come irraggiungibile: è stato un lavoro molto lungo ed entusiasmante riuscire a trovare un’attrice giusta come Camilla Diana, che avesse una sua freschezza e un’innocenza, essendo contemporaneamente fortemente seduttiva e sensuale. Tutti gli attori nella messinscena hanno un ruolo determinante: la creatività, che si esprime in un lavoro corale, è l’aspetto più coinvolgente del mio mestiere. I giovani attori del gruppo de iNuovi* del Teatro della Toscana fanno parte della vostra compagnia…

Il progetto de iNuovi è una delle intuizioni e realizzazioni più interessanti e utili e vere del teatro italiano degli ultimi anni. Una proposta semplice e rivoluzionaria che speriamo possa essere stimolo ad un rilancio generazionale in un settore così fragile. Questi ragazzi sono entrati nel cast dello spettacolo veramente con passione e impegno. È stato un lavoro condiviso, tra attori di grande esperienza e giovani attori alle prese con i loro primi spettacoli. La relazione tra le diverse generazioni ha dato un’energia in più al risultato finale perché c’è stato un confronto reciproco dettato dall’entusiasmo della conoscenza e dalla voglia di imparare. E il teatro dovrebbe essere sempre così, come un filo capace di legare le varie generazioni.

*Il gruppo de iNuovi formato dai diplomati del Corso per Attori Orazio Costa della Fondazione Teatro della Toscana e da diplomati di altre scuole di teatro italiane - gestisce interamente il Teatro Niccolini di Firenze, seguendo un'idea di teatro in cui l'attore si occupa di tutto, dalla recitazione alla gestione del luogo teatrale stesso.


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spettacolo assolutamente interattivo e il pubblico partecipa al gioco di questa macchina teatrale. Come spettatore e come regista sono staNon ci ho mai riflettuto, però si- to influenzato dalle regie dei grandi curamente posso dire che il lavoro Maestri, da Strehler a Peter Brook, di tecnologia applicato alla messin- perché nei loro spettacoli la scena scena è qualcosa che mi affascina diventa un luogo d’arte condivisa in molto. Anche in uno dei miei pre- cui gli attori si impegnano per un cedenti spettacoli come Il deserto progetto comune. dei Tartari, per "L’attore deve sviluppare esempio, l’uso Riccardo Muti, a proposito del ruolo di direttore d’orchestra, le proprie capacità analitiche della tecnologia ha affermato che un’orchestra e introspettive, parallelamente contribuiva ad suonerebbe anche senza un all’abilità fisica, e questa unione enfatizzare la direttore, solo forse sarebbe più può dare vita a delle intuizioni visione dei diselenta… E cosa accadrebbe invece uniche sulla scena" gni sulla scena ad una compagnia di attori senza di Dino Buzzail suo regista? ti; in Misura per misura è presente Il ruolo del direttore d’orchestra una telecamera in diretta, capace di conferire una grande energia alla è un ruolo di infinita preparazione visione, per poi diventare come un ed è una figura essenziale nell’ormicroscopio che indaga negli occhi ganizzazione del progetto musicale degli attori, che ne cerca le intenzio- ed orchestrale. Poi nella direzione ni e amplifica i sentimenti. Un’altra dal vivo mi è capitato di assistere delle mie cifre stilistiche può essere, ad un concerto in cui il direttore come già detto prima, la ricerca di d’orchestra ha volutamente smesso un lavoro di gruppo e in cui gli at- di dirigere per qualche minuto, e tori sono sempre tutti in scena. Mi l’orchestra ha continuato a suonare. piace l’idea di una scenografia che Anche il regista lavora a lungo sulla sia uno spazio semplice, dalla di- preparazione, crea un percorso, e ad mensione neutra, dove gli oggetti un certo punto del lavoro potrebbe si trasformano grazie al coinvolgi- anche scomparire. Registicamente mento degli attori perché in questo il mio ideale è riuscire a montare lo spettacolo essi diventano macchi- spettacolo il più rapidamente possinisti: sono anche i tecnici che cam- bile e poi lasciarlo andare: gli attori biano le scene. Io stesso ho recitato crescono così in maniera autonoma in alcuni spettacoli e quando mi e personale, lavorando sul personagè capitato di essere in scena dalla gio e costruendolo con uno studio prima battuta fino all’ultima, senza graduale. Non credo ad una regia che scomparire in quinta o in camerino, controlli e analizzi ogni singolo momi sono accorto della forza della vimento dell’attore e, anzi, penso che rappresentazione. Vedere anche il l’attore lavori sul suo personaggio in backstage, a vista sul palco, contri- maniera unica e irripetibile. Dal mio buisce a creare complicità con gli punto di vista, gli attori hanno una spettatori; Misura per misura è uno capacità creativa che a volte può esSe dovesse descrivere ‘uno stile-Paolo Valerio’, per quanto riguarda la regia, che cosa direbbe?


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sere molto più geniale di quella del regista. L’attore deve sviluppare le proprie capacità analitiche e introspettive, parallelamente all’abilità fisica, e questa unione può dare vita a delle intuizioni sulla scena. L’attore non deve sentirsi mai costretto: l’attore ingabbiato dentro una linea troppo precisa soffre inutilmente. Naturalmente esistono anche registi

tato il corso per attori, e anche per questo ne condivido i sentimenti e le problematiche. Quando, da attore tu stesso, finisci per avere “Tutti gli attori nella messinscena u n’e sp er ien z a hanno un ruolo determinante: di regia, la pri- la creatività, che si esprime in ma cosa che un lavoro di gruppo, è l’aspetto viene naturale più coinvolgente del mio è proprio ‘pen- mestiere di regisa”

FOTO FILIPPO MANZINI

dall’impostazione completamente differente: penso, per esempio, al grande Bob Wilson che decide tutto, ogni singola posizione svolta dagli attori… Sono scelte registiche diverse, ma entrambe possibili.

sare da attore’. Bisogna proteggere, ma al tempo stesso lasciare liberi gli attori nel loro lavoro e nel loro impegno sul palcoscenico: soltanto così sono in grado di crescere e maturare, sentendosi veramente in sintonia con un progetto. L’importante L’impressione è che Lei ami molto è avere coscienza di aver costruito le sue scelte in fatto di attori… insieme al regista una strada comuIo provengo dalla Scuola Paolo ne, soprattutto dal punto di vista Grassi, dove ho studiato e frequen- emotivo.


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Michele Santeramo

dalla parola alla scena La scrittura destinata alla scena, per definirsi tale, che particolarità deve avere? Qual è la specificità di scrivere per il teatro rispetto agli altri generi letterari?

mento può poggiarsi su descrizioni, pensieri, dialoghi: in questo modo il sentimento può veramente essere raccontato e svelato. In teatro invece tale meccanismo deve necessariamente contenersi, racchiudersi nella battuta o nell’azione, e ciò fa di questa particolare modalità espressiva una unicità. Da drammaturgo, come nascono le idee? È difficile trovare all’interno di sé la giusta creatività per raccontare una storia e far nascere un testo che poi avrà una sua vita reale sulla scena?

Le idee, diceva qualcuno, sono Dico spesso durante i miei laboratori che la scrittura per il teatro è nell’aria. La scrittura nasce dalla voun tipo di scrittura implosa. Altri lontà di approfondire quel che vedo intorno a me. L’idea di un testo nasce dalla volontà di comprendere meglio qualcosa che mi sembra di percepire. Quindi scrivere non è un atto attraverso cui comunicare quel che so, ma attraverso il quale imparare quel che mi sembra importante. Da dove nasce il suo desiderio di scrivere? E la passione per il teatro?

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

generi letterali come, per esempio, il romanzo hanno la possibilità di servirsi di una scrittura esplosa; queste ultime tipologie di scrittura sono caratterizzate dal fatto che ogni senti-

Scrivere è un atto di presunzione, nella misura in cui scrivendo tendiamo a esprimere una insoddisfazione per come sono le cose, e una volontà di rimetterle in un ordine diverso. Penso che anche per me funzioni in questa maniera: approfondire le necessità delle persone, ascoltare le loro storie per spiegare a se stessi qualcosa di più profondo, da questo nasce la volontà di scrivere, e di farlo per il teatro. Quando scrive pensa mai ai suoi potenziali fruitori del testo (lettori/spettatori)?


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Continuamente. Eduardo diceva che lo spettatore deve riconoscersi tra i personaggi in commedia. È una lezione impagabile che provo a seguire sempre. In che modo un personaggio narrativo si arricchisce o diventa diverso nel passaggio dalla scrittura alla scena? Scrivere tenendo presente un attore in particolare come influenza la scrittura?

La scrittura per il teatro, e l’autore deve tenerlo ben presente sempre, è un servizio alla scena. Scriviamo in due dimensioni, e gli attori danno a quelle pagine vita e terza dimensione. Quindi ogni personaggio, implicitamente, passando dalla pagina alla scena, non può che arricchirsi. Quando mi è capitato di scrivere per un attore o un'attrice in particolare − per esempio, è accaduto nel FestiValdera dove sono stato autore della drammaturgia originaria di Storie del Decamerone partendo dalla riscrittura dell'opera di Boccaccio e destinando ogni episodio ad attori come Anna Foglietta, Marco D’Amore o Claudio Santamaria − l’ulteriore bellezza è stata quella di non appiattire il personaggio sull'idea che io avevo di quell’attore. Questo avrebbe reso ancora più parziale il mio punto di vista, basandolo su un pregiudizio. C’è sempre un filo sotterraneo nella sua scrittura capace di legare, in qualche modo, anche lavori molto diversi tra loro oppure ogni storia è da considerarsi a sé?

Oltre a Il nullafacente nelle stagioni del Teatro della Toscana sono presenti spettacoli come Storie d’amore e di calcio, La ragione del terro-

re, La resa dei conti e Svegliami: come nascono questi lavori? C’è una riflessione tematica e un approfondimento che dura anni, e attraverso il quale si producono vari testi che, ovviamente, non sono mai conclusivi di quella riflessione. Quindi penso che non ci sia dubbio sull’esistenza di qualcosa che leghi i testi, nati dentro la pasta delle stesse riflessioni che sono complicate e che cerco di restituire con semplicità, pur nella loro complessità. Secondo un autore come Paolo Di Paolo la parola “dialogo” acquista un valore fondamentale nel mestiere di drammaturgo: Lei è d’accordo?

Certamente. Dialogo tra attori, tra spettacolo e spettatore, tra tecnici e regista, tra cantinelle e quinte, dialogo dappertutto e sempre. Penso sia anche in questa specificità che risieda quella che definisco l’immortalità del teatro. È un’arte che si fonda sulla relazione, e fino quando esisteranno almeno due esseri umani sarà praticabile. Tramandare il mestiere di drammaturgo e, più in generale, di scrittore è possibile? Si può imparare a scrivere? E il teatro si può insegnare?

Durante la mia esperienza laboratoriale, ho scoperto che esiste una maniera di condividere un percorso, fatto di artigianalità, un metodo, un approccio. Che poi questo venga recepito, e in quale modo, questo è difficile dirlo. Imparare a scrivere, ognuno lo fa come può e come vuole. Si possono insegnare le pratiche, le tecniche, l’artigianato del mestiere. Poi, l’arte, quello è affare di ciascuno per sé.


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S P E C I A L E i N U O V I

Pino Micol

lasciando un segno

Se dovesse dire per Lei quali desideri si sono realizzati e quali invece ancora sta aspettando di costruire?

Se penso ai miei desideri da ragazzo, forse il più importante è stata la volontà di lasciare un segno e di fare qualcosa di significativo in questo lavoro. È stato il desiderio prin“Il desiderio nasce da un bisogno ed è qualcosa cipale della mia vita, quello che mi che viene maturato e concepito nel tempo, in ha guidato: ho lasciato le mie radici maniera reale e razionale; al contrario, il sogno e la famiglia – io sono di Bari – per rappresenta la pura irrazionalità e infatti ha andare a Milano alla Scuola di Strehmolto a che fare con l’istinto” ler e allora muoversi dal Sud al Nord, senza fondi, era molto faticoso. Il desiderio di recitare costituiva però un’attrazione invincibile che mi portava anche a spaccare il mondo pur di realizzarlo. Adesso, forse, esiste per me un tipo di desiderio più dol-


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ce da perseguire e nello specifico si tratta di restituire alle nuove generazioni ciò che in parte ho accumulato, da attore, in tanti anni di esperienza. Questi ragazzi, appartenenti al gruppo de iNuovi e con cui stiamo affrontando insieme un laboratorio sull’Odissea, mi fanno molta tenerezza: tra noi ci sono circa cinquant’anni di differenza e apparentemente può sembrare che non abbiamo niente in comune: le cose teatrali in passato erano talmente diverse, si trattava proprio di un’altra generazione. Però sopravvive intatto – ora come allora – un certo sentire comune verso l’arte teatrale, una passione e una tecnica per affrontare lo studio: è questo che adesso condividiamo.

Ercole, al di là del mondo conosciuto fino ad allora, e così viene punito perché la sete di conoscenza è troppa: deve esserci un limite. Tecnicamente i giovani imparano molto da questo linguaggio così pregnante, ricco di significati complessi e di valenze onomatopeiche. Si abituano a dire queste parole, in maniera profonda.

In che modo il linguaggio di Omero può farsi teatro?

L’intento è stato quello di intraprendere con i ragazzi uno studio sulla musicalità del verso per indagare la parola significante ovvero quella parola che va oltre il significato immediato e più quotidiano. In questo grande poema epico si parla dei compagni di Ulisse che sono preda di continui naufragi: questo è un tema che tocca la nostra contemporaneità perché lo stesso accade oggi nel Mediterraneo, considerato la fonte di tutte le civiltà ma anche un mare pieno di sofferenza per tutti i migranti che lo attraversano. L’altro grande argomento dell’Odissea è la sete di conoscenza rappresentata dalla figura di Ulisse. Dante lo colloca nell’ottava bolgia dell’Inferno, dove si trovano coloro che hanno fatto un cattivo uso della propria intelligenza. Perché Ulisse, con il suo desiderio di conoscenza, osa sfidare l’impossibile: vuole vedere cosa c’è oltre le colonne di

Nella sua carriera Lei ha affrontato più volte personaggi che sono preda dei propri desideri e che aspirano a vivere un cambiamento: penso a Don Chisciotte o anche più recentemente alla figura di Marco Polo, diretto sempre da Maurizio Scaparro…

Don Chisciotte è il paradigma dell’uomo che non riesce ad adattarsi ai tempi che sta vivendo e prova con tutto se stesso a muoversi in una realtà parallela, fatta di fantasia e di desideri irrealizzati. Per quanto riguarda Marco Polo, è il tema del viaggio ad avere il sopravvento. La conoscenza di Marco Polo avviene via terra, lungo la Via della Seta, e si sposta fino ad arrivare alla Cina. Marco Polo è un personaggio che

Pino Micol è uno dei Maestri con cui ha lavorato il gruppo dei giovani attori riuniti sotto il nome de iNuovi. Il laboratorio, concentratosi sullo studio dell'Odissea, vedrà la sua conclusione in una realizzazione spettacolare al Teatro Niccolini nel gennaio 2019.


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ha provato su di sé il senso vero del viaggio, raggiungendo gradualmente i luoghi, per tappe: man mano che ci si sposta cambiano i costumi, il clima, il paesaggio e le persone, finché non arriviamo dall’altra parte del mondo.

C’è diversità tra sogno e desiderio?

Credo di sì. Il desiderio nasce da un bisogno ed è qualcosa che viene maturato e concepito nel tempo, in maniera reale e razionale; al contrario, il sogno rappresenta la pura irra-

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

Realizzare un desiderio è comunque un atto di egoismo o piuttosto un’assunzione di responsabilità verso se stessi, in qualche modo?

Realizzare un desiderio dà soddisfazione alla persona che riesce a concretizzarlo, ma non in senso egoistico: se io sono soddisfatto, poi vivo anche meglio con chi mi circonda. In fondo vale un principio, comune per tutti: l’amore per gli altri è dato anche dall’amore verso se stessi. Non è giusto che le insoddisfazioni personali ricadano sulle altre persone.

zionalità e infatti ha molto a che fare con l’istinto. Quando sogni ti ritrovi anche di fronte a delle situazioni a cui lucidamente non avresti pensato, ma che scavano nel profondo ed emergono, nonostante la tua volontà. La psiche, insieme all’intelligenza, è parte di ciò che siamo ma che non conosciamo fino in fondo: ecco perché il sogno è incontrollato. I sogni sono ispirati dai nostri desideri più nascosti e spesso inconfessati; le nostre paure si sfogano nei sogni che facciamo, che infatti a volte diventano incubi: è il mondo interiore che affiora e che non si può fermare.


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Come talvolta in polveroso campo quattro maschi destrier a un cocchio aggiunti, e tutti dal flagel percossi a un tempo, sembran levarsi nel voto aere in alto e la prescritta via compier volando, sì la nave correa con alta poppa, dietro cui precipitava il grosso del risonante mar flutto cilestro. Correa sicura, nè l'avria sparviere, degli augei velocissimo, raggiunta; con sì celere prora i salsi flutti solcava, un uom secco recando, ai Dii pari di senno, che infiniti affanni durati avea tra l'armi, avea tra l'onde, e allor, d'oblìo sparsa ogni cura, in braccio d'un sonno placidissimo giacea. Quando comparve quel sì fulgid'astro, che della rosea Aurora è messaggero la ratta nave ad Itaca approdava.

Odissea, Libro X|||


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Marina Abramović

Qui e ora “Non credo che l’arte possa cambiare il mondo, però sicuramente può risvegliare le coscienze per vedere il mondo in modo diverso”

Ha detto più volte che l’Italia è la sua seconda patria e infatti alcuni delle sue più importanti opere sono state realizzate proprio nel nostro Paese…

Avevo 14 anni quando mia madre mi ha portato in Italia; mi trascinavo dietro una grande valigia e appena siame arrivate ho cominciato a piangere… Mia mamma mi ha chiesto perché piangessi e io le risposi che la bellezza di questo Paese – penso, per esempio, anche alla malinconia di Venezia – mi toccava il cuore. Noi vivevamo a Belgrado, nel periodo del Comunismo, e certamente non possedevamo le bellezze dell’Italia: le pareti delle case non avevano colore e sembrava che tutti si aggirassero per le strade con un colorito spento… Marina Abramović. The Cleaner è la retrospettiva dedicata all'artista serba Marina Abramović, in mostra a Palazzo Strozzi fino al 20 gennaio 2019

I ricordi dell’Italia si legano anche al suo rapporto con il teatro?

Negli anni Ottanta alla Villa Romana di Firenze io e l’artista tedesco Ulay, il mio compagno di allora e

per molti anni successivi, provavamo una pièce chiamata Fragilissimo che sarebbe dovuta andare in scena al Teatro Niccolini: il debutto fiorentino non ebbe mai luogo, ma quest’opera venne poi presentata ad Amsterdam e Stoccolma. È stato un lavoro importante perché è grazie a questo passaggio in Italia che avvenne la mia riconciliazione con il teatro e che mi porterà ad evolvere il mio rapporto con questo mezzo attraverso un’opera teatrale, Biography, che è stata rielaborata in seguito anche con Bob Wilson. Negli anni Settanta la mia concezione teatrale si riassumeva essenzialmente con il pensiero di “andare contro”: stati d’animo di questo tipo, il fatto di odiare tutto e tutti, sono naturali quando si tenta di trovare la propria strada. La performance, allora, era una forma d’arte molto nuova ed è un po’ come quando i figli entrano in polemica con genitori: ci si oppone, soltanto così è possibile trovare la propria strada. Il teatro per me


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Marina Abramović The Artist is Present 2010, New York

significava falsità: bisognava fare le prove e non si vivevano le situazioni realmente, ci muovevamo usando degli strumenti di scena: il sangue, per esempio, non era sangue vero ma si faceva con il ketchup… Solo anni dopo, quando la performance è diventata una forma d’arte accettata e mi sono affermata in questo

Lavorare con Bob Wilson è stata un’esperienza straordinaria. È un grande regista, che ha sviluppato un nuovo linguaggio teatrale; quando ho ragionato con lui, io gli ho detto: “Vorrei che tu avessi l’intero controllo della mia vita, metto quella che è stata la mia esistenza nelle tue mani”. Sapevo che in questo modo

settore, ho cominciato davvero a rispettare il teatro. Ho capito, proprio grazie alla performance, che si tratta di un gioco meraviglioso: mi sono resa conto che, se ci si cala veramente a fondo in un ruolo, quello che si esprime è la verità.

avrei avuto una prospettiva completamente differente della mia vita perché vista con gli occhi di qualcun altro: questa è una condizione non facile per un artista perché in genere si tende a rimanere attaccati al proprio ego, mentre bisogna imparare ad abbandonare l’egocentrismo. Ho fornito a Bob Wilson tutti quegli elementi che mi riguardavano, a partire dall’infanzia: a lui non interessava tanto concentrarsi sulla mia arte perché diceva che tutti la conoscevano, invece ha deciso di soffer-

The Life and Death of Marina Abramović è una creazione di Bob Wilson e Marina Abramović: insieme avete costruito una biografia poetica e visionaria per la scena…


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marsi sulla storia veramente tragica della mia vita per farne però qualcosa di divertente sul palcoscenico. È l’idea di teatro di Bob Wilson: trasformare il tragico in una risata. Questo è un aspetto che mi ha colpito, a livello molto profondo. Avevo già sentito dire al Dalai Lama che quando si comincia a parlare con

va il pubblico in teatro. Questo tipo di approccio dissacratorio verso le cose, anche le più intime, mi ha veramente guarita da quel dolore che mi apparteneva. Il metodo Marina Abramović è diventato con il tempo anche una sorta di laboratorio con FOTO CLARA NERI

qualcuno è bene raccontare sempre un aneddoto divertente o una barzelletta perché questo è un modo per aprire il cuore di chi ascolta: soltanto così poi si possono affrontare anche argomenti più difficili. Ricordo che durante le prove si mettevano in scena episodi dolorosi della mia vita e io non facevo che piangere: addirittura sul palcoscenico si fingeva il mio funerale, con tre bare che contenevano tre Marine diverse e io davvero dovevo stare all’interno di una di queste bare, mentre entra-

l’obiettivo di far ripetere agli altri le sue performance. Come riesce a trasmettere i suoi valori d’artista, anche a personaggi di fama mondiale e apparentemente estremamente diversi da Lei come, per esempio, Lady Gaga?

Quando Lady Gaga – che ha 45 milioni di followers, soprattutto giovani dai 15 ai 25 anni – mi ha chiesto se potevo insegnarle il metodo Abramović le ho fatto togliere i suoi vestiti stravaganti di popstar per farle indossare una tuta da lavoro;


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inoltre, per quattro giorni non doveva mangiare né parlare con nessuno, mettendo via tutte le sue decine di telefonini, iPad o computer. Ho avuto il piacere di parlare con i suoi genitori che erano molto contenti

sto punto i suoi followers sono diventati anche il mio pubblico. Lady Gaga è davvero un idolo per tantissimi giovani e tutto quello che lei fa li influenza, quindi ho pensato che anch’io potevo diventare uno

perché finalmente lei era lontana da ogni tipo di dipendenza. È stata una grande allieva, ha fatto tutto quello che le è stato chiesto ed era molto precisa. Abbiamo girato insieme un piccolo video sulla sua esperienza destinato ai suoi followers e a que-

strumento di influenza positiva sui giovani, proprio grazie al metodo che ho sviluppato. Io ho creato il metodo Abramović con l’esperienza, spostandomi e viaggiando nelle varie zone del mondo. Ho trascorso un anno con gli aborigeni nel deserto

FOTO THEMAHLER.COM


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dell’Australia centrale, sono stata in Brasile, ho visitato i monasteri tibetani ed è così che ho capito quanto la tecnologia ci derubi veramente del nostro tempo e ci impedisca di concentrarci su noi stessi. Occorre tornare alla semplicità, per arrivare a toccare lo spirito umano. Nella mostra di Palazzo Strozzi a Firenze, per esempio, in una sala si trova un lungo tavolo dove ci sono sopra delle lenticchie e del riso; negli armadietti accanto vanno lasciati tutti i dispositivi elettronici e si indossano delle cuffie insonorizzanti per bloccare ogni tipo di suono. Basta prendere una grossa manciata di riso e lenticchie, mettersi lì a dividerli e poi a contarli, granello dopo granello: questa performance può durare anche sei ore! Oggi la nostra concentrazione dura al massimo tre minuti − il tempo di una pubblicità − ma se ci impegniamo invece a lavorare sulla nostra forza di volontà, allora davvero si viene portati ad un livello diverso di consapevolezza. Se si riesce a fare questo esercizio, sono convinta che poi si riesca anche nella vita. Io dico sempre che chi non sa contare le lenticchie, non sa neanche vivere!

e della società nel suo insieme. Non credo che l’arte possa cambiare il mondo, però sicuramente può risvegliare le coscienze per vedere il mondo in modo diverso. Per me, come artista, è importante rivolgermi con la mia poetica non ad un pubblico d’élite interessato all’arte: l’arte, anzi, deve essere democratica e raggiungere tutti, indipendentemente dall’età o dalla razza, anche entrando in contatto con persone che non sono mai state in un museo. Il mio lavoro è profondamente emotivo: non sono uno di quegli artisti sui quali bisogna do c u ment a r si “Ho creato il metodo Abramović leggendo prima con l’esperienza, spostandomi e di vedere la loro viaggiando nelle varie zone del opera. Il mio la- mondo. Ho trascorso un anno voro deve colpi- con gli aborigeni nel deserto re allo stomaco, dell’Australia centrale, sono suscitando delle stata in Brasile, ho visitato i emozioni forti. monasteri tibetani ed è così che Adesso la cosa ho capito quanto la tecnologia più importante ci derubi veramente del non è più fare nostro tempo e ci impedisca di una performan- concentrarci su noi stessi” ce davanti al pubblico, piuttosto è il pubblico che deve diventare la mia opera. Il pubblico è lo strumento adatto con cui Le sue performance possono è possibile raggiungere un diverso ancora provocare la censura? livello di comprensione e consape- A sinistra La mia scommessa, oggi come volezza perché è stanco di stare solo Marina Abramović quarant’anni fa, è trovare un’idea a guardare: la gente vuole sentire The Hero (video) 2001, e cercare di portarla avanti, senza ed avere una propria esperienza in video: compromessi. Il mio motto è sem- quello che vede. Per esempio, sono video a un canale (b/n, sonoro), 14’21”. pre lo stesso: se qualcuno mi dice stata in Grecia a proporre una delAmsterdam, no, per me è soltanto l’inizio… Dal le mie performance in un momento LIMA Foundation. mio punto di vista non è tanto diffi- di vera crisi economica, con il pro- Courtesy of Marina cile essere una donna artista, quanto blema dei rifugiati e con manifesta- Abramović riuscire invece a non avere paura di zioni organizzate quotidianamente. Archives e LIMA, niente e di nessuno. Spesso le idee Sono arrivate tremila persone a ve- MAC/2017/050:02 di un artista sono all’avanguardia e dermi e senza sapere cosa sarebbe Marina Abramović by provocano la censura del pubblico successo. L’unica cosa che ho fatto è SIAE 2018


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stata parlargli d’amore. E non solo di amore verso le persone che conosciamo e che ci sono vicine, ma mi riferivo all’amore incondizionato verso ogni essere umano. Infatti, come recitano alcune mie parole presenti nel manifesto per l'edizione 2018

banale, pensando a questioni politiche e al problema degli immigrati, dimenticando di avere una visione più ampia. La Terra è un piccolissimo pianeta blu sospeso nell’immensità dello spazio e noi lo abitiamo: per questo “siamo tutti sulla stessa barca”. Le sue performance sono molto dilatate: possono durare ore, giorni, mesi… Che relazione ha con il tempo?

Ho scoperto che la durata della performance è fondamentale. C’è differenza tra una performance che dura un’ora da una che va avanti per mesi: a quel punto la performance diventa la vita. Nelle performance più brevi continui a fingere e recitare, anche se non lo vuoi, perché rimani sempre molto consapevole di te. Per le performance che durano nel tempo, invece, è come liberarsi dei vecchi abiti dell’esistenza e arrivare all’essenza. La performance vera consiste nello stare nel presente, non nel passato o nel futuro. Il pubblico sente tutto: si accorge della paura e dell’insicurezza dell’artista, capisce perfino quando la sua mente non è lì in quello spazio. Bisogna portare il pubblico nel qui e ora e per fare questo bisogna esserci, profondamente. Il tempo non esiste: solo se si pensa a quello che è successo nel passato o che accadrà in futuro si percepisce il passaggio temporale, altrimenti il presente è atemporale. Ecco, se si riesce a portare il pubblico con sé in quell’unico momento presente si può vivere un’esperienza estremamente perdella Barcolana che ha creato molte formativa: avviene uno scambio di polemiche, “siamo tutti sulla stessa energia che non si dimentica più. barca”: è incredibile come si possa in- L’obiettivo della buona arte è quello terpretare questo proclama in modo di arrivare all’animo umano.


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Bologna 1977

Quando Marina Abramović e Ulay crearono Imponderabilia

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iaggiarono tutta l'estate su un furgone scassato per tutta l’Europa, riempito di cibo in scatola e maglioni fatti a mano, Marina, Ulay di e, da poco con loro, Alba la cucciola di pastore albanese presa al Sandra Gesualdi canile di Belgrado. I due artisti, poco più che trentenni si stavano facendo conoscere per le performance condivise in cui intrecciavano capelli e fondevano respiri, dove i loro corpi si scontravano e la loro vita di coppia si traduceva in atti coraggiosi d’avanguardia artistica. Marina adorava passeggiare con Alba che la seguiva ovunque come quell’aurea di energia creativa che inarrestabilmente è cresciuta insieme alla consapevolezza e fama pubblica. Marina Abramović oggi è una star dell’arte, colei che più di ogni altro ha reso fruibile, conosciuta e pop la performance quale forma immateriale d’espressione. È acclamata, osannata, emulata; la sua lunga azione The Artist is Present al Moma di New York è stata visitata da migliaia di persone e Firenze le sta dedicando la prima grande retrospettiva mai organizzata nel nostro Paese. In una recente intervista mi ha raccontato che nella vita non avrebbe saputo e voluto far altro se non la sua arte per la quale ha speso una vita intera, evitato ogni compromesso, dissipato l’anima per riuscirci. Marina c’è riuscita, ma c’è stato un tempo in cui ha dovuto sferruzzare abiti di lana ruvida per sé e Ulay, mangiare zuppe conservate e telefonare al loro gallerista dalle cabine pubbliche per sapere se qualche museo li avesse contattati. Quel maggio del 1977 arrivarono a Bologna, invitati dalla Galleria comunale d’Arte Moderna per la Settimana internazionale della performance in cui ci sarebbero stati anche Acconci, Beuys, la Pane. Giunsero a destinazione con gli ultimi litri di benzina e pochi dollari in tasca. Dormirono per dieci giorni nello stanzino del custode del museo, che lì per lì sembrò una reggia perché aveva un bagno vicino. In quel soggiorno bolognese rifletterono sul ruolo dell’artista nella società e conclusero che se non ci fossero gli artisti non ci sarebbero neppure A sinistra gallerie e musei. Il giorno dell’inaugurazione lei e Ulay si piazzarono nudi, gli Ulay/Marina Abramović stessi lunghi capelli raccolti in una crocchia, all’ingresso del museo. «DeciImponderabilia 1977, demmo di fare un gesto poetico, − si legge nella sua autobiografia −, gli artisti video ½” VHS trasferito sarebbero diventati letteralmente la porta di un museo» e chi voleva entrare su supporto digitale avrebbe dovuto passarci in mezzo strusciando i loro corpi nudi. Nacque così (b/n, sonoro), 50’25”. Imponderabilia, interrotta dalla polizia dopo poche ore perché ritenuta osceAmsterdam, LIMA na e contro il buon costume italiano, una delle più conosciute e riconosciuFoundation. Courtesy of te azioni performative della coppia, una pietra miliare citata in ogni volume Marina Abramović Archives e LIMA, di critica. Le cose immateriali, gli accadimenti, le situazioni la cui natura ed MAC/2017/038. Marina essenza sfugge al controllo, quelle appunto imponderabili, spesso diventano Abramović by SIAE 2018 tasselli di conoscenza e storia.


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La Storia racconta...

sentieri ignoti di Adela Gjata

N

el 1972 un gruppo di giovani dilettanti − un industriale, un avvocato, un impiegato, un tornitore e un fornaio − davano vita a Pontedera a un centro teatrale ispirato alle più alte espressioni artistiche dei maestri ribelli del secondo Novecento. Persone dalla doppia vita: di giorno la fabbrica o la professione, la sera il teatro. Fare teatro non era per loro un divertimento o un atto di cultura. Volevano dare una svolta alle proprio vite facendo un teatro differente, dare corpo a un desiderio che era prima di tutto necessità, bisogno fisiologico e istanza esistenziale. La sommossa personale di quel gruppo di giovani dilettanti, unitisi sotto il nome di Piccolo Teatro di Pontedera e capitanati da Dario Marconcini, è stato il seme che trasformò la cittadina toscana sulle sponde del fiume Era in un fervido polo teatrale di livello internazionale. Poco dopo la sua fondazione il Piccolo Teatro di Pontedera partiva con un pulmino verso Hostelbro, sede dell’Odin Teatret, un faro per il teatro di ricerca. Nella cittadina danese videro Eugenio Barba al lavoro, il training dell’attore e assistettero al Min Fars Hus (La casa del padre): spettacolo che segnò non solo la compagnia, ma un’intera generazione teatrale. Il viaggio a Hostelbro fu particolarmente importante perché portatore di un incontro determinante, quello con Roberto Bacci, allora un giovane laureando, che sarebbe diventato presto direttore artistico dell’imminente Centro per la Sperimentazione e la Ricerca teatrale (1974) e regista della compagnia del Piccolo, ancora oggi fulcro carismatico e anima creativa del Teatro Era di Pontedera. Un piccolo gruppo di attori semi-improvvisati e un giovanissimo regista stavano trasformando il Piccolo Teatro di Pontedera da una compagnia di dilettanti a una compagnia di ricerca. C’era in loro un modo radicalmente diverso di guardare al proprio mestiere. Il che voleva dire tenere conto di più aspetti del fare teatro, non solo la creazione di spettacoli, ma anche l’instaurazione di contatti con altri mondi, con altre cellule, l’organizzazione di seminari che favorissero il processo di autopedagogia del gruppo, l’ospitalità a chi veniva sentito come guida, in sintesi la costruzione di una struttura che permettesse loro di vivere il teatro come se lo immaginavano: un percorso esistenziale intenso e necessario prima che un lavoro.


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A Pontedera cominciarono a far parte del lavoro quotidiano dell’attore cose nuove. C’era il training, le improvvisazioni. C’era la tenacia di perseguire la propria utopia teatrale, la costruzione di un luogo di ricerca e sperimentazione, in una parola, un laboratorio, in cui l’attore seguiva quotidianamente, per anni interi, un programma di apprendimento permanente, senza l’assillo della produttività a ogni costo. E c’era soprattutto il desiderio di costruire un gruppo, una comunità di persone che considerava il proprio mestiere come crescita personale, nonostante le difficoltà. Sentendosi fuori dal ‘grande teatro’ italiano scommisero di costruire un Centro di cultura teatrale che sfuggisse al contesto ufficiale, si inventarono un teatro corrispondente alle proprie esigenze, che iniziava dalla formazione: incontrare di persona quei maestri e pedagoghi che sentivano come guida, i loro modelli viventi, il Living Theater, Jerzy Grotowski, Eugenio Barba, i Bread and Puppet, Peter Brook e Samuel Beckett. Nel percorso lungo quasi mezzo secolo, il Teatro di Pontedera ha scelto l’ignoto come unica strada possibile da ripercorrere, assunto che ha portato Roberto Bacci e il Centro per la Ricerca e la Sperimentazione Teatrale a vivere esperienze sempre nuove, che approdano nel 2008 all’inaugurazione del Teatro Era – un edificio che ha la forma dell’uomo – e oggi al Teatro della Toscana. Un percorso in moto continuo, fatto di cadute e rigenerazioni, cambiamenti e atti di coraggio, rifondazioni e incontri importanti; un cammino che ha le sembianze della vita e delle sue stagioni, che si ispira all’uomo e alle sue domande più profonde.

Nella foto, visto di spalle, Samuel Beckett durante le prove di Aspettando Godot, nell'ambito del progetto Beckett directs Beckett, Pontedera 1984


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PROGRESSIVI SPOSTAMENTI DEL DESIDERIO

Aspettando Isabelle Huppert di Riccardo Ventrella

L

a vedremo alla Pergola tra un anno, nell’ottobre 2019. Manca ancora un anno, ma lo spettacolo che debutterà a maggio al Théâtre de la Ville di Parigi per poi raggiungere Firenze in autunno ha tutti i crismi della pietra miliare: Mary Said What She Said, ovvero uno studio sugli ultimi istanti di vita di Maria Stuarda, la regina sfortunata, già soggetto di almeno quattro tragedie. La Huppert torna a lavorare con Bob Wilson, fatto che tende a confermare l’eccezionalità dell’avvenimento, e con lo scrittore Darryl Pinckney, coi quali fu già protagonista di Orlando. Con il solo Wilson, invece, apparve nel 2006 in Quartett di Heiner Müller.

Un ritorno continuo a quel teatro che così tanto ha frequentato nella sua lunga carriera, un altro personaggio femminile al limite, come quelli che ha scelto fin dall’inizio di impersonare. Isabelle Anne Madeleine Huppert cresce in una cittadina della cintura parigina, non lontana da quella Boulogne-Billancourt dove avevano sede fino all’inizio degli anni Novanta gli stabilimenti della Renault. Recita praticamente da sempre: la troviamo nel 1971 alla Comédie in un ruolo di contorno della versione di Jean-Louis Thamin delle Preziose ridicole di Molière. Nel 1974 è invece nell’adattamento di Per chi suona la campana firmato da Robert Hossein. Nel frattempo ha debuttato al cinema con I primi turbamenti, una pellicola vagamente softcore nella quale divide l schermo con altre due fanciulle in fiore, Nathalie Baye e Isabella Adjani. Appare in È simpatico, ma gli romperei il muso, pessima traduzione italiana del César et Rosalie di Claude Sautet, e poi nell’astruso Spostamenti progressivi del piacere di Alain Robbe-Grillet. “Non interpreto personaggi, ma persone”, ha detto in una recente intervista rilasciata a Elle. La sua fortuna comincia proprio attorno al ritratto di una persona. Quando si presenta l’occasione della vita Isabelle Huppert la coglie recitando ne La Dentellière di Claude Goretta, da noi conosciuto come La merlettaia. È questo il suo primo grande ritratto femminile, la dolce e indifesa Beatrice detta Pomme, apprendista parrucchiera, irretita da un giovane di una classe sociale più alta della sua e lasciata a consumarsi psicologicamente, fino all’annullamento totale. La figura esile di Isabelle Huppert, lo sguardo semplice, sono il preludio a un dramma straziante. L’interpretazione la lancia definitivamente e prelude a un secondo ritratto ancora più intenso, che apre la strada a un filone importante della


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sua carriera, dedicato a personaggi storicamente esistiti. Il ritratto di cui si parla è quello di Violette Nozière nel film omonimo di Claude Chabrol. Qui la Huppert ricostruisce una figura che godette per un certo periodo di grandissima fama in Francia: la Nozière poco più che diciottenne tentò nel 1933 l’omicidio dei genitori, riuscendo a portare a termine il proposito solo col padre. Il processo appassionò il Paese dividendolo in colpevolisti e innocentisti, sia per la giovane età dell’imputata sia per la sua controversa personalità, sia per la storia di abusi e autoritarismo che si diceva avesse preceduto la decisione di uccidere il padre e la madre e che la parte più re-

FOTO BRIGITTE LACOMBE

triva della società non riuscì mai ad accettare come vera. Violette Nozière fu condannata ma fuggì il patibolo, finendo per essere graziata dopo la fine della guerra. Durante il processo era divenuta una beniamina degli artisti delle avanguardie, dei surrealisti in modo particolare: Èluard, Breton e altri le dedicarono una raccolta di poesie e illustrazioni edita in Belgio che finì per essere sequestrata dalla polizia. Della Nozière Isabelle Huppert dà un intenso ritratto, condito di una malizia naturale e quasi perversa, che riproduce l’origine del turbamento della società francese all’epoca dei fatti e le vale il premio per la migliore interpretazione a Cannes, in condominio con la Jill Clayburgh di Una donna tutta sola.


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È una delle sorelle Brontë, Anne per la precisione, nel film omonimo di Téchiné (le altre due sono la Adjani e Marie-France Pisier), e continua nella “collezione” di grandi registi francesi lavorando per Godard nel mesmerico Sauve qui pet (la vie). Per Mauro Bolognini è la signora delle camelie, prima di ritagliarsi un ruolo nel film maledetto di Michael Cimino, I cancelli del cielo, nel quale è Ella, la tenutaria del bordello che si invaghisce di Kris Kristofferson e Christopher Walken. Si cimenta in due polar diversissimi tra loro se non per l’ascendenza americana, Acque profonde di Michel Deville da Patricia Highsmith e Colpo di spugna di Bertrand Tavernier da Jim Thompson. IMMAGINE CLARA BIANUCCI

Poi è ancora Godard, e ancora un ritratto femminile complesso: in quel film straordinario per il legame con le arti figurative che è Passion, Isabella Huppert incarna un personaggio col suo stesso nome, un’operaia balbuziente licenziata dalla fabbrica in cui lavora perché attivista sindacale, innamorata del regista della pellicola che è metacinematograficamente il soggetto del film stesso. Impersona poi Piera degli Esposti nel racconto della sua complessa gioventù, Storia di Piera di Marco Ferreri che ottiene un gran successo a Cannes nel 1983 (anche se la Palma d’Oro va a La ballata di Narayama di Imamura e il premio della migliore attrice alla compagna di set della Huppert, Hanna Schygulla, con la quale tra l’altro aveva già recitato in Passion).


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Sfuggito a Cannes, il premio per l’interpretazione torna qualche anno dopo a Venezia. Alla base c’è una storia criminale che ricorda quella di Violette Nozière. Protagonista è questa volta Marie-Louise Giraud (Marie Latour nel film), una donna che nella Francia di Vichy affitta camere a prostitute a Cherbourg. Praticato per caso un aborto per aiutare una vicina diventa una specialista di questa pratica, particolarmente vietata nella Francia dell’epoca. Nella realtà a tradirla fu la morte di una delle sue clienti per setticemia, nel film, invece, è il marito che lei tradisce con un collaborazionista a denunziarla. L’epilogo è lo stesso: alla fine del luglio 1943 Marie è una delle ultime donne in Francia ad essere ghigliottinata. Il film è Un affare di donne, di Claude Chabrol, e per la Huppert arrivano la Coppa Volpi a Venezia e il César. È l’ora di tornare a teatro: nello stesso anno di Un affare di donne, il 1988, la Huppert recita in Un mese in campagna di Turgenev, poi nell’opera Giovanna d’Arco al rogo di Honegger, con il libretto di Paul Claudel. Nel mezzo un altro ritratto femminile iconico, quello di Madame Bovary che recita per Claude Chabrol. Detto già di Orlando recitato per Bob Wilson, si può passare all’ennesimo dipinto di donna legato al male: è Jeanne, impiegata di un ufficio postale, che si lega in modo malsano alla domestica Sophie, impiegata presso una famiglia abbiente che vive nella campagna bretone. Entrambe con storie di violenza alle spalle (Sophie, che è analfabeta, ha probabilmente ucciso il padre disabile mentre Jeanne è accusata di aver eliminato il figlio) concepiscono un sordo rancore per la famiglia che dà lavoro a Sophie finendo per trucidarla barbaramente. Il buio nella mente, ancora per Claude Chabrol, vale alla Huppert nel 1995 per il personaggio di Jeanne una seconda Coppa Volpi, divisa con Sandrine Bonnaire che nel film è Sophie. “Non sono una persona che intimidisce”, ha detto la Huppert di sé rispondendo a una domanda sulla fragilità ma anche sull’aggressività latente dei personaggi che interpreta. Si tratta di una fragilità complessa, oltre la delicatezza del cristallo ma con la forza dell’acciaio. È così la figura di Erika Kohut, l’insegnante di musica de La pianista di Michael Haneke, divenuto nel tempo uno dei suoi registi favoriti. Così è in particolare negli ultimi film da lei recitati: un misto di remissività e vendetta sorda anima sia la businesswoman di Elle di Paul Verhoeven che la prostituta d’alto bordo di Eva di Benoît Jacquot; oppure nell’ultimissimo Greta, diretto da Neil Jordan, dove di nuovo è una pianista che stringe una sinistra relazione con una donna più giovane di lei. A teatro è stata Medea, poi la Blanche di Un tram chiamato desiderio, Araminta de Le false confidenze. Ha letto la Justine del Marchese De Sade, ha attraversato vari stadi del personaggio di Fedra, da Euripide a Sarah Kane. “Le figure femminili poco rassicuranti sono le più interessanti da interpretare perché riflettono la complessità dell’animo umano e la ricchezza espressiva del cinema”, ha detto nel 2017 a Grazia: e davvero nel campo del “poco rassicurante”, nell’analisi dei progressivi spostamenti del desiderio, Isabelle Huppert si è distinta come poche altre attrici.


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Ci sono giorni pieni di fulmini colorati; Ogni stella ha un colore e un nome per essere chiamata e trovata. Ci sono giorni stanchi pieni di nuvole grigie senza volto. Attimi assordanti e venti caldi. Ci sono giorni lunghi e freddi; Solitari e sileziosi. Occhi chiusi e sguardo aperto verso visioni lontane ma cosĂŹ vicine da sembrare vere. E tu ed io, ancora tu ed io. Passo dopo passo, respiro nel respiro.

A.


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La nostalgia del desiderio

“I

da Massimo Recalcati*

l desiderio umano non è solo il desiderio di libertà, il desiderio dell’aperto: il filosofo Nietzsche, infatti, identifica il desiderio con l’immagine del navigatore, con l’essere umano capace di affrontare l’orizzonte illimitato del mare. Questa è un’immagine bella e potente del desiderio della libertà che veniva molto evocata, per esempio, dai giovani del ’68; in realtà, però, lo stesso Nietzsche, mentre esalta la libertà come esperienza del mare, già parla dell’altra condizione dei navigatori, anche di quelli più avventurosi e coraggiosi, in cui può sorgere un sinto-

FOTO ZOE GUERRINI

*dalla lectio magistralis Vita e morte del desiderio, che ha aperto la rassegna Notturno Europeo al Forte di Belvedere di Firenze

mo molto particolare: Nietzsche lo descrive come “nostalgia della terra”. Stare all’aperto nel mare e fare esperienza della libertà: questa vertigine può farci avere nostalgia del suo opposto, la terra appunto, facendoci sognare di toccare il suolo invece che il cielo. Il mare ci fa ambire all’illimitato, ci porta verso l’aperto e sconfinato, ma contemporaneamente esiste un altro desiderio umano, una tendenza contraria all’esperienza del mare. Per Umberto Eco, è il desiderio eterno di fascismo che ci appartiene intimamente a bloccare ogni altro desiderio. Siamo di fronte quindi ad un


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paradosso legato alla condizione di ogni essere umano e ben descritto da un autore come Wilhelm Reich, che negli anni Tenta scrive Psicologia di massa del fascismo. Hitler e Mussolini sono già al potere, Stalin si è appena affermato nell’Unione Sovietica e Reich si interroga nel suo libro per capire come sia possibile che l’Europa si sia incamminata verso questa barbarie collettiva. La domanda che si pone Reich all’inizio del testo non è quella che ci aspetteremmo – perché le masse hanno sopportato passivamente la dittatura e non si sono subito ribellate? – ma è un quesito ancora più radicale e sconcertante: il fascismo può essere un oggetto di desiderio? Il vero grande problema è che “Il mare è l’immagine della l’essere umano ama la sua libertà o ama le sue catene, bellezza e della libertà, ma anche specchio dell’incertezza e la sua schiavitù…

dell’ignoto. Noi viviamo sul filo

E questo accade perché perdere le proprie catene è precario di questo mare” qualcosa di inimmaginabile e vertiginoso, qualcosa capace di creare uno stato di angoscia. Secondo Nietzsche all’interno di ogni individuo convivono il leone, il cammello e il fanciullo; in particolare, il cammello rappresenta la versione orientale del mulo o dell’asino: essere muli significa portare su di sé dei pesi ed è in questo modo che il nostro desiderio viene schiacciato. Quali sono i pesi che il cammello si ritrova a sopportare? Sono i pesi delle tavole della legge e dei valori: ecco perché il cammello diventa l’animale che soccombe sotto il peso del sacrificio e del dovere.

Ma gli esseri umani non soltanto si sacrificano, anzi: essi amano il sacrificio. Il cammello è l’animale-uomo che rinuncia alla vertigine del mare e della libertà. Portare avanti i pesi dei valori prestabiliti è più semplice e tranquillo: rimanere a casa, non spostarsi dal suolo conosciuto, fa sentire l’uomo al rifugio. La fuga dalla libertà è una pulsione antica che ci riguarda, tutti noi: una delle tendenza umane più profonde conduce prima verso la sicurezza rispetto alla sperimentazione, verso il rifugio rispetto alla libertà, verso la servitù rispetto “Portare avanti i pesi dei valori prestabiliti è più semplice e alla gioia della vita.

tranquillo: rimanere a casa, non La dimensione del desiderio eterno di fascismo ci toc- spostarsi dal suolo conosciuto, fa ca soprattutto quando siamo più esposti e vulnerabili sentire l’uomo al rifugio” al confronto con l’ingovernabile, con ciò che fa paura. Il mare è l’immagine della bellezza e della libertà, ma anche specchio dell’incertezza e dell’ignoto. Noi viviamo sul filo precario di questo mare e quando facciamo esperienza dell’ingovernabile diventa facile evocare l’esistenza del ‘mulo’ a cui tendiamo inevitabilmente: è un'illusione a cui ci aggrappiamo, per stare al sicuro. Questo non è solo una delle questioni sfruttate da certe fazioni politiche, piuttosto si tratta di una tentazione, che abita ciascuno di noi. La vita del cammello è la vita che rinuncia al desiderio. In nome della terra e del sacrificio, il cammello che è in ognuno A sinistra foto di Filippo Manzini di noi uccide il desiderio”.


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A proposito di Orazio Costa

le radici del metodo mimico

“U

di Laura Piazza

na nuova pedagogia che alle origini ha un segreto”: così Orazio Costa, l’8 maggio 1994, traccia un bilancio della sua cinquantennale ricerca. Da questo “segreto” comincia il nostro percorso a ritroso alle radici del principale metodo per la formazione dell’attore elaborato in Italia. C’è un volumetto – Lo zen e il tiro con l’arco, del filosofo tedesco Eugen Herrigel – che Costa indicava come utilissimo e propedeutico all’incontro con il suo metodo. Procedendo parallelamente nelle riletture dei quaderni, in effetti, lo scritto del filosofo tedesco pareva toccare, pur nella sua brevità, alcuni punti essenziali, i medesimi in cui Costa, che presumibilmente lo lesse dopo la seconda metà degli anni Sessanta, aveva potuto riconoscere la fisionomia delle questioni nevralgiche della sua ricerca. Ritualità, circolarità spirituale tra maestro e allievo, preparazione tecnica come chiave d’accesso a una dimensione ultima che a ogni modo pertiene all’area dell’indefinito, la convinzione di un’arte-viatico alla riappropriazione di un nuovo umanesimo, che chiaramente riconosca nell’attore il suo primo terreno d’indagine: questi gli assi portanti della riforma costiana, lungamente sperimentata nella pratica didattica presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica (1944-1976); presso il Centro Nazionale di Cinematografia (1956-1967); presso il Conservatorio di Santa Cecilia (1963-1969); a più riprese, sempre negli anni Sessanta, presso l’Institut des Arts de Diffusion a Bruxelles e, infine, a partire dal 1979, a Firenze, presso il Centro di Avviamento all’Espressione.

Questo lavoro si concentra sugli scritti personali del regista, conservati nell’Archivio Costa, presso il Teatro della Pergola di Firenze. Lo fa in maniera parziale, come è inevitabile, con il principale movente di cogliere Laura Piazza è autrice del dalla viva voce del maestro gli arrovellamenti, le cavalcate in avanti e gli volume commissionato arretramenti, le deviazioni e gli approfondimenti di un pensiero intorno dalla Fondazione Teatro della Toscana L'acrobata al metodo mimico, intorno all’essere uomo che fa l’attore: interprete, gadello spirito - I quaderni rante di una riappropriazione della dimensione rituale della scena, cui è inediti di Orazio Costa, riservato l’officio della parola, il verso dell’uomo. Titivillus, Pisa 2018, In molte occasioni Orazio Costa ipotizzò di formalizzare la sua ricerca da cui è tratto il presente articolo. e le sue esperienze pedagogiche elaborando schemi e progetti di pubbli-


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cazione che tuttavia non si sono mai concretizzati. […] Su due punti è riscontrabile una sostanziale continuità di propositi: l’esigenza di attingere all’elaborazioni riposte nei quaderni (integrandole, semmai, con trascrizioni di esercitazioni pratiche) e la constatazione della natura discontinua del metodo (e, per conseguenza, della sua trattazione), segno – secondo la filosofia bergsoniana cui, come vedremo, egli si riferisce prevalentemente, almeno in principio – della sua organicità. Ciò non toglie che fu sempre consapevole della difficilissima impresa di possedere con mezzi intellettuali il metodo, abituato com’era a trasmetterlo direttamente ai suoi allievi, a sperimentarlo con loro, a viverlo prima che formalizzarlo. Un’inattingibilità che rese la pratica costiana difficilmente divulgabile e di non lineare diffusione; essa resta ancora oggi circondata da una nube d’indeterminatezza, naturale – come vedremo – e pur tuttavia insidiosa, in contesti in cui spesso la strada della semplificazione è quella più battuta, cui si associa un perpetrarsi di quella progressiva marginalizzazione che Costa subì dalla società teatrale: messo ai margini da vivo e ‘mummificato’ da sbrigative etichette, il più delle volte, da morto. La lettura dei quaderni permette di rintracciare, sin dalle prime esperienze registiche, una vocazione e un ascolto problematico al mestiere dell’attore che naturalmente è in parte frutto dell’esempio desunto dai suoi due principali maestri, Silvio d’Amico e Jacques Copeau, ma che più propriamente ci appare connaturato a inclinazioni e sensibilità precipue. I quaderni consentono anche di illuminare alcune esperienze biografiche: dall’infan- Orazio Costa, 1953 zia “mimica” alla guerra e alle sue tragedie, dalla militanza nella Compa- (Archivio Costa) gnia dell’Accademia alla direzione del Piccolo Teatro della Città di Roma, al fallimento del Teatro Romeo, ai viaggi in India (novello Artaud in cerca di risposte e accensioni dalle filosofie orientali), fino al paziente lavoro al Centro di Avviamento all’Espressione, creatura sbocciata, i cui semi continuano a germogliare ancora oggi.


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Quaderni della Pergola | Il desiderio

A cura di Angela Consagra, Alice Nidito, Chiara Zilioli, Gabriele Guagni, Filippo Manzini, Orsola Lejeune, Clara Bianucci, Matteo Brighenti, Riccardo Ventrella, Sandra Gesualdi, Adela Gjata, Anna Tanzi, Laura Piazza

Via della Pergola 12/32 - 50121 Firenze Centralino 055.22641 www.teatrodellapergola.com www.teatrodellatoscana.it Info e contatti quaderni@teatrodellapergola.com

Progetto Grafico Walter Sardonini/Social Design Impaginazione ed elaborazione grafica Chiara Zilioli Interviste Angela Consagra La poesia a pag. 74 e l’editoriale in quarta di copertina sono di Alice Nidito I disegni del sommario a pag. 2-3 e il disegno a pag. 50 sono di Clara Bianucci

Fondazione Teatro della Toscana Presidente Dario Nardella Consiglio di Amministrazione Antonio Chelli, Barbara Felleca, Antonia Ida Fontana, Giovanni Fossi, Maurizio Frittelli, Duccio Maria Traina Collegio Revisore dei Conti Roberto Giacinti Presidente, Roberto Lari, Adriano Moracci, Giuseppe Urso Direttore Generale Marco Giorgetti

La fotografie a pag. 32 e a pag. 56, la fotografia di copertina, la fotografia in seconda di copertina e la fotografia della lavagna di Eduardo De Filippo sono di Filippo Manzini L’intervista a Terry Gilliam è stata ispirata dall’incontro del regista con il pubblico organizzato dal Wired Next Fest; l'intervista a Vanessa Redgrave prende spunto dagli incontri dell'attrice con la stampa alla 75esima Mostra del Cinema di Venezia e alla 12esima Festa del Cinema di Roma L'intervista a Marina Abramović è frutto dell'incontro dell'artista con la stampa e del talk tenutosi al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino Il testo a pag. 47 di Alessandro Baricco è tratto dal libro Oceano mare Si ringraziano Marta Bianchera, Rossana Buffone e Federico Parenti per l'amichevole collaborazione

© 2018 FONDAZIONE TEATRO DELLA TOSCANA

CHIUSO IN TIPOGRAFIA IL 05/11/2018


La lavagna con la scritta EDUARDO viene conservata nei locali del teatro e fa riferimento al corso di drammaturgia che Eduardo De Filippo realizzò nei primi anni Ottanta al Teatro della Pergola. Questa citazione ha ispirato la nascita dei Quaderni della Pergola come elemento figurativo delle prime copertine. E ancora continua ad essere un simbolo del nostro modo di concepire il teatro.


Desiderio come viaggio dentro se stessi, alla scoperta dei propri talenti, della propria felicitĂ e di quella degli altri. Desiderio di amare ed essere amati. Desiderio di suscitare nel pubblico curiositĂ e spinta ad andare oltre i propri limiti. Come cavalieri medievali armati di passione, pronti a tutto pur di sconfiggere il drago e andare oltre ogni forma di paura. CosĂŹ donne e uomini, artisti e teatranti di tutto il mondo raccontano al Teatro della Toscana la loro personale battaglia per la realizzazione di piccoli, grandi desideri.


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