Finirà anche la notte più buia e sorgerà il sole. Victor Hugo
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Ma perché là, sul palcoscenico, ci sono degli uomini e delle donne veri, che riescono a rendere veri il loro piangere o ridere simulati. E perché giù in platea ci sono altri uomini e altre donne veri, che in quel piangere o ridere si ritrovano. Perché a teatro c’è ancora e continuerà ad esserci quell’evento sempre più straordinario che è un’autentica comunicazione umana. Tutto, del pubblico, influisce su uno spettacolo teatrale: il silenzio, l’inquietudine, la paura, la gioia, la commozione. Nulla va perduto, tutto arriva sul palcoscenico. E accade così che ogni sera lo spettacolo sia uguale o diverso rispetto a quello della sera precedente. Che il teatro sia un evento sempre nuovo, irripetibile. Creazione continua.
Giorgio Strehler
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20 Marco 4
Stefano Accorsi
12 Elio
Germano
Infinite Libero di possibilità essere “Con il sipario “Nella realtà aperto è come se dobbiamo un enorme ed unico nascondere quello spazio ti volesse che proviamo; abbracciare: invece l’attore, la parte della grazie alla platea con i recitazione, fa palchetti a forma emergere e vivere di ferro di cavallo e fino in fondo le il palcoscenico” emozioni”
28 gli artisti si raccontano “Libere riflessioni sul teatro e sul tempo sospeso del lockdown”
Giorgetti Ritorno all'origine “La follia del teatro, la follia della poesia: questa è la nostra salvezza”
24 Vinicio
38 facciamo luce sul teatro! “Il teatro… Tutto ciò che ci unisce… In una storia. Tornare a teatro, per tornare a casa”
Marchioni Paolo Calabresi
8
Pierfrancesco Favino
16 Tommaso
Sacchi
Come l'acqua Resilienza e come il sole e creatività “Il Teatro, tutto, “Da una crisi è il mio luogo come questa dell’anima. non si può uscire Poche cose sono così singolarmente, struggenti e contro dobbiamo unirci la natura per andare avanti” della società come un Teatro chiuso”
Fratellanza e socialità “Il nostro lavoro non è inutile: quando è negato, colpisce l’anima”
40 Corso
Costa iNuovi L'Oltrarno Il nuovo attore “Il teatro e la recitazione sono una vocazione”
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64 Dai racconti di una giovane scrittrice... eccomi, io sono qui 49 la bellezza di un applauso
57 Alessandro
Barbero
La cultura
66 la poesia
al tempo del Covid
71 Exit Enter La cultura al tempo del Covid in meditazione
LA STORIA ci INSEGNA
72 La Storia racconta... 50 Giancarlo
58 NUOVE PROSPETTIVE
Sepe
The Dubliners “Il Nuovo Attore non può permettersi distrazioni, per arrivare a vivere il teatro come fascinazione: un teatro avvolgente, come la musica”
56 Emmanuel demarcy– mota
59 CIÒ CHE FORSE CERCHIAMO
60 LO SPETTATORE CI VUOLE L'esperienza Napule '70 dal vivo e in streaming
62 DIGITALE DAL VERO OZz e il teatro sul web...
67 Dacia Maraini La cultura al tempo del Covid
immaginazione
al potere
68 JR Il mio grido per l'arte “Tutto è partito da questo doloroso momento storico: ho pensato di giocare con l'esterno di Palazzo Strozzi, come un palcoscenico all’aperto che urlasse simbolicamente al mondo”
74 Dietro le quinte Signore e signori, chi È di scena!
78 Corrado
Augias La cultura al tempo del Covid
la cultura che ci salverÀ
79 A proposito di Orazio Costa
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Stefano Accorsi
Infinite possibilità “Con il sipario aperto è come se un enorme ed unico spazio ti volesse abbracciare: la parte della platea con i palchetti a forma di ferro di cavallo e il palcoscenico. Mi manca tutto: il teatro colto nella sua totalità” La sua nomina come Direttore Artistico della Fondazione Teatro della Toscana ha coinciso con il tempo della pandemia…
È vero, ci siamo ritrovati immersi nella pandemia, ma in realtà abbiamo cominciato a lavorare precedentemente rispetto a questo 2021, che è il mio primo anno da Direttore Artistico: abbiamo portato avanti tanti progetti, alcuni per il digitale, altri per la programmazione tradizionale con il lavoro dedicato ai ragazzi de L’Oltrarno e ai diplomati del corso Orazio Costa, con i rapporti internazionali che non si sono mai interrotti neanche durante questa crisi. In questo complesso momento pandemico, il Teatro della Toscana ha veramente saputo rilanciare e prendersi dei rischi, non rinunciando al dialogo e non chiudendosi mai. Anche rispet-
to ad U.N.I.T.A. – l’Associazione di cui faccio parte, fondata da oltre cento interpreti del teatro e dell’audiovisivo, nata per ribadire la centralità del mestiere dello spettacolo, anche nella sua valenza formativa dell’essere umano – il Teatro della Pergola è stato un partner prezioso, con i tanti passi fatti ed ottenuti per gli attori e per tutte le categorie dei lavoratori dello spettacolo dal vivo che in questa fase soffrono moltissimo. Inoltre, siamo riusciti a coprodurre, insieme a Infinito, il nuovo spettacolo in realtà virtuale con Elio Gemano, Così è (o mi pare) VR, e a partecipare come Fondazione Teatro della Toscana, con Riccione Teatro, Teatro Stabile di Bolzano, Teatro Bellini di Napoli e Sardegna Teatro, al lancio della scuola di drammaturgia Scritture diretta da Lucia Calamaro, una delle autrici
di Angela Consagra
Foto di Filippo Milani Courtesy Saverio Ferragina
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più originali del nostro Paese. Fare rete ed aprirsi, costruendo collaborazioni, è fondamentale in questo delicato periodo: anzi, direi che diventa proprio una necessità per la sopravvivenza. Oggi chi si chiude comincia piano piano a morire, mentre riuscire ad essere aperti verso gli altri, praticare il dialogo, è il vero grande segreto della vita per guardare al futuro. Credo molto nel lavoro di squadra, come credo in un teatro ambizioso, dal punto di vista progettuale e di intenti comuni. Se dovessi, però, riassumere il sentimento legato alla pandemia utilizzerei il termine frustrazione: questo è uno “Il teatro non è altro che un stato d’animo essere umano che racconta che ci tocca una storia: l’attore sale sul inevitabilmente, palcoscenico e comincia la sua perché il teatro narrazione davanti al pubblico, è un evento, un in un rito che si esprime dal rito che si convivo in quel dato istante e che si suma dal vivo, e consuma da millenni” questa chiusura forzata ne preclude la stessa essenza. Io non sono contrario all’esplorazione di strade diverse per vivere il teatro, mi sono fatto promotore di questa ricerca già prima della pandemia: oggi si possono sfruttare dei mezzi nuovi di comunicazione, creando un cortocircuito fra i diversi media, per contribuire ad avvicinare una fetta di pubblico ulteriore al teatro. Ma, in fondo, il teatro non è altro che un essere umano che racconta una storia: l’attore sale sul palcoscenico e comincia la sua narrazione davanti al pubblico, in un rito che si esprime dal vivo in quel dato istante e che si consuma da millenni. Se manca l’incontro, il teatro non può esistere.
Avverte la responsabilità di questo incarico?
Quando anni fa ho cominciato a frequentare con i miei spettacoli le stagioni della Pergola mi sono sentito subito accolto, come in una casa. La percezione che molte persone hanno della Pergola, arrivando dall’esterno, è qualcosa di un po’ fuori dal comune: si sente che c’è una continuità di lavoro di grande qualità, una forte attenzione e umanità. Essere Direttore Artistico del Teatro della Toscana è, quindi, per me una preziosa opportunità: si tratta di un teatro prestigioso riconosciuto a livello nazionale, in una città come Firenze, importante nel mondo. Avverto molto la responsabilità di questo ruolo, ma contemporaneamente ne accolgo anche la bellezza. Per me teatro non vuol dire solo intrattenimento: il teatro è vita, ed è talmente potente, da essere capace di portare lo spettatore fuori da se stesso. Il teatro è il luogo dell’uguaglianza, in cui davvero riusciamo ad immedesimarci in persone e storie che altrimenti neanche avremmo mai immaginato, o che addirittura tenderemmo a giudicare. Il teatro è caratterizzato da un'altissima capacità empatica, che può anche trasportarti in altri mondi: è un luogo chiuso, ma infinito, pieno di vita e di luce. Non ho mai creduto nello spettacolo punitivo: il mestiere di regista e di attore va fatto divertendosi. Riuscire a far uscire il pubblico dalla sala come se avesse ricevuto un dono, che lo ha arricchito e fatto stare bene: questa è la più grande vittoria del teatro. De Gregori, in una famosissima canzone, cantava La valigia dell’attore: dopo questo periodo
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ne nella sala grande della Pergola e devo dire che, anche se vuota, è emozionante. È un luogo pulsante Non so precisamente cosa succe- di energia, di una bellezza estrema derà: credo che vivremo una fase di e che continua a vivere: sai che ci assestamento, ma ci sarà il desiderio sono i giovani attori a provare, i tecprepotente di ritornare a teatro. È nici al lavoro… Con il sipario aperto importantissimo che le tante persone che ruotano intorno allo spettacolo dal vivo, e non mi riferisco solo agli attori ma anche ai tecnici e alle grandi professionalità che agiscono dietro le quinte, possano cominciare di nuovo a lavorare. Altrimenti rischiamo di perdere, come ricchezza di questo Paese, un altissimo grado di conoscenza artigiana che si fonda sull’esperienza e sulla trasmissione del sapere. Io voglio rivedere dei palcoscenici pieni di attori e, infatti, stiamo già lavorando ad alcuni spettacoli ambiziosi da questo punto di vista: gli attori saranno al centro della rappresentazione, perché c’è bisogno di ritornare a godersi quella pluralità teatrale, quell’essere in tanti – sia sul palcoscenico che in platea – di cui sentiamo tutti un grande bisogno. Al pubblico, che non può entrare in teatro da troppo tempo, mi sento soltanto di dire che siamo tutti in crisi d’astinenza, chi fruisce del teatro e chi lo fa: veramente non vediamo l’ora di riabbracciarci tutti insieme. pandemico, così forte, cambierà il mestiere di attore? Come sogna il futuro?
Con i teatri interdetti fisicamente, qual è l’immagine o il luogo del teatro che le manca di più?
Non ti dirò soltanto i camerini, che sono dei luoghi molto intimi e anche molto belli, spesso pieni di ansia e in cui si consuma la routine quotidiana prima di andare in scena… Forse a mancarmi di più è proprio l’intera sala teatrale: l’altro giorno mi trovavo per una riunio-
è come se un enorme ed unico spazio ti volesse abbracciare: la parte della platea con i palchetti a forma di ferro di cavallo e il palcoscenico. Una zona pensata per abbracciare tutte le persone che stanno dentro, all’interno di un mondo magico. Mi manca tutto: il teatro colto nella sua totalità.
Stefano Accorsi è Direttore Artistico della Fondazione Teatro della Toscana Foto di Sebastiano Pessina Courtesy Saverio Ferragina
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Pierfrancesco Favino
Come l'acqua e come il sole “Il Teatro, tutto, è il mio luogo dell’anima. Poche cose sono così struggenti e contro la natura della società come un Teatro chiuso: questo è quello che penso, e questa è la ferita che mi porto dentro” Come ha accolto questa pandemia?
Ho accolto la pandemia prima con incredulità, poi come una scomoda novità. Nel suo protrarsi, come credo per tutti, è forte la presenza nelle nostre vite: le ha radicalmente cambiate. E se il primo pensiero è stato di approfittare di quel tempo lento a cui ci costringeva, ora non solo patisco, ma inizio a temere il letargo intellettuale in cui rischiamo di essere confinati, se non torneremo presto a poter agire. La pandemia ha creato una frattura tra un tempo com’era prima e il futuro? Come Direttore de L’Oltrarno, come si relaziona con questo? Che ruolo hanno i giovani nella ripartenza?
La riscoperta di un tempo più umano, di un tempo dell’ascolto,
è sicuramente qualcosa di cui fare tesoro e io sto cercando di non perderlo anche oggi: mi sono ripromesso di continuare a farci attenzione. Grazie agli sforzi degli insegnanti e della Fondazione Teatro della Toscana siamo riusciti a dare ai giovani attori de L’Oltrarno una continuità in presenza e da remoto, che ha del miracoloso in questo lungo frangente. La ripartenza avrà bisogno della loro energia, della loro ambizione e, più di tutto, della loro alta e specifica competenza: un valore che questa pandemia ci ha fatto finalmente scoprire come elemento essenziale dell’identità costruttiva di un Paese. La valigia dell’attore, cantata da De Gregori, si è trasformata? Com’è cambiato il mestiere Foto di dell’attore? Daniele Barraco
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Tranne che per rari casi, purtroppo quella valigia è rimasta chiusa per troppo tempo. Le cose si trasformano quando hanno la possibilità dell’incontro con altro da sé: se quest’incontro manca, le cose rimangono quelle che sono. Il mestiere dell’attore non ha avuto la possibilità di cambiare, e non è certo il placebo virtuale che lo consentirà. L’attore cambia con il pubblico in sala e lo spettatore cambia con il corpo dell’attore davanti ai suoi occhi, davanti al suo respiro. Tornare a quella condivisione dovrebbe essere una priorità sanitaria di qualsiasi democrazia. Lei è uno dei membri di U.N.I.T.A. – l’Associazione fondata da oltre cento interpreti del teatro e dell’audiovisivo – che è nata per ribadire l’importanza e la centralità del vostro mestiere. Perché non è così scontato considerare il teatro e la cultura come beni essenziali, la base per costruire una società in continua evoluzione? Viviamo in una società sempre più indirizzata verso una spersonalizzazione dell’individuo. I nostri gusti vengono catalogati grazie ad algoritmi che ci inseriscono, tutti quanti, in grandi categorie di consumatori, non di persone in carne ed ossa. I grandi investimenti futuri sono sempre più indirizzati verso la digitalizzazione: meno contatto tra gli umani, maggiori contatti con i big data. Chi ragiona in questi termini pensa che guardare Michelangelo dal vivo o da casa sia lo stesso, e anzi, addirittura più comodo. Non mi sorprende, quindi, che la Bellezza e l’Arte non ri-
entrino in questa visione, perché rappresentano l’esatto contrario: l’esaltazione dell’umano, il suo tentativo di congiungersi con l’infinito, con il non detto, addirittura con l’intraducibile. U.N.I.T.A nasce, prima di tutto, per far capire che essere attori è un mestiere e non un passatempo: si tratta di una professione che, come tutte le altre, ha dei diritti e dei doveri da rispettare. Nasce come voce a protezione dei diritti dei colleghi, che ne hanno apparentemente di meno, e si sviluppa come parte di una società civile che vuole ribadire nel Paese dell’Arte e della Bellezza la centralità identitaria ed economica di questo mestiere: ad iniziare dalla richiesta della presenza delle Arti dello Spettacolo nei programmi della Scuola Italiana. I teatri sono stati proprio fisicamente interdetti in questa lunghissima fase: qual è il suo luogo teatrale preferito? Cosa significa per un attore non potersi più esibire sul palcoscenico? Il Teatro, tutto, è il mio luogo dell’anima. Poche cose sono così struggenti e contro la natura della società come un Teatro chiuso. Mai avremmo dovuto spegnere le luci dentro ai teatri: questo è quello che penso, e questa è la ferita che mi porto dentro. Il Teatro è il luogo della spiritualità laica di una Nazione, della sua coscienza critica. Chiuderlo, o almeno non aver fretta di riaprirlo, significa dire ai cittadini di un Paese che la loro coscienza non interessa, che il loro sviluppo non interessa: in fondo, quindi, che non hanno diritti civili.
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C’è qualcosa che vorrebbe dire al pubblico?
Mi mancate come il sole e l’acqua mancano ad una pianta. Nessuno di noi, però, ha mai mollato un istante. Anche in questa immobilità forzata abbiamo progettato, sognato e guardato avanti. Abbiamo iniziato a ripensare agli spazi in cui torneremo ad incontrarci, a come risvegliarci insieme. Ci sono e ci saranno grandi novità all’oriz-
È un titolo un po’ ad effetto, devo dire, e anche un po’ forte. La verità è che io non passo molto tempo a riflettere su di me, su quello che ho fatto o sul mio valore. Passo molto più tempo a occuparmi del futuro, pensando alle nuove sfide: l’ho sempre fatto, mi appartiene di carattere. Io la responsabilità del mio lavoro l’ho sempre sentita come una gioia, un privilegio. Non mi riconosco in una definizione
FOTO FILIPPO MANZINI
zonte, che con le donne e gli uomini de L’Oltrarno e del Teatro della Toscana stiamo costruendo. Non vediamo l’ora di poterle condividere, tutti insieme. Recentemente le è stato dedicato un libro: Pierfrancesco Favino collezionista di anime. Riconosce in questa definizione il suo essere attore? Si avverte, ora più che mai, la responsabilità di questo mestiere?
dell’attore come un mestiere di secondaria importanza: dipenderà sempre dalla qualità di ciò che facciamo, dalla dignità che riusciremo a guadagnarci agli occhi degli altri. U.N.I.T.A, da questo punto di vista, è un passo importantissimo. Una lettura, un testo o una musica che l’ha accompagnata in questo tempo sospeso, ma vivo. Preferisco raccontarvelo quando ci vedremo di persona. Presto.
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Elio Germano
Libero di essere
“Nella realtà dobbiamo nascondere quello che proviamo; invece l’attore, grazie alla consapevolezza della recitazione, compie il movimento opposto: fa emergere e vivere fino in fondo le emozioni, dall’odio all’amore”
Ultimamente ha sentito l’esigenza di trovare un modo ‘altro’, ovvero la tecnologia della realtà virtuale, per proporre e realizzare il teatro?
Foto di Nuri Rashid
Io amo fortemente gli spettacoli dal vivo: amo l’idea della gente che si riunisce insieme per condividere uno spettacolo, ed è proprio in questa condivisione tra più anime che lo spettacolo può avvenire. Abbiamo, allora, cercato un modo per distribuire la realtà virtuale in maniera collettiva: è come se ci fossero delle sale virtuali, dove, però, le persone si incontrano fisicamente: lo spettacolo inizia contemporaneamente per tutti gli spettatori, come in una sorta di moltiplicazione collettiva dei visori. In questo modo la visione ritorna ad essere insieme agli altri, anche se utilizziamo la tecnologia. Il virtuale
è un linguaggio terzo rispetto al cinema e al teatro, e come tale va esplorato: io dico sempre che è un po’ più del cinema e un po’ meno del teatro... Si tratta di un film a tutti gli effetti, ma girato in sferoscopia. È più del cinema perché le riprese sono sferiche, il video è tutto intorno a noi: sopra, sotto, ci sentiamo proprio dentro alla visione. Ed è un po’ meno del teatro, perché si tratta di un’esperienza riprodotta: non ci sono persone vere che recitano intorno a noi. Quando, però, ci togliamo i visori rientriamo in una dimensione collettiva dove si discute di ciò che si è appena visto, proprio come accade a teatro, alla fine di uno spettacolo dal vivo. Le sedie sono distanziate, soprattutto in epoca Covid, in modo che quando uno si gira non si urti con l’altro. C’è un forte impatto emotivo: il pubblico
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vive un’esperienza virtuale, ma con la sensazione di far parte fisicamente della narrazione. È questa la grande potenzialità della realtà virtuale: la possibilità di mettere lo spettatore all’interno del racconto, facendogli percepire che si sta parlando anche di lui, che il racconto lo riguarda. Sia in termini di scrittura, che in termini registici, questo è un aspetto che mi interessa molto: cercare di arrivare addosso al pubblico, circondarlo e quasi toccarlo, renderlo profondamente partecipe.
non dimenticandosi mai che l’umanità che ci circonda è molto più complessa e interessante di quello che la recitazione cerca di riprodurre. La possibilità di fare incontri è la vera ricchezza dell’attore perché incroci persone incredibili, molto diverse da quello che sei, appartenenti a ceti sociali eterogenei. Questi scambi umani ti arricchiscono emotivamente e diventano fondamentali per riuscire a raccontare il viaggio compiuto dai personaggi da interpretare. Il mestiere dell’attore è veramente
Quali sono i suoi grandi maestri di riferimento?
artigianale, la dimensione che si intraprende in un progetto si capisce lavorando e sudando insieme. L’attore deve essere pronto ad aprirsi agli altri, con coraggio e disponibilità, cercando di tirare fuori quegli stati d’animo che nella vita invece siamo costretti ad ingoiare per necessità o per convenienza. Nella realtà dobbiamo nascondere quello che provia-
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
Per me non esistono maestri ideali, piuttosto in scena si continua sempre ad imparare grazie al profondo valore umano degli incontri che si fanno. L’attore può soltanto affrontare il suo mestiere umilmente: è importante rapportarsi con gli altri attorno a noi, con i colleghi,
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mo, invece l’attore, grazie alla consapevolezza della recitazione, compie il movimento opposto: fa emergere e vivere fino in fondo le emozioni. Finalmente puoi sperimentare quello che nella vita non ti capita mai: cedere ai sentimenti in maniera totale, dall’odio all’amore. Cinema e teatro: quali sono le differenze, proprio dal punto di vista della preparazione dell’attore?
Io dico sempre che cinema e teatro sono due cose che partono diverse, ma che poi arrivano ad essere uguali. Durante una rappresentazione l’attore compie un movimento in costruzione, con coscienza e consapevolezza guida lo spettacolo in una certa direzione, ne tiene le redini, mentre in un film deve essere completamente disponibile alle esigenze del regista, del montatore, del direttore della fotografia: sono gli altri a governare le immagini. L’aspetto che accomuna il cinema con il teatro è che entrambi partono dalla stessa esigenza, quella di tentare di ricomporre ciò che accade in quel preciso momento all’interno della coscienza di ogni attore. Si vive una condizione di abbandono in entrambi i casi: in teatro il corpo agisce automaticamente, mentre al cinema l’abbandono è forse meno fisico, legato a dinamiche più intime ed emotive. Non esiste un modo solo di fare l’attore: l'unico obiettivo è di essere più liberi possibile in scena. Fondamentale è riuscire comunque a dare qualcosa agli altri dal punto di vista emotivo, donare un sentimento allo spettatore raccontando una storia. Il nostro è un mestiere in cui l’oggetto del lavoro
va ritrovato all’interno del proprio corpo, ognuno dentro se stessi. È questa tensione profonda che io cerco sempre di inseguire. Come avviene la costruzione di un personaggio?
La preparazione è la parte più bella del lavoro, è il momento in cui cerchi la tua interpretazione personale per la storia che si va a raccontare. Dopo la fase di preparazione, in genere il mio lavoro prosegue in direzione di una comunicazione inconsapevole: sono convinto che ciascuno di noi comunichi certi sentimenti, nonostante la propria volontà, ed è questo che mi interessa indagare, proprio dal punto di vista professionale. La mia intenzione è di mettermi nei panni del personaggio afferrandone l’emotività “Io amo l’idea della gente che si nascosta. Penso riunisce insieme per condividere che l’uomo con- uno spettacolo, ed è proprio temporaneo sia in questa condivisione un essere uma- tra più anime che lo spettacolo no scisso, un può avvenire” individuo fatto di tante personalità e che spesso ne emerga il lato meno autentico. I miei personaggi, infatti, sono sempre tesi tra due fuochi, ed è una caratteristica che ho imparato a riconoscere a scuola, quando studiavo i grandi drammi shakespeariani: storie in cui i protagonisti vivono una necessità di interpretazione a cui la vita li sottopone. Però c’è sempre un punto in cui smettono di fingere che corrisponde al momento della liberazione, in cui si aprono all’emotività decidendo di piangere o di ridere senza freni. Questo mi attrae: quando alla fine il personaggio si riprende la propria umanità.
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L A P O L I T I C A D E L L E I D E E
Tommaso Sacchi resilienza e creativitÀ “Occorrono ottimismo, coraggio e un forte senso di collettività: insieme dobbiamo reagire. Da una crisi come questa non si può uscire singolarmente, dobbiamo unirci per andare avanti”
L’esplosione della pandemia nelle nostre vite: qual è stato il suo primo pensiero, e com’è cambiato nel corso del tempo?
In questo lungo tempo pandemico la percezione di quello che è stato, e che continua ancora ad essere, è qualcosa di mutevole. Ormai più di un anno fa ci siamo svegliati con una pandemia non più riconducibile a qualche caso isolato e che, anzi, stava dilagando sempre più. È un dramma che stiamo attraversando tutti insieme e che ha toccato le sfere più importanti della nostra vita: da un lato gli affetti e la salute, dall’altro il lavoro e il benessere personale e famigliare. In questa crisi di sistema globale, la cultura si è svelata, purtroppo, come uno degli anelli
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più fragili della catena sociale. Credo che, da questo punto di vista, sia stato messo a nudo un problema che esisteva già da molto tempo e che riguarda il riconoscimento dell’identità lavorativa dei soggetti che si occupano a vario titolo di cultura nel nostro Paese. Ci sono le grandi istituzioni con una conformazione propriamente aziendale, che danno lavoro a tante persone: il Teatro della Toscana risponde a queste caratteristiche e attualmente, non potendo aprire i battenti, noi stessi stiamo vivendo con estrema prudenza questo periodo. Ma esistono anche le realtà più piccole: tanti centri culturali, che si muovono in una dimensione più ristretta o di quartiere, spesso non ce la fanno. Firenze sta cercando di tenere duro, ma oggi diventa importante – al di là dei provvedimenti volti a bloccare l’emorragia economica – tentare di rifondare l’intero sistema del lavoro culturale. È questa la vera grande sfida del futuro, insieme ad una grande riflessione legata al pubblico: che cosa vorrà dire frequentare uno spettacolo nei prossimi mesi? Avremo ancora il desiderio di stare insieme, condividendo il senso di prossimità sociale, per ritrovarci in tanti a un grande evento? Prevarrà la prudenza? Questi sono interrogativi che non devono essere dimenticati.
amministratore della cultura mi sono sempre posto con forza ed entusiasmo nei progetti di una città che rappresenta la cultura nella sua essenza. Ad un tratto è arrivata una pandemia che costringe a chiudere tutto, bloccando anche ogni spunto
di tipo culturale. Fino a poco prima, la minaccia principale del mondo si chiamava terrorismo: guardavamo con angoscia ai camion sul lungomare di Nizza, piuttosto che ai disastri accaduti a Berlino o Parigi… A tutto ciò si è aggiunto un ulteriore pericolo legato al virus e, dunque, viviamo No, mai e poi mai, nella manie- nel tempo dell’inatteso. Ma non dobra più assoluta. Da giovane politico biamo sprecare questa esperienza Come Assessore alla Cultura, Moda, Design, Relazioni Internazionali del Comune di Firenze e Presidente della Fondazione Teatro della Toscana si sarebbe mai immaginato di fronteggiare una crisi di tale portata?
FOTO ALESSANDRA CINQUEMANI
Tommaso Sacchi è Assessore alla Cultura, Moda, Design e Relazioni Internazionali del Comune di Firenze e Presidente della Fondazione Teatro della Toscana
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così forte: occorre, anzi, imparare dalla crisi. Facendo nostre le parole di Papa Francesco – con il suo invito al non spreco e ad un approccio ecologico alla vita, anche di fronte alle esperienze più negative – possiamo guardare al futuro. Un amministratore pubblico deve tenere conto di questa situazione che ha messo in scacco il mondo, ma con speranza. In che modo la politica, che entra inevitabilmente nella quotidianità delle persone, può trasformare la crisi in opportunità?
delle soluzioni: ecco perché bisogna lavorare per riavvicinarla alle persone, remando in direzione contraria rispetto ad un allontanamento generale. Occorre promuovere una politica delle idee, che si occupi di noi e in grado di toccare in maniera tangibile la collettività. Penso ad un rapporto causa-effetto tra questo mondo e la qualità della nostra esistenza: abbiamo bisogno di intelligenza, di una tenace forma di resilienza e di produrre il maggior numero di idee, sia dal punto di vista scientifico per lo studio dei vaccini che economico in vista del Recovery Fund.
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
È un tema tutt’altro che facile, perché la politica si è allontanata dalla sfera delle passioni comuni della gente. Per me, costituisce una sorta di ossessione. Considero il mio ruolo di amministratore locale come un valore enorme. Credo che non ci sia niente di più bello che occuparsi di aggiungere qualità nella vita di una comunità, come quella fiorentina. La politica è gestione delle cose, capacità di affrontare le crisi e di trovare
Durante la chiusura forzata il suo Assessorato ha posto l’accento sull’importanza della lettura…
Si tratta di una scelta ben precisa. Quando i luoghi pubblici della cultura sono stati interdetti alle persone, abbiamo cercato comunque un modo per far accedere il maggior numero di cittadini alla conoscenza. Abbiamo, infatti, sempre mantenuto attivi i servizi dei musei e delle biblioteche nei limiti consentiti,
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trovando anche nuove forme di fruizione culturale come la consegna di libri a domicilio: un servizio rivolto alle persone più anziane, ai diversamente abili e per tutti i cittadini. Lo scopo era cercare di non interrompere il flusso prezioso della lettura, con le biblioteche chiuse si è messo in moto un sistema di prenotazione di libri e dando la possibilità di riceverli in prestito a casa. Non possiamo assolutamente sottrarci dall’investire nella lettura e nei sistemi di accesso al prestito: si tratta di un atto di civiltà, di crescita culturale collettiva.
di fare lui. Cercavo una frase che sintetizzasse che cos’è il teatro nella nostra vita e ho ripensato ai primi giorni della pandemia, quando sembrava irreale passare da via della Pergola e vedere il portone chiuso. Una città con i teatri chiusi è una città che fa fatica a parlare. La narrazione identitaria delle città passa attraverso le proprie strutture culturali, le scuole, i sistemi di connessione e di mobilità. Ogni città si racconta, con un’emozione, un’idea o un’immagine che la caratterizzano inequivocabilmente. E, seguendo questa scia, il teatro appartiene alla vita della città, è un pezzo della vita di tutti noi. Le parole
che mi hanno accompagnato durante la pandemia sono tante, ne scelgo una su tutte: insieme. Se ti fermi all’analisi delle difficoltà quotidiane, sia come decisore politico che come operatore economico o culturale della città, è facile farsi prendere dallo sconforto. Occorrono ottimismo, coraggio e un forte senso di collettività: insieme dobbiamo reagiFondamentalmente Eduardo De re. Da una crisi come questa non si può Filippo ha espresso un concetto sem- uscire singolarmente, dobbiamo unirci plicissimo, com’era sempre in grado per andare avanti. “Il teatro porta alla vita e la vita porta al teatro. Non si possono scindere le due cose”: sono pensieri di Eduardo De Filippo, che Lei ha scelto per rappresentare la Giornata Mondiale del Teatro. Sono parole che l’hanno accompagnata in questo periodo così difficile?
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DA LTE ATRO DE LL ATOSC A N A
Marco Giorgetti
Come ha accolto e vissuto la notizia di questa pandemia, sia come uomo che come Direttore del teatro? Chi ha dovuto sostenere più l’altro?
All’inizio non credevo, né come uomo né come Direttore, che la questione fosse così totalizzante: la mia reazione era indirizzata al breve periodo, pensavo si trattasse di una situazione-ponte provvisoria e che si potessero trovare i modi per tenere aperto il teatro, stando a distanza e con tutti gli accorgimenti dettati “Il tempo è un’astrazione, il tempo non esiste: dai protocolli. Ma le cose, poi, sono noi siamo sempre proiettati verso andate diversamente. Quando la siuna nostra personale visione tuazione generale si è fatta più grave dello scorrere degli eventi. devo dire che umanamente ho attinLa follia del teatro, la follia della poesia: to molto ad una fonte costiana, nel questa è la nostra salvezza” senso che mi sono stati di aiuto i pen-
ritorno all´origine
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sieri del mio Maestro Orazio Costa, incontrato a 17 anni: lui voleva formare uomini, prima che attori. L’approccio per vivere questa crisi è stato un ritorno alla radice poetica della nostra esistenza, cercando di trovare in questo silenzio e in questo niente, pur affollato di tantissimi adempimenti di lavoro mai interrotti, una fase di vera riflessione. È necessario interrogarci sulle ragioni di quello che sta accadendo, dobbiamo concentrarci su certi aspetti di noi stessi che abbiamo trascurato: l’elemento istintuale e soprattutto una natura che ci ha mandato un segnale forte, un avvertimento in grado di minare le nostre certezze. Ci siamo scoperti fragili, in tutti gli ambiti della nostra esistenza, incluso il teatro.
riuscire a realizzarlo, si è dovuto confrontare con l’impossibilità di andare ad attingere soluzioni all’esterno. La difficoltà, di tipo pratico, è diventata un grande valore: un formidabile gruppo di lavoratori, tecnici e professionisti che, accanto ai giovani, non hanno mai smesso di andare avanti e trovare soluzioni. Insieme, siamo riusciti a tenere in piedi il nostro teatro, anche senza pubblico, e con risorse essenziali. FOTO FILIPPO MANZINI
Quindi i suoi pensieri sono cambiati nel corso di questo anno?
Sono cambiati tantissimo… Trasformare la crisi in opportunità è stato un obiettivo, con la bellissima riscoperta del ‘teatro fatto’, proprio fisicamente: ho potuto dedicare più tempo al formidabile gruppo di giovani attori del Teatro della Toscana, ricominciando a mettermi in gioco, anche dal punto di vista artistico, perché il teatro potesse avvenire e coordinando il lavoro dei giovani sulla scena. Lo scambio reciproco che avviene tra noi è fondamentale: l’energia – che dal greco è en (dentro) ed ergon (la forza) – quando viene donata, si rigenera sempre. L’energia donata si centuplica nella restituzione. Le prove quotidiane de La donna volubile di Goldoni con i ragazzi de L'Oltrarno ci hanno fatto ritrovare il teatro nella chiusura, dentro una Pergola deserta. Abbiamo dovuto rispondere ad un’esigenza: il teatro, per
Che cosa significa coordinare questa macchina dello spettacolo, quando fuori è tutto chiuso? E come ci si relaziona con l’idea di un debutto che non può essere stabilito con certezza?
Marco Giorgetti è Direttore Generale della Fondazione Teatro della Toscana
Accogliendo l’insegnamento dei Maestri (Sepe, Mauri, Lavia, Randone, Santuccio) con i quali ho lavorato come attore. Quando preparavamo uno spettacolo, fuori ci potevano essere le bombe, ma il palcoscenico non poteva fermarsi mai. In una bellissima pagina di Servo di scena, Ronald Harwood parla del teatro come il luogo che contiene tutto: "Qui c’è la bellezza, qui c’è l’estate e la primavera, qui perfino il dolore diventa sopportabile. E non si è mai soli qui." È un mondo meraviglioso che si può Foto di vivere solo nella sua interezza: non Filippo Manzini
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importa se fuori piove o si è in guerra, quando si fa teatro niente altro esiste. La storia ci dice che il teatro è sempre avvenuto, anche nelle condizioni più estreme: è un bene primario, anche se non è stato considerato in questi mesi come una delle attività essenziali permesse per l’apertura. Senza il teatro non siamo noi, viene meno la nostra identità, sia come società che come esseri umani. Shakespeare ci insegna che il teatro è lo specchio della natura, in cui ci riconosciamo e possiamo riflettere la nostra essenza. Di cosa si sente orgoglioso e di cosa, invece, si pente?
redimibile: a questa rivelazione ritorniamo sempre, così come in Amleto: “Se è ora, non è a venire; se non è a venire, sarà ora; se non è ora, pure è a venire; essere pronti è tutto”. Il tempo è un’astrazione, il tempo non esiste: noi siamo sempre proiettati, infatti, verso una nostra personale visione dello scorrere degli eventi. La follia del teatro, la follia della poesia: questa è la nostra salvezza. Quali sono i suoi autori di riferimento in questo periodo?
Goldoni è il grande punto di riferimento perché, dopo il teatro di Molière, ha il coraggio di affermare che bisogna costruire “il nuovo teatro”. E il teatro del futuro è proprio quello che cercava Goldoni, in cui un attore riesce con semplicità a riportare un frammento di esistenza altra in un luogo condiviso. Credibilità e semplicità degli attori: questo è il nuovo teatro, con un approccio giocoso alla scena. Recitare nelle altre lingue, infatti, diventa jouer o to play: tutti i grandi Maestri, da Costa a Jouvet, hanno sempre parlato della recitazione come gioco, lontana da un teatro oscuro che cerca segni sotterranei. Ciò non significa che il teatro debba essere leggero: anzi, il teatro deve raggiungere la profondità attraverso la propria leggerezza. È per questa ragione che ripartiamo da Goldoni e dal grande nostro patrimonio della lingua italiana.
Sono orgoglioso di aver raccolto, nel tempo della crisi, il lavoro svolto fino ad ora, che ha formato giovani attori e uno staff motivato e qualificato. Di cosa mi sono pentito… Probabilmente di non avere avuto il coraggio, in alcuni momenti, di aprire più il teatro: quando ci sono stati degli spiragli forse potevamo osare di più… Sono stato trattenuto dal fatto che potesse essere troppo difficile aprire dei teatri al pubblico grandi come la Pergola o il Teatro Era per un periodo limitato, senza sapere bene se il futuro avrebbe comportato un'ulteriore chiusura. Però, non mi pento di come è stata vissuta la situazione complessiva perché mi sento parte di una comunità, all’interno di una squadra eccezionale. Abbiamo la fortuna di lavorare in questi luoghi, che sono la nostra vita, e dobbiamo sempre guardare avanti. La poesia È stato difficile, in questa può sostenerci: citando le parole di situazione di chiusura globale, Eliot, “Nel mio principio è la mia continuare a mantenere scambi fine”, ci rendiamo conto che il temcreativi e progettuali con l’estero po presente e il tempo passato sono e le altre realtà teatrali italiane? forse presenti entrambi nel tempo Nella lontananza abbiamo scofuturo. Ed il tempo è qualcosa di ir- perto ancora di più l’unione delle
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relazioni. Demarcy-Mota, Direttore del Théâtre de la Ville di Parigi, è stato una guida importante per mettere insieme la grande troupe dell’immaginaire, cercando una condivisone tra i diversi Paesi: Oslo, Madrid, Amsterdam, Atene, New York, Los Angeles. Attraverso numerose call abbiamo perseguito questo fine, come segno di vicinanza e fratellanza. Con i partner italiani ci siamo sostenuti a vicenda, anche economicamente: a Milano con il Franco Parenti, Trieste e Venezia (con la nomina di Paolo Valerio come Direttore del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia abbiamo attivato un canale fortissimo incentrato su Goldoni), Napoli (con la direzione di Roberto Andò al Teatro Stabile e con la Compagnia De Filippo di Carolina Rosi), Palermo, l’Ambra Jovinelli a Roma, La Comunità di Giancarlo Sepe, il quale guida il progetto di una sua Officina che ripartirà pienamente a settembre: è una dorsale geografica che si appoggia su Goldoni, De Filippo o Dante. Usciremo più forti dalla pandemia, grazie alle relazioni con i nostri partner, italiani ed esteri. Demarcy-Mota, per esempio, ci ha detto di sognare una riapertura a Parigi con i Sei personaggi pirandelliani: i ponti culturali si costruiscono anche così.
Il teatro può essere una risposta dopo questa lunga pandemia?
Il teatro è la sola risposta, perché è l’unico modo di ritrovarsi, senza avere la possibilità di nascondersi. È il simbolo dell’uomo, l’unica possibilità in cui l’uomo riesce a essere davvero se stesso, esprimendo l’altro da sé che in genere non può manifestarsi. Teatro vuol dire esserci, muoverti ed uscire di casa per assistere insieme agli altri ad uno spettacolo, e così facendo gli spettatori e gli attori mettono reciprocamente a nudo la loro FOTO FILIPPO MANZINI
anima. L’attore, quello bravo, riesce Marco Giorgetti ad avere un controllo totale sulla sala, e i giovani attori addirittura anche a livello di respiro. diplomati del corso Orazio Costa Quando tutto finalmente finirà, e de L’ Oltrarno, in prova nella sala grande qual è la prima cosa che sogna di fare? del Teatro della Pergola Organizzare una grande riunione di persone, che finalmente potranno fare insieme una lezione di Metodo Mimico: abbracciandosi, toccandosi e ritornando all’origine.
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Vinicio Marchioni Paolo Calabresi
FRATELLANZA E SOCIALITÀ
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In tempi duri come questa crisi legata alla pandemia, U.N.I.T.A. – l’Associazione fondata da oltre cento interpreti del teatro e dell’audiovisivo – nasce per ribadire la centralità del mestiere dell’attore, anche nella sua valenza sociale di formazione dell’essere umano?
MARCHIONI: È uno dei concetti chiave su cui ruota U.N.I.T.A. e sono molto contento di essere uno dei soci fondatori: ricordo le prime riunioni con Vittoria Puc“Il nostro lavoro non è inutile: cini e pochi altri, ormai più di due quando è negato, colpisce l’anima” anni fa… Oggi grazie al grandissimo lavoro delle attrici e degli attori che compongono il nostro direttivo
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– Vittoria Puccini (presidentessa), Giorgia Cardaci e Fabrizia Sacchi (vicepresidentesse), Cristiana Capotondi (tesoriera), Marco Bonini, Paolo Calabresi, Mariapia Calzone, Massimiliano Gallo, Fabrizio Gifuni, Francesco Bolo Rossini e Stefano Schierini (consiglieri) – stiamo raggiungendo dei risultati molto concreti. Naturalmente, prima di tutto, dobbiamo lavorare su questa emergenza della pandemia, perché c’è bisogno di garantire il sostentamento alle attrici e agli attori che non lavorano da tanti mesi; poi, dobbiamo risolvere tanti problemi che riguardano l’intera categoria: i contratti nazionali per l’audiovisivo e per la prosa da rivedere e calibrare; i diritti connessi all’immagine su cui ragionare perché l’avvento dei Social e dello streaming ha sbaragliato tutto: uno spettacolo trasmesso sulle piattaforme, per esempio, quante volte può essere replicato? E gli attori poi vengono pagati solo per una recita? Sono discorsi che vanno affrontati, riunendo la categoria, e contemporaneamente ponendosi in dialogo con tutti gli altri gruppi e associazioni: lo scopo è di riuscire a far capire che essere attori è una delle professioni più antiche del mondo, un mestiere che nella storia si è sempre connaturato ai tempi che si stavano vivendo. L’attore del teatro greco, l’attore delle grandi Compagnie medievali e rinascimentali: non esiste sviluppo della società, se non è accompagnato dal fare teatro. Negli ultimi anni questo discorso è stato completamente abbandonato perché siamo stati sorpassati dagli influencer o da Youtube, da mille cose che creano intrattenimento,
però noi siamo dei professionisti e il nostro è un lavoro: chiediamo solo di ricollocarlo nella giusta dimensione. I problemi della categoria sono endemici, ma la pandemia ha portato in superficie tutto quello che già non funzionava e ha fatto sì che si creasse un ascolto emotivo FOTO ANDREA CHERCHI
reciproco: ci siamo resi conto che dobbiamo unirci, che i problemi di uno sono i problemi di tutti e che la disgregazione di questo mestiere fondato in genere sull’individualismo non fa bene a nessuno. Io parlo da attore che ha la fortuna di lavorare, e penso che sia fondamentale che si affrontino questi problemi: dietro ad ogni attore che ha un briciolo di visibilità, ce ne sono mille invisibili e che non hanno la possibilità di farsi ascoltare.
U.N.I.T.A era presente lo scorso 17 aprile 2021 alla manifestazione indetta a Roma da Bauli in Piazza, il movimento nato nell’ottobre 2020 e che mette al centro l’oggetto di lavoro, il baule, che accomuna tutti i lavoratori dello spettacolo. I Bauli in Piazza raccolgono le istanze di moltissime associazioni e sigle che fanno capo al CALABRESI: U.N.I.T.A. è un tormentato comparto progetto nato ufficialmente duran- dello spettacolo dal vivo, te la pandemia, ma esisteva già da uno dei più colpiti tra prima: alcuni di noi, su iniziativa tutti quelli messi a dura di Vittoria Puccini, si erano riu- prova dalla pandemia
niti in una chat di gruppo che si chiamava Attore Visibile, confron-
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tandoci per affrontare le tematiche relative al nostro lavoro. Sono uno dei soci fondatori di U.N.I.T.A. e abbiamo un direttivo formato da 11 persone, perché è diventato un impegno molto grande: ci siamo divisi i compiti e, a seconda dei vari periodi, c’è chi fa di più o di meno, ma avendo la possibilità di alternarci e di farci aiutare anche da coloro che non fanno parte del direttivo. È sempre mancata una coscienza
contrattuale, si sono messi al servizio di coloro che per il momento magari hanno meno visibilità. Abbiamo iniziato a fare quello che per anni gli attori hanno sempre delegato ad altri: alla fine, soltanto noi conosciamo a fondo le esigenze e le problematiche più pratiche del mestiere. Abbiamo dovuto prendere il timone di questa grande nave dello spettacolo, seguendo il nostro punto di vista, e tuttora cerchiamo di
di categoria: negli ultimi anni gli attori sono diventati sempre più delle monadi, che in genere si ingegnano individualmente per andare avanti. Però, ci siamo resi conto che l’unione fa la forza: mettendosi l’uno al servizio dell’altro è possibile ottenere molti più risultati. Ci siamo presentati al Ministero come U.N.I.T.A., forti dei tanti nomi che rappresentavamo: i più popolari, e dunque con un maggiore potere
governarla nel mare in tempesta. Ci siamo battuti per far comprendere all’opinione pubblica un concetto che associa tutti i lavoratori dello spettacolo, e non parlo solo degli attori, ma anche delle maestranze che agiscono dietro le quinte: il nostro non è semplice intrattenimento, ma si tratta di un lavoro a tutti gli effetti che genera PIL e fatturato, con cui si mantengono tante famiglie. L’obiettivo è stato quello di
FOTO GIANMARCO CHIEREGATO
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ribadire la centralità del mestiere di attore e la dignità del lavoratore dello spettacolo: chi genera cultura produce un bene essenziale, non superfluo.
Esiste anche una grammatica dei sentimenti e come Paese, per evitare l’imbarbarimento, dobbiamo pretendere che questo diritto ci venga garantito.
CALABRESI: Come detto prima, il messaggio da sottolineare è che il nostro lavoro non è inutile: quando è negato, colpisce l’anima. La gente non sta bene, se non può andare a vedere una galleria d’arte o uno spettacolo a teatro… La fruMARCHIONI: È una delle ul- izione di un film o di un concerto time dichiarazioni fatte da Abbado; su Youtube o Spotify diventa una abbiamo scelto di utilizzare le sue visione personale, in cui tu sei da Una citazione di Claudio Abbado è stata scelta per accompagnare U.N.I.T.A.: “La cultura è un bene comune primario come l’acqua. I teatri, le biblioteche e i cinema sono come tanti acquedotti”.
“In fondo, con U.N.I.T.A. abbiamo cercato di evitare che ci isolassimo, gli uni con gli altri, sempre di più”
parole perché rappresentano una sintesi di ciò che noi tutti fermamente condividiamo: l’arte, il cinema, la musica, i libri – in una parola la cultura – sono dei beni primari e come tali devono essere garantiti dallo Stato ad ogni cittadino. Io pretendo che i miei figli ricevano degli strumenti per imparare la cultura teatrale che è importante da insegnare tanto quanto la matematica, la storia, la grammatica…
solo con te stesso: invece, lo spettacolo dal vivo o un film al cinema – che è sempre dal vivo: stai con altre persone in una sala, condividendo lo stesso film – implicano fratellanza e socialità. Senza questo tipo di esperienza ci si impoverisce e ci si isola. In fondo, tutto quello che abbiamo fatto con U.N.I.T.A. è proprio cercare di evitare che ci isolassimo, gli uni con gli altri, sempre di più.
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gli artisti SI RACCONTANO LIBERE RIFLESSIONI SUL TEATRO E SUL TEMPO SOSPESO DEL LOCKDOWN
SONIA BERGAMASCO
La notizia della chiusura dei teatri è stata uno shock. Non tanto per la notizia in sé, quanto per la portata simbolica di questo gesto. Uno stato di guerra, la conferma di un'emergenza assoluta. Un provvedimento inimmaginabile in tempo di "pace" per chi, come noi, sa che il teatro si fa a qualsiasi costo, anche con la febbre a 40. Mi manca il pubblico, mi mancano le persone, mi manca il loro abbraccio silenzioso ed eloquente. La parola – ci ricorda Montaigne – appartiene per metà a chi parla e per metà a chi ascolta.
ANDREA BOSCA
Stiamo vivendo un momento storico unico, abbiamo visto le persone perdere il lavoro e non riuscire neanche a comprare da mangiare. Questo perché viviamo un’esistenza all’orlo delle nostre possibilità e la situazione generale ha reso predominante il pensiero degli altri: ognuno di noi è indissolubilmente legato all’altro, questo è un fatto da cui non possiamo prescindere. Più in particolare, il teatro è, e sarà sempre, un incontro tra persone che riunite tutte insieme in un preciso momento provano qualcosa di irripetibile.
ROBERTO ANDÒ
Dobbiamo affrontare un nemico, che è il virus e che rischia di incrinare il nostro rapporto con lo spettacolo. Questo disordine mondiale è dovuto alla nostra incapacità, alla sopraffazione dell’uomo sulla natura che gli si è rivoltata contro. Nel bellissimo poema di Eliot La terra desolata, in cui si racconta il disorientamento dell’Europa, si dice: “In questi frammenti puntellerò le mie rovine”, e allo stesso modo dovremo fare noi, puntellando le rovine che restano del nostro mondo precedente, avviando il tempo della ricostruzione.
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i n c ALESSIO BONI
Il teatro non morirà mai. È una forma di espressione nata più di 3000 anni fa: se ci si pensa bene, il teatro è ancora più antico della Chiesa… Già nelle rappresentazioni greche si rispondeva ad una necessità insita nell’essere umano: l’uomo che si mette a confronto con un altro uomo. Un teatro è capace di sprigionare tanta forza: si tratta di un insieme di molecole e pensieri, di esseri umani, che uniti creano coraggio, energia e amore. Per queste semplici ragioni, lo streaming non potrà mai sostituire uno spettacolo dal vivo.
o n t r o
CATERINA VERTOVA
Quello che è accaduto crea incertezza, ma può costituire un’opportunità: in mezzo al dolore e alle difficoltà cerchiamo di capire ciò che veramente rappresenta una necessità per la vita di noi esseri umani. Abbiamo imparato che la medicina è una necessità, ma anche l’arte deve esserlo. Il teatro, in particolare, è comunicazione, nel suo stato più puro ed essenziale, dunque artistico. Ci ingegneremo molto per non perdere questo fluido magico di comunicazione naturale che si crea, in maniera potente, tra spettatore e artista.
r i c o s t r u z i o n e DANIELE RUSSO
Ho sempre pensato che la nostra fosse una generazione di passaggio, che non si sarebbe studiata tanto nei libri di storia, e invece la realtà ha cambiato tutto. Probabilmente tracceremo una linea: la nostra esistenza prima e dopo i fatti legati al Coronavirus… Questo eccesso di vita virtuale che stiamo sperimentando ci fa comprendere quanto sia importante per noi il teatro, fatto di incontro e umanità. La verità è che stiamo impazzendo: senza il palcoscenico noi attori siamo come animali in gabbia.
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b e l ELENA SOFIA RICCI
l
Penso sempre al modo in cui può esprimersi l’arte, alla bellezza collettiva del nostro mestiere: al contrario, la tristezza è nei teatri e nei cinema che non possono rimanere vuoti. Noi in genere lavoriamo abbracciandoci e baciandoci, incontriamo i fan: è difficile vivere dei protocolli pensati in un regime di distanziamento sociale. Attori e pubblico formano un sodalizio: è un legame fortissimo e indivisibile, chi è sul palcoscenico e chi sta in platea sente di essere strettamente connesso. Noi attori non esistiamo senza il pubblico.
e z z a
ENZO DECARO
Abbiamo imparato ad accettare dei cambiamenti repentini nelle nostre vite. Attraversato questo tunnel, possiamo recuperare qualcosa che è nella nostra interiorità, riacquisendo certe priorità e alleggerendoci di ciò che abbiamo capito non essere così indispensabile per la nostra essenza di esseri umani. Ci siamo resi conto di non poter fare a meno di comprendere noi stessi, la nostra cultura e la nostra storia. E il teatro è fondamentale perché noi tutti ‘siamo il teatro’: è qualcosa che parla di noi, non dobbiamo dimenticarlo mai.
f i d u c i a GIORGIO MARCHESI
Al di là della tecnologia o delle cose materiali, gli esseri umani non possono fare a meno di comunicare, in maniera viva e diretta, tra loro. In fondo, anche le mascherine che dobbiamo indossare presuppongono un nuovo tipo di comunicazione che si regge sullo sguardo… E il teatro è l’essenza stessa dello scambio di sguardi e di rapporti umani. Quando ritorneremo alla normalità, agli spettatori chiedo di darci fiducia e di coinvolgere con loro a teatro sempre nuove persone. Abbiamo bisogno del loro aiuto e di scommettere sul futuro.
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LINO GUANCIALE
Per un attore non esibirsi più su un palcoscenico significa sentirsi impossibilitati a fare ciò che più si desidera, perdendo il modo di stare in connessione con gli altri e anche con se stessi. Al pubblico io mi sento di dire soltanto: “Ci vediamo presto!”. Una frase semplice, per guardare al futuro. Finirà, supereremo questo momento e ritorneremo, forse con una consapevolezza maggiore, a comprendere cosa significa essere una comunità. Perché quando guardiamo tutti insieme uno spettacolo siamo uniti gli uni agli altri.
c o m u n i t à c r e a LUCIA MASCINO
Questa condizione non durerà per sempre: la questione è come affrontare il tempo di transizione. Stiamo vivendo uno scacco matto: il teatro, il cinema, il mondo della musica… Dobbiamo fare un aggiornamento specifico per affrontare questo periodo. Senza dimenticare che il live non potrà mai essere sostituito e che rimarrà una prerogativa imprescindibile del teatro. Di buono, in questo stop, abbiamo vissuto il raccoglimento e lo studio: è come se fosse arrivata un’onda che ti ricarica interiormente, ma è un’onda che deve ripartire.
t i v i t à
LUCIA POLI
Il teatro ha sempre rappresentato la crisi, perché sta al centro della società e in ogni momento è capace di raccontarla con forza. Adesso il teatro esprime afasia e silenzio, ma resto ottimista perché sono nata durante la guerra, in un’Italia da ricostruire. Come conseguenza alla crisi, tutto non potrà che andare meglio: questa è la mia sensazione. Forse si tratterà di una ricostruzione lenta, ma dovremo potenziare la creatività, giocando con il teatro nella sua forma di rapporto attori-spettatori con modalità profondamente rinnovate.
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FRANCESCO PANNOFINO
Può essere un palcoscenico, un set, una sala di doppiaggio o la TV: tutto manca ad un attore. È vero che, solo quando non hai più le cose a cui sei abituato, e ne comprendi appieno la semplicità e la bellezza, ti senti perso. Il pubblico mi manca tantissimo, appartiene alla sfera degli affetti di ogni artista: accanto ai genitori, ai figli, alla moglie e agli amici, ci sono gli spettatori. Una quantità di persone enorme, con il loro calore, l’affetto, l’applauso, la risata, il silenzio, le strette di mano, gli abbracci e i baci.
p a l c o s c e n i c o
f a n PAOLA MINACCIONI
In un primo momento le mie riflessioni erano legate al lavoro o alle preoccupazioni economiche, ma la questione è diventata talmente sociale: ti senti una piccola parte di un sistema immenso. Questo periodo difficile ci ha sicuramente insegnato a ribadire il senso della condivisione: abbiamo capito di essere tutti nella stessa barca, ora più che mai… Dobbiamo riscoprire il teatro, come qualcosa di non superfluo e che ci appartiene. Come sarebbe la nostra esistenza senza l’arte, lo spettacolo o i libri? Gli artisti trasmettono colore. E vita.
t a s i a
GIULIO SCARPATI
Occorre recuperare il legame esistente tra il teatro come luogo e la comunità che rappresenta. In questa fase siamo tenuti, tutti, ad avere una visione creativa e coraggiosa. Ricordo un racconto di Pietro Garinei: lui diceva che insieme a Giovannini durante la guerra, anche sotto le bombe nascosti nella farmacia di famiglia, scrivevano battute comiche. La fantasia non ha limiti, è un valore da non perdere neanche nei momenti più tragici. Dobbiamo lavorare senza rischi, ma dobbiamo ripartire e riprenderci la voglia di raccontare.
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d e s SERRA YILMAZ
Una grande frustrazione, questa è la parola giusta per descrivere il mio sentimento: io volevo ancora recitare la parte di Sancho Panza - con cui si è interrotta la tournée a causa del Coronavirus - e ritrovare Don Chisciotte per ancora tante e tante repliche! Non voglio che lo spettacolo dal vivo muoia: non può essere sostituito dallo streaming, deve essere necessariamente ‘dal vivo’, appunto. Mi manca molto stare insieme agli altri attori e al pubblico. Ho sempre definito il palcoscenico come lo spazio nel quale sono più felice al mondo…
i d e r i o
ARTURO MUSELLI
La distanza che si è creata con il pubblico a causa della chiusura, spero che in futuro si accorcerà sempre più. I teatri e i cinema sono ‘luoghi di assembramento’ per eccellenza, ma non dobbiamo dimenticare mai che sono degli spazi destinati alla condivisione. Appena tutto ripartirà, la gente sentirà il desiderio insopprimibile di entrare in questi luoghi per condividere insieme la vita. Il divano è ormai un luogo troppo conosciuto e troppo banale per la nostra quotidianità: le poltrone di un cinema o di un teatro, invece, no!
p a z i e n z a MAURIZIO SCAPARRO
Vorrei citare una famosa frase di Eduardo De Filippo: “Ha da passà ‘a nuttata”; queste parole eduardiane sono pronunciate da Gennaro Jovine alla fine di Napoli milionaria! e fanno riferimento alla particolare situazione storica vissuta in quel momento dal nostro Paese, distrutto dalla guerra. È una battuta che risponde, a mio parere, pienamente e tragicamente a questo nostro periodo. Deve passare questo tempo, in cui siamo tutti coinvolti, chi fa teatro e chi non lo fa. Si deve avere pazienza, e il momento senza luce passerà.
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IL TEATRO E IL PUBBLICO: CHE COSA SONO PER VOI ?
g GIUSEPPE BATTISTON
Chi porta avanti un’attività, di qualsiasi tipo, deve credere in quello che fa. E a maggior ragione ciò è valido in teatro, dove occorre un’adesione profonda, una grande umanità, insieme ad un forte desiderio di conoscere gli altri. Il tempo che mi conduce verso la rappresentazione io lo vivo sempre con gioia, perché è il momento in cui ritrovo il pubblico. Senza il pubblico non è possibile fare teatro. Il pubblico è parte integrante di quell’atto politico che si esercita nel momento preciso in cui si decide di fare teatro.
i o i a
CLAUDIO BISIO
Mi piace vedere la gente che si diverte e scoprire la bellezza di una risata. La presenza del pubblico, per tutti noi che facciamo questo mestiere, è di un’importanza pazzesca. Dopo tanti anni di carriera provo sempre una grande emozione prima di incontrare il pubblico. Ti aspetti una risata in un certo momento, ma non sempre arriva. Tutto dipende dall’energia che si crea tra te, attore, e lo spettatore che ti sta di fronte. Questo rapporto, così unico, è un sentimento difficile da spiegare. Una preziosa alchimia.
e m o z i o n e FABRIZIO BENTIVOGLIO
Non so che uomo sarei diventato senza il teatro. Sta proprio in questo scambio, in questo dare e ricevere in cambio tra attori e spettatori, il grande incontro e nutrimento del teatro. Il momento più emozionante del nostro mestiere è quello della preparazione e della vestizione in camerino, quando l’attore indossa il costume di scena e la persona, poco alla volta, si trasforma nel personaggio che incontrerà gli spettatori. Il pubblico è: l’occhio che mi guarda, l’orecchio che mi ascolta, la persona a cui sto raccontando una storia.
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FILIPPO TIMI
I miei spettacoli nascono nel momento in cui le battute incontrano la vita sul palcoscenico. Le scelte cambiano in base all’incontro con gli attori, con i tecnici e soprattutto con gli spettatori. La messinscena è continuamente in ascolto e in dialogo con la platea, per questo ogni rappresentazione mantiene una propria poeticità: in scena si va avanti a raccontare una storia, ma non facciamo mai finta di avere già delle risposte per chi ci guarda. È la storia stessa che svela il suo intreccio, attraverso lo sguardo reale del pubblico.
p o e t i c i t à
m GEPPI CUCCIARI
Credo che la forza dell’ironia sia assoluta, essenziale a teatro e nella vita di tutti i giorni, per combattere le avversità. Il pubblico è un’entità impalpabile che merita sempre il massimo rispetto. Spesso capita che gli spettatori a cui piace il tuo lavoro ti facciano i complimenti e ti dimostrino affetto; a volte addirittura qualcuno viene a dirti che gli hai fatto compagnia mentre stava male, che lo hai fatto ridere con una tua battuta in una giornata triste… Queste parole del pubblico, per me hanno un valore assoluto.
a g i a
VITTORIA PUCCINI
Fare teatro significa cercare di fare arrivare una storia dal vivo agli spettatori e loro, in cambio, mi restituiscono un'emozione. Nessuno dei due – attore e spettatore – può prescindere dall’altro; il rapporto è molto stretto, magico e forte allo stesso tempo: un ciclo di energia che passa e che ritorna senza fine. Io avverto la responsabilità nei confronti del pubblico, ma non mi spaventa: fin da ragazzina, anche nella vita, ho sempre perseguito il senso della responsabilità. L’importante è riuscire a donarsi completamente.
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NERI MARCORÈ
Io credo in una funzione civile e sociale del teatro: bisogna guardare al presente e cercare di descriverlo. Il teatro deve essere inteso come qualcosa di sperimentale e coraggioso, in cui l'elemento comico e quello più drammatico sono due facce della stessa medaglia. Del resto, così accade anche nella vita, dove la tristezza e l'allegria si sposano continuamente. L’incontro con il pubblico, per noi attori, è come se fosse la benzina che si brucia durante ogni spettacolo e che ci fa andare avanti.
r e s p o n s a b i l i t à e n t u MICHELE RIONDINO
Devo dire che negli anni sono stato respingente verso quelle che potevano essere le richieste del pubblico: il mio atteggiamento è sempre stato rivolto all’esperienza dell’atto scenico, al cospetto del quale credo che debba uscire modificato sia lo spettatore, sia l’attore. È un procedimento interiore che va costruito insieme. Devono esserci una predisposizione e un sentimento volti a quest’esperienza diretta: è una responsabilità che con il tempo ho imparato a riconoscere e maturare come principale elemento del mio stare in scena.
s i a s m o
TONI SERVILLO
Fare teatro è confrontarsi con l’esigenza, l’angoscia e l’entusiasmo – si può chiamare in mille modi – dell’andare in scena e dell’incontro con il pubblico. Infatti, io arrivo a comprendere di più un testo quando è sottoposto allo sforzo di tante recite davanti agli spettatori. Lo spettacolo diventa allora una sorta di laboratorio continuo. Dopo aver vissuto anni e anni di teatro impari che, sul palcoscenico, ti perdi e ti ritrovi di continuo… E in questo gioco di perdite e di ritrovamenti senza fine arrivi a capire qualcosa di te.
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m i LUCA ZINGARETTI
Sofferenza e gioia, tristezza e amore: tutte le emozioni che toccano l’animo umano, devono passare – come una potente scossa elettrica – dall’attore in scena fino al cuore dello spettatore. Scocca una scintilla che dà il via a questo rapporto, unico, tra l’attore e il suo pubblico. Un giro virtuoso che dal palcoscenico porta energia verso gli spettatori, mentre a sua volta dalla platea sale quel sentimento che fa percepire il pubblico nel suo insieme, come se fossero tante lucine che si accendono in un circuito emozionale.
s t e r o
GLAUCO MAURI
In palcoscenico, la prima cosa da ricercare è l’emozione. Prima di tutto l’attore deve saper emozionare, soltanto in un secondo momento arriva la razionalità e ci si interroga: che cosa ci ha colpito di quello spettacolo? Ho sempre amato studiare l’essere umano e il teatro – attraverso autori come Shakespeare, Beckett o Dostoevskij che non giudicano mai i propri personaggi – mi ha aiutato a capire che l’uomo non è perfetto. Io amo proprio il mistero dell’uomo, che può toccare vertici di bellezza o cadere in atrocità infinite.
a n i m a GABRIELE LAVIA
Il teatro è il momento in cui incontro me stesso. Il teatro si fa insieme con il pubblico ed è un processo intimo, profondo, che non avviene in superficie, ma in un sottopalco dell’anima. Il termine Teatro deriva dal greco, come “luogo dello sguardo”. Da spettatore vedo Edipo re in scena ed è lo stesso personaggio che mi guarda di riflesso… In questo sguardo reciproco accade che lo spettatore prenda coscienza di sé. Il teatro è, probabilmente, l’evento più importante nella storia dell’umanità ed è per questo che non morirà mai.
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Facciamo luce La sera del 22 febbraio scorso, la Fondazione Teatro della Toscana ha aderito all’appello Facciamo luce sul Teatro! di U.N.I.T.A. Unione Nazionale Interpreti Teatro e Audiovisivo.
“
“
In alto i cuori!
“
“
Un popolo senza cultura è un popolo destinato all’estinzione: ripartiamo!! W le luci della ribalta (accese)!
“
“
Siete gli specchi attraverso cui ci guardiamo e capiamo meglio.
“
“
Tornare qui è come riprendere a respirare. Ci manca l’aria.
“
Che tornino prioritarie cultura e istruzione!!!
“
“
“
Cultura para respirar.
Alla mia comunità in esilio! A una delle nostre più belle case.
“
“
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sul Teatro!
A sipari chiusi da mesi, per una sera il Teatro della Pergola, il Teatro Era, Il Teatro Studio ‘Mila Pieralli’ hanno riaperto e illuminato le loro porte. Questi sono i pensieri lasciati dal pubblico per ribadire la loro nostalgia di questi luoghi e per dire che il teatro manca.
Il teatro: quel suo modo unico di avverarsi alla presenza del pubblico è l’ossigeno di cui il futuro non può davvero più farne a meno.
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Sognare è vivere.
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Due sono i libri che ho letto: il teatro e il mondo.
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Qui condividiamo i sentimenti che ci uniscono.
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Curiamo lo spirito, apriamo i teatri.
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Tornare a teatro, per tornare a “casa”.
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Il teatro… Tutto ciò che ci unisce… In una storia. Grazie di tutto.
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Corso Costa iNuovi L'Oltrarno
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I DIPLOMATI DEL CORSO ORAZIO COSTA: TEATRO E PANDEMIA MARIA CASAMONTI
Con l’arrivo del Covid, tutti non sapevamo cosa aspettarci. Questa pandemia si è diffusa proprio un mese prima del diploma del corso Orazio Costa, che è avvenuto online. Sentivo di essere una giovane attrice appena uscita dalla scuola, in un momento in cui tutto si stava fermando: come fare ad inserirsi in una realtà teatrale in piena crisi, in un contesto “Il teatro e la recitazione sono una vocazione, chiuso e complesso già in partenza? una scelta di vita Cominci a farti un sacco di domande: e il compimento di un sogno” su te stesso, sul futuro, su quello che realmente desideri fare: non è che il mondo – pensavo – attraverso una
IL NUOVO ATTORE
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pandemia globale, sta mandando dei segnali per farmi cambiare strada? Quando ti ritrovi a vivere una fase di stallo, inevitabilmente metti in dubbio le tue scelte. Nonostante la difficile situazione generale, il fatto di partecipare alla produzione di Pinocchio del Teatro della Toscana – con la regia di Pier Paolo Pacini, in un’originale messinscena onirica della storia di questo burattino – è qualcosa di davvero importante. Tutti i giorni ho la possibilità di frequentare fisicamente il teatro: mi perdo nei corridoi a guardare le foto degli spettacoli che in passato ha ospitato la Pergola, con quei personaggi così importanti che ho sentito soltanto nominare e non ho mai visto in scena. Forse la vita in futuro arriverà a farmi cambiare idea, però senza teatro io non so immaginarmi. E quello che mi è mancato di più, quando non potevamo neanche entrare in teatro, è stato l’odore delle tavole del palcoscenico su cui io, a fine prove, spesso mi sdraio, come se fossi morta; non saprei bene come spiegarlo, ma è come se ci fosse una polverina delle fate che ricopre tutto il luogo teatrale e che lo rende unico.
ANNALISA LIMARDI SOFIA MENCI
Da ragazzi è particolarmente difficile vivere la pandemia. Sei in un momento dell’esistenza in cui l’unica cosa che desideri è uscire, incontrare persone, vuoi fare e ancora fare… Invece, il Covid ha messo in pausa per un po’ la vita di tutti ed è stato destabilizzante, sia come giovani esseri umani e sia come giovani attori. È vero che gli attori, quasi per definizione, sono abituati a vivere alla giornata: ti domandi continuamente se verrai preso per un certo ruolo, fai
i provini… Insomma, dal punto di vista attoriale sei preparato sempre all’instabilità. Siamo giovani e abbiamo voglia di metterci alla prova: soprattutto adesso, in cui tutto sembra essersi azzerato. Sentiamo che forse dobbiamo trovare il nostro modo per esprimerci, un modo nuovo. Come si fa a raggiungerlo? Studiando tantissimo e provando davvero a fare qualcosa, per superare la teoria. Abbiamo capito che l’intraprendenza è un elemento molto importante nel nostro mestiere: il futuro deve partire da noi stessi. Appena usciti dalla scuola non ci aspettavamo di toccare subito con mano l’artigianalità della macchina teatrale che si mette in moto. E il senso della precarietà, il fatto di non sapere bene quando si potrà andare in scena, ti mantiene comunque sul presente, sull’essenza del lavoro che stiamo portando avanti.
ALBERTO MACHERELLI BIANCHINI
In questo periodo di chiusura dei teatri al pubblico, i diplomati del corso Orazio Costa sono stati impegnati nelle prove dell’allestimento di Pinocchio, per la regia di Pier Paolo Pacini, Direttore del Centro di Avviamento all’Espressione, in attesa di debuttare il prima possibile
Siamo fortunati a continuare il nostro percorso grazie al Teatro della Toscana: abbiamo la possibilità di lavorare e di esprimerci, anche se siamo coscienti che il futuro sarà sempre più impegnativo perché il virus ha bloccato tutto. Il mio sogno è di lavorare in teatro e nel doppiaggio: l’ambiente è difficile, ma non ho mai pensato di abbandonare, neanche per un istante, perché non saprei cos’altro fare nella vita. Quell’odore particolare del teatro, difficile da descrivere, è la prima sensazione fisica che manca del teatro quando non si frequenta. Grazie ai controlli periodici a cui siamo sottoposti, abbiamo la possibilità in questo tempo di distanziamento di vivere una dimen- Foto di sione di gruppo: con gli altri com- Clara Neri
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Dall'alto a sinistra: Ruggero Albisani, Maria Casamonti, Sofia Menci, Emanuele Taddei, Giovanna Chiara Pasini, Alberto Macherelli Bianchini, Annalisa Limardi, Marco Santi, Pietro Lancello, Costanza Maestripieri, Giacomo Lorenzoni, Federico Serafini
pagni di lavoro ci scambiamo delle idee e scherziamo nei camerini… È una vita sociale, quella che stiamo vivendo in teatro, che all’esterno non esiste. Stiamo uniti per raccontare una storia, e possiamo farlo insieme. Condividiamo la passione per il teatro: è vita che si svela, mai come ora.
EMANUELE TADDEI
aspettavo: sono riconoscente. Questo Pinocchio rappresenta, al tempo stesso, una responsabilità e una sfida. Abbiamo tutta la Pergola a disposizione per questo progetto: la grande sala, lo staff del teatro, Pier Paolo Pacini che ci dirige…
PIETRO LANCELLO
Il lavoro dell’attore è difficile da Essendoci diplomati da poco al portare avanti, soprattutto dal lockcorso Orazio Costa, il nostro pre- down. È venuta a mancare la progetsente è anche il nostro futuro: siamo tualità. Per fortuna, abbiamo avuto molto coinvolti nella nostra volontà la possibilità di lavorare agli allesti-
FOTO FILIPPO MANZINI
di fare gli attori. La pandemia ci ha vincolato in uno stato di fermo: durante il primo lockdown, per esempio, avvertivo proprio il tempo che volava senza la possibilità di fare niente. Sento che potrei spaccare il mondo e, invece, il Covid ha messo un freno a tutto. Essere presenti, in questo momento, su un palcoscenico è stata un’occasione che non mi
menti diretti da Pacini e Giorgetti: sentire di avere un teatro dietro che ci protegge è veramente fondamentale. Oggi dobbiamo pensare a quando ci sarà la ripartenza, cercando di farsi trovare pronti alle nuove opportunità. I teatri chiusi, le stagioni che non vanno avanti, le Compagnie che non possono muoversi per le tournée: questa è la situazione generale, che ha,
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però, velocizzato il processo di lavoro e di formazione dei giovani da parte della Fondazione Teatro della Toscana. In un contesto più consueto questo meccanismo sarebbe stato forse più dilatato nel tempo. Del teatro, quando è impossibile anche solo pensare di entrarci, mi manca la relazione con gli altri: accedere all’ingresso, prendere il biglietto, sedersi accanto alle persone e guardare insieme una storia. In questo momento, oltre a recitare, quello che più mi manca del teatro è andarci da spettatore.
dello spettacolo Pinocchio che si sta preparando alla Pergola: tante altre persone non hanno la possibilità di lavorare in teatro in questo momento. Penso che il teatro sia un modo per cercarsi e ritrovarsi: la quotidianità spesso ti allontana e ti distrae dalle cose fondamentali, mentre il teatro ti riporta a quelle domande profonde che fanno parte della tua interiorità: ti chiedi chi sei, cosa vuoi, rifletti sulle tue scelte… Come spettatore mi sono mancate le persone, sentire l’immediatezza della vita: il teatro è
FOTO FILIPPO MANZINI
RUGGERO ALBISANI
Anche davanti alle difficoltà enormi legate a questa emergenza globale non ho mai pensato di abbandonare il teatro per un’altra professione più stabile: meglio essere poveri che senza il palcoscenico! È come se in teatro potesse sempre accadere qualcosa, è il senso della scoperta a renderti vivo. Avverto la responsabilità di far parte
qualcosa che accade in quel momento, con degli esseri umani che parlano ed entrano in relazione tra loro. Dal punto di vista dell’allievo attore, mi manca tantissimo stare fisicamente in piccionaia, in una piccola seduta laterale: in silenzio, ascolto questa bellissima atmosfera che avvolge la sala. Anche quando non c’è niente, il teatro parla e non sta mai zitto.
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Il gruppo de iNuovi Giovane Teatro della Toscana si è costituito il 12 aprile 2021 come Associazione, diventando a tutti gli effetti una Compagnia Teatrale Autonoma. Dopo la gestione, unica nel suo genere, del Teatro Niccolini di Firenze, la Fondazione Teatro della Toscana li accompagna per aiutarli a realizzare un programma di attività autonome al Teatro Studio di Scandicci, che animeranno come residenza, e poi in ogni altro luogo futuro del territorio
iNUOVI: TEATRO E PANDEMIA CLAUDIA L. MARINO
FABIO FACCHINI
In tanti, in questa fase così difficile, abbiamo pensato ad un piano B, dal punto di vista professionale. Per esempio, molti hanno sostenuto degli esami per insegnare e ottenere nuove certificazioni: il lavoro dell’attore è, per sua stessa essenza, instabile, figuriamoci di questi tempi… Io sto dedicando questo periodo allo studio, all’approfondimento e alla progettazione, alla ricerca della drammaturgia contemporanea; la chiusura forzata mi ha abituato ad aprirmi sempre di più, come reazione, a quello che è il mondo intorno a noi. È come se si fosse aperta una ferita collettiva e individuale, una frattura nel nostro animo e nella società che ha messo a nudo le nostre debolezze e le nostre fragilità. Mi sono concentrato, per esempio, su alcuni testi che affrontano il tema del cambiamento climatico: una volta che i teatri riapriranno ci sarà bisogno di portare in scena ciò che è strettamente necessario per la nostra esistenza, confrontandosi ancora di più con gli altri. L’obiettivo è la condivisione reale con il pubblico che dovrà essere trasportato all’interno di storie e personaggi in cui possa riconoscersi, afferrando la testa e il cuore di chi ascolta. Teatro è sinonimo di urgenza, ora più che mai. Teatro è sia uno spazio fisico che metafisico, in cui gli esseri umani stanno insieme e discutono tra loro, nel bene e nel male. Si crea una comunità e si esce dalla visione egoistica del singolo individuo.
La sensazione di questo periodo è quella di un tempo rubato, un tempo in cui stavano avvenendo tante cose. Io, per esempio, prima del lockdown ero impegnata nella mia prima tournée, quando tutte le attività hanno subito uno stop. Sentiamo intorno un grande senso di provvisorietà, ma abbiamo sempre cercato di reinventarci. La paura è che, nel momento in cui avverrà la riapertura, i giovani verranno lasciati indietro perché magari sarà necessario chiamare i grandi attori per attirare il pubblico. Il Teatro della Toscana ha un’attenzione particolare verso noi giovani, quindi nel contesto specifico ci sentiamo protetti, ma a livello di categoria questo è un aspetto molto sentito. Questo è un periodo Nella pagina accanto, di studio, un tempo in cui cerchiamo dall'alto a sinistra: delle risposte e in cui ci si interroga Filippo Lai sulla funzione dell’attore nella società. Maddalena Amorini L’unica strada possibile, per comuniLorenzo Volpe care con il pubblico, è uscire dal teaBeatrice Ceccherini tro, per poi ritornare sempre alla sua Sebastiano Spada essenza. Con le Consultazioni PoetiNadia Saragoni che al telefono – ideate da Emmanuel Francesco Grossi Demarcy-Mota e frutto della collaboClaudia L. Marino razione tra il Teatro della Pergola e Athos Leonardi Théâtre de la Ville di Parigi – abbiamo Anastasia Ciullini provato a portare la poesia nella casa Luca Pedron delle persone, raggiungendole in un Erica Trinchera rapporto uno a uno e in un contesto Davide Diamanti intimo. Essenziale è stato l’ascolto: la Laura Pinato gente al telefono ci parlava dei propri Mattia Braghero sentimenti e noi davamo in risposta Federica Cavallaro una piccola medicina dell’anima, che Ghennadi Gidari è la lettura di una poesia. Il teatro è, Alessandra N. Brattoli infatti, una necessità: di farlo e di veERICA TRINCHERA Fabio Facchini derlo. Mai come in questo periodo la L’ultimo spettacolo in cui sono Maria Lucia Bianchi cura dell’anima, di cui il teatro è stru- stata impegnata è stato The DubliDavide Arena mento, diventa fondamentale. ners, per la regia di Sepe, ormai lo
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scorso ottobre. In Italia hanno chiuso i teatri proprio il giorno prima del nostro debutto: la sensazione che abbiamo vissuto è stata di un grande sconforto, perché dopo un mese di prove molto fisiche e stancanti mancava pochissimo per andare in scena. Sicuramente lo spettacolo verrà ripreso, e ciò rappresenta una speranza per noi. In questo periodo
particolarmente, ma che subito mi attirano: mi rispecchio nel mio stesso mestiere di attrice. L’attore che fa un piccolo movimento, a metà tra la recitazione e qualcosa che proviene dalla sua interiorità: quel gesto non appartiene strettamente al personaggio, ma si compie ugualmente. Considero il teatro come una casa: io e gli altri miei compagni COLLAGE CLARA BIANUCCI
ho avuto l’opportunità di dedicarmi alla fotografia per lo spettacolo La donna volubile; in passato avevo già fatto delle foto di scena per il nostro gruppo de iNuovi: per me la fotografia è un divertimento, qualcosa che mi appassiona. Le mie fotografie si concentrano sul mondo dietro le quinte, ma anche su quello che accade in scena, sugli stati d’animo degli attori. Certi gesti, che il pubblico magari non nota
de iNuovi abbiamo avuto modo di respirare quotidianamente i luoghi del Teatro della Toscana. Teatro non significa soltanto recitare, ma anche entrare in contatto con l’umanità che abita questo luogo.
MADDALENA AMORINI
Dopo l’esperienza che abbiamo avuto noi ragazzi che facciamo parte del progetto de iNuovi – in cui ci siamo buttati con un impegno
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costante nel mondo del teatro post accademico per prepararci al lavoro – siamo passati al blocco generale delle attività dovuto alla pandemia. L’immagine di questo anno sospeso è come se fosse un raccolto che non è stato, appunto, raccolto: una vigna i cui frutti sono stati bruciati da una tempesta, quella del virus. Noi avevamo iniziato da poco ad entrare in confidenza con alcuni aspetti legati al mestiere, ma, come tutto il mondo, ci siamo dovuti improvvisamente fermare. Come gruppo de iNuovi credo che, ciò che ci unisce, sia una sorta di
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
medesimo vocabolario comune: un linguaggio corale, che ci permetta di entrare in contatto con le più giovani generazioni per tentare di avvicinarle sempre più verso il teatro, andando anche a incontrarli proprio nelle scuole. Quando ci sarà la possibilità e tutto riaprirà, sarebbe bello riuscire ancora a confrontarsi con questi giovani studenti che scoprono, magari per la prima volta, il teatro. In questi giorni io non sogno altro che il teatro, dalla mattina quando mi sveglio fino alla sera in cui vado a dormire: essenzialmente si tratta di un grande gioco, un lavoro di squadra di cui non si può fare a meno.
SEBASTIANO SPADA
La crisi generale lavorativa è sotto gli occhi di tutti, ma forse è la crisi immaginativa a costituire una delle sofferenze più dure. Il periodo del Covid si è protratto a lungo e ha, quindi, mozzato di volta in volta i germogli progettuali che potevano nascere. Il fatto principale è che noi ci siamo ancora dentro, non abbiamo superato il problema, e così non sappiamo bene come raccontarlo. Il punto di vista del teatrante non può essere semplicemente cronachistico o giornalistico: occorre elaborare e fare propria la Storia, per comprendere come condividerla. Quando è iniziata la pandemia ero in tournée: ricordo che stavamo entrando in scena, indossavamo già il costume e ci hanno intimato di abbandonare tutto perché si doveva chiudere immediatamente. Senti che stai cominciando il mestiere, sono le prime affermazioni, ma ti rendi conto che devi metterle in pausa. Se dovessi individuare che cosa ci lega come gruppo de iNuovi, al di là delle tante diversità personali, sicuramente direi una visione umana del lavoro del teatro. È la natura della formazione che abbiamo seguito, partendo dall’insegnamento del Maestro Orazio Costa: cerchiamo di non perdere mai di vista l’importanza di sentirci parte di qualcosa, per potere dare il meglio di noi stessi. Il teatro è in grado di svelarti sempre un’altra possibile via, mostra le infinite possibilità che esistono, anche al di là di noi stessi. In questo momento mi manca tutto del teatro, perfino il marciapiede davanti alla Pergola: è lì che elaboravamo il futuro e ci scambiavamo le idee, appena fuori dal teatro…
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LA SCUOLA L'OLTRARNO: TEATRO E PANDEMIA Questo è inevitabilmente un periodo pesante, in cui si avverte la precarietà data dalle continue e necessarie sospensioni del nostro lavoro. Non è stato facile accettarlo; iniziare questo percorso al Teatro della Pergola, però, è stata la salvezza, abbiamo potuto lavorare quando tutto il nostro Paese era fermo e tutto questo in sicurezza. Questa fortuna è stata ripagata da parte nostra con il maggiore impegno possibile.
ciarsi al mondo del lavoro abbiamo vissuto molta paura e frustrazione, ma anche tanta determinazione nel reinventarsi e raggiungere il pubblico in altri modi, come Youtube o i Social. Adesso, abbiamo voglia di avere spettatori in sala! In parte, poi, siamo rimasti delusi da uno Stato che ci ha fatto sentire poco tutelati, che ha sbarrato i teatri senza pensarci due volte, lasciando aperti chiese e supermercati. Ci chiediamo: non si sarebbe potuta concepire un’altra soluzione, più equa e meno distruttiva per i lavoratori dello spettacolo? Per-
Ciò che ha accomunato noi giovani, attori e non, è stata la mancanza di socializzazione che ha reso sempre più difficile sostenere la situazione di isolamento causata dalla pandemia. Dall’altra parte abbiamo riscoperto il piacere di stare in casa con la propria famiglia, ritrovando tante piccole cose che nella frenesia del mondo moderno si erano perse. Da giovani attori che stanno per affac-
ché non sono bastati i distanziamenti e le adeguate misure di sicurezza, invece di chiudere tutto senza distinzione? Non abbiamo mai pensato di abbandonare il percorso dell’attore, perché non si fa l’attore ma si è attore. Il teatro e la recitazione sono una vocazione, una scelta di vita e il compimento di un sogno. Ritrovarsi chiusi e in difficoltà ci ha dato una grande spinta, ha fatto di nuovo rifiorire la
Foto selfie degli attori de L'Oltrarno: Lorenzo Antolini Marco Bossi Greta Bendinelli Antonio Cocuzza Jacopo Dragonetti Arianna Maria Garcea Giacomo Gava Yeda Kim Viola Picchi Marchi Nadia Najim Federico Poggetti Francesco Providenti Maria Giulia Toscano
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nostra voglia di fare teatro dandoci l’ennesima conferma di essere nel posto giusto. C’è sempre qualcosa da raccontare sul palcoscenico, qualcosa per cui lottare. Abbiamo vissuto anche momenti bui, ovviamente, ma come Compagnia ci siamo fatti forza a vicenda e non abbiamo mai pensato ad arrenderci. Piuttosto, ci siamo spesi a cercare soluzioni, che poi è l’essenza del nostro lavoro. Il teatro è un posto sicuro, ci piace de-
siamo stati spesso a lavorare nella meravigliosa sala del Teatro della Pergola. Ciò che manca è il pubblico, perché oltre a farlo, il teatro è importante vederlo. È importante l’interazione con il pubblico, sentirlo entrare mentre sei in quinta, ridere o applaudire… Quel colpo di tosse inaspettato che dà vita alla battuta decisiva! Crediamo che ci sia per forza qualcosa che accomuna tutti i teatranti: chi sale sul palco, chi è tec-
scriverlo come l’unico posto in cui ci sentiamo bene, che non vogliamo lasciare. Esso è tante cose: è vita, e a volte è più nudo e vero della vita vera. Il teatro è un magnifico equilibrio di ascolto e azione, di emozioni e forme; al tempo stesso, è luce e tenebra, dove ogni cosa è possibile e dove tutto può essere il contrario di tutto. Sono quelle magiche reazioni chimiche che si creano sul palco che ci attirano e ci spingono a volerne sempre di più. Fortunatamente non abbiamo dovuto abbandonarlo,
nico, chi è costumista, tutto il mondo del teatro. È la consapevolezza che ognuno ha un ruolo indispensabile a mettere in moto la “macchina teatrale”, facendoci lavorare per creare una sinergia che non si vede ma, quando c’è, si sente, eccome! È il grande meccanismo che consente di raccontare storie! Essere attori è una missione, è essere strumento attraverso cui la magia del teatro si manifesta e prende forma nell’interazione imprescindibile tra il performer e il pubblico.
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I giovani attori della Scuola L’Oltrarno, diretta da Pierfrancesco Favino, in questi mesi di chiusura forzata dei teatri hanno continuato a lavorare allo spettacolo La donna volubile, con il coordinamento di Marco Giorgetti, in attesa del debutto
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la bellezza di un applauso di Vincenzo Carola
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l mio ruolo, l'amministratore di compagnia, è legato al viaggio e al movimento… Quando hanno chiuso i teatri, ormai mesi fa, eravamo arrivati da Roma a Salerno per il premontaggio dello spettacolo Mine vaganti. Invece di debuttare abbiamo dovuto interrompere la tournée, in un’atmosfera surreale. Non è semplice fermarsi: sei abituato ad un ritmo frenetico e problemi pratici da risolvere; invece, in poche ore ti ritrovi a casa. Inoltre, c’è il pensiero per la tutela dei tecnici di giro, per i diritti lavorativi e il futuro
FOTO FILIPPO MANZINI
Vincenzo Carola è amministratore di compagnia e lavora con le produzioni teatrali de Gli Ipocriti Melina Balsamo e con Nuovo Teatro. Sta aspettando di ritornare in tournée, dal 5 marzo 2020
che appare incerto. Non perdo la speranza, anche se il mondo del teatro sarà probabilmente l’ultimo a ripartire a pieno regime. Le perdite economiche di ciascuno sono enormi. Quello che mi manca è girare per l’Italia, conoscerla in tutta la sua bellezza. E poi, l’applauso del pubblico. Facciamo tanti sacrifici per portare avanti il lavoro: stai sempre lontano da casa e dalla tua famiglia; però, vedere il pubblico che esce entusiasta da uno spettacolo ti dà una grande soddisfazione. Anche se non reciti, senti anche tu di aver contribuito da dietro le quinte, con il tuo mestiere, a far stare bene le persone. Ora siamo bombardati dalla TV, ma credo che torneremo ad avere voglia di emozionarci a una nuova storia più concretamente e da vicino. Alla fine l’applauso è un po’ come l’abbraccio che adesso ci manca: è l’istante in cui il pubblico abbraccia gli attori e la Compagnia. Quando ciò accadrà di nuovo, sarà un momento bellissimo…
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Giancarlo Sepe
The Dubliners
The Dubliners: un debutto sospeso. Previsto ad ottobre scorso al Teatro della Pergola in questa situazione pandemica, così particolare, e caratterizzato dall’attesa da parte degli attori e del pubblico. Abbiamo dato l’anima in questa dimensione sospesa: le nostre prove si muovevano in un’atmosfera quasi universale, come se fossimo in un deserto dove mancavano le poltrone e gli spettatori… L’allestimento prevede una grande fusione degli attori in questo meccanismo del racconto della società irlandese nei primi anni del secolo scorso; il contributo emotivo è forte: ci sono canzoni, balli, una grande tavola piena di fiori, che è il simbolo della verdeggiante Irlanda. Uno spettacolo scandito da grandi appuntamenti scenici, e il fatto di essere arrivati alla prova generale dovendo rimandare il debutto a causa del Covid, è stato per tutti noi qualcosa di terribile. Siamo, però, pronti a tutto pur di andare in scena: sappiamo a cosa andiamo incontro, alle difficoltà pratiche della riapertura, e confidiamo nel pubblico, che ritornerà a teatro dopo un lunghissimo tempo per immergersi in uno spettacolo così coinvolgente. Ho cercato di mettere in scena la libertà del pensiero, che va verso il sentimento: persone che lavorano per il loro sostentamento, la pioggia continua che flagella questa parte del mondo, le vessazioni del potere… Un’emotività popolare che tocca tutti gli esseri umani, al di là delle diverse appartenenze geografiche. The Dubliners, con la sua giovane e numerosa Compagnia di attori, non è puro virtuosismo scenico, ma rappresenta un’urgenza: il desiderio di comunicare uno stato d’animo al pubblico. Io penso che nel prossimo futuro si dovrà pensare a costruire un teatro di emozione, perché il Covid segna uno spartiacque vero e proprio con il mondo come lo conoscevamo prima: ora, più che mai, bisogna arrivare al sentimento, al cuore della gente. Non possiamo trascurare le sensazioni del pubblico e, per questa ragione, stiamo pensando – insieme al Teatro della Toscana – ad un Nuovo Teatro e ad un Nuovo Attore. Seguendo questa scia, Officina Americana rappresenta, per il futuro, una nuova modalità di formazione dell’attore, in cui il canto, il ballo e la recitazione formano un tutt’uno. Il teatro del futuro è legato all’emotività, a partire dal sentimento degli attori che dovranno essere fortemente comunicativi. Il Nuovo Attore non può permettersi Fotografie di distrazioni, per arrivare a vivere il teatro come fascinazione: un teaFilippo Manzini tro avvolgente, come la musica.
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The Dubliners Part I The Dead & Part II The Ivy Day DA
James Joyce
UNO SPETTACOLO DI
GIANCARLO SEPE CON
MADDALENA AMORINI, DAVIDE ARENA, SONIA BERTIN, ALESSANDRA BRATTOLI, FEDERICA CAVALLARO, MANUEL D’AMARIO, DAVIDE DIAMANTI, FABIO FACCHINI, GHENNADI GIDARI, CAMILLA MARTINI, LAURA PINATO, FEDERICA STEFANELLI, GUIDO TARGETTI, ERICA TRINCHERA, LORENZO VOLPE E CON L A PARTECIPAZIONE D I
PINO TUFILLARO
MUSICHE DAVIDE MASTROGIOVANNI E HARMONIA TEAM DISEGNATORE LUCI UMILE VAINIERI SCENE E COSTUMI ORIGINALI CARLO DE MARINO COSTUMI ELENA BIANCHINI DIRETTRICE DI SCENA FEDERICA FRANCOLINI SARTA ELEONORA SGHERRI DATORE LUCI ORSO CASPRINI AMMINISTRATRICE GRAZIA SGUEGLIA UNA PRODUZIONE
FONDAZIONE TEATRO DELLA TOSCANA TEATRO NAZIONALE
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Cette nouvelle difficulté du temps présent nous invite à tenir parole et à nous engager ensemble dans une démarche solidaire, afin de rester unis et de réunir toutes les conditions pour que les artistes et les auteurs continuent a créer et présenter leur travail au plus large public dans le respect des règles sanitaires. En cette période si particulière, où le pouvoir de l’imagination doit exister, pour construire des lendemains désirables, nous continuerons ensemble à tenir parole
Questa nuova difficoltà del tempo presente ci invita a mantenere la parola e a impegnarci insieme in un approccio solidale, al fine di rimanere uniti e di creare le condizioni affinché tutti gli artisti possano continuare a creare e presentare il loro lavoro a un pubblico il più largo possibile, nel rispetto delle regole sanitarie. In questo periodo così particolare, nel quale il potere dell’immaginazione deve poter rimanere in vita per contribuire a costruire un futuro vivibile, insieme noi continueremo a mantenere la parola.
Emmanuel Demarcy - Mota Direttore del T héâtre de la Ville di Parigi
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La cultura al tempo del Covid
LA STORIA ci INSEGNA Alessandro Barbero
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
Esistono dei periodi storici caratterizzati dalla paura più di altri? Non tutti i periodi storici sono caratterizzati dalla paura. Negli anni Sessanta e Settanta, per esempio, si viveva con la speranza del futuro, anche se è vero che alla fine si tratta sempre della speranza di alcuni in rapporto con l’ostilità e lo sconcerto di altri. La storia è ciclica: si alternano fasi in cui si vive tutto con maggiore spavento e in altri passaggi storici, invece, c’è la tendenza visibile a guardare positivamente il progresso ed il futuro. Ma sostanzialmente ogni periodo è caratterizzato dall’incertezza e ciò succede per un semplice motivo: noi non sappiamo mai cosa potrà accadere domani. Semplicemente è questa la condizione degli esseri umani. Le conseguenze dei più grandi ed importanti avvenimenti storici sono sempre, in qualche modo, inattese. Prevedere il futuro è uno dei sogni, anzi ossessioni, dell’umanità. L’età contemporanea rispetto ad un periodo storico molto distante da noi come, per esempio, il Medioevo, si caratterizza particolarmente in maniera negativa?
Noi storici siamo consapevoli del fatto di ignorare molti accadimenti, e alcuni non li sapremo mai. Per dare una giusta risposta occorre analizzare dei segmenti temporali più piccoli. Il Basso Medioevo, almeno fino alla peste del 1348 e all’epoca di Dante, è stato un tempo contrassegnato da un enorme ottimismo, seguito da momenti più oscuri che fanno nuovamente da contraltare al successivo ottimismo rinascimentale. La storia è una continua altalena di alti e bassi. Adesso, chissà il futuro prossimo cosa ci porterà: i nostri presagi più cupi magari dureranno solo per qualche tempo… La buona notizia – sempre sulla base degli esempi che la Storia, quella con la esse maiuscola, ci mette sotto gli occhi – è che l’umanità ha comunque una straordinaria capacità di reagire e di imparare dalle catastrofi, ricostruendo quello che è stato distrutto, per imboccare strade nuove.
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nuove prospettive di Thomas Richards
Foto tratta dal film Songs of Tradition Dalla morte di Grotowski nel 1999, Thomas Richards, Direttore Artistico del Workcenter, e Mario Biagini, Direttore Associato, hanno continuato ad approfondire la ricerca del Workcenter sulle arti performative
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vevo problemi di salute. Stavo lavorando con Grotowski e son dovuto tornare a casa per vedere i medici. Parlavo al telefono con Grotowski e le nostre conversazioni avevano una qualità che spesso sfociava in un momento di silenzio. L’essenza del lavoro aveva luogo durante quei silenzi. Non eravamo nella stessa stanza, eppure esisteva un rapporto vivo con il lavoro. Iniziai a scoprire che il processo ‘interno’ del nostro lavoro, che generalmente appare in relazione al lavoro con i canti di tradizione, poteva in realtà avvenire in silenzio. Oggi siamo stati colpiti da uno shock collettivo. La situazione creata dalla pandemia mi spinge a dire: “Interromperò il lavoro pratico per un po’ perché è impossibile!”. Ma poi mi ricordo di Grotowski durante quei silenzi. Possiamo volgere queste circostanze a nostro favore? Potrebbe essere possibile lavorare sui canti di tradizione online? Abbiamo fatto delle scoperte sorprendenti. Anche attraverso uno smartphone, si può avvertire l’obiettività del lavoro. E, se ciò è possibile, vi devono essere delle opportunità nascoste in queste circostanze. È possibile che gli altri percepiscano la qualità del lavoro performativo anche attraverso un incontro su Zoom? Abbiamo creato gli Open Fridays. Ogni settimana, delle persone assistono ad una sessione di lavoro online sui canti di tradizione, trasmessa in live streaming dal Teatro Era. Le persone tornano, ancora e ancora, e si forma una comunità. Possiamo insegnare il lavoro dell’attore online? Abbiamo tenuto il nostro primo Master Course online, con partecipanti da tutto il mondo. A causa dei diversi fusi orari, il programma è stato di un'intensità estrema, ma la qualità delle creazioni è riuscita ad avvicinarsi a quella che appare quando lavoriamo con gli attori dal vivo. Sembra impossibile riuscire a connetterci l’un l’altro in questi tempi, eppure, paradossalmente, i legami con gli altri – basati sulla pratica teatrale – si stanno rafforzando. Affrontando gli ostacoli andiamo incontro ad orizzonti inaspettati, che cambieranno la nostra pratica in modi che non possiamo ancora immaginare. Quando la pandemia sarà superata, ci troveremo in un nuovo mondo di relazioni, con un approccio simile a quello che si sta sviluppando nel lavoro da anni, eppure trasformato. In quanto artisti possiamo rispondere in molti modi diversi a questa circostanza. Si spera che sapremo inoltrarci dentro di noi, per porci degli interrogativi con perseveranza e costanza tali da arrivare a risposte concrete che ci invitino verso nuove prospettive.
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ciò che forse cerchiamo
C
iò che forse cerchiamo facendo teatro e a teatro, nei nostri momenti migliori, è risolvere la sensazione di alienazione da noi stessi e dall'altro. Nell'epoca in cui viviamo, la distanza incolmabile da se stessi e l’uno dall’altra è un problema percepito da molti, a causa della pandemia, ma anche delle divisioni inerenti alla nostra società, radicata nell’individualismo. La questione di che cosa fare adesso e quale sia il rapporto con le persone che ci circondano – e verso le quali siamo in debito – è urgente. Abbiamo una posizione pubblica, abbiamo una voce. Ci chiediamo come dare concretamente spazio a chi non ha spazio, e un suono alle voci che non sono udite. Per l'Open Program, insieme all'aspetto del contatto vivo con gli ospiti e gli spettatori che sta alla base del teatro, un aspetto molto presente in questo periodo è la possibilità di studiare insieme agli altri, anche a distanza. Studiare senza l’intenzione di un guadagno o la soddisfazione di un puro interesse personale o la preparazione a una carriera produttiva: piuttosto, avvicinarsi all'atto dello studio come accadeva in certi momenti della nostra vita, per esempio quando, da giovani, insieme ad un insegnante diverso dagli altri – generoso, motivato e appassionato del suo mestiere – trovavamo in quello che stavamo studiando un modo di stare insieme che faceva sì che ci riconoscessimo nell’altro. Possiamo creare di nuovo quello spazio adesso, con gli altri? Pensiamo di sì. Se ne uscirà qualcosa, che sia allora al servizio di coloro che non incontreremo mai, di una generazione ancora non nata. Oltre a provare nuovi lavori, tra le diverse direzioni che l’Open Program sta esplorando in questo momento incerto, c’è la realizzazione di incontri online che non si basano sul canto, ma sulla conversazione tra pari: momenti in cui persone giovani e meno giovani possano avvicinarsi a temi attuali, attraverso il teatro, e imparare gli uni dagli altri. Per teatro non intendiamo solo la creazione di spettacoli. Ci riferiamo anche ad elementi teatrali antichi come la retorica, il discorso in pubblico, il contatto con ciò che ci circonda, e la relazione tra l’adattarsi organicamente alle circostanze in cui ci troviamo al momento e ciò che si è invece pianificato in anticipo. Questo campo d'azione pubblica è una chiamata urgente, ora, che ci motiva e ci fa sentire vicini a molte persone, in un cerchio aperto che cerchiamo di allargare ogni giorno.
a cura di Open Program
FOTO PAULINE LAUHLE
Formatosi nel 2007 su iniziativa del Direttore associato del Workcenter, Mario Biagini, Open Program è attualmente composto da 9 attori provenienti da vari continenti non necessariamente appartenenti al mondo del teatro
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lo spettatore ci vuole
L’esperienza Napule ’70 dal vivo e in streaming di Matteo Brighenti
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Chille de la balanza hanno perseverato. Dai finestroni del padiglione 16 dell’ex manicomio di San Salvi, a Firenze, dove risiedono stabilmente da più di vent’anni, hanno continuato a guardare fuori: all’irrinunciabilità dell’incontro. «È importante sopravvivere e voglio sopravvivere, ma non basta – afferma Claudio Ascoli – abbiamo, ho la necessità di vivere e non è possibile senza l’incontro. Stare in un luogo di reclusione dove tutto odora di chiusura, di distanziamento tra esseri non più persone, me lo fa sentire ancora di più». L’autore, attore e regista napoletano che ha fatto della sua compagnia, secondo la definizione del compositore Riccardo Tesi, il luogo dell’“utopia al potere”, ha così ideato per il 17 gennaio 2021 la Giornata nazionale di resilienza civile del Teatro e dello Spettatore con adesioni da tutta Italia. «Non c’è teatro senza spettatore – interviene Ascoli – abbiamo, ho percepito una generale indifferenza al problema. Da più parti si è chiesta la riapertura dei teatri come necessaria per dare giustamente lavoro ad artisti e tecnici. Quasi nessuno – ragiona – ha parlato dei danni per lo spettatore, per la società nel suo complesso». In quella data cade la Giornata Nazionale del Dialetto e delle Lingue locali. L’Unesco ha poi riconosciuto “l’Arte tradizionale del pizzaiuolo napoletano come parte del patrimonio culturale dell’umanità” e il 17 gennaio, giorno in cui si celebra Sant’Antonio Abate, protettore dei fornai e dei pizzaioli, è diventata anche la Giornata Mondiale della Pizza. Napoli è città, storia, destino per i Chille e per Claudio Ascoli, come racconta lui stesso in Napule ’70, riallestito dal vivo per l’occasione. «Fare teatro vuol dire mettere in scena se stessi. Mostrare la propria ferita – spiega – è il compito-destino di ogni attore. E, con gli anni, sempre più in profondità. Con me mi sono comportato, direi, con crudele dolcezza». Lo spettacolo affronta gli anni ’70 sotto al Vesuvio e i settant’anni di Ascoli raminghi da Napoli a Firenze, sempre per mano con Sissi Abbondanza, la sua compagna d’arte e di vita. «Sono un bambino di settant’anni, con tanta voglia di giocare in scena. Il qui e ora – sostiene – non conosce vecchio-giovane, ultimo-primo: è solo qui e ora. Quando si vive il teatro, non si capisce chi dà e chi riceve, né cosa si dà e cosa si riceve. È semplicemente e magicamente – prosegue – l’incontro tra i corpi dell’attore e dello spettatore per istanti di felicità». Lo spettatore è a tal punto il suo specchio che non può farne a meno. Per
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questo, si è inventato una lotteria per assumere a paga zero cinque fortunati e, dopo regolare tampone antigenico rapido, trasformarli in spett-attori. Chi non è stato estratto, invece, ha avuto la possibilità di vedere il lavoro dei Chille in live streaming. «Non c’è teatro senza spettatore: per incontrarsi – ripete Claudio Ascoli – occorrono corpi che condividano in leggerezza un viaggio che è di vita e di morte. La lotteria, l’affidarsi al caso, al gioco, sottolinea come vivere il teatro sia un dono tanto per chi recita, quanto per chi viene a vedere». A causa della pandemia Napule ’70 ha fatto pochissime repliche, ma è già diventato un libro-meridiana che abbiamo scritto insieme per Pacini Editore FOTO SALVATORE PASTORE
e un docu-film di Marco Triarico, Riflettendo Napule ’70, che inquadra la "Napule '70" - da sinistra, pièce attraverso proprio la giornata del 17 gennaio. «Napule ’70 non si è Claudio Ascoli, fermato al teatro. Magari – commenta Ascoli – è dovuto alla sua natu- Sissi Abbondanza ra-struttura di diario intimo, leggero e profondo. Il Covid-19, la chiusura in casa, il distanziamento sociale, ne hanno sottolineato ed evidenziato l’alterità rispetto alla quotidianità odierna». Ritrovare lo spettatore, sera dopo sera, è dunque l’orizzonte vitale che i Chille de la balanza non hanno mai smesso di abbracciare. «Lavoriamo, lavoro per tenere alto il desiderio di teatro, un teatro – conclude Claudio Ascoli – necessario e di corpi. Dobbiamo salvare i teatranti e, a un tempo, tenere in vita l’intera comunità teatrale».
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DIGITALE DAL VERO
OZz e il teatro sul web a nuova meraviglia restituito
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Kanterstrasse hanno rischiato. In un Paese che diceva di aspettare, l’associazione e compagnia teatrale di produzione fondata nel 2005 da Simone Martini, Leonardo Giusti e Luca Avagliano, non si è fermata e ha assunto quel rischio progettuale ed economico che costituisce la prima responsabilità di chi fa cultura. «Siamo un collettivo di artisti che si sfida sempre – afferma Simone Martini – il digitale, nella
FOTO MARIO LANINI
"OZz" - da sinistra, Simone Martini, Elisa Vitiello, Alessio Martinoli.
disgrazia di questo tempo, è stata una possibilità creativa entusiasmante per restituire il teatro alle persone. Siamo tornati a quando questo mestiere era tutto scoperta e magia». E magico OZz lo è davvero, non solo perché è tratto da Il meraviglioso mago di Oz, il celebre romanzo per ragazzi di L. Frank Baum. Lo spettacolo, che fa parte del nuovo progetto triennale Altri mondi, dopo
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che il trittico precedente (Amletino, Ubu Re Ubu Chi? e I Promessi Sposi Providence Providence Providence) aveva affrontato il tema del potere, era in prova in attesa di debuttare al Festival Contemporaneo Futuro del Teatro di Roma. «Passato un primo momento di smarrimento, durante l’estate scorsa – ricorda Martini – è nata l’idea di rimettere mano al materiale per trasformarlo in un lavoro completamente diverso. OZz per il web nasce come risposta alla domanda su come raccontare le storie con i teatri chiusi». Diffuso a partire da Natale 2020 sulla piattaforma Il Sonar (www.ilsonar.it) del co-produttore Straligut Teatro, l’esperimento che Simone Martini ha scritto con Alessio Martinoli, ha diretto con Lorenzo Donnini / Blanket Studio e ha interpretato con Elisa Vitiello e lo stesso Martinoli, è una visione che unisce teatro, cinema, video games e illustrazione animata. La sfida del teatro in streaming viene rilanciata con un’esperienza multimediale. «Il teatro utilizza dei codici, il video altri. Per questo – interviene Simone Martini – l’unica via era tradire il teatro, lavorare con il linguaggio del cinema, mischiarlo e ricreare il qui e ora non con una fantomatica ripresa in diretta, ma coinvolgendo gli spettatori nel nostro gioco». Il pubblico, infatti, incide dall’inizio alla fine sulla storia di Dorothy, decide cosa approfondire e cosa no della ragazza del Kansas che improvvisamente, trasportata da un ciclone, si ritrova in un mondo sconosciuto pieno di personaggi improbabili, come uno spaventapasseri senza cervello, un uomo di latta senza cuore e un leone senza coraggio. È possibile anche sbirciare dietro le quinte per scoprire alcuni dettagli della messa in scena. «Seguiamo lo sguardo soggettivo dello spettatore. Tutti siamo come personaggi di un librogame, in OZz però – spiega Martini – le scelte diventano partecipate, rendendoci da un lato protagonisti, dall’altro “vittime” degli altri. Un po’ come nella vita…». Il teatro d’attore, di parola e di immaginazione, incontra così la trasmissione online dal vivo e l’interattività del video. «In una situazione come questa, di presenza assenza, ci siamo sforzati – prosegue Simone Martini – di pensarci come spettatori curiosi, amanti del rapporto sempre in bilico tra poesia e ironia, e soprattutto desiderosi di meravigliarci. La conoscenza dell’opera – precisa – è stata fondamentale: noi Baum lo abbiamo studiato molto. Soprattutto Alessio Martinoli, vero e proprio cultore della saga dei Libri di Oz». OZz non resterà un episodio isolato. I Kanterstrasse, che lavorano in un piccolo teatro, Le Fornaci di Terranuova Bracciolini, in provincia di Arezzo, stanno già pensando a una nuova fantasmagoria digitale da Il cavaliere inesistente di Italo Calvino: cappa e spada, eroi, cavalieri, ironia e una bella riflessione sull’identità, mai così attuale come adesso. «Continueremo ad approfondire l’interazione con il pubblico cercando di farla arrivare a un livello superiore. Questo nuovo modo di creare – ragiona Simone Martini – può avere un futuro, magari permetterà a giovani talenti di dare nuova linfa a tutto il sistema culturale italiano. Il teatro, comunque, è un’altra cosa – conclude – il teatro è teatro».(M.B.)
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Dai racconti di una giovane scrittrice...
ECCOMI, IO SONO QUI di Orsola Lejeune
Porte chiuse. Ho sentito dire che quelle porte non venivano chiuse così a lungo dai tempi dell’alluvione. Rimbomba nel vuoto del foyer quel gesto fatto ogni sera. Questa volta le porte sembrano più pesanti e il suono irreversibile. Il contrasto con il silenzio della sala è forte. Accarezzo il velluto di una poltrona e la sento morbida sotto le mani, è una memoria tattile che rimarrà sempre in me. Non riesco a capire, non riesco a comprendere a fondo quello che sta accadendo. Mi succederà nei mesi successivi di essere attraversata da una vera nostalgia. Quella sera sentivo solo il vuoto e un senso di dolore appena accennato, troppo acuto per essere afferrato a pieno. Nei mesi successivi, fra le mura di una casa, sentirò la mancanza, sentirò sfuggirmi qualcosa di momento in momento. Mi arrabbierò e sarò livorosa nei confronti di tutto e tutti. Cercherò dei capri espiatori sui quali potermi sfogare, cercherò un senso a quello che sta succedendo. Cercherò di controllarmi, di essere razionale, di non stabilire delle categorie umane con le quali arrabbiarmi. Non si può catalogare l’umanità, l’umanità è composta da individui. Me lo ripeterò, ricercando l’umanità dentro di me, scavando e trovando siccità. Sentirò il mio animo inaridirsi e chiudersi in se stesso, come le piante dormienti che rimangono in attesa delle prime piogge, per far nascere nuove foglie. Sentirò di non piacermi e di odiarmi per la paura che proverò, per il senso di irrealtà, per il mio traballare su questo filo circondato dal vuoto. Ho bisogno del teatro. L’ho amato da quando l’ho conosciuto, ma mai avrei pensato che lasciasse un vuoto così grande. Ho bisogno del teatro che risvegli la mia sensibilità umana, ho bisogno del teatro che stimoli il mio pensiero e lo renda nobile, ho bisogno di sentirmi
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umana, ho bisogno di mettermi in discussione e di trovare argomenti che facciano lavorare il mio spirito. Le luci si accendono, le porte vengono aperte, la sala si riempie pian piano di brusìo... In attesa. In quella sala nessuno urla. Le folle di solito creano rumori forti, risate, urla. In quella sala nessuno lo fa. Finché il sipario rimane chiuso, le luci accese e le porte aperte, non c’è nessuna regola che imponga il silenzio. Centinaia di persone più o meno consapevolmente tengono il tono della voce basso e sussurrano fra loro. Difficilmente molte persone si comportano nello stesso modo. In quella sala, si diventa parte di un gruppo. Nell’attesa dello spettacolo, ognuno di noi può percepire l’attesa e la tensione. L’applauso finale sarà la risoluzione di tutto.
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
Perché lo spettacolo potrà piacere, annoiare, divertire, commuovere, ma in ogni caso risveglierà in noi il pensiero critico, in ogni caso solleciterà una parte del nostro animo che dovrà rispondere in un qualsiasi modo. Eccomi adesso ci sono, eccomi adesso sto pensando, non sono persa nella routine quotidiana, non mi sto dimenticando di me. Eccomi io sono qui. Ecco cosa mi manca. Il teatro è un rito laico, ma quel che mi manca di più è il sogno che crea.
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Appena potrò delicatamente io ti abbraccerò
A.
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La cultura al tempo del Covid
POTERE ALL´immaginazione Dacia Maraini
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
Il tempo del lockdown: quale può essere l’importanza della cultura e della parola in questo particolare momento?
Questo periodo di reclusione forzata può diventare un momento di riflessione, di autocoscienza collettiva. Ma, probabilmente, questi sono solo i pensieri di una persona come me, che vive da sola ed è abituata quotidianamente, già da molto tempo, a confrontarsi con la solitudine. Certo che, per chi ha figli in casa, un marito che non collabora o delle stanze piccole, non deve essere stato facile il lockdown, e nemmeno adesso lo è. Quello che spero, comunque, è che la gente trovi lo spazio e il tempo per leggere. La lettura fa viaggiare con la mente nel tempo e nello spazio e questo è formativo, aiuta a creare consapevolezza e responsabilità. Leggere vuol dire fare un incontro e ogni persona ha bisogno di un incontro diverso. Consiglio di leggere i classici che sono capaci di dare emozioni profonde, sia estetiche che etiche. C’è un periodo storico che, seppure diverso, le ricorda questa fase?
In qualche modo il dopoguerra che ho conosciuto di persona, anche se ero piccola. C’erano macerie e fame, ma era nata anche tanta voglia di ricominciare. La gente era presa dalla passione di ricostruire, e il clima era intenso. Oggi, io sto a casa come tutti. Passo la giornata a scrivere e leggere. Solo la sera mi prende un poco di malinconia perché cucinare e mangiare da soli è triste. Ma mi basta pensare a quelle povere persone che stanno soffrendo e rischiando negli ospedali per accettare la mia lieve condanna. C’è qualcosa che vorrebbe dire ai suoi lettori?
Di non perdersi d’animo, di non lasciarsi andare. Di avere fiducia nel futuro e di affidarsi al pensiero e alla immaginazione, che sono i motori più potenti del nostro corpo.
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Jean René Ewing
in arte JR
L’installazione site-specific intitolata La Ferita: qual è l’origine di questa opera d’arte pubblica?
Tutto è partito dal doloroso momento storico che stiamo attraversando: ho pensato di giocare con l’edificio esterno di Palazzo Strozzi, utilizzandone il cuore dell’architettura, per creare una sorta di palcoscenico all’aperto che urlasse simbolicamente al mondo “la ferita” che ci unisce tutti: la chiusura forzata di tutti i luoghi culturali. “Tutto è partito dal doloroso momento storico Attraverso questa ferita il pubbliche stiamo attraversando: ho pensato di giocare co, in uno squarcio visivo, può ficon l'esterno di Palazzo Strozzi, utilizzandone nalmente entrare con lo sguardo il cuore dell’architettura, come un palcoscenico all’interno del museo chiuso. Conall’aperto che urlasse simbolicamente al mondo centrandosi sulla facciata di Palaz'la ferita' che ci unisce tutti” zo Strozzi, il pubblico osserva un’e-
IL MIO GRIDO PER L´ARTE
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norme fotografia dei vari piani del museo, come se si potesse vedere quella realtà interna attraversando il muro. È un’apertura fotografica sull’interno, con la speranza che in un futuro vicino avvenga l’apertura vera, con la gente che entra dentro il museo e guarda le opere come abbiamo sempre fatto per centinaia di anni. Ora più che mai, l’arte deve occuparsi del dramma collettivo che riguarda la cultura: ci troviamo di fronte ai musei senza potervi avere accesso, e non solo in Italia, ma in tutto il mondo. Per la prima volta, grazie a questa installazione, possiamo vedere attraverso l’edificio per ammirare l’arte, come se si trattasse di una sorta di promemoria sull’importanza della cultura che si cela dietro a quelle mura: è questo il messaggio da gridare al pubblico. Oggi tutto è complicato per gli artisti del teatro, del cinema o della musica: ci sono molte pratiche artistiche che non riescono ad esprimersi tramite l’esposizione pubblica, ma dobbiamo cercare di essere forti e unirci, per trovare comunque una via per condividere l’arte. Il processo creativo dell’arte deve mirare a coinvolgere sempre più le persone, anche in una fase storica come la nostra, in cui il distanziamento diventa obbligatorio?
L’arte ha un potere incredibile solo quando riesce a coinvolgere veramente gli esseri umani. E un’opera come La Ferita non ignora il pubblico: anzi, lo obbliga ad essere parte in causa. Se si guarda alla facciata di Palazzo Strozzi che ospita l’installazione, ci accorgiamo che
FOTO JR
esiste un solo punto di vista perfetto: posizionandosi dall’altra parte della strada, sul marciapiede, si arriva a comprendere il fotomontaggio anamorfico che permette di ‘vedere attraverso’. Ho realizzato così l’opera, perché volevo che si potesse osservare e fotografare con qualsiasi tipo di telefono o macchina fotografica: non serve avere un teleobiettivo o un’attrezzatura tecnica, basta semplicemente muoversi per la strada e l’opera cambia, distorcendone la percezione. Nessuno ci dice qual è il modo migliore per fotografarla, ma se si cerca il punto di vista perfetto e si vuole interagire con essa, si dà il via ad un dialogo. Ad ogni persona che cammina davanti a Palazzo Strozzi, l’installazione risveglierà sensazio-
L'opera site specific di JR intitolata La Ferita. Dal 19 marzo 2021 sulla facciata di Palazzo Strozzi
Nella pagina accanto JR, foto di Ela Bialkowska OKNOstudio
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ni estremamente personali: magari si tratta di qualcuno che passa da lì per andare a lavorare e che non ha mai neanche provato ad entrare in un museo: guar“Questo è il lavoro sociale da quest’opera che perseguo da tempo: e la interpreta rendere l’arte democratica, a suo modo, e completamente accessibile questo processo al mondo intero. È il potere come artista mi dell’arte che ci coinvolge: solleva interessa davvedomande, ma non dà risposte” ro moltissimo.
cassimo ogni singolo spettatore per fargli guardare opere d’arte all’aperto: sono gratis e ubicate per strada, quindi destinate a tutti. Questo è un aspetto molto importante per me, per il lavoro sociale che perseguo da tempo: rendere l’arte democratica, completamente accessibile al mondo intero. Ho sempre cercato anche di renderla giocosa, in modo che le persone sentissero profondamente il coinvolgimento con il fatto arti-
Dipende dalla storia di ciascuno di noi, tutti abbiamo una lettura differente e ciò crea artisticamente infinite possibilità. Molti dei miei lavori, nel mondo, sono stati creati per invitare la gente ad andare ad ammirarli personalmente: si tratta, infatti, Opera di JR di opere pubbliche e, al tempo del GIANTS, Kikito and the Covid-19, tale caratteristica diventa Border Patrol, Tecate, un richiamo importante per non abMexico - U.S.A., 2017 bandonare l’arte. È come se convo-
stico. L’urgenza di fare le cose è, dal punto di vista della creazione artistica, qualcosa di prezioso. E penso che l’arte non debba essere come la pubblicità: La Ferita, per esempio, non ha scritte o segni che possano voler dire cosa dovremmo pensare o come dovremmo interpretare l’opera. E il potere dell’arte è proprio questo: solleva domande, ma non dà risposte.
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La cultura al tempo del Covid
IN MEDITAZIONE Exit Enter
Come street artist si esprime disegnando per le strade di Firenze e in tante altre città; come vive questa condizione – il lockdown – che ci unisce tutti, quella di non poter uscire all’esterno?
Alla fine sono un solitario, nei mesi invernali mi capitava già di disegnare più in studio. La strada è una parte del mio lavoro e il personaggio che ho inventato, Exit Enter, riassume proprio il senso di uscire e dipingere fuori. Ho dei progetti in mente per vari murales, purtroppo tutti i lavori sono saltati a causa di questa emergenza. Fondamentalmente sono molto concentrato sul presente e, non avendo una certezza di quando tutto questo finirà, considero questo tempo come una sorta di auto revisione personale: sto con me stesso, in una sorta di meditazione-studio costante. Al pubblico dico di approfittare di questi momenti di reclusione per trovare se stessi, cercando di volersi bene con gli altri. La speranza è che questo dramma possa almeno indurci a rivalutare ciò che è davvero importante. Che cos’è l’arte: una sua definizione.
Opera di Exit Enter, dedicata all'emergenza sanitaria, che è stata messa all'asta per una raccolta fondi a sostegno di un'associazione benefica
L’arte rappresenta una strada per la salvezza. La pittura, la letteratura, la musica: per me questi diversi mezzi artistici sono sempre stati delle vie di accesso per costruire nuovi modi di pensare, come delle vie di fuga dai problemi del presente. Questo è un periodo buio e molto triste, ma è bello pensare che l’arte possa coinvolgere le persone, svegliando la loro sensibilità. Il problema attuale è globale: se, attraverso l’arte, riesco a parlarne e a condividere i miei sentimenti, maggiore sarà la comprensione collettiva. Che cosa si immagina di fare quando tutto sarà finito?
Si andrà per strada in gruppo… Ho voglia di rivedere tutti gli altri artisti e di organizzare delle jam session di pittura su qualche muro della città, naturalmente con il permesso del Comune. Speriamo di vivere delle belle giornate di sole, dove saremo tutti insieme a dipingere ascoltando la musica…
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La Storia racconta...
il teatro e la peste di Adela Gjata
E
ffimero. È questo, forse, il termine che meglio descrive la natura del teatro, arte effimera per eccellenza, la cui dimensione è tutta legata al presente, all’esserci, al qui ed ora. Effimero il teatro, perché fragile, fugace. Non lascia tracce materiali. Eppure forte e eterno. Come lo stupore all’aprirsi del sipario, la magia dell’incontro attore-spettatore, i silenzi che parlano forte. Fragilità e forza: sentimenti che risuonano con vigore in questi mesi di sopravvivenza e reinvenzione. Di cui la storia, come spesso accade, torna a parlarci. Non è la prima volta che i teatranti sono costretti a pause forzate e a radicali trasformazioni della loro attività. Una professione in balia della sorte, la loro, che nel corso dei secoli ha dovuto fare i conti con due principali nemici: le ideologie e le epidemie. La superstizione, che vede nel viola un colore sfortunato da evitare assolutamente in teatro, nasce dagli abiti liturgici della quaresima, periodo durante il quale erano vietati gli spettacoli pubblici e, di conseguenza, gli attori facevano la fame. L’altra grande chiusura forzata era dettata dalle epidemie che, pur afferendo alle più svariate malattie, andavano sotto il nome di peste, morbo subdolo, fra il carnale e lo spirito, a lungo incompreso e discusso. Si comincia dall’antichità classica: la pestilenza scatenata da Apollo nell’Edipo re di Sofocle è ispirata alla devastante epidemia che nel 430 a. C. ridusse sensibilmente la popolazione di Atene, portandosi via anche la sua guida, Pericle in persona. Il teatro si fermò per tutta l’estate del 430, per poi riprendere con più energia il suo cammino, imponendosi come modello di teatro per molte civiltà. Le epidemie si traducevano per i teatranti in una quasi totale impossibilità di lavorare. Non solo, gli attori avevano una pessima fama e i predicatori usavano dire che «la causa della peste è il peccato, e la causa del peccato le commedie», tanto che l’associazione tra il teatro e la peste è divenuta nel tempo proverbiale, a partire dalle innumerevoli allegorie cristiane sui giullari, esseri vani e turpi che con la loro arte risvegliavano piaceri demoniaci. Spesso intere città venivano sigillate a causa della peste, come accadde a Mantova nel 1576, costringendo le compagnie teatrali a cercare lavoro altrove, lontani dalle ondate epidemiche. Questa fu anche la sorte della Compagnia degli Accesi, capitanata da Tristano Martinelli, il più celebre Arlecchino della storia, che da Mantova approdò ad Anversa e poi a Parigi, rendendo celebre nel mondo la lezione della commedia dell’arte italiana. Il caso dell’Inghilterra, che visse tra il 1564 e il 1666 ben due epidemie, è emblematico. Un momento storico devastante – cui si aggiunse l’incendio di
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Londra del 1666 – che coincide tuttavia con una straordinaria fioritura del teatro elisabettiano e con la sua consacrazione internazionale. Alla prima ondata di pestilenza agli attori era imposto di non recitare pubblicamente fino a che il numero dei morti di peste non fosse stato per venti giorni consecutivi inferiore a 50 la settimana. Logiche simili a quelle che regolano oggi i colori delle nostre vite. Lo stesso Shakespeare fu costretto ad annullare centinaia di spettacoli a causa delle restrizioni. In tempi di quarantena si dedicò all’attività letteraria: compose Venere e Adone e Lucrezia violata, piccoli gioielli di intensa drammaticità. Studi recenti sostengono che durante la seconda epidemia, che tra il 1603 e il 1613 vide chiudere tutti gli spazi teatrali londinesi per 78 mesi, il Bardo concepì due capolavori assoluti, Re Lear e Macbeth. In un celebre scritto del 1938, Il teatro e la peste, Antonin Artaud rovescia il punto di vista sulla peste, trasformandola nella metafora di un teatro in grado
di scuotere intimamente attori e spettatori, così come fa il morbo che lacera i corpi dall’interno senza lasciare ferite sulla pelle. «Il teatro essenziale è come la peste – scrive Artaud – non perché contagioso, ma perché come la peste è la rivelazione». La peste si svela agli occhi visionari di Artaud come qualcosa che scioglie conflitti, sprigiona forze, libera possibilità, «e se queste possibilità e queste forze sono nere – continua – la colpa non è della peste o del teatro, ma della vita». La stessa Eleonora Duse si era trovata a sostenere che l’unico modo per “salvare” il teatro fra Otto e Novecento fosse che tutti gli attori e le attrici morissero, proprio di peste. L’epidemia come occasione di svelamento, azzeramento e rinascita, dunque. Questo l’augurio che ci facciamo, affinché questi mesi aridi siano un tempo utile per seminare e coltivare ciò che verrà dopo il Covid-19; tempo del riposo, affinché il teatro, e il resto del mondo, possano essere più fertili nel futuro.
James Ensor, Peste dessous, peste dessus, peste partout, 1904.
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Dietro le quinte
SignorE e signorI, chi È DI SCENA! di Federica Francolini
L
'ultimo anno, inutile quasi dirlo, è stato eccezionale per tutti. Sicuramente il mondo dello spettacolo è stato duramente colpito, e tutto ciò che è live ancor di più, dai concerti al teatro. Durante il primo lockdown ho avuto molta paura, come l’abbiamo avuta tutti, non capivamo cosa stesse succedendo e non avevamo prospettive, se non l’attesa del bollettino delle 18. Per chi fa questo lavoro è stato un orrore realizzare che proprio in virtù della sua caratteristica prima, il bisogno di pubblico, forse non sarebbe più stato possibile farlo. Oltre la tragedia che ci colpiva sempre più duramente, si è aggiunta la paura di una crisi senza fine, quotidiana. Mi domandavo chissà per quanto tempo sarebbe durato tutto, e se mai avrei ancora avuto l’occasione di fare il mio lavoro: ho temuto e creduto che mi sarei dovuta reinventare totalmente. Un’angoscia profonda, mai sopita del tutto, per la maggior parte di noi un’angoscia attuale: ci sono persone che non lavorano da più di un anno; il teatro è prima di tutto fatto di lavoratrici e lavoratori, tantissimi. Riuscire comunque, dopo lo stop e lo shock iniziale, ad avviare delle produzioni per la Fondazione Teatro della Toscana è stata un’opportunità importante e una grande fortuna, in un momento in cui il tempo più che fermarsi ha determinato cambiamenti radicali, sebbene provvisori. L’aver continuato a lavorare è stato proprio il segnale necessario: andiamo avanti comunque, esistiamo e quando sarà il momento, il colpo sarà già pronto in canna. Attraverso il teatro, come con tutte le altre forme artistiche, abbiamo l’onere e l’onore di far riflettere e credo che mai come oggi ce ne sia bisogno. Abbiamo, e stiamo tutt’ora vivendo, un trauma collettivo che lascerà profonde cicatrici: parliamo di centinaia di morti al giorno, e se non è il teatro, non è il cinema, non è la musica, non è la letteratura, a dare le parole e le immagini di questo tempo, non so proprio chi lo possa fare. Farlo non è mai facile e scontato. Non sono all’altezza di dare una definizione di teatro: è tante cose insieme, è un microcosmo… Ma so cosa non è: non è un luogo fisico, può esistere ovunque, è il contenuto che lo rende tale. Se proprio mi dovessi lanciare in una definizione, direi che è il posto dove il silenzio e il buio possono davvero rimbombare: ovunque questo accada si crea spazio per pensare, per stupire, per indignare, per perdersi, per il sogno. E dove c’è il silenzio c’è anche la squadra tecnica che si muove silenziosa, lo spettacolo non nasce dal niente: dietro ogni proiettore c’è il lavoro di un lucista, un vero e proprio artigiano delle luci, che ha scelto le lampade, il colore, gli effetti speciali, le proiezioni o il video mapping. Tutto è studiato con il regista, che ha lavorato
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con i macchinisti nell’allestimento e sui fondali: i tecnici, a loro volta, hanno costruito e preparato la scena studiandola in anticipo con la o lo scenografo. Dietro ogni sipario che si apre, ogni movimento di scena e cambio di atmosfera, c’è un mondo formato da tantissime professionalità, un vero e proprio spettacolo “parallelo”: è la macchina che gira, quando tutti i tasselli cominciano a incastrarsi, dalla produzione alla tecnica, alla progettazione. Per questo il punto di vista che prediligo è la parte buia del palcoscenico, altrettanto entusiasmante, sempre misteriosa: non si vede ma esiste, non si svela per non rompere la magia ma è un luogo esso stesso magico. Non a caso l’espressione “dietro le quinte” fa parte del linguaggio comune per descrivere qualcosa di invisibile, ma di cui se ne percepisce l’esistenza. Questo è il nostro lavoro, siamo noi. È qui che passo la maggior parte del mio tempo, per coordinare il lavoro in modo che tutto funzioni come un orologio prima e durante lo spettacolo, altrimenti in scena rischiamo il disastro! Senza contare gli imprevisti in diretta: qualcosa può sempre andare storto o FOTO FILIPPO MANZINI
rompersi, un attore può avere un problema. È incredibile come dietro ad un Federica Francolini è fondale nero ci possa essere un continuo viavai di persone che si muovono Assistente scenografa in punta di piedi, per non far rumore. Passano avanti e indietro, senza sosta. e Direttrice di scena È qui che per noi tutto accade: dal palcoscenico, copione in mano, cui mi tengo sempre in contatto con la regia. È il luogo da cui assistiamo al lavoro a cui abbiamo partecipato, ognuno con la propria parte. Uno spazio da cui avere il quadro completo per correggere il tiro, anche istantaneamente. Il teatro che si accende, dopo il buio in sala. Questa è la frase che amo più dire: “Signore e signori, chi è di scena! Prego… Spegnere luci e… servizi!”. E tutto inizia.
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I tecnici in preparazione degli allestimenti al Teatro della Pergola chiuso al pubblico per il Covid
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Macchinisti Costruttori Duccio Bonechi Sandro Lo Bue Francesco Pangaro Tecnici Luci Audio Samuele Batistoni Lorenzo Bernini
FOTOGRAFIE DI FILIPPO MANZINI
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La cultura al tempo del Covid
LA CULTURA CHE CI SALVERÀ Corrado Augias
Quale può essere, in questo momento così complesso, l’importanza della cultura?
Oggi l’importanza della cultura è decisamente maggiore. E lo affermo in un senso teorico, ma anche con la prova dei fatti: mai, come in questi giorni in cui viviamo da reclusi, mi era capitato di ricevere così tante lettere. Da ciò deduco che le persone, magari quelle anche più abituate ad andare a teatro, accolgono questa occasione per concentrarsi, leggere ed imparare. Una reazione bella in mezzo ad un flagello tremendo. Decidere di chiudere i teatri è stata una scelta triste. In questo tempo sospeso è stato benefico l’uso dei Social: è importante utilizzare la Rete in chiave culturale. Definiamo questo periodo come una crisi, a tutti i livelli: seguirà, poi, una nuova fase di alleggerimento e ottimismo?
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
Non lo so, davvero, perché la crisi è terribile, a causa di questo stop così lungo e dall’intensità della fermata. Il rimedio è che gli Stati, nel nostro caso la Banca Centrale e il Fondo Monetario, immettano liquidità sul mercato. Come intervenne Roosevelt dopo la crisi del ’29 durante la grande recessione: fu lui a lanciare quel piano immenso di lavori pubblici che negli Stati Uniti rimise in moto l’economia. La conoscenza della Storia e la cura della cosa pubblica sono fondamentali in questo momento. Un testo da consigliare. Spillover, scritto dal giornalista scientifico americano David Quammen. La fascetta di copertina recita più o meno questo: “Siamo stati noi a generare l’epidemia di Coronavirus; potrebbe essere iniziata da un pipistrello in una grotta, ma è stata l’attività umana a scatenarla.” Non so se la lettura, l’arte e la cultura siano in grado di salvarci, però possono sicuramente darci un grande aiuto e indurci alla riflessione.
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A proposito di Orazio Costa IMMAGINE CLARA BIANUCCI
1, 15 Aspettate ..., il sapore Aspettate ..., il sapore ... già è in fuga. ... Solo poca musica, un pestar di piedi, un canto a bocca chiusa -: fanciulle, voi calde, voi mute, danzate il gusto del frutto esperito!
Danzate l'arancia. Chi può dimenticarla, quando, annegando in sé, si protegge dalla propria dolcezza. L'avete posseduta. E deliziosa in voi s'è convertita.
Danzate l'arancia. Più caldo paesaggio tragga da voi, perché matura irraggi nell'aria della patria. Arrossate, rivelate
profumo su profumo. Create affinità con la pura buccia che si nega, con il succo che la riempie, felice!
Rainer Maria RilkeS da Sonetti a Orfeo
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Quaderni della Pergola |Teatro al tempo del Covid A cura di Angela Consagra, Alice Nidito, Clara Bianucci, Gabriele Guagni, Filippo Manzini, Orsola Lejeune, Matteo Brighenti, Adela Gjata, Silvia Bedessi, Clara Neri, Simona Mammoli, Francesca Martini, Silvia Meneghini, Davide Pietroniro, Laura Bardazzi
Via della Pergola 12/32 - 50121 Firenze Centralino 055.22641 www.teatrodellapergola.com www.teatrodellatoscana.it
Progetto grafico di Walter Sardonini/Social Design Impaginazione ed elaborazione grafica di Clara Bianucci Interviste di Angela Consagra
Info e contatti quaderni@teatrodellapergola.com
La poesia a pagina 66 e l’editoriale in quarta di copertina sono di Alice Nidito Le fotografie di copertina, in seconda di copertina, della lavagna di Eduardo De Filippo e quelle a pagina 16 e a pagina 38/39 sono di Filippo Manzini
Fondazione Teatro della Toscana Presidente Tommaso Sacchi
La rielaborazione della fotografia in copertina, le immagini alle pagine 2 e 3 e l'immagine a pagina 24 sono di Clara Bianucci
Consiglio di Amministrazione Vice Presidente Antonio Chelli, Vittoria Barsotti, Antonia Ida Fontana, Giovanni Fossi, Maria Beatrice Garagnani, Elisa Giobbi
Le traduzioni dall’inglese degli articoli alle pagine 58, 59, 68, 69 e 70 sono di Silvia Bedessi
Collegio dei Revisori dei Conti Presidente Roberto Giacinti, Tamara Governi, Adriano Moracci, Gianni Tarozzi, Giuseppe Urso
Per le prove degli spettacoli sono state rispettate tutte le norme di sicurezza, come da relativi protocolli di regolamentazione per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus sars-cov-2 nei luoghi di spettacolo
Direttore Generale Marco Giorgetti
Si ringraziano per l’amichevole collaborazione Valentina Di Cesare, Elena Capaccioli, Costanza Venturini, Alice Di Tullio, Manuela Pennini
© 2021 FONDAZIONE TEATRO DELLA TOSCANA
Per l’intervista a JR, Courtesy Palazzo Strozzi Per la foto di Arturo Muselli Courtesy Saverio Ferragina
CHIUSO IN TIPOGRAFIA IL
La lavagna con la scritta EDUARDO viene conservata nei locali del teatro e fa riferimento al corso di drammaturgia che Eduardo De Filippo realizzò nei primi anni Ottanta al Teatro della Pergola. Questa citazione ha ispirato la nascita dei Quaderni della Pergola come elemento figurativo delle prime copertine. E ancora continua ad essere un simbolo del nostro modo di concepire il teatro.
E’ un tempo sospeso quello che stiamo vivendo in questo lungo periodo di pandemia causata dal Coronavirus. Un tempo di attesa. Le porte dei teatri si sono chiuse da più di un anno e il silenzio delle platee rimbomba rumorosamente. La Fondazione Teatro della Toscana ha scelto, nonostante tutto, di non fermarsi. Coraggiosamente ha cercato di mantenere attiva la vita creativa, organizzativa e artistica dei propri spazi, immaginando e preparandosi a quel momento in cui le porte dei teatri si potranno riaprire, per poter riaccogliere il pubblico in sala e far ripartire la magia del palcoscenico. In queste pagine abbiamo cercato di raccontare la bellezza, l’impegno di questo tempo di prove, di studio, di costruzione, di programmazione; un teatro che si muove al di là della chiusura imposta; un teatro che si fa promotore di visioni di un possibile futuro. Abbiamo raccolto le riflessioni dei protagonisti del mondo teatrale, tra artisti, tecnici, organizzatori e giovanissimi attori durante questo anno di faticoso e indelebile lockdown. Sottolineando in ogni pagina l’importanza e la necessità del fare arte come perpetua cura dell’anima.