Questa mia generazione vuole nuovi valori E ho già sentito aria di rivoluzione Franco Battiato
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I, I will be king And you, you will be queen Though nothing will drive them away We can beat them, just for one day We can be Heroes, just for one day And you, you can be mean And I, I’ll drink all the time ‘Cause we’re lovers, and that is a fact Yes we’re lovers, and that is that Though nothing, will keep us together We could steal time, just for one day We can be Heroes, for ever and ever What d’you say? I, I wish you could swim Like the dolphins, like dolphins can swim Though nothing, nothing will keep us together We can beat them, for ever and ever Oh we can be Heroes, just for one day I, I will be king And you, you will be queen Though nothing will drive them away
We can be Heroes, just for one day We can be us, just for one day I, I can remember (I remember) Standing, by the wall (by the wall) And the guns shot above our heads (over our heads) And we kissed, as though nothing could fall (nothing could fall) And the shame was on the other side Oh we can beat them, for ever and ever Then we could be Heroes, just for one day We can be Heroes We can be Heroes We can be Heroes Just for one day We can be Heroes We’re nothing, and nothing will help us Maybe we’re lying, then you better not stay But we could be safer, just for one day Oh-oh-oh-ohh, oh-oh-oh-ohh, just for one day
David Bowie/Brian Eno "Heroes"
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13 Diana Manea Passaggi generazionali PURO
29 Natalino
Balasso
Passaggi generazionali
DIVERTIMENTO
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Vinicio Marchioni
Andando sempre avanti “Più che pensare a cosa voglio dire io attraverso una regia, mi interrogo 14 Francesco su quale sia Sferrazza Papa la maniera migliore La mia salvezza per comunicare” “Quel fuoco che ti brucia dentro non è definibile, è 9 Valerio Binasco qualcosa che ti Passaggi spinge a scegliere generazionali questo mestiere” CON SINCERITÀ
22 Filippo Timi In dialogo con il mondo “Il teatro è rappresentazione, gioca sull’energia e la poesia, così riesce a scompaginare ogni convenzione”
MILLE GIOVANI DIVERSI
30 Enzo Decaro Ricomincio da me “La nostra era un’urgenza a cui non potevamo sottrarci: far sentire la nostra generazione”
E AMORE
26 Giacomo
Stallone
10 Giuseppe
Zeno
Tutto in una sfumatura “Il passato è quell’enorme bagaglio fatto di esperienze e di bellezza”
18 Francesco
Pannofino
Con talento e incoscienza “Avere talento significa riuscire a fare facilmente quelle cose che agli altri appaiono insormontabili”
Emozioni ed energia “Mi è capitato di conoscere nella vita tante persone salvate dal teatro e forse lo sono anch’io”
33 Tommaso
Sacchi
Il teatro che sogno “Memoria e impegno”
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36 LA CARTA 18-XXI
38 LETTERA DI LINO GUANCIale ai giovani
50 John Travolta Qualcosa di bello 40 essere PRESENTI “Ho sempre lavorato per scavare in profondità in ogni 42 UNA CITTÀ PER PARTECIPARE personaggio”
44 Walter
Sardonini
Re Lear e il frigorifero “La comunicazione deve mettere in moto l'emozione”
54 Achille Lauro Quello che mi piace “Mettere delle etichette è una mania dei nostri tempi”
57 DI GENERAZIONE in generazione 47 Gianmarco
Chieregato
Lo scatto perfetto “Una foto può parlare anche se è muta”
58 Zerocalcare Come un armadillo “Io sono una persona timida...”
60 Dai racconti di una giovane scrittrice...
62
70 uno spettacolo di pubblico
72 Wikipedro Ti racconto la mia città “In un video, fondamentale è l'impronta umana”
Stefano Mancuso
Democrazia vegetale “La nostra è una forma gerarchica della diffusione del potere, per le piante è diverso...”
Matteo Garrone Luci, colori ed
74
66 discorso agli Oscar Joaquin Phoenix
emozioni “Il cinema è un mondo magico”
77 lettera di roberto baggio ai giovani
67 la poesia
68 La Storia racconta...
78 Parlando con Mauro Carbonoli
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Vinicio Marchioni
Andando sempre avanti “Più che semplicemente pensare a cosa voglio dire io attraverso una regia, mi interrogo invece su quale sia la maniera migliore per comunicare”
Nello spettacolo I soliti ignoti il suo ruolo è quello che, nel mitico film di Mario Monicelli, fu interpretato da Marcello Mastroianni: è uno dei suoi attori preferiti?
Sì, direi che forse può proprio dirsi il mio attore preferito, anche se è sempre difficile sceglierne soltanto uno… In particolare, di Marcello Mastroianni, mi attira quel suo essere tutto in scena mentre sembrava che non facesse niente: era credibilissimo in ogni suo ruolo, incarnato sempre con una tale leggerezza e un’imitabile indolenza… L’immagine di un uomo che appariva come non scalfito dalle cose intorno, come se tutto gli scivolasse sempre addosso, sia nei drammi che nelle commedie: quel niente espressivo, in cui sta dentro tutta la capacità attoriale di questo
grandissimo ed inarrivabile artista. Nella sceneggiatura del film, seguita anche nella nostra messinscena teatrale, il vero protagonista della vicenda è Vittorio Gassman, mentre Mastroianni giocava essenzialmente un ruolo di rimbalzo: sempre contro tempo, sempre un tono sotto e giocando in sottrazione, ma facendo ridere da morire. Questa è una commedia costruita su dei ritmi collettivi e un aspetto su cui sono felicissimo di cimentarmi, sera dopo sera, è il fatto di rendermi conto che veramente basta un microtempo in più, o una micropausa non eseguita, insomma fare un gesto che può, in qualche modo, sporcare la naturalità della scena, e la risata del pubblico non arriva. Questo è uno studio difficilissimo, ma al tempo stesso bellissimo, da intraprendere per un attore.
di Angela Consagra
Foto di Daniele Barraco
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Quali sono le differenze tra cinema e teatro vissute da un attore?
Il teatro è essenzialmente degli attori, il teatro sera per sera è di chi va in scena perché lo spettacolo è costruito dagli interpreti insieme al pubblico. Spet“Il teatro è la vita, diceva tatori e attori dePeter Brook, e fare teatro ti tengono la stesmantiene giovane; penso a tutti sa percentuale i novantenni che ho conosciuto di importanza sulle scene, da Andrea Camilleri nella riuscita di a Giorgio Albertazzi, fino a uno spettacolo: Glauco Mauri” istante per istante, queste due presenze fondamentali si intrecciano. Tu, sul palcoscenico, senti che è come accade nelle partite di tennis: mandi la palla verso la platea, c’è intesa e questa ti ritorna indietro, con uno scambio reciproco a livello di energia. In questo spettacolo I soliti ignoti, oltre che interprete, io sono anche regista e il cambio di registro linguistico visivo dal film al teatro è stata una sfida bellissima da portare avanti. La difficoltà maggiore è stata nell’inevitabile cambio di ambientazione: il film si muove tra tante location – l’appartamento, la galera, interni, esterni, il Monte di Pietà, la cucina dentro l’appartamento – e io, fin dal primo giorno sono stato convinto di dover eliminare completamente il cinema. Volevo creare un ingranaggio che fosse totalmente teatrale, utilizzando i mezzi del teatro: senza video, per esempio, proprio perché noi attori in scena non facessimo finta di non essere sul palcoscenico. Il teatro è frutto di un accordo: pubblico e attori fanno finta, insieme, di credere di essere da un’altra parte in quel momento, nel luogo che la storia
in scena racconta, e non all’interno di una sala teatrale. Si tratta di una decisione comune, partendo sempre però dal fatto che ci troviamo in un teatro, ecco perché ho voluto che in scena questa convenzione si manifestasse con chiarezza. Sono regista e attore, lo stesso accadeva negli altri miei spettacolo come Uno Zio Vanja o La più lunga ora, dedicato a Dino Campana. Mi piace molto l’idea di portare avanti una sorta di vecchio capocomicato: semplicemente un attore che ha una propria visione e che chiama altri attori a fare insieme questo gioco straordinario; la parola regista mi mette un po’ paura, anzi non so neanche se è ancora il tempo di usarla: tanti attori e attrici sentono l’esigenza di dirigere o di autodirigersi, perché abbiamo frequentato i registi veri, quelli come Luca Ronconi, e li ringrazieremo per tutta la vita. Essere registi ed entrare quindi nel processo creativo globale, al di là della recitazione, è qualcosa che dà più libertà?
La libertà è totale, soprattutto se si riesce a mettere in moto un organico e fluido processo creativo, che prenda in considerazione anche gli attori, lavorando sui loro difetti perché è anche dall’imperfezione che può nascere la bellezza. Anton Cechov, che ho studiato e messo in scena in precedenza, mi ha fornito un grande insegnamento: per costruire una giusta regia occorre accogliere la proposta di tutti, dallo scenografo a chi fa le luci o i costumi. Più vado avanti in questo mestiere e più mi rendo conto di seguire delle percezioni, nel senso che cerco di immaginarmi io stesso come se fossi uno degli spettatori che
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sta guardando lo spettacolo: mi chiedo cosa deve provare il pubblico in quel determinato momento, che cosa deve succedere a quel punto, che cosa deve emozionare da una parte o affascinare da un’altra… Più che semplicemente pensare a cosa voglio dire io attraverso una regia, mi interrogo invece su quale sia la maniera migliore per comunicare: credo che si debba ragionare sempre insieme al pubblico e, soprattutto, per il pubblico.
telletto: leggere, scrivere, riadattare, imparare a memoria, cimentarsi con un testo che non si conosceva… Sul palcoscenico succede di tutto: anche quando hai 25 anni puoi interpretare un vecchio, e questo aspetto fa parte del gioco della finzione che ti mantie-
Passato, presente e futuro: quanto queste parole sono importanti per il suo mestiere?
Io rifletto sempre su queste tre parole per portare avanti il mio mestiere. Il termine tradizione, appartenente a qualcosa che è passato ma si nidifica nel presente, per proiettarsi contemporaneamente verso un futuro che nessuno conosce. L’attore, ogni volta cha va in scena, dovrebbe pensare proprio a tutto questo: io non posso non tenere conto di essere uno di quei fortunati che hanno preso sulle spalle una tradizione e che cercano di portarla avanti… Devo esserne cosciente, perché richiede anche un forte senso di responsabilità, anche verso le più giovani generazioni. Secondo Peter Brook il tempo del teatro è più lungo rispetto alla realtà, perché è sempre possibile ricominciare da capo: nella vita invece questo è un mito, non è mai possibile ritornare indietro.
Il teatro è la vita, diceva Peter Brook, e fare teatro ti mantiene giovane; se ripenso a tutti i novantenni che ho conosciuto sulle scene, da Camilleri ad Albertazzi, fino a Mauri... Fare teatro significa essere degli intellettuali, perché si lavora con l’in-
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
ne sempre come un bimbo di 4 anni che si diverte a giocare con i soldatini. Al cinema il rapporto con il tempo è diverso: un ruolo rimane nell’immaginario collettivo a lungo, tu rimarrai per tutti fotografato con quella faccia che avevi anni prima. Io, per esempio, sono chiamato sempre il Freddo di Romanzo Criminale: però, adesso sono ormai un altro uomo e vivo un’altra esistenza.
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Passaggi generazionali
CON SINCERITÀ E AMORE Valerio Binasco
Chi sono, secondo Lei, i giovani oggi? Credo che i giovani contemporanei siano uguali ai giovani di sempre, ma mai come in questo periodo mi sembra che i giovani siano i fruitori di linguaggi completamente nuovi, di tecnologie inedite. Devo dire che, per fortuna, io faccio un teatro che, al contrario, è estremamente semplice e rispettoso della tradizione, però ai giovani arrivano comunque delle emozioni forti, anche senza il supporto di video o non essendo connessi con niente. Ha senso parlare di una differenza netta tra giovani e non-giovani?
DISEGNO LAVINIA BUSSOTTI
Certo che ha senso, anche se non si tratta di una differenza antropologica. La separazione esistente tra giovani e vecchi non è di valori morali, piuttosto la lontananza è dal punto di vista della comunicazione tra loro. C’è un gap generazionale che è essenzialmente espresso con un gap culturale, linguistico e semantico. Toccherà ai giovani stessi tradurre con la loro lingua ciò che io sono in grado di comunicargli tradizionalmente, come insegnamento teatrale. Un passaggio generazionale c’era già stato quando i giovani sono diventati lettori di fumetti, perché si faceva tabula rasa con tutto ciò che la scrittura era stata in precedenza. Allora le generazioni dei giovani sono state capaci di traghettare la vecchia cultura nella nuova cultura; è, infatti, compito dei ragazzi quello di aggiornare secondo la loro conoscenza ciò che viene comunicato loro con sincerità e amore. Passato, presente e futuro: quanto bisogna tenerne conto nel suo mestiere? Per quanto mi riguarda il teatro è il presente, è qualcosa che accade in questo preciso istante… E questo anche se nella rappresentazione del presente può esserci il sapore della nostalgia. Il futuro e il passato non corrispondono al teatro, ma il tempo presente del teatro è carico di nostalgia, anche quando si proietta nel futuro. La nostalgia è un sentimento bello perché ha tanti colori, ma il colore dominante è quello melanconico.
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Giuseppe Zeno
Tutto in una sfumatura
“Il passato è quell’enorme bagaglio fatto di esperienze, di bellezza, di purezza, di gioia, di dolore, di entusiasmo, di sconfitte e di vittorie che tu, come interprete, ti porti dietro costantemente”
A teatro ha interpretato dei ruoli resi celebri da Vittorio Gassman…
Foto di Azzurra Primavera
ti dei personaggi di serie B, da semplice commedia, e invece sono dei ruoli che sono entrati di diritto nella storia del cinema. Ricordo che già alle scuole medie Vittorio Gassman rientrava in quel gruppo che iconograficamente per me “rappresentava gli attori”; d’accordo, è vero che sono cresciuto con il mito di De Filippo perché sono nato a Napoli, però dei personaggi come Gassman e Volonté, per esempio, specularmente risultavano essere due facce della stessa medaglia dell’essere attori: tanto diversi, ma tanto grandi allo stesso tempo.
Ho recitato nella versione teatrale de Il sorpasso e ne I soliti ignoti, ed è stato un privilegio per me avere l’opportunità di interpretare due personaggi che sono rimasti nell’immaginario collettivo della storia del cinema, dei ruoli che hanno segnato per lo stesso Vittorio Gassman l’avvio di una grandissima carriera. Fino ad allora Gassman era visto come uno straordinario attore di teatro, mentre queste figure hanno contribuito ad aggiungere alla sua arte attoriale anche un lato più cialtronesco, Essere attori di teatro o di cinema: se vogliamo, o da simpatica canaglia la responsabilità verso questo che catturava l’attenzione del pubmestiere è sempre la stessa? blico. Ho letto in alcune sue interSono due modi di comunicare viste che Gassman si vergognava di interpretare quelli che, secondo lui, differenti: è la macchina da presa ad all’epoca potevano essere considera- importi un’impostazione interpre-
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tativa totalmente insolita rispetto al teatro; è come un musicista che si ritrova a suonare due strumenti diversi: alla base, in entrambi i casi, bisogna conoscere sempre la musica, devi leggere le note e tradurre in suono uno spartito. Il teatro ti dà la possibilità di crescere di sera in sera, di far sì che il tuo lavoro non sia finito una volta per tutte dopo l’ultimo ciak, e soprattutto riesce a restituire al pubblico la parte più autoriale del
dalla tua volontà. La parte bella del teatro è che si svolge tutto nel tempo presente: mano a mano, replica dopo replica, lo spettacolo diventa infinito e acquisisce un altro respiro, inedite sfumature. La sua valigia dell’attore: che cosa contiene oggi?
Ritrovo sempre tutto l’occorrente per potermi imbattere in nuove avventure… Sicuramente, anche in virtù di un passaggio temporale legato all’età, il mio essere attore si arricchisce oggi di tanta esperienza e tanta consapevolezza in più: forse, quando sei più giovane a volte puoi arrivare a peccare anche di presunzione, mentre la maturità ti aiuta a perdere certe leggerezze dettate dall’ingenuità o dall’inesperienza. Sento di avere oggi una maggiore coscienza se non altro di quelli che sono i mezzi interpretativi, e soprattutto è la voglia di cimentarmi in progetti assolutamente nuovi che è cresciuta. Presente, passato e futuro: queste parole servono al mestiere dell’attore?
DISEGNO DALILA CHESSA
Tutto serve. Il futuro ti proietta in avanti, dandoti l’aspirazione, in qualche modo, di poter crescere; il presente hai assolutamente bisogno di viverlo nel ritmo quotidiano, inmestiere dell’attore. Con la macchina sieme ai tuoi colleghi che sono in sceda presa ciò è impossibile, perché gli na con te perché l’arte della recitazioattori sono soggetti a una regia visi- ne si esprime sempre nel qui e ora; il va che decide di stringere o invece di passato è quell’enorme bagaglio fatto marcare un determinato momento di esperienze, di bellezza, di purezza, narrativo. Poi il film girato subirà di gioia, di dolore, di entusiasmo, di la fase del montaggio, il tuo ruolo sconfitte e di vittorie che tu, come riceverà magari ulteriori correzioni interprete, ti porti dietro costantee insomma sai che il tuo lavoro lega- mente: tutti quei sentimenti che rapto alla recitazione potrà subire delle presentano la cifra emotiva di ciò che manomissioni, anche indipendenti significa essere attori.
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Passaggi generazionali
PURO DIVERTIMENTO Diana Manea
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
Chi sono, secondo Lei, i giovani oggi? Oltre ai mille incontri nelle scuole realizzati con ERT, da tredici anni tengo un laboratorio teatrale a Sondrio in un liceo scientifico. Un privilegio lavorare con i ragazzi, sono una bella boccata d’ossigeno: divertimento allo stato puro. È emozionante vedere come cambiano nel corso degli anni, la sicurezza che maturano, il sapersi prendere in giro con tanta leggerezza, la capacità di formare dei gruppi coesi che rispettano le differenze, senza lasciare indietro nessuno. Sono più le cose che imparo io da loro rispetto a quelle che, in qualche modo, mi illudo di riuscire a trasmettere. Hanno energia, sono curiosi, iperpreparati e intelligenti. Puntano già all’Europa per i futuri studi; alcuni a volte sembrano un po’ persi, altri invece sembrano avere idee chiarissime su ciò che vorrebbero dal futuro… E cercano, come lo è stato per noi, delle scie da seguire, anche se forse noi, in questo, eravamo un po’ più facilitati. Ha senso parlare di una differenza netta tra giovani e non-giovani?
A livello sociale forse si è livellato tutto, nel senso che molti adulti sono come al punto di partenza e fanno fatica a trovare delle solidità, anche perché non riescono ancora a mantenersi. Ma esiste uno spartiacque tra le diverse generazioni. Oggi, i giovani devono occuparsi di problemi legati all’identità e alla cultura dell’immagine in un mondo che tende ad omologare tutto. Passato, presente e futuro: quanto bisogna tenerne conto nel suo mestiere?
Il passato è una delle cose a cui mi aggrappo di più. Da certi insegnamenti, io non posso prescindere. Il presente forse ha semplificato certi aspetti, ma il presente è in rapporto con il futuro e ogni cosa si evolve.
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Francesco Sferrazza Papa
La mia salvezza
“Quel fuoco che ti brucia dentro non è definibile, è qualcosa di imprescindibile che ti spinge a scegliere questo mestiere e a non farne un altro”
Com’è nato il desiderio di fare questo mestiere, non semplice da intraprendere?
zione della vita dei personaggi più diversi, è un sentimento bellissimo ed intimo, che deriva dall’infanzia e dal mondo del gioco. La convenzione del teatro si poggia su una finzione, data dal meccanismo della rappresentazione, proprio come accade quando leggi un romanzo o ti raccontano una storia: il pubblico accetta di credere alla finzione della narrazione, ma quello che accade all’interno dell’attore è assolutamente reale. È vera emozione, quella che si chiama adrenalina dell’attore, e il pubblico sente se tu stai fingendo per finta o per davvero, se il gioco del teatro è falso o veritiero.
La spinta iniziale ha radici nella mia adolescenza, nella mia incapacità di comunicare con i miei coetanei: il fatto di potermi esprimere su un palcoscenico ha risposto al bisogno che avevo di comunicare con il mondo esterno. Il teatro mi ha fatto conoscere la libertà e la possibilità di provare forte emozioni, dalla gioia al dolore: stati emotivi finti, è vero, ma che risuonavano in me. Ho scelto di fare teatro per salvarmi, per trovare il mio posto nella società. Soprattutto recitando capivo di dovermi aprire nei confronti della realDa giovane attore, quali sono tà che mi circondava; è qualcosa che le difficoltà pratiche per riuscire ha a che fare con il nostro inconscio, a fare questo mestiere? la nostra irrazionalità: sentire di Non esiste nessun canale sicuro Foto di stare a proprio agio sul palcoscenico, nell’affrontare la rappresenta- per trovare lavoro. Non si può ade- Salvatore Moricca
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rire, per esempio, a un albo degli attori che ti permetta di proporti di volta in volta per un determinato ruolo; in realtà, tu sai di essere un attore, ma nessuno automaticamente riconosce questa tua esperienza. Questa condizione è davvero una fatica, perché non hai niente che attesti al mondo in maniera chiara quello che sei, se non, appunto, il ricorso alla tua esperienza personale. Io sono stato fortunato perché ho conosciuto delle persone che mi hanno dato l’opportunità di fare teatro, perché ci siamo trovati bene a collaborare insieme. Ho qualche contatto, però è chiaro che è difficile: ci “Il teatro è il luogo sono dei periodi dell’immaginazione, in cui non lavoun luogo evocativo dove ro e alle volte possiamo dare forma alla nostra mi è capitato di profondità: ai dubbi e alle paure, proporre io dei alle gioie, alle immagini legate testi, non aspetalla nostra umanità” tando di essere chiamato per un ruolo. Occorre cercare nel proprio percorso di formazione artistica tutte le vie possibili per fare al meglio il proprio lavoro, ma per ognuno la direzione da intraprendere è diversa perché sono le scelte ad essere personali. Credo che Francesco Sferrazza Papa la nostra generazione di attori per in una scena di Re Lear andare avanti abbia bisogno di indi W. Shakespeare, con ventarsi tante cose in autonomia, e Glauco Mauri ciò costituisce una sfida, certamene Roberto Sturno, te non facile. regia Andrea Baracco, Quindi è un lavoro che non Produzione Compagnia si sceglie per raggiungere Mauri Sturno la sicurezza? Fondazione Teatro Assolutamente no. È una necessidella Toscana tà personale, un sentimento che acFoto di comuna gli artisti e che non si può Filippo Manzini definire: un pittore ha la necessità
di dipingere, così come un ballerino non può fare a meno di danzare… Quel fuoco che ti brucia dentro non è definibile, è qualcosa di imprescindibile che ti spinge a scegliere questo mestiere e a non farne un altro: il desiderio è completamente rivolto al bisogno che io ho di fare teatro e di mettermi in discussione, stando sul palcoscenico. Quali sono i suoi Maestri di riferimento, quelle persone che sono state importanti nel suo percorso?
All’inizio ho fatto un incontro fondamentale con Luca Ronconi, anche se purtroppo solo a livello accademico, ma è stato uno scambio di conoscenze incredibile. Ho lavorato molto con Andrée Ruth Shammah del Franco Parenti, da cui ho imparato moltissimo, così come da Gabriele Lavia, Marco Sciaccaluga o Andrea Baracco: tutte figure da cui ho appreso il piacere di stare in scena, con una sinergia vera tra attore e regista che dovrebbe sempre esserci. Il rapporto tra regista e attori è fatto di creatività, energia ed emozione. Il teatro è il luogo dell’immaginazione, un luogo evocativo dove possiamo dare forma alla nostra profondità: ai dubbi e alle paure, alle gioie, alle immagini legate alla nostra umanità. Attraverso il teatro è possibile esplorare l’animo umano, con la rappresentazione della vita quotidiana; perfino un autore come Shakespeare, alla fine, parlava nelle sue opere delle fragilità e dell’esistenza delle persone in tutta la loro complessità. Non è facile dare forma alla complessità, e infatti il teatro è anche luogo di ricerca.
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Francesco Pannofino
Con talento e incoscienza
“Avere talento significa riuscire a fare facilmente, con naturalezza, quelle cose che agli altri appaiono insormontabili come la recitazione: senza talento, credo che non si possa affrontare il palcoscenico”
Nella trasposizione teatrale del film Mine vaganti di Ferzan Ozpetek, Lei interpreta il personaggio del padre che al cinema era stato del compianto Ennio Fantastichini…
Con Ennio Fantastichini, recentemente scomparso, avevamo un rapporto bello. Avevamo lavorato insieme e ci stavamo simpatici, quindi quando mi hanno proposto di interpretare proprio questo suo ruolo, in cui nel film emergeva tutto il suo carattere, ho accettato subito con entusiasmo e come una forma di doveroso ricordo. Mi hanno detto più volte che io ed Ennio, seppur diversi, sembravamo avere dei tratti attoriali comuni e quindi sono diventato il sostituto naturale per questo ruolo. Ferzan Ozpetek è un maestro di estetica e di bellezza
e il nostro spettacolo risulta proprio spettacolare, dal punto di vista della costruzione visiva: insomma, credo che si vada a teatro oltre che per godere degli attori che parlano e interpretano dei ruoli, anche per assistere alla bellezza dello spettacolo dato dalla scrittura del testo e dalla regia, nella sua totalità. Noi siamo undici attori in questo spettacolo, e non è facile disporre così tanti attori in scena, ma la preoccupazione principale di Ozpetek è stata sempre quella di cercare di non far annoiare gli spettatori a teatro. Lui ci ha tenuto molto che la vicenda andasse avanti senza pause o vuoti narrativi, così alla fine lo spettacolo risulta agile, anche grazie a degli escamotage scenografici che sviluppano i vari ambienti in cui avviene la storia. E il gruppo di
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noi attori lavora benissimo in que- riuscire a fare facilmente, con nasto contorno drammaturgico. turalezza, quelle cose che agli altri appaiono insormontabili come, apLa spinta verso questo mestiere è punto, la recitazione: senza talento, rimasta sempre la stessa per Lei? credo che non si possa affrontare il Per diventare attori, bisogna co- palcoscenico. Io, quando sto dietro minciare da giovani, quando si è più le quinte e aspetto che arrivi il mio incoscienti: se avessi avuto allora la turno per entrare in scena, non vedo consapevolezza di oggi, forse non ci l’ora di essere sul palcoscenico: ti avrei mai provato… I giovani mol- sale dentro una voglia di esibizione te cose ancora non le sanno, quindi che è intrinseca ad ogni attore, senti
FOTO CLARA NERI
si buttano un po’ incoscientemente verso il futuro e fanno di tutto per realizzare il proprio sogno. Sicuramente per essere attori bisogna esserci portati, è un mestiere molto bello quando riesce ed è estremamente complicato, al contrario, quando si fatica per realizzarlo. Occorre pensarci bene, prima di avviare questa carriera, e soprattutto è necessario prevedere sempre un piano B. Avere talento significa
la presenza del pubblico che sta in sala e desideri questo incontro. Se si ha paura di entrare in scena, questo lavoro non puoi farlo. Viaggiando in tournée e avendo l’opportunità di conoscere tanta gente, che idea si è fatta delle più giovani generazioni?
Io ho un figlio di 22 anni, quindi mi capita già di confrontarmi con lui, con un tipo di generazione molto
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diversa dalla mia. Oggi credo che ci siano giovani eccezionali, che sono quelli su cui noi dobbiamo puntare per il futuro del nostro Paese, quelli che poi ci auguriamo diventeranno la nuova classe dirigente. Sono ragazzi che vanno a teatro, che si informano e hanno la passione per il cinema e per le belle storie, che amano la letteratura. Quando si ha una passione e si individua qualcosa che ci piace veramente, tutto prende il volo. Purtroppo forse l’indifferenza o l’assoluta non voglia di sperimentare può condizionare anche molti giovani, però è l’essenza stessa della gioventù che contribuisce a portare un vento nuovo di rinnovamento e cambiamento. Io, come uomo, vivo sempre il presente: devo fare, devo andare o ritornare… Insomma, ‘sto sul pezzo’ ogni giorno perché l’essere presenti, in qualche modo, appartiene molto al mestiere dell’attore. La tournée raccoglie sensazioni e conoscenze sempre nuove, perché si vedono tanti posti, in cui neanche saresti mai andato privatamente; è vero che sei fuori di casa per mesi, stai sempre con la valigia: ci sono i pro e i contro in questo mestiere, però tutto questo ha il suo fascino, e io faccio questa vita da quando avevo 25 anni. Nella valigia di ogni attore ci sono gli affetti, gli amici, tutti i ricordi che si lasciano a casa e da cui poi ti senti lontano, ma allo stesso tempo la valigia si riempie dei momenti vissuti con la Compagnia di attori e tecnici che viaggiano insieme a te, una sorta di famiglia aggiuntiva che riempie le tue giornate. Interpretando la serie televisiva Boris diventata un cult, specie tra i giovani, e come doppiatore di
attori come Denzel Washington e George Clooney, Lei ha raggiunto una grande popolarità…
La popolarità arriva e tu non te ne accorgi neanche… Se fai la televisione o il cinema, se soprattutto partecipi a delle operazioni che entrano nell’immaginario collettivo, il pubblico ti riconosce e ti segue con fedeltà e grande entusiasmo. Spesso mi fermano e mi vengono a salutare per i numerosi lavori di doppiaggio che ho fatto, per gli audiolibri, per i miei ruoli in teatro o quelli in televisione come Boris o, per esempio Nero Wolfe, il “Io, quando sto dietro le quinte celebre investi- e aspetto che arrivi il mio turno gatore dei gialli per entrare in scena, non vedo scritto da Rex l’ora di essere sul palcoscenico: Stout. È una for- ti sale dentro una voglia tuna quando si di esibizione che è intrinseca ha l’opportunità ad ogni attore, senti la presenza di partecipare del pubblico che sta in sala a dei progetti e desideri questo incontro. Se che vengono si ha paura di entrare in scena, così apprezza- questo lavoro non puoi farlo” ti, anche se la carriera di un attore poi passa attraverso altri tipi di operazioni che magari riscuotono meno successo: alla fine tutto fa bene, gli insuccessi ti temprano e costruiscono la tua identità di interprete. Senza il riconoscimento da parte del pubblico il lavoro degli artisti non ha senso: più persone ti seguono, ti vogliono bene e ti ammirano, più hai successo; rivolgersi al maggior numero di spettatori e riuscire ad ottenere un indice di gradimento il più alto possibile, fa parte del gioco del nostro lavoro. È questo a cui tendiamo tutti noi attori, ed è soltanto il pubblico a poter decretare il successo o l’insuccesso di ogni artista.
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Filippo Timi
In dialogo con il mondo “Il teatro è rappresentazione, gioca sull’energia e la poesia, così riesce a scompaginare ogni convenzione. Il teatro è la casa del tempo presente, ogni rappresentazione è unica, esiste quella sera e non esisterà mai più” Se dovesse dire chi sono, secondo Lei, i giovani oggi?
Sono il futuro, quelle generazioni che dovranno portare avanti il mondo e che si ritroveranno, anche, ad affrontarlo. Ecco perché credo sia molto importante parlare ai giovani, ovvero agli esseri umani del futuro, alle persone che dovranno inevitabilmente fare i conti con questo nostro mondo, sempre più malmesso e sfruttato, sempre calato in una rincorsa verso un X ignoto… È necessario sensibilizzare i giovani su determinati temi, ed è fondamentale ascoltarli, proprio come è successo con Greta Thunberg sul tema dell’ambiente. Grazie all’attenzione e alla spinta dei giovani, noi tutti siamo stati chiamati in causa e abbiamo finalmente cominciato a preoccuparci di questi argomenti.
Moltissimi giovani vengono a vedere i suoi spettacoli, seguono il suo lavoro o le danno, per esempio, dei testi da leggere: ha modo, quindi, di incontrarli e conoscerli. Che idea si è fatto dei giovani, intesi proprio come gruppo?
Io ho due nipoti di 19 anni, una è super appassionata di canzoni giapponesi e per i 18 anni entrambe hanno chiesto ai genitori di fare un viaggio in Giappone. Questo è solo un esempio delle cose che possono appassionare i ragazzi: mi accorgo spesso di queste differenze, rispetto alle nostre generazioni. Forse grazie a Internet, grazie a questa Rete mondiale, si è in grado di ricevere un elenco infinito di input: le immagini dei Paesi stranieri, i video oppure le canzoni… Da ragazzo, per esempio, Foto di i manga dovevo andare a prenderli Roberto Covi
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in determinate librerie, a Ponte San Giovanni dove sono cresciuto neanche c’erano, così come le canzoni giapponesi le trovavi solo nei cartoni animati, i pochissimi non cantati da Cristina D’Avena… In generale i giovani vivono oggi una realtà che è il risultato di un abbattimento delle frontiere, in cui costantemente è possibile attingere ad elementi di culture diverse da quelle a cui si è abitua-
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
ti. Non è che io mi sia fatto un’idea unica sui giovani ma, facendo i laboratori con loro, scopro che hanno conoscenze specifiche e più contemporanee, mentre magari non sanno chi è Carmelo Bene: in questo caso è interessante creare un dialogo tra noi, i giovani possono aprirti ad un mondo nuovo e tu, con un’esperienza magari un po’ più rétro, puoi fargli conoscere una storia o dei personaggi che altrimenti non gli verrebbero mai neanche in mente.
Che cosa deve avere un giovane per colpirla durante un suo laboratorio?
Io cerco di dare una possibilità a tutti. A vent’anni io avevo troppa energia, balbettavo e certe cose in me non quadravano perfettamente, nel senso che potevano essere considerate non propriamente canoniche… Eppure, per fortuna, ho incontrato dei registi che, invece di giudicarmi, mi hanno dato degli strumenti per incanalare tutta la mia energia e che mi hanno rassicurato sulla mia balbuzie. A volte nei miei laboratori cerco attori o attrici basandomi su degli eventuali ruoli specifici: quando ho tenuto quello su Amleto, per esempio, ho incontrato Marina Rocco che non aveva mai fatto teatro prima. Avevo l’idea di un personaggio che dovesse rappresentare l’arte e vedevo in Marina qualcosa di straordinario, perfetto per quel ruolo che ho poi scritto subito per lei, così abbiamo cominciato a lavorarci insieme. In altri laboratori, di tipo più pedagogico, dopo avere fatto una selezione scelgo degli attori per lavorare su dei testi già scritti in precedenza e per me non scatta mai il giudizio: non mi chiedo se quell’attore vada bene o se abbia delle potenzialità, perché tutti abbiamo delle po-
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tenzialità. La fortuna è quando la tua sensibilità di autore o regista riesce a trasmettere qualcosa a un attore in particolare: non è detto che se io non sono in grado di cogliere delle qualità, quell’attore poi non valga. Sono io che non ho la capacità di individuarle, perché abituato a lavorare in un certo modo. Cerco comunque il dialogo: non credo nella figura del regista onnisciente, verso cui l’attore debba sforzarsi in ogni modo di aderire. Il punto di arrivo deve essere sempre comune. Mi è capitato, per esempio, di scrivere dei monologhi per un’attrice o un attore, ma provando poi insieme, ci siamo accorti che qualcosa ancora non funzionava: è bello, allora, dopo un confronto reciproco continuare a riscrivere il testo. Ha senso parlare di giovani e non giovani in questo mestiere, facendo una netta distinzione?
Dipende dal contesto. Il cinema tiene conto moltissimo della faccia e dell’età anagrafica, proprio per un discorso di credibilità della narrazione. Il teatro invece ti permette di scavalcare il tempo: Mariangela Melato, per esempio, nello spettacolo Quel che sapeva Maisie con la regia di Luca Ronconi, riusciva ad interpretare con veridicità una bambina di 9 anni… Il teatro è rappresentazione, gioca sull’energia e la poesia, così riesce a scompaginare ogni convenzione. Il teatro è la casa del tempo presente, al di là delle distinzioni temporali: ogni rappresentazione è unica, esiste quella sera e non esisterà mai più. Io faccio un teatro che si basa molto sull’impossibilità della ripetizione: la partitura drammaturgica, la mappa delle emozioni da cui si parte, è la stessa, ma tut-
to poi si trasforma nelle sfumature. Alcune battute davvero certe sere ancora mi sorprendono, quindi mi ci soffermo come se fossero parole nuove, ancora una volta in più. E poi c’è la grande incognita dell’incontro con il pubblico: non credo nell’attore come il detentore di una verità, così come non credo nella rappresentazione come un semplice esercizio esibizionistico. Il teatro è comunicazione e f o n d a m e nt a l e , “La fortuna è quando la tua per riuscire a co- sensibilità di autore o regista municare, è l’a- riesce a trasmettere qualcosa scolto degli spet- a un attore: non è detto che se tatori che stanno io non sono in grado di cogliere lì davanti a te. E delle qualità, quell’attore poi non esiste l’ascol- non valga. Sono io che non ho to passivo: ogni la capacità di individuarle” sera lo spettacolo cambia perché è lo sguardo del pubblico a determinarti, in base a quello che tu stai riuscendo a dargli in quel momento. Che cos’è il talento?
In parte è crederci, sempre, e avere la passione per impegnarsi. Mi ricordo di quella danzatrice che non era molto forte con le gambe e che quindi continuava a fare esercizi su esercizi, con il triplo dell’impegno; poi, sentendo di avere queste difficoltà ha cominciato a studiare tutta una serie di movimenti con le braccia, fino a diventare famosa per questi gesti incredibili compiuti con le braccia mentre danzava… Ecco, forse il talento è proprio questo: riuscire a rendere le proprie mancanze, tutti i nostri inciampi, come un trampolino per cercare nuove formule e qualcosa di assolutamente originale, in modo da rispecchiare sempre noi stessi.
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Giacomo Stallone
Emozioni ed energia “Mi è capitato di conoscere nella vita tante persone salvate dal teatro e forse lo sono anch’io, in un certo modo”
Werther a Broadway, diretto da Giancarlo Sepe e di cui è protagonista, può essere intesa anche come una storia di formazione?
Foto di Luca Meola
Il personaggio di Werther è l’emblema del preromanticismo, l’eroe epico per eccellenza. L’avevo studiato a scuola e nell’ottica di interpretare il protagonista ho scoperto cose nuove. È sul filone di Iacopo Ortis: sono quei personaggi che vivono l’amore come una questione di vita o di morte, proprio come può essere per un attore il teatro. Questo parallelismo c’è nello spettacolo: il protagonista compie un viaggio, lascia la guerra e attraversa il mare, per arrivare a Broadway dove incontra il teatro. Mi è capitato di conoscere nella vita tante persone salvate dal teatro e forse lo sono anch’io, in un certo modo.
Del modo di fare e di intendere il teatro di Giancarlo Sepe, che cosa le piace?
Il fatto che faccia passare il suo messaggio attraverso delle immagini – la potenza visiva sul palcoscenico è la prima cosa che si nota – e che, dopo l’effetto ottico, si accenda immediatamente l’atmosfera musicale. Nel teatro di Giancarlo Sepe è l’attore ad essere importante, quindi ci siamo subito intesi perché io provengo da un tipo di Accademia molto fisica, la Nico Pepe di Udine, in cui si approfondisce la consapevolezza del proprio corpo. Giancarlo crede nell’unicità di ogni attore e la sua poetica si basa proprio sulla reazione diretta degli stimoli musicali sui corpi; inoltre, il suo teatro è pieno di lingue: immagine-musica-attori-linguaggio, queste componenti
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creano un’atmosfera unica in scena. Anche quando non si capiscono bene le parole, il messaggio arriva chiaro e forte.
attenti e concentrati ti trasmettono un’energia che è palpabile. Stando poi io a un metro di distanza da loro, perché in alcune scene il contatto diretto è molto forte, la relazione che si Si avverte la responsabilità di instaura tra noi in quel momento è essere il protagonista? fondamentale. Un compagno di sceGiancarlo stesso mi ha fatto capi- na che, per esempio, sta al cellulare e re questo tipo di responsabilità fin da non ti guarda non è utile. subito, anche se in modo sempre otIl teatro non le è mai sembrato timistico. Comunque, al di là del mio qualcosa di anacronistico? ruolo, fondamentale è il lavoro dei No, in realtà più vado avanti e più miei colleghi, veramente eccezionali: lo spettacolo è frutto dell’impegno di penso il contrario. Credo che la figututti e, anzi, ho necessità del loro sup- ra dell’attore possa diventare sempre porto. Sono un attore all’inizio della più utile, anche con l’uso della tec-
FOTO MANUELA GIUSTO
La Compagnia, durante gli applausi, di Werther a Broadway di Giancarlo Sepe, Produzione Fondazione Teatro della Toscana, Teatro La Comunità 1972
sua carriera, questo è il primo spettacolo in cui sono protagonista, con questo tipo di visibilità: è uno spettacolo prodotto dalla Fondazione Teatro della Toscana e dal Teatro La Comunità 1972, e io sono orgoglioso di farne parte. La soddisfazione più grossa è quando la gente ti ferma perché vuole parlare con te dello spettacolo, desidera restituirti le immagini che ha visto per scambiarci delle emozioni. Il pubblico è un compagno di scena: possono essere tanti oppure pochissimi, ma se gli spettatori sono
nologia: siamo circondati da video, pubblicità, serie TV, film, fiction: tutti mezzi di comunicazione e intrattenimento di cui la società ormai non può fare a meno. È vero: numericamente siamo tantissimi, anche molti di più di quelli richiesti, ma non si potrà mai prescindere dalla conoscenza e dal fascino insostituibile che un una storia può dare. Il teatro, secondo me, andrebbe insegnato obbligatoriamente nelle scuole. Ho visto quanto può essere importante per i giovani e per tutti.
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Passaggi generazionali
mille giovani diversi Natalino Balasso
Chi sono, secondo Lei, i giovani oggi? Ci sono mille giovani diversi… Un adulto non dovrebbe mai giudicare un giovane. Ricordo quando i miei mi dicevano: “Tu non conosci la guerra…”, io non potevo sapere cosa fosse e allo stesso modo i giovani adesso non possono capire come fossero, per esempio, gli anni Settanta. Noi stiamo dicendo qualche bugia ai giovani, stiamo raccontando loro che sono poveri ma la povertà è un’altra cosa: la mia generazione non si è mai sentita povera, eppure non potevamo certo permetterci di avere un telefono personale o un computer o un tablet, figuriamoci poi le bollette telefoniche; avevamo il telefono con il lucchetto perché il numero si faceva girando una rotella e la chiave per liberare il lucchetto ce l’avevano i genitori, così non potevi telefonare e non spendevi. Ha senso parlare di una differenza netta tra giovani e non-giovani?
DISEGNO LAVINIA BUSSOTTI
Mi accorgo sempre più che ciò che diceva Henri Laborit è vero: nella vita siamo portati a convincerci di idee che sono fatte di pregiudizi e false informazioni, immagazzinate man mano che si va avanti con l’età. Maturando, cambi idea sempre meno e non hai voglia di metterti in discussione. I giovani invece sono legati al cambiamento; pensiamo al Movimento delle Sardine: è un’idea giovane quella di unirti agli altri per influire sul mondo. Passato, presente e futuro: quanto bisogna tenerne conto nel suo mestiere? In teatro occorre la contemporaneità: l’attore che sbaglia diventa una forza in più per lo spettacolo perché il pubblico capisce di avere di fronte un essere umano, con tutte le sue fragilità, e non un prodotto virtuale. Passato e futuro sono invece delle costruzioni della nostra mente: il passato è un falso ricordo, perché ciascuno di noi nel ricordo tende a rendere perfetta ogni cosa; il futuro è un pensiero, e se ce l’hai lo vivi anche a 100 anni. Mi dispiace quando un giovane dice che gli stiamo rubando il futuro: il futuro non esiste, lo devi costruire tu.
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Enzo Decaro
Ricomincio da me “La nostra era un’urgenza a cui non potevamo sottrarci: far sentire la voce di una nuova generazione, che non si identificava con la realtà. Volevamo ricercare dei valori, dando un senso alle nostre inquietudini” La comicità, che cos’è per Lei? Una sua definizione.
È un punto di vista alterato, su qualcosa che normalmente non lo è… Avendo frequentato e lavorato tantissimo con un genio della comicità come Massimo Troisi, ricordo che noi avevamo adottato proprio questa caratteristica: l’obiettivo era quello di guardare alle cose vere, normali e semplici, ma da un altro punto di vista, perché volevamo spostare la prospettiva, modificando la normalità abituale. Per comicità oggi viene indicato anche, per esempio, il gioco di parole, però noi siamo figli dell’umorismo e della Commedia all’italiana, dove alla base c’è sempre un disagio, un’incapacità di gestire e confrontarsi con il potere a vari livelli. Pensando alla sua storia, soprattutto quando ha
cominciato questo mestiere con il gruppo della Smorfia insieme a Massimo Troisi e Lello Arena, sembra che quasi ostinatamente abbiate voluto andare avanti, anche andando incontro all’inizio a tante difficoltà di ordine pratico. Che cosa vi spingeva allora verso il palcoscenico, con tanta forza?
Più che l’aspirazione verso il palcoscenico, al principio sicuramente c’era la necessità per dei giovani – nella Smorfia eravamo in tre, ma facevamo parte inizialmente di un gruppo molto più ampio – di comunicare. Il successo è stato semplicemente una conseguenza, ma il nostro desiderio di comunicazione partiva dal contesto della Napoli di fine anni Settanta: nel giro di pochi anni e nello stesso luogo stavano tutti insieme, uno accanto all’altro, una tale concentrazione di geni: da Roberto De
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Simone, con la Nuova Compagnia di Canto Popolare, a Edoardo Bennato o Pino Daniele. Si assisteva ad un forte fermento di idee e in una discontinuità, più che con il passato, con il presente che non rappresentava assolutamente le istanze della nuova generazione. Una generazione giovane, ma che desiderava riallacciarsi comunque ad un passato alto, colto e glorioso della
generale, mi sembra di poter dire, guardando anche agli altri colleghi di quella generazione, che quasi tutti abbiamo mantenuto una certa fedeltà e vicinanza a quel tipo di coerenza, di chiarezza e necessità di essere se stessi fino in fondo. L’accoppiata Massimo Troisi-Pino Daniele, due artisti che sono stati sempre fedeli a loro stessi, ha lasciato una grande eredità per tutti.
FOTO SAMANTA SOLLIMA
Oggi, che cosa c’è nella sua valigia di attore?
Una foto di scena dello spettacolo Non è vero ma ci credo di Peppino De Filippo, regia di Leo Muscato
Napoli più bella: ci confrontavamo con la Napoli della tradizione, ma cercando di rinnovarla. La nostra era proprio un’urgenza verso cui non potevamo sottrarci: far sentire la voce di una nuova generazione, che non si identificava con quello che c’era intorno. Volevamo andare a ricercare dei valori, dando un senso alle nostre inquietudini. Le strade che poi abbiamo imboccato, le occasioni arrivate, sono state qualcosa di successivo. Questa voglia di comunicare, è cambiata per Lei nel corso del tempo?
Adesso l’urgenza è differente, nel senso che tutta una serie di cose sono state fatte e dette, e poi ognuno ha fatto il suo percorso. Però, in
Prima di tutto io direi che faccio l’attore, ma non sono attore. Per me questa è una differenza fondamentale: quando c’è l’occasione mi impegno in questo mestiere, altrimenti non lo faccio. La mia valigia di attore è dunque possibilmente molto leggera, lascio sempre un po’ di spazio per qualcosa che riesca a farmi esprimere. Nel caso dello spettacolo con cui sono in tournèe, Non è vero ma ci credo di Peppino De Filippo con la Compagnia del figlio Luigi attualmente diretta da Leo Muscato, si tratta di una valigia molto bella perché sono in viaggio proprio in quei teatri in cui tanti anni fa ero arrivato con la mia borsa di giovane attore. L’accoglienza veramente straordinaria da parte del pubblico ci fa capire quanto sia necessario approfondire i testi della nostra tradizione, perché vanno a toccare dei sentimenti che non bisogna smettere mai di coltivare. In teatro vince sempre il tempo presente: bisogna essere presenti in scena totalmente, presenti a vivere quel momento e condividerlo con chi è in teatro, fino alla fine. Ma non dobbiamo dimenticare che tutto viene dal passato, dai più grandi artisti che hanno dedicato la loro vita al teatro.
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S APP O L E L CI T I I CA A LD EE L A L E RI DT E E Chi sono i giovani oggi?
I giovani sono quell’insieme di generazioni che, purtroppo, molto spesso vengono lasciate fuori dalle decisioni importanti legate ai servizi, all’offerta culturale, alle politiche di incentivo e di attenzione verso i giovani stessi. Nei vari luoghi del mondo, Italia compresa, non si tiene conto del cambio radicale dei linguaggi e della domanda, che è in continua metamorfosi, di una o più generazioni. Forse i giovani sentono di dovere subire certe scelte che hanno contribuito a creare delle distanze. Uno dei lavori che mi riguarda più da vicino, come Assessore, è proprio cercare di colmare questo vuoto tra i giovani e chi è chiamato a rappresentarli perché si
Tommaso Sacchi IL TEATRO CHE SOGNO
“Memoria-quotidiano-impegno. E ancora: passato-presente-futuro. Sono tutti ingredienti di una stessa miscela” tratta di un vuoto talmente ingiusto, un vuoto che si fa sentire... Da questo punto di vista la responsabilità delle istituzioni è lavorare per dare il buon esempio ad una città e, in particolare, la Fondazione del
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Teatro della Toscana non può scegliere di non investire sulle nuove generazioni. Firenze deve continuare, soprattutto attraverso i teatri e tutti gli spazi vitali della cultura, ad investire sui giovani. La sfida è quella di riuscire ad interpretare un linguaggio mutevole, che è in continua trasformazione. Ricordo, per esempio, che quando ho iniziato a lavorare nel 2011 con le pubbliche amministrazioni e avevo solo 28 anni, mio fratello allora diciassettenne mi disse: “Tu lavori per riuscire a proporre delle belle mostre, ma io quel tipo di mostra non riesco neanche a valutarla come un’idea possibile. Io ho bisogno di interattività, di essere coinTommaso Sacchi volto, di vedere una mostra partenè Assessore alla Cultura, do dal dietro le quinte e non stando alla Moda e al Design semplicemente davanti ai quadri”. del Comune di Firenze Probabilmente mio fratello, come e Presidente tutti gli adolescenti, viveva un suo della Fondazione momento di critica allo stato delle Teatro della Toscana cose, ma le sue parole mi hanno fatto pensare. I nativi digitali, chi è nato con una vita reale e in parallelo un’altra vita sulla Rete, probabilmente vede il momento culturale come qualcosa d’altro e ha bisogno di un lavoro che punti ai processi, oltre che al risultato finale. È vero che, al contrario, il momento teatrale è il dispositivo magico più analogico che esista sulla Terra: è l’attore che parla e si muove, è l’emozione dell’asse del palcoscenico
che viene calpestata… Che cosa c’è di virtuale in tutto questo? Il teatro è una finzione verissima, non virtuale, e il fascino che ne deriva è eterno. Ecco che per noi oggi lo scopo diventa quello di approfondire a 360 gradi tutte le nostre attività di formazione culturale, proprio per capire come intercettare nuovo pubblico e tentare di affascinare i giovani, magari facendoli sentire coinvolti anche nei processi decisionali. Esiste una distinzione netta tra giovani e non-giovani?
Non amo le categorie e quindi non riesco ad appassionarmi all’idea di un’età in particolare in cui si diventa ‘non più giovani’ e si passa il testimone all’età adulta… Le esigenze di un adolescente sono diverse da quelle di una persona adulta, ma il teatro unisce tutte le generazioni. Come ha detto Stefano Accorsi durante la conferenza stampa di presentazione del suo nuovo ruolo di Direttore Artistico della Fondazione Teatro della Toscana 2021/2023: se ti appassioni alla magia del teatro da piccolo, poi questo amore te lo porti dietro per tutta la vita. Una delle vie possibili è rappresentata dall’impegno e dalla partecipazione di un teatro, come può essere la Pergola, all’interno di una comunità. Il teatro deve proporsi nelle scuole, nelle case, nelle strade: anzi, io sogno perfino di poterlo raccontare attraverso Internet e la TV il nostro teatro… Io ho avuto la fortuna di essere accompagnato a 17 anni a vedere gli spettacoli di Paolo Poli e, per me, da allora lui è restato sempre un mito: la sua idea di teatro, capace di scardinare tut-
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te le categorie borghesi, mi ha aiutato poi a compiere una scelta più politica della mia vita. Io sogno un teatro che sia insieme civile e sociale, un teatro che abbia l’abilità per scoprire i talenti del nostro Paese e che allo stesso tempo dialoghi con le altre nazioni, assumendo su di sé la funzione di nuova porta di Europa. Tutto ciò deve essere rivolto sia verso chi frequenta il teatro da tanti anni, gli abbonati e gli spettatori
nuovo, guardando al futuro e a tutte le generazioni. Passato, presente e futuro: quanto, queste tre parole così importanti, sono presenti nel suo mestiere?
Il passato è per me l’espressione di un valore – la memoria – che mi sta molto a cuore. Il presente è la gestione del quotidiano, del nostro vivere giorno per giorno, e per chi fa il mio mestiere è qualcosa di imprescindibiFOTO FILIPPO MANZINI
che acquistano ad ogni stagione i biglietti teatrali, ma anche per acquisire nuovo pubblico. L’obiettivo è di lavorare grano grano, che è un termine francese emerso durante le nostre riunioni con il Direttore del Théâtre de la Ville di Parigi Emmanuel Demarcy-Mota sulla Carta 18-XXI, siglata insieme con il Direttore Generale Marco Giorgetti per i giovani. Unire vecchio e
le… E il futuro rappresenta l’impegno. Senza il passato non ci sarebbe il presente, senza il presente non ci sarebbe il futuro: è una consecutio inevitabile. Senza dare valore al passato lavori male nel presente, senza valorizzare ciò che stai facendo nel presente non riesci bene a progettare il tuo futuro… Memoria-quotidiano-impegno. E ancora: passato-presente-futuro. Sono tutti ingredienti di una stessa miscela.
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LA CARTA 18-XXI
I principi Fin da subito la Fondazione Teatro della Toscana aderisce all’appello della Carta 18-XXI, un movimento cui ha dato l’impulso l’astrofisico francese Jean Audouze e il Théâtre de la Ville di Parigi con il suo Direttore Emmanuel Demarcy-Mota, riunendo un insieme di artisti, di scienziati, di filosofi. Un invito al dialogo fra le generazioni, un ponte fra XX e XXI secolo, un invito ad immaginare e a realizzare dei progetti con i giovani.
1. PER LA GIOVENTÙ DEL 21° SECOLO La 18-XXI prende come punto di partenza l’entrata simbolica nella maggiore età per i primi ragazzi nati dopo il 2000. Questo è un invito ad inventare progetti con i giovani, in dialogo con quelle generazioni nate durante il 20° secolo. 2. UN TEATRO MONDIALE, LUOGO PER L’UMANITÀ La Carta 18-XXI ha origine in teatro, un posto di memoria e trasmissione. Incoraggia tutti a far echeggiare i linguaggi, le immaginazioni e le culture di tutti. A far risuonare il linguaggio universale della scienza e della cultura. A mettere insieme generazioni diverse intorno a progetti che creino ponti che abbracciano i divari geografici e culturali. La 18-XXI si basa su una convinzione; che la cultura può creare legami sociali e che ha il potere di arricchire e comunicare attraverso gli incontri con gli altri. Il lavoro della 18-XXI non si limita solo ai teatri; tutti i luoghi culturali, scuole e università in Francia, Europa e in ogni parte del mondo si possono unire. 3. UNA CHIAMATA EUROPEA In un tempo in cui il nazionalismo sta diffondendo la sua cattiveria qua e là, la Carta 18-XXI è motivata dal desiderio di promuovere un’Europa della Gioventù, un’Europa della cultura e delle arti, come alternativa alle strategie economiche. L’Europa non può esistere senza i suoi molti legami nel mondo, orgogliosa della sua pluralità e della ricca diversità che la circonda. La 18-XXI sta cercando di allontanare i dogmi e i limiti, coinvolgendo i giovani del 21° secolo, la vera gioventù che è direttamente preoccupata per il futuro del territorio Europeo che i fondatori volevano portare alla pace. I progetti della 18-XXI proporranno altre storie, altre visioni di un Europa che è aperta, libera, creativa e accogliente. 4. SCUOLA DEL 21° SECOLO L’educazione è una sfida essenziale nel 21° secolo. La curiosità, il desiderio di esplorare e capire deve essere condiviso da tutti, a qualunque età. La Carta 18-XXI punta a costruire ponti tra le nuove generazioni, gli artisti e gli insegnanti, per accompagnare l’evoluzione delle scuole e delle università, e dare priorità all’educazione artistica, scientifica e culturale. I progetti 18-XXI con le scuole svilupperanno l’appetito dei ragazzi per l’arte, la conoscenza scientifica e la lettura; risveglieranno la loro curiosità e il loro pensiero critico; svilupperanno nuovi luoghi in cui esprimere la loro immaginazione. Le università, le scuole superiori e gli istituti di ricerca partner della 18-XXI si impegnano ad interessarsi a questi temi e ad integrare la pluralità del sapere e dello sperimentare generata dai loro studenti attraverso progetti che li incoraggino ad immaginare, intraprendere e creare. 5. CULTURA E AMBIENTE Nel corso del 20° secolo, siamo diventati consapevoli dei limiti del nostro pianeta. Ora sappiamo che viviamo in un luogo fantastico, la Terra, di cui dobbiamo preservare il già minacciato fragile equilibrio. La scomparsa di molte specie viventi, il riscaldamento globale e i disastri naturali sono già al centro degli interessi di alcuni scienziati e artisti.
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La 18-XXI punta ad includere queste importanti sfide del 21° secolo all’interno dei suoi progetti. 6. CURIOSITÀ ED ESPERIMENTO L’esperimento, la curiosità, il diritto di commettere errori e ricominciare sono i mezzi di cui abbiamo bisogno per capire e affrontare il mondo reale. Il discorso e il metodo scientifico sono necessari per costruire il 21° secolo. La 18-XXI si propone di connettere le pratiche scientifiche e artistiche. Nel 2015, l’astrofisico Stephen Hawking espresse un desiderio per l’umanità: “Attraverso la fisica teorica, ho cercato di rispondere ad alcuni grandi quesiti. Ma ci sono altre sfide, altre grandi domande a cui dobbiamo trovare risposte e queste a sua volta necessiteranno di una nuova generazione che si interessi, che sia coinvolta con una comprensione scientifica (…) Siamo tutti viaggiatori del tempo, che viaggiano insieme verso il futuro. Ma lavoriamo insieme per rendere quel futuro un luogo che vogliamo visitare. (…) Sono molto consapevole di quanto sia prezioso il tempo. Afferriamo il momento. Agiamo adesso.” La Carta 18-XXI vuole richiamare questo messaggio. 7. DA UN SECOLO ALL’ALTRO: EREDITÀ E TRASMISSIONE Il 20 ° secolo ha visto due Guerre Mondiali, guerre per la libertà dalle regole coloniali e da innominabili orrori, compreso l’Olocausto. Ma ha visto anche successi che vivono nella nostra memoria e ha prodotto diversi lavori fantastici: nel campo tecnico per migliorare le vite umane, nel campo scientifico, per espandere la nostra conoscenza dell’universo, del nostro ambiente e di noi stessi e, ovviamente, nelle arti. La 18-XXI è nata dal desiderio di mettere insieme le generazioni per guardare indietro e fare il punto della situazione del secolo passato. I suoi principi fondanti sono la memoria, la trasmissione e la conoscenza della nostra storia individuale e collettiva. 8. DIVENTA AMBASCIATORE DELLA CARTA 18-XXI Ogni luogo partner, ogni individuo ispirato dai principi di questa carta, può essere un ambasciatore, sia esso un artista, uno scienziato, uno scrittore, un avvocato, uno sportivo, ecc. Giovane o vecchio… Essere ambasciatore per la 18-XXI, significa sostenere simbolicamente i principi della Carta e agire concretamente in suo nome. In questo modo, costruiremo un network aperto crescente per immaginare e testare insieme progetti artistici, e creare spazi per il dialogo, il dibattito e lo scambio. Ogni partner è libero di intraprendere un azione e accompagnare la sua realizzazione. 9. I PROGETTI DELLA 18-XXI La Carta 18-XXI è un testo fondante i cui principi devono trovare concreta espressione in azioni. Un progetto 18-XXI potrà essere definito dalle sue dimensioni creative, dalla partecipazione di coloro nati dopo il 2000 e dai ponti che costruisce tra generazioni, discipline, luoghi e linguaggi. Un azione 18-XXI deve includere fantasia, poesia, gioia e immaginazione. Dovrebbe coltivare uno spirito di curiosità, apertura e benevolenza. 10. PASSATO / PRESENTE / FUTURO La 18-XXI echeggia al passato, al presente e al futuro; ogni progetto dovrebbe tenere documentazione dei suoi processi di ricerca e creazione. Queste prove documentali sono essenziali quanto gli eventi pubblici. È un modo di immaginare altri progetti nel futuro. 11. APRIRE UNO SPAZIO PER IL DIALOGO La Carta 18-XXI apre uno spazio per il dialogo con la gioventù del 21° secolo; i suoi desideri, le sue rivolte, i suoi quesiti, i suoi sogni e le sue iniziative. Ogni elemento in questa carta è una proposta che potrà essere completata, emendata o modificata.
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i avete visti i ragazzi di oggi? Sono tutti sciatti, svogliati e distratti, sembra sempre che non abbiano voglia di fare niente; hanno gli occhi su questi telefonini, le cuffiette alle orecchie, appaiono insensibili a tutto quello che gli sta intorno. È così, no, che li avete visti? Ecco allora vuol dire che non li avete visti bene. Se li avete visti così è perché noi adulti abbiamo perso la capacità di guardarli come sono davvero, perché forse le cuffiette se le mettono per non sentirci, perché magari non ci vogliono proprio parlare con noi, perché magari conoscono il mondo che gli stiamo lasciando. Chi è che ha insegnato l’odio a questi ragazzi? Sono bulli. E sono bulli, perché sono ragazzi? No, se fanno del male, lo fanno perché siamo noi a dare loro l’esempio. Le ricerche dicono che due sono le parole che gli adolescenti usano di più quando vogliono offendere qualcuno, sono le parole che ricorrono di più sui Social, sui muri dei bagni, nelle comunicazioni verbali: frocio e troia. Gliele abbiamo insegnate noi, perché siamo noi a dire in continuazione che se un uomo ha dieci donne contemporaneamente è un figo, se una donna ha due uomini invece… Siamo sempre noi, sui giornali o in televisione, che cerchiamo morbosamente con chi un personaggio, un politico o un attore va a letto; siamo noi che li costringiamo a vivere in una società sessista e omofoba, sempre, fin da quando nascono. Quando in loro c’è qualcosa che non va il più delle volte lo hanno preso da noi. L’attaccamento ai soldi, per esempio, per cui certi lavori valgono meno di altri, l’idea che la cultura non vale niente se tanto poi finisci a fare il professore a scuola per quanto? Mille euro al mese? Però, c’è una cosa che non viene detta mai: questi ragazzi non sono come noi vogliamo dipingerli. Io li vedo nei laboratori teatrali, li vedo sui set: studiano, lavorano e sono intelligenti, sono velocissimi a imparare, sono appassionati, sono impegnati, sono sognatori… Ci sono tanti di questi ragazzi così, di cui non parla nessuno… Perché? Forse perché sono quelli che non finiscono nella cronaca nera.Questi giovani non fanno niente di eroico, ma forse invece sì: resistono. Seguono i loro sogni contro di noi, anche se gli diciamo che sognare in questo mondo ormai è impossibile. Sono una maggioranza, a volte silenziosa, che però improvvisamente magari si alza come un’onda e scende in piazza a pretendere il futuro che noi vogliamo negare. Quando li critichiamo dovremmo forse ricordarci le parole profetiche di un cantante che è stato giovane e ribelle fino all’ultimo dei suoi giorni: David Bowie in Changes… Cambiamenti, è un bel titolo per una canzone… Lui diceva così: "Questi bambini su cui voi sputate, mentre cercano di cambiare il mondo, loro non le ascoltano le vostre prediche, perché sanno loro, meglio di chiunque altro, quello che stanno passando". Quando sputiamo sui nostri ragazzi o sulle nostre ragazze, quando li ridicolizziamo, quando spariamo sui loro sogni, non stiamo uccidendo solo loro: ammazziamo il futuro, stiamo facendo morire la parte migliore di ognuno di noi, quel poco che c’è rimasto. Quindi… Forza, ragazzi! Perché il mare che attraversate è minaccioso, ma travolgeteci, divorateci, calpestateci, metteteci da parte. Con gentilezza, però.
Lettera di Lino Guanciale ai giovani
Foto di Manuel Scrima
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ESSERE PRESENTI
Francesco Brandi e Riccardo Pippa (Teatro dei Gordi) si raccontano di Matteo Brighenti
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a disponibilità all’incontro è dei giovani. Un ritrovarsi con le proprie diversità che, arrivate in cima alla scalata del dialogo, si riconoscono più simili di quanto ci si potesse immaginare. Le origini, la famiglia, la professione e qualsiasi altro passaporto non hanno alcuna importanza: conta la volontà di essere presenti. Esserci a dispetto di tutto, e in particolare della paura dell’altro, è la direzione presa da Francesco Brandi con Per strada e Buon anno, ragazzi (al Teatro Niccolini di Firenze, rispettivamente, 3-5 marzo e 1-3 aprile) e da Riccardo Pippa e dal Teatro dei Gordi con Visite (al Teatro Studio ‘Mila Pieralli’ di Scandicci, 20-22 marzo). Tre produzioni del Teatro Franco Parenti di Milano. «Io sono uno che vuole raccontare storie», afferma Brandi, «lo faccio con le parole, i gesti, il corpo. A Roma facevo solo l’attore, una volta arrivato a Milano ho capito ciò che volevo davvero fare: scrivere e interpretare cose mie». Classe 1982, non si definisce un drammaturgo, ma “un attore che scrive”, con uno sguardo ironico, amaro, mai pedante, né superficiale. Il suo è un teatro di parola e quindi d’attore. «I miei testi sono pesci agonizzanti che saltano nel tentativo disperato di sopravvivere e gli attori sono l’acqua», spiega, «qualcuno ti dà un acquario, qualcun altro ti dà l’oceano, come mi è successo con Francesco Sferrazza Papa in Per strada e con Loris Fabiani, Miro Landoni, Daniela Piperno, Sara Putignano, in Buon anno, ragazzi. Amano i loro personaggi», aggiunge, «sentono l’amore per loro nella scrittura e sono felici quando li rifanno: queste drammaturgie permettono loro di dare qualcosa che magari non hanno mai dato prima». A se stesso Francesco Brandi riserva il ruolo di coscienza critica che non risparmia niente e nessuno. «La commedia è una scelta di vita, di sguardo quotidiano», interviene, «il mio personaggio è il primo che viene messo in mezzo, sull’altare del massacro metto prima me stesso, la mia bruttezza, le mie miserie, le mie ipocrisie». Un impegno alla Woody Allen o Nanni Moretti, reso possibile anche grazie a Raphael Tobia Vogel, il regista trentenne di entrambi i lavori. «Raphael», conclude Brandi, «ti mette a tuo agio nella creazione e ti porta all’ennesima potenza. È una cosa rara». Vedere a teatro ciò che è impossibile trovare altrove, per esempio al cinema, è la ricerca del Teatro dei Gordi. «Crediamo nell’esperienza attraverso l’emozione, per questo ricerchiamo un teatro con un impatto emozionale»,
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chiarisce Riccardo Pippa, «Visite celebra la vicinanza fisica, il fare visita come atto di resistenza e unica fede di fronte allo scorrere del tempo, alla paura del futuro». Classe 1981, è ideatore e regista di questo lavoro ispirato al mito di Filemone e Bauci da Le metamorfosi di Ovidio, storia di due vecchi sposi che danno ospitalità, senza saperlo, agli dèi Zeus ed Ermes. Come ricompensa, l’uno non vedrà la morte dell’altra, grazie alla loro metamorfosi in una quercia e un tiglio uniti per il tronco. In scena, però, con Cecilia Campani, Giovanni Longhin, Andrea Panigatti, Sandro Pivotti, Maria Vittoria Scarlattei, Matteo Vitanza, si assiste a una compresenza di attori giovani e attori giovani con la maschera di anziani. «C’è un riconoscimento tra generazioni», ragiona Pippa, «la suggestione più forte riguarda i luoghi, il rapporto tra ciò che cambia e ciò che resta, tra l’identità e il mondo circostante».
«Nel mito si parla di una coppia», va avanti, «noi volevamo trattare il tema della vicinanza anche in altri legami, come l’amicizia». L’altro, dunque, va sempre accolto, è divino in quanto è umano. E la trasformazione di un amore non è il suo contrappasso dantesco: è un diverso modo di esistere. «C’è dentro il nostro immaginario, affrontiamo un tipo di unione che va oltre il tempo e le difficoltà», termina Riccardo Pippa, «l’uso magistrale delle maschere di Ilaria Ariemme permette la magia dell’immedesimazione: sono immobili, sei tu che proietti su di loro quello che si muove dentro di te».
Nella foto, a sinistra Francesco Brandi a destra Riccardo Pippa
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UNA CITTÀ PER PARTECIPARE
Il Teatro dell’Argine e il progetto Politico Poetico
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a forza dell’utopia è dei giovani. La possibilità, con loro, diventa potenzialità: tutto quello che ancora non c’è domani può esserci. Il futuro è a portata di immaginazione. «Sono gli unici dotati di quell’energia dirompente che serve per poter cambiare le cose», dicono Nicola Bonazzi, Micaela Casalboni, Andrea Paolucci, «non sono ancora niente di preciso, né di costituito, quindi possono essere tutto. È il regalo più importante che ci consegnano». Come Teatro dell’Argine, lavorano da 25 anni con gli adolescenti e sul territorio di Bologna. «Il nostro teatro si fa con le persone, dentro la comunità», sostiene Bonazzi, «è una pratica di dialogo, di crescita che nasce e deve nascere negli anni della formazione, a scuola. Tutto questo, poi, ce lo portiamo dietro anche nelle produzioni della compagnia». Politico Poetico è il loro nuovo progetto artistico e di cittadinanza attiva, rivolto a ragazzi e ragazze dai 14 ai 20 anni. «La politica può farsi arte e l’arte deve tuffarsi nella polis», afferma Casalboni, «non c’è cosa più poetica del fare politica con dei ragazzi, e non c’è cosa più politica del fare con il teatro un discorso sulla città». L’obiettivo è stringere un nuovo patto fra pensare globale e agire locale, attraverso due azioni fino a giugno, Il Parlamento e Il Labirinto. «Gli adolescenti sono in grado di ribaltare i punti di vista», prende la parola Paolucci, «sono loro a insegnare a noi, non viceversa. Siamo abituati a ragionare per compartimenti stagni», continua, «pensiamo ai ragazzi come a un tutt’uno indistinto, quando invece ognuno ha un suo modo di vedere le cose. Se non lo manifestano è solo perché nessuno glielo chiede». Il Teatro dell’Argine lo domanda eccome: entra nelle classi e interroga gli studenti su cosa sta loro a cuore dell’Agenda 2030 dell’ONU per lo Sviluppo Sostenibile, al fine di applicarla nella propria realtà quotidiana. Sono coinvolti in 650 in laboratori su temi come Ambiente, Disuguaglianze, Città e Comunità, Pace e Giustizia: è Il Parlamento. Il 19 aprile Bologna si trasforma in Hyde Park di Londra e le loro risposte in monologhi da recitare su cassette della frutta in centinaia di Speakers’ Corners. «Portiamo il teatro più in là di quello a cui siamo stati abituati», commenta Nicola Bonazzi, «non solo farlo vedere e fare, ma usarlo pure come strumento
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per organizzare un pensiero, per avere il coraggio di salire su un podio improvvisato e dire quello che si pensa». Esistono fratture della città dove non arriva alcun riflettore. Qui Politico Poetico intervista “l’altra adolescenza”, quella in stato di disagio o di pericolo. Le storie, le testimonianze, i racconti raccolti sono la materia di uno spettacolo immersivo, esperienziale: è Il Labirinto. «È quasi tutto in Realtà Virtuale, gli spettatori si mettono dei visori ed entrano in un mondo a testa in giù», illustra Micaela Casalboni, «ci consentiamo di costruire una drammaturgia con un linguaggio nuovo, quello dei videogiochi, più vicino al cinema che al teatro. In questo momento ci sta appassionando molto». Non è un caso, allora, che Politico Poetico sia parte di Così sarà! La città che vogliamo, realizzato da Emilia Romagna Teatro Fondazione, cofinanziato dall’Unione Europea - Fondo Sociale Europeo, nell’ambito del ProFOTO LUCIANO PASELLI
gramma Operativo Città Metropolitane 2014-2020, promosso dal Comune di Bologna. «Il nostro progetto è stato sposato da quasi tutte le scuole di qui», sottolinea Andrea Paolucci, «l’interesse è grande, anche perché è come se stessimo vivendo un tempo che richiede una simile azione. In un momento storico in cui siamo tutti impauriti, preda della rabbia, è necessario riattivare le relazioni». Nessuno meglio del Teatro dell’Argine poteva capirlo. «Il dialogo con il mondo fuori dalle mura della sala teatrale ci ha donato una pratica al confine tra arte, educazione, sociale», concludono Bonazzi, Casalboni, Paolucci, «ciò che più ci sta caratterizzando è l’essere di vedetta: vedere dove si può andare a navigare in terre nuove». (M.B.)
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“… cosa significano quelle occhiaie sul volto di Lear? Il re è vecchio e malato oppure è arreso di fronte alle vicissitudini della vita? La smorfia delle sue labbra allude a disgusto per l’abiezione mostrata dalle figlie o rimorso per i propri errori? Che errori ha commesso Lear? Sono confinati nella letteratura shakespeariana o sono gli stessi che commette ancora ciascuno di noi quotidianamente? …”
D I E T R O L E Q U I N T E
Walter Sardonini
Che cos’è la comunicazione? Un termine abusato. Una materia praticata ormai da tutti. Ultimamente si ha l’impressione che significhi: dire, parlare, annunciare. “Lo abbiamo detto” dunque “lo abbiamo comunicato”. Non credo sia così. “C’è un nuovo frigorifero in volantino, compratelo!”… Può darsi che funzioni, non lo so. Quello che so è che per promuovere il Re Lear di William Shakespeare la questione cambia un tantino… Secondo la definizione di qualsiasi vocabolario, comunicare significa “mettere in comune” e con“La comunicazione deve mettere in moto il seguentemente trasferire, come nel meccanismo emozionale di ciascun fruitore, movimento di un meccanismo, da affinché questo sia sollecitato a porsi un soggetto a un altro. Purtroppo è domande, ad approfondire, a confrontarsi una definizione raramente interprecon ciò che ha richiamato la sua attenzione” tata secondo questo significato.
RE LEAR E IL FRIGORIFERO
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In che senso? Secondo me, l’immagine che si forma nella testa di chiunque rifletta su questo termine, sono due persone, una che parla e una che ascolta. In realtà, e questo si evince facilmente approfondendo l’etimo, emerge con chiarezza un concetto di reciprocità, di condivisione. Se si pensa, in particolare, all’ambito delle idee e delle opere intellettuali, il concetto ha un valore ancora più aderente al vero significato. Proprio perché implica la propensione di due o più individui a interagire attivamente su tematiche che non sono oggettive (o oggetti veri e propri). Il motore di quella interazione non è un impulso trasmesso a un ingranaggio che si muove poi passivamente; tra le persone, il motore è lo stesso metabolizzare un determinato argomento che trasforma continuamente l’argomento stesso, di rimando da un individuo all’altro. Ogni individuo elabora e trasforma quella tematica e fa a sua volta comunicazione. Si chiama dialettica, da dialogo. Dunque la comunicazione è dialettica?
In ambito culturale assolutamente sì. È meno evidente in ambito pubblicitario. Seppure i mezzi di informazione oggi a disposizione consentano di interagire – e mettere in discussione o approfondire – anche quei messaggi che un tempo sarebbero passati come indubitabili (penso a certe campagne promozionali di beni di consumo, tese a edulcorare e convincere), la réclame presuppone una certa apatia da parte dei destinatari. Viceversa, di un evento culturale se ne può dare un giudizio compiuto solo dopo averlo “acquista-
to e consumato”. Conseguentemente la comunicazione, in questo caso, serve ad accompagnare la scelta, a suscitare l’interesse e la preparazione informando, in assenza (o in attesa) dell’oggetto stesso. Come si comunica allora uno spettacolo o una stagione di prosa?
Chiamando alla partecipazione attiva le persone. In due modi, apparentemente contraddittori: velando e svelando. Attraverso cioè un’informazione corretta, puntuale e tempestiva per ciò che concerne i contenuti: date, luogo, orari, descrizione dell’evento. Ma al tempo stesso cercando di stimolare l’interesse, una riflessione, facendo nascere interrogativi nell’animo dell’interlocutore. Un frigorifero si compra per necessità, seppur condizionati dai “consigli per gli acquisti”, ma poi non se ne riparla finché non si rompe. Il biglietto per uno spettacolo teatrale, per una proiezione o una mostra si acquista per un’esigenza (già di per sé molto più inerente la sfera delle attitudini personali) vorrei dire inesauribile: domani c’è un nuovo spettacolo, un altro libro, un’altra mostra. È allora necessario che il dialogo sia preciso nell’informazione, ma evocativo nella forma per aiutare lo spettatore a sentirsi Re Lear, a volerne sapere di più, prima ancora che “comprare" Re Lear. Al contrario della comunicazione commerciale e politica (o almeno certa comunicazione politica…) attraverso la quale si tenta di convincere la pancia dell’interlocutore attraverso dichiarazioni “a effetto” volte a cercare un riscontro immediato, la comunicazione in ambito culturale deve, a mio avviso,
Walter Sardonini è responsabile di Comunicazione e Identità visiva della Fondazione Teatro della Toscana
Immagine di Walter Sardonini
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stimolare ad approfondire. Quello spettacolo, quel concerto, quella mostra, ma ugualmente quel libro, come sarà? Sarà coerente ad uno stereotipo già sedimentato cui rimanda il titolo o proporrà una lettura non convenzionale? Anche a fronte di una interpretazione che sovverta l’immaginario consueto, quali particolarità e aspetti sconosciuti riuscirà a mettere in evidenza? Il messaggio attraverso il quale viene proposto forse mi sta chiamando a cercare nella tematica risvolti diversi da quelli che mi aspetto? In una recente intervista su La Stampa, Amos Gitai, grande regista israeliano, ricorda che Jeanne Moreau gli disse che “fare cinema o teatro è riflettere su ciò che vorresti comprendere meglio”. Ecco, la comunicazione deve preparare la strada per far sì che questa riflessione abbia inizio, anche nello spettatore, già all’atto della scelta dell’evento cui parteciperà. Se questo è vero, oltre al tono, fondamentale è proprio la forma, la comunicazione visiva…
Ne sono convinto. Viviamo in un’epoca in cui sappiamo tutto, ma non riflettiamo su nulla. Se da una parte il messaggio deve essere chiaro e veritiero nell’informare (evitando claim sopra le righe che non consentono al fruitore la costruzione di un proprio palinsesto personale, di un percorso costruito in base alla sua particolare sensibilità), il visual deve distaccarsi dalla rappresentazione piatta del contenuto. Questa può valere per il frigorifero. Uno spettacolo teatrale, già interpretazione del testo da cui è tratto, non sarà mai per il pubblico in uscita quello che la regia aveva ipotizzato, o lo sarà in
parte, e sarà differente per ciascuno di noi. La comunicazione, secondo me, deve avviare questa catena di “interpretazioni”, mettere in moto il meccanismo emozionale di ciascun fruitore, affinché questo sia sollecitato a porsi domande, ad approfondire, a confrontarsi in accordo o in disaccordo con ciò che ha richiamato la sua attenzione. Quest’anno abbiamo impostato la comunicazione degli spettacoli in cartellone secondo due linee editoriali differenti, parallele e complementari. Da una parte i volti degli attori protagonisti della Stagione che si mostrano “senza trucco” indicando titolo, data e luogo della pièce. È l’aspetto informativo, in cui gli artisti stessi partecipano in prima persona e invitano a teatro. Dall’altra, gli stessi volti si trasformano in un’interpretazione che solleciti domande: cosa significano quelle occhiaie sul volto di Lear? Il re è vecchio e malato oppure è arreso di fronte alle vicissitudini della vita? La smorfia delle sue labbra allude a disgusto per l’abiezione mostrata dalle figlie o rimorso per i propri errori? Che errori ha commesso Lear? Sono confinati nella letteratura shakespeariana o sono gli stessi che commette ancora ciascuno di noi quotidianamente? Conclude Amos Gitai nell’intervista che citavo prima che “il cinema (ma per il teatro vale altrettanto) non può cambiare il mondo, ma lo fa pensare”. Ecco, a mio avviso la comunicazione in ambito culturale deve aiutare a muovere quel meccanismo interiore che consente ai singoli di alzare l’asticella del proprio interesse e che, trasferendosi nella comunità, contribuisce a formarne la coscienza culturale e civile.
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IS MPE S E T CI EI R AI DL E EL T AE A R T TR O E La sua passione per la fotografia, da dove parte?
Ho iniziato fin da bambino e sono stato davvero fortunato a trasformare quello che, prima era un hobby, poi è diventata la mia professione. Intorno ai 14 anni, al mare, ricordo che scattavo le prime fotografie alle amiche e andavo a stamparle davanti a casa; poi, pian piano, la passione ti cresce dentro. Grazie a un mio amico parrucchiere che una volta mi portò con sé a fare una sfilata con personaggi dell’alta moda, sono entrato in questo mondo. Ho conosciuto, per esempio, Brioni e Lancetti, sono stato convocato per i primi servizi e ho fatto il fotografo di moda. Sono arrivato a collaborare con
Gianmarco Chieregato
lo scatto perfetto “Una foto può parlare anche se è muta” Gioia, venivo chiamato per i ritratti degli attori e si è aperta una nuova via, che mi appassionava sempre più. Ho cominciato a fare il ritratto degli attori, con l’esperienza della moda.
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hai una persona davanti a te, tenti di andare oltre l’apparenza, oltre a La moda si esprime in una realtà quello che l’occhio vede e che si tengrande, fatta di attrici, parrucchieri, de a dare per scontato. L’approccio truccatori, stylist: spesso in queste con il personaggio è sempre fondafoto la modella è piccola rispetto a mentale: cerco di nascondermi dietanti altri elementi che devono es- tro la macchina fotografica, per non sere presenti nell’immagine, quindi creare traumi. Gli attori spesso non è un modo di raccontare diverso ri- sono felici di farsi fotografare, anche perché non è quello il loro lavoro, a differenza delle modelle. L’attore si muove, dice una cosa, si alza: la fotografia invece cattura solo un attimo, per cui cerco di comunicare serenità in quei momenti e di far diventare ogni scatto come un gioco. Tu, fotografo, devi pensare che non stai rubando delle immagini, ma stai creando qualcosa di bello insieme agli attori in questione. Mi piace quando si crea quest’atmosfera di complicità, il più delle volte ci si riesce, ma può capitare che certi attori si chiudano a riccio e che abbiano delle barriere difficili da sfondare. È raro, ma può succedere. C’è differenza tra il mondo della moda e la ritrattistica?
FOTO GIANMARCO CHIEREGATO
Quali sono le difficoltà di trovare l’attimo giusto, nello scatto di una fotografia?
Un ritratto di Michelangelo Antonioni
spetto a fare dei ritratti. Nelle foto di moda a colpirti è lo spazio, la modella, il vestito, mentre il rapporto che si crea con un attore o un’attrice è certamente più intimo. Siamo solo in due nel momento in cui si cerca di scattare il ritratto giusto ed emerge, prepotentemente, la voglia di scoprire il personaggio. Recentemente ho pubblicato un libro di ritratti, dal titolo Oltre lo sguardo, che è un po’ la mia filosofia. Quando
Se trovo uno spazio che mi piace sono agevolato, sia per la mia esperienza nella moda dove lo spazio è importante, e sia perché sono laureato in architettura. Quando in un ambiente ci sono delle geometrie che mi tornano, tutto diventa facile. La difficoltà principale è riuscire a tranquillizzare l’attore che ti prepari a fotografare: con la macchina giro un po’ da tutti i lati, alla ricerca dell’aspetto più interessante. Tu racconti qualcosa, ma utilizzando delle immagini, e la foto, tra virgolette, può parlare anche se è muta. Io dico sempre che, quando una foto è bel-
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la, sono riuscito a vedere bene: sono quelle immagini capaci di trasmettere qualcosa. Alcune foto, le più banali, le guardi e senti che non ti lasciano nulla, mentre su altre foto ti soffermi e ti intrigano: stavo quasi per dirti che parlano, e in fondo è proprio così, come accade nella pittura. Se un quadro ti trasmette emozione, il pittore
Ne avrei mille, però mi fa piacere ricordare un aneddoto legato ad Antonioni, perché a suo tempo mi colpì molto. Ho sempre avuto il mito di Antonioni, ho iniziato a fare questo mestiere anche dopo aver visto Blow up, la storia di un fotografo e delle
ha raggiunto il suo scopo, mentre se il dipinto non dice niente a chi lo sta guardando, è soltanto una delle tante immagini che popolano il mondo. L’uso della luce è necessario e serve per migliorare il soggetto: è come dipingere, tutto viene reso più affascinante. In generale non mi piace mettere in evidenza i difetti: tendo a non toglierli da un’immagine ma non li accentuo. Ho alcune fotografie in cui, per esempio, Mimmo Calopresti o Giorgio Gaber sono presi di profilo con il loro naso importante. Queste foto io le trovo bellissime, ma a quel punto ciò che apparentemente può sembrare un difetto – avere il nasone – sta bene sul loro volto e crea armonia. Io faccio il fotografo, ma avrei voluto fare il pittore, solo che non ne sono capace: ecco perché mi sono dovuto trovare una forma alternativa di composizione, perché con i pennelli non riesco proprio a farlo.
sue modelle nude, praticamente il Nella foto mio mondo da ragazzino… Un gior- Gianmarco Chieregato no Ciak mi mandò a fotografare An- all'opera tonioni e io non stavo più nella pelle, perché finalmente vedevo quest’uomo a cui dovevo il mio sogno da giovane. Invece rimasi deluso perché non parlava a causa dell’ictus e quindi, a tutto quello che avrei voluto chiedergli, non poteva rispondermi. Aveva un occhio ridotto male e così organizzammo le foto facendogli indossare gli occhiali da sole; eppure, nonostante tutte le sue difficoltà, mentre io scattavo Antonioni continuava a guardare sempre verso la mia assistente, una ragazza molto carina. Allora l’ho fatta avvicinare a me e ho detto ad Antonioni: “Vediamo se adesso guarda verso di me!”, allora lui ha fatto una sorta di ghigno, una risatina che sono riuscito a beccare in uno scatto e che è diventata il mio ritratto ad Antonioni...
C’è un ricordo, o un incontro, che le è rimasta più nel cuore?
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John Travolta
Qualcosa di bello “Ho sempre lavorato per scavare in profondità in ogni personaggio, tendando di costruirlo al tempo stesso in una maniera molto concreta, come se stessi applicando una ricetta segreta da seguire passo passo” Com’è diventato un uomo di spettacolo?
padre si chiamava Salvatore Travolta: non erano però delle persone con delle vedute provinciali o che pensavano solo alla praticità dell’esistenza, non c’è mai stata assolutamente da parte loro nessuna resistenza nei confronti dell’arte, sotto qualunque forma si esprimesse. La mia decisione di diventare attore è qualcosa che veniva accolta e in un certo senso perfino fortemente sollecitata: questo aspetto è stato molto diverso dalle altre famiglie della mia generazione.
Fin da bambino, molto piccolo, ho respirato l’atmosfera dello spettacolo. Mia madre era un’attrice e una regista, mia sorella anche recitava: eravamo tutti ossessionati nella mia famiglia dal mondo del cinema. Ricordo che guardavamo sempre, per esempio, i film di Fellini come La strada e quelli con protagonista Sophia Loren come Ieri, oggi, domani: questi titoli rappresentavano dei veri punti di riferimento per me, lo spirito dello E che cosa le hanno insegnato spettacolo e dell’intrattenimento i suoi genitori per quanto mi è stato proprio trasmesso da riguarda l’elaborazione giovanissimo. Ho visto i film di di uno spettacolo, sotto il profilo così tanti attori importanti e famodella conoscenza? si che la spinta, in qualche modo, Direi sicuramente cose come la ad emulare il loro lavoro è stata quasi una scelta spontanea. La mia fiducia o la certezza nelle proprie famiglia è di origine siciliana, mio qualità. Mia madre era una grande
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Scena dal film Saturday Night Fever
regista e una bravissima e bellissima attrice, come ho detto prima. Aveva talento e lei, insieme agli altri componenti della mia famiglia, ha cercato di instillarmi, proprio come forma di insegnamento, l’aspirazione alla bravura, appunto, e il fatto di impegnarsi per rendersi davvero capaci di quello che siamo chiamati a fare. L’approccio al mestiere che mia madre seguiva era molto professionale e dunque,
pretazione: ci lasciava essere molto creativi e liberi nella resa di ogni nuovo personaggio.
a mia volta, ho cercato di seguirne l’esempio e di essere anch’io un professionista. Ho sempre lavorato per scavare in profondità in ogni personaggio, tendando di costruirlo al tempo stesso in una maniera molto concreta, come se stessi applicando una ricetta segreta da seguire passo passo. Tra l’altro, mia madre, come tutti i registi di talento, aveva un modo di lavorare estremamente delicato e attento, nel senso che riduceva al minimo il suo impatto e la sua presenza in una data inter-
mente ho realizzato un video che si chiama 3 to Tango, dove interpreto dei passi di tango. Il ballo ha fatto sempre parte della mia esistenza. A 17 anni, per esempio, ho fatto il provino per Jesus Christ Superstar, il musical dove dovevo recitare la parte di Gesù. Ero troppo giovane, quindi non fui preso, però il produttore che era un pezzo grosso dello star system americano scrisse su un pezzo di carta: “Questo ragazzo è troppo giovane per il ruolo, ma tenetelo d’occhio perché diventerà
Lei canta, balla e recita magnificamente; qual è la cosa che più la diverte fare sul palcoscenico?
Sicuramente la danza è la più divertente. Mi è sempre piaciuto tanto danzare e oggi mi manca il ballo. Ecco anche perché recente-
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qualcuno…”. Diversi anni dopo lo stesso produttore mi ha mostrato il foglietto con su scritto questo commento, dopo avermi offerto la parte in Grease. Non si sa mai realmente quando uno lascia il segno, anche in ciò che apparentemente sembra non andare bene può nascere qualcosa di bello. Un fatto che non porta immediati risultati concreti non puoi mai sapere verso quale magia sarà capace di condurti. E lo stesso vale per le occasioni perdute: tra i vari film che ho rifiutato di interpretare, per esempio, c’è stato Ufficiale e gentiluomo e quella parte poi è andata a Richard Gere; non credo che sia stato uno sbaglio per me, nonostante l’incredibile successo ricevuto dal film. In quel momento io ho preferito la vita reale rispetto al cinema, perché sono diventato un vero pilota di jet: non mi sono limitato soltanto ad interpretarlo.
cominciato ad agitare la testa facendo muovere questi capelli lunghi e mi sono messo anche un orecchino. Quentin alla fine ha accettato con entusiasmo; il suo cinema ha una composizione formale personalissima ed è costruito anche su dei dialoghi diventati, nel corso del tempo, quasi proverbiali. C’è spazio comunque sempre per delle piccole improvvisazioni. Quando sei davvero dentro ad un personaggio, devi pensare come nella vita lui si muoverebbe, cosa
Quando ha girato Pulp fiction, anni dopo Staying Alive, La febbre del sabato sera o Grease, è esploso nuovamente in tutto il mondo con una scena di ballo…
In Pulp fiction dovevo interpretare un personaggio particolare; nella sceneggiatura si diceva che quest’uomo avesse trascorso un paio di anni ad Amsterdam e ricordavo che, quando ero stato io stesso in quella città, di avere visto tante persone con i capelli lunghi, così ho suggerito al regista Quentin Tarantino di far diventare i miei capelli nel film allo stesso modo. Inizialmente lui non era per niente d’accordo, ma gli ho chiesto: “Proviamoci”, e allora mi sono fatto mettere tutte queste extension, così durante il provino davanti alla macchina da presa ho
potrebbe dire o pensare, e questo ti porta inevitabilmente a modificare certe battute, anche in modo impercettibile. Soltanto così il personaggio può acquisire una maggiore credibilità. Andando avanti con questo mestiere ho capito gradualmente che, per essere in grado di interpretare un personaggio nella sua pienezza, devo collocarlo come se fosse all’interno di uno specchio: in quel momento io sono lui, sono un altro da me, però in fondo c’è qualcosa che intrinsecamente mi appartiene.
Il backstage di Pulp Fiction, John Travolta balla insieme a Uma Thurman
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S EP NE T C R I O AL L D A M E U A SR I TC A E
Achille Lauro
QUELLO CHE MI PIACE
Ha detto più volte che i generi musicali non esistono più, che pop, punk, rock e musica contemporanea sono tutte un’unica cosa…
Fondamentalmente credo che la musica sia una forma d’arte abbastanza delicata, perché non è facile al giorno d’oggi cercare di non “Mettere delle etichette è guardarsi intorno e non seguire la rassicurante, è una mania dei nostri tempi. moda, non è facile cercare di fare Al contrario, io penso che tutto debba avere qualcosa che abbia valore per se stesun’evoluzione se no il mondo sarebbe noioso” si. È importante quando si scrive o si registra, nel modo di fare musica, partire sempre dal proprio stato d’animo che è determinante quando vogliamo comunicare qualcosa. Prendiamo l’amore, per esempio: è un motore importante per l’arte, diciamo che siamo in un’epoca in cui
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ci sono molti artisti che scrivono le canzoni d’amore con l’obiettivo di diventare famosi, senza un vero sentimento d’amore. E questa condizione, secondo me, non valorizza veramente quella che poi è la musica: tutti i ragazzi dovrebbero partire, per esprimersi, da un vero sentimento, di qualunque tipo sia. Se si ama davvero e si parla di ciò che si sta provando, allora si avranno dei risultati perché si riuscirà a trasmettere, a chi ascolta la musica, qualcosa di profondo. Io, nella mia carriera, sono sempre stato attento a descrivere come mi sentivo e, non dico certo di essere diventato un punto di riferimento o un modello di successo, però credo che la mia musica sia arrivata in qualche modo alle persone, sia il brano più intimo e malinconico, sia il brano più simpatico. E questo accade perché dietro ad ogni canzone non c’è una strategia, ma solo il desiderio di esternare ciò che provo. Il sentimento è qualcosa di talmente forte, che quando è vero contagia il pubblico. Questo, per me, è un periodo bello perché con il lavoro sono riuscito a dimostrare che facciamo solo quello che ci piace, senza etichette, quindi si può essere tutto o si può essere niente. Ogni canzone richiede per me un tempo lungo di elaborazione, anche mesi o anni: la velocità con cui noi scriviamo la musica e componiamo, la nostra passione, è molto più alta di quello che effettivamente è il mercato, ecco perché occorre piazzare certi progetti seguendo una linea nel tempo. Invece, oggi, in genere fare musica è qualcosa di ‘usa e getta’, i ragazzi hanno un approccio più veloce; una volta per registrare un brano su nastro bisognava aver risparmiato tanto dal punto di vista economico, bisognava
fare un percorso e chi arrivava alla fase finale aveva veramente combattuto una vita per arrivare a quel punto, ci aveva creduto talmente tanto e probabilmente aveva fatto anche una gavetta incredibile, passando a cantare in mille locali senza pubblico. Oggi un ragazzo che va in studio con 50 o 100 euro, che riesci bene o male ad avere in tasca, può registrare il suo FOTO LUCA DAMELIO
brano. Molti, grazie a questa velocità di arrivare al loro obiettivo, si scordano forse di tutta la parte che viene prima: la scrittura oppure ragionare sul brano per costruirlo prima dell’elaborazione della canzone in studio. Prima di registrare una canzone c’è tanto lavoro dietro: trovare l’ispirazione prima di tutto, pensare al concetto della canzone e svilupparlo, arrangiare tutto quello che è melodia, rivedere tutto e confrontarsi con le persone di cui ti fidi. Quando arrivo in studio, prima di mettermi a registrare io riapro sempre i brani: li rileggo con delle persone verso cui provo un’estrema fiducia, io metto bocca sulla musica e loro mettono bocca sulle parole. Ogni tanto mi prendono in giro perché mi dicono; Immagine di “Questa parola te la sei inventata”, e a Clara Bianucci
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volte è vero. Per esempio, in uno dei miei brani, La bella e la bestia, dice: “Proverebbero a tenerti tutti”, sì, ma “Non me”: questo non è proprio un italiano corretto, però non me suonava figo perché estremante personale ed esprimeva quello che provavo io. Quindi ho lasciato quel testo.
tralità. Chi entrerebbe in scena senza un costume? Oltre all’ambientazione, anche i costumi fanno parte di ogni spettacolo. Con la musica Lei parla ai ragazzi: si avverte questo tipo di responsabilità? O la libertà dell’artista predomina su tutto?
L’artista sicuramente parla alle nuove generazioni. È giusto non indurre a fare delle scemenze, e sotto Mettere delle etichette è rassicu- questo profilo c’è un fondo di responrante, è una mania dei nostri tempi. sabilità, ma gli artisti non sono degli Al contrario, io penso che tutto debba educatori. Se dipingo un quadro, avere un’evoluzione se no il mondo posso disegnare quello che voglio e sarebbe noioso. Anche nei film, per non devo pensare alla conclusione esempio: i personaggi iniziano in un che gli altri trarranno da quel quadro. modo e finiscono in un altro, maga- Ognuno ha un proprio pensiero, che È difficile riuscire ad esprimersi senza farsi ingabbiare in un’unica etichetta?
Achille-Ziggy Tavola omaggio del disegnatore Riccardo Atzeni
ri totalmente opposto. Etichettare è sbagliato, perché l’arte è in continua evoluzione. Io ho iniziato con il rap ed è stato un passaggio, anche se in realtà ero fuori anche da quel mondo. Mi sono sempre mostrato al pubblico con un’estetica eccentrica, perché il palco dove canto deve esprimere tea-
lo porta a pensare delle cose rispetto ad altre. Scrivere una canzone vuol dire comunicare uno stato d’animo, si tratta di una questione davvero intima: i primi dischi mi imbarazzavo molto a farli uscire… È giusto esprimere la propria arte in modo libero, ma rispettando sempre gli altri.
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DI GENERAZIONE... IN GENERAZIONE di Marco Giavatto
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
U
na fase di innamoramento che ci porta a produrre adrenalina e dopamina; viene meno il bisogno di dormire, di mangiare. Un’inspiegabile comodità nella fatica: questo è quello che hanno in comune tutti coloro che della professione attoriale hanno fatto una ragione di vita. Una costante, non modificabile con il passare del tempo, delle generazioni. Ma, in ognuno di noi, esiste anche una parte variabile: l’intensità, la volontà, la disciplina. Ci vuole talento, quello non lo trovi in nessun manuale, in nessun corso: o ci nasci, oppure niente da fare. La storia ci ha però insegnato che, a volte, vale di più chi si applica con dedizione che un pigro talento sprecato. Ma, se esiste un posto dove si usa ancora con cognizione l'espressione 'di generazione in generazione', questo è il teatro. Si conserva ancora un meccanismo artigianale nel passaggio di consegne. Al di là delle scuole, al di là del proprio percorso, arriva un momento in cui si stabilisce il contatto. Per i giovani avviene nelle prime tournée con i grandi attori: un bel giorno, emozionati, hanno conosciuto il simbolo dell'arte che rappresentano, il proprio futuro, lì, nel camerino del primo attore. Il rapporto con le generazioni passate è magnetico. Chiami ‘maestro' colui che è in grado di contribuire alla formazione di tanti, poiché dotato di rara destrezza e di originale abilità. Pochi, per ogni epoca, i maestri da seguire, e con vivace curiosità mi chiedo chi saranno quelli di domani. C’è una chiave di lettura, metaforicamente azzeccata, per individuare il posto che noi tutti occupiamo nel ‘fare teatro’: non è mai definitivo, sempre in continuo mutamento. È un immaginario asse cartesiano che pone nella linea orizzontale la materia e in quella verticale lo spirito (attoriale, s’intende): radicalizzarsi da una parte o dall’altra è sbagliato. Trovare la definizione del giusto punto di intersezione dell’attore che si ambisce ad essere è complicato, le varianti in gioco sono infinite. Noi, giovani attori o aspiranti tali, però, possiamo provare a non commettere l’errore di dare per scontato questo mestiere. Cerchiamo costantemente e in tutti i modi possibili di superare i nostri maestri, in modo da essere d’esempio. Insomma, responsabilizziamoci, perché chi reciterà trent’anni dopo di noi è già nato e abbiamo il dovere di lasciargli le ‘tavole’ del palcoscenico quanto meno come le abbiamo trovate o, forse, anche con qualcosa in più.
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S TP UE T CT A A I SA C L R EI TA T RU TR A E
Zerocalcare
come un armadillo “Io sono una persona timida e in genere non faccio leggere a nessuno i miei fumetti quando ancora non sono finiti, invece mi sono accorto che in Rete, inserendo subito delle storie brevi, la gente fa commenti in tempo reale regalandoti la voglia di migliorare ancora”
Come disegnatore di fumetti, un genere letterario non così tradizionale, è arrivato perfino a concorrere allo Strega; al principio, però, faceva fumetti online e pubblicava le sue strisce sul blog zerocalcare.it…
Ho cominciato a fare fumetti in maniera più continuativa utilizzando Internet. Sono contento quando le persone mi dicono che hanno letto i miei libri e che gli sono piaciuti; detto questo, però, non credo che i miei fumetti siano arrivati al Premio Strega per particolari meriti… Spesso in questo tipo di eventi si intercetta il movimento del mercato: il fumetto arriva alla cultura alta solo seguendo la motivazione di aver venduto tante copie. Esistono altri fumetti, sicu-
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ramente più belli dei miei, che non arrivano mai allo Strega perché rimangono fuori dal radar degli editori e non vengono mai letti dal grande pubblico. Al contrario, la Rete è un posto di scambio, dove tutti commentano e ciò può essere molto stimolante perché ti dà dei feedback sul tuo lavoro, proprio durante la fase di ideazione. Io sono una persona timida e in generale non faccio leggere a nessuno i miei fumetti quando ancora non sono finiti, invece mi sono accorto che in Rete, inserendo subito delle storie brevi, la gente fa commenti in tempo reale regalandoti la voglia di continuare e di migliorare ancora. Da questo punto di vista, avere un blog è una cosa molto bella, noranze. Rebibbia è il capolinea della che dà libertà. metropolitana, percepito già di per sé Il suo modo di scrivere mette in come un posto lontano. In realtà discena l’esistenza quotidiana e il sta solo venti minuti da Termini, non senso di appartenenza ad una è solo dove sta il carcere: ci sono le città, Roma, e più in particolare casette basse e le palme… È una vera ad un quartiere, Rebibbia. Che oasi. Il fatto di sentirti dire che quel cos’è l’identità, rispetto al luogo, quartiere è brutto ti rende ancora più secondo Lei? attaccato al luogo: pensi che quel poÈ complicata la questione dell’i- sto è anche tuo, che devi difenderlo. dentità, è un argomento contradLa figura dell’armadillo nelle sue dittorio. L’identitarismo, vissuto in storie rappresenta la coscienza. una chiave che ti porta a rifiutare chi Perché questa scelta? non appartiene alle tue tradizioni e Volevo rendere più dinamiche alla tua storia, è un male perché nel mondo che viviamo oggi dobbiamo le mie strisce. Altrimenti sarebbero aprirci, questa è l’unica vera possi- state tutte storie in cui i miei pensieri bilità. Però io ho una mia identità, a venivano descritti tramite didascalie cui sono molto attaccato, in maniera e invece impersonare come un altro viscerale. Questa identità riguarda il personaggio la mia coscienza mi ha luogo geografico dove sono cresciu- aiutato a realizzare dei controcampi to, Rebibbia, il mio quartiere. È un narrativi. L’armadillo mi sembrava pezzo di Roma che chiama per ana- adatto perché è un animale che si rilogia il resto del mondo, soprattutto chiude su se stesso e che diventa imdi un certo mondo: i centri sociali e permeabile all’esterno… Lo uso per la scena punk, tutto un universo che raffigurare l’aspetto più introverso rappresenta la minoranza delle mi- del mio carattere.
Nella foto Michele Rech in arte Zerocalcare
Immagine di Clara Bianucci
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Dai racconti di una giovane scrittrice...
PER TUTTA LA VITA di Orsola Lejeune
M
io nonno è sempre stato un uomo con la schiena diritta. Ha sempre avuto intorno a sé un alone di dignità e autorevolezza. Era il mio nonno e io mi fidavo di lui, in tutto e per tutto. Ancora oggi quando incontro persone che me lo raccontano come medico, uomo politico, come benefattore, io non lo riconosco. Lui era semplicemente il mio nonno. Aveva messo come regola che domenica ci fosse il pranzo di famiglia e se qualcuno mancava, doveva avere una buona giustificazione. Nessuno si sentiva forzato in questa tradizione, quella tavolata di circa 15 persone era un momento per aggiornarci, per imparare, per discutere, per volerci bene e tenerci uniti. A quella tavola si discuteva di tutto: di politica, attualità, di problemi personali, di accadimenti settimanali, piccoli o grandi. Noi bambini ascoltavamo, imparavamo e assorbivamo ogni cosa. Era un uomo onesto, verace e sempre allegro. Io me lo ricordo ancora che ride dei nostri giochi, me lo ricordo ancora con i pantaloni da campagna, le scarpe piene di fango di ritorno dall’orto, me lo ricordo con il bastone preso da un albero per le lunghe passeggiate in campagna, lui diceva che serviva per far scappare le vipere fra le frasche. Lui credeva nell’umanità, nella bontà delle persone, nella possibilità di migliorare e mettere tutti d’accordo. Per me arrivò anche il periodo dell’adolescenza. Fu durante uno di quei famosi pranzi che mi arrabbiai per la prima volta nella mia vita con lui. Non mi ricordo cosa fosse successo durante la settimana appena passata, non mi ricordo il motivo da cui scaturiva tanta rabbia, sicuramente non era una cosa importante ma mi aveva portato a mettere in discussione ciò che andava ripetendo mio nonno. “Nonno, tu continui a ripetere dell’onestà… Che è importante, che non bisogna mai metterla da parte, che non bisogna mai dimenticarla. Ti sembra un modo possibile di vivere?” “Certo. L’onestà è una delle cose più importanti nella vita.” “Ti sembra un mondo dove si può vivere da onesti? Tu vivi ancora nel tuo mondo. Quello di diversi anni fa. Oggi il furbo la vince, chi è onesto rimane indietro, chi è onesto rimane fregato. Tu ci hai insegnato, ci hai inculcato in
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tutte le maniere questo modo di vivere e guarda come va a finire… Rimango sempre fregata!” Ero arrabbiata con lui, con l’educazione che mi era stata impartita, con i principi che non riuscivo mai ad abbandonare e che mi creavano diversi problemi. Mi guardò seriamente negli occhi. “Orsola, è importante che tu lo capisca. Ora e per tutta la vita è importante che tu capisca questo principio fondamentale. Non è importante vincere, nemmeno diventare ricchi, né calpestare, né ingannare. La cosa più importante di tutte per vivere bene è che tu possa guardarti allo specchio prima di andare a dormire. Se potrai guardare te stessa negli occhi e andare a dormire sapendo di aver vissuto l’ultima giornata nel rispetto degli altri e con gli occhi limpidi, potrai dormire serena e senza preoccupazioni. Non importa ciò che succede intorno, non importa come sia il mondo o come potrà cam-
biare, un principio del genere non può e non deve mai essere abbandonato. Dovrai farlo per te stessa, più che per gli altri.” Rimasi in silenzio. Mi aveva detto queste parole con un forte sentimento, quasi disperato, con una serietà da adulto, con un’urgenza fortissima. Rimasi in silenzio e quelle parole mi rimasero dentro. Quelle parole mi appartengono da quando sono state pronunciate, rimangono una guida per tutta la vita che ho passato e per quella che ho davanti. “Orsola, lo vuoi un cioccolatino?” Mi aveva visto silenziosa durante quel pranzo, dopo l’ultimo e importante dialogo. “Lo vuoi un cioccolatino?” Immagine di Me lo chiese col sorriso, cercando di rasserenarmi. Clara Bianucci “Certo, nonno. Adoro i cioccolatini.”
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E C O L O G I C A M E N T E
Stefano Mancuso
DEMOCRAZIA VEGETALE “La nostra è una forma gerarchica e concentrata della diffusione del potere, mentre nell’universo delle piante è molto diverso: non ci sono organi al vertice e altri sotto che ne dipendono, ma tutto è ampiamente diffuso”
Essendo un professore universitario ed essendo molto seguito con il suo lavoro dai ragazzi, che idea si è fatto dei giovani?
Le nuove generazioni sono oggi molto diverse dal passato, per motivi contingenti: i mezzi di comunicazione sono differenti e, per esempio, anche la dizione, ma ciò non ha assolutamente nulla a che vedere con la qualità dell’elaborazione del pensiero. Trovo che i ragazzi abbiano una grandissima attenzione verso il futuro, come è ovvio che sia, e invece questo aspetto manca nel nostro pensiero contemporaneo, non solo nel nostro Paese. In genere si dice che i giovani non hanno sogni, invece è fondamentale per loro avere degli ideali
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per cui lavorare ed impegnarsi; anzi, sono spesso frustrati di fronte all’impossibilità di poter realizzare ciò a cui aspirano. Uno degli esempi più classici è la questione dell’ambiente. In un recente sondaggio su questo argomento, in cui veniva chiesto l’interesse per il tema dell’ambiente in relazione alle varie fasce di età, è emerso che le persone sopra i 65 anni non se ne occupano assolutamente, a differenza dei giovani. Questo è un problema: il potere è in mano alle generazioni più adulte, a coloro che hanno la possibilità di cambiare in maniera significativa il sistema delle cose, agli amministratori delegati delle grandi aziende. E invece sono i giovani ad avere ragione: il riscaldamento globale è il problema unico, il più importante, che si trova a dover affrontare l’umanità. I ragazzi che oggi hanno vent’anni si troveranno a vivere a sessant’anni in un mondo completamente diverso; l’umanità, nel corso della sua storia, non si è mai trovata a cercare un modo per risolvere un problema così enorme come quello del riscaldamento globale. I ragazzi sono gli unici gruppi di individui che veramente hanno attenzione per questo tipo di problema, ma per motivi abbastanza contingenti e deludenti non hanno il potere per cambiare lo stato delle cose. Dall’altra parte gli adulti hanno risposte del tutto insoddisfacenti a questi temi e siamo lontani da trovare una soluzione.
e inoltre porto avanti una forte attività divulgativa, ad ampio raggio: si va dalla produzione artistica, alla scrittura di libri, ai film e alla musica. Tutto aiuta, per riuscire a far capire che c’è un problema enorme da risolvere. E io penso che ci possa essere anche una soluzione semplice: dobbiamo ricorrere alle piante, soltanto attraverso una presenza e un utilizzo ocula- “In genere si dice che i giovani to dell’elemento non hanno sogni, invece naturale possia- è fondamentale per loro avere mo risolvere in degli ideali per cui lavorare maniera agevole, ed impegnarsi; anzi, sono senza stravolge- spesso frustrati di fronte re i nostri stili di all’impossibilità di poter vita, il problema realizzare ciò a cui aspirano” ambientale, e soprattutto nelle città. Il vero problema ambientale richiede un cambiamento delle nostre città perché è proprio in questi luoghi che si produce l’80% dell’inquinamento mondiale. È lo stile di vita urbano che deve trasformarsi e i giovani sono, infatti, gli animali urbani per eccellenza. Lei unisce spesso la componente naturale con la parola democrazia, un termine molto importante e forse troppo abusato nella nostra società; come si può spiegare il concetto di democrazia vegetale?
Democrazia vuol dire che la maggior quantità di persone possibili deve essere rappresentata e purtroppo ultimamente la democrazia, sotto questo profilo, è cambiata: acIl suo lavoro è centrato quasi cade che la democrazia crei la rapesclusivamente sul pericolo presentanza di piccoli gruppi e non dei danni causati dall’uomo della vera maggioranza. Perché io alla natura che lo circonda… parlo di democrazia vegetale? TutIl mio lavoro si svolge essenzial- ta la nostra idea di organizzazione Immagine di mente in laboratorio, facendo ricerca, della società è costruita sulla cultu- Clara Bianucci
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Nella foto Stefano Mancuso, Professore all'Università degli Studi di Firenze e Direttore del Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale
ra del corpo di noi esseri animali: a capo di tutto c’è il cervello che governa gli altri organi con delle funzioni specializzate. Noi abbiamo ripreso l’organizzazione del nostro corpo e l’abbiamo applicata praticamente su tutto nella nostra esistenza quotidiana: l’organigramma di qualsiasi organizzazione umana segue la medesima falsariga, in un rapporto verticistico: un capo e sot-
orizzontale, soprattutto è davvero robusta: le piante sono infatti soggette a infinite predazioni, quindi per loro stessa natura sono forti, perché devono resistere a innumerevoli fattori esterni. Nelle organizzazioni umane forse ultimamente ci si sta aprendo un po’ a questo modello vegetale, pensiamo ad Internet o a Wikipedia, per esempio: la Rete ha un’organizzazione diffu-
to i delegati, i vari organi specializzati, che rispondono a questo capo. La nostra è una forma gerarchica e concentrata della diffusione del potere, mentre nell’universo delle piante è molto diverso: non ci sono organi al vertice e altri sotto che ne dipendono, ma tutto è ampiamente diffuso. È il corpo della pianta nel suo insieme che è in grado di ragionare: tutta la pianta respira, tutta la pianta assorbe nutrimento, non ci sono solo delle parti che hanno delle singole specializzazioni. Per questo motivo, l’organizzazione delle piante è dunque democratica ed
sa completamente decentralizzata, cha ha dimostrato di avere delle capacità infinite di produzione e di resistenza. Noi abbiamo costruito, come esseri umani, la realtà che conosciamo ispirandoci al modello animale, però questa è una struttura del tutto minoritaria: gli animali costituiscono lo 0,3% della vita, mentre l’85% è fatto di piante. Ecco, anche perché io credo fermamente che invece si debba apprendere quanto più possibile dal mondo delle piante. Le piante possono diventare delle maestre nel nostro futuro.
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vista la visione generale della nostra esistenza. Via via abbiamo approfondito sempre più la comprensione dei Sul mondo vegetale i Maestri meccanismi minuti che regolano il non sono molti, perché è una realtà funzionamento della realtà, ma abche nel corso del tempo è sempre biamo forse perduto il quadro glostata poco presa in considerazione. bale. Una volta qualcuno ha detto Charles Darwin non è soltanto che più passa il tempo e diventiamo l’autore della teoria dell’evoluzione, esperti maggiormente di cose inutili, ma è soprattutto un grandissimo sempre più piccole. Arriverà un tembotanico. Ha scritto sette libri sulle po in cui sapremo tutto, ma del nienpiante, forse è l’argomento che ha te… In effetti è questa la parabola che scritto di più, con una capacità di rappresenta un rischio per l’uomo, approfondimento, di comprensione questo è l’andamento che abbiamo e anche di lungimiranza che ancora intrapreso. Nel caso della vita ciò è oggi è inarrivabile. In assoluto veramente paradossale, è un peccato Charles Darwin è il mio autore che non si può perdonare, perché anprimario di riferimento. diamo incontro all’ignoranza... In questa sua attenzione per il mondo naturale, quali sono stati i suoi Maestri di riferimento?
Il suo è un approccio scientifico alla vita e, nonostante questo, è comunque ottimista per il futuro?
Credo che l’atteggiamento catastrofista sul futuro dell’umanità sia esagerato. È vero, non riusciamo a percepire quali siano i problemi reali e siamo lontani, per ora, a trovare delle giuste soluzioni. Ma io sono molto fiducioso nell’uomo e nei giovani: sono sicuro che saranno proprio loro ad invertire la rotta. Il mio lavoro è sempre proiettato verso il futuro, come è abbastanza normale che sia per chiunque faccia ricerca. Ma è ovvio che non ci può essere nessun tipo di futuro se non si ha una comprensione chiara, soprattutto del nostro tempo contemporaneo e anche di ciò che è avvenuto in precedenza. Newton diceva che noi esseri umani siamo come “dei nani sulle spalle dei giganti”, e questa affermazione è certamente veritiera per quanto riguarda la conoscenza della vita. Rifarsi al passato è divenuto fondamentale perché nell’ultimo secolo si è persa di
Tra i numerosi progetti che porta avanti c’è anche uno spettacolo teatrale, Botanica. Come si riesce a trasformare l’elemento scientifico in qualcosa di artistico? Apparentemente sembrano due mondi molto lontani…
Questo evento nasce dal fatto che, dopo aver scritto oltre trecento articoli sulle riviste per scienziati, ho notato che la mia capacità di incidere su ciò che pensavano le persone era pari a zero. Non cambiava assolutamente nulla. L’arte, e più in generale qualunque tipo di espressione artistica come il teatro, la letteratura, il cinema o la musica, possiedono una specie di capacità miracolosa: sono in grado di comunicare dei messaggi unificati con un impatto incredibilmente maggiore sul pensiero e sull’azione della gente. L’uomo ha molta difficoltà a percepire i dati e i numeri reali, ecco perché credo che utilizzare il mezzo artistico per mandare dei messaggi di ordine scientifico sia diventata una assoluta priorità.
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M Joaquin Phoenix
i sento così pieno di gratitudine adesso. Non mi sento migliore di nessuno degli altri colleghi candidati o di nessuno in questa sala, perché condividiamo lo stesso amore, ossia l’amore per il cinema. E proprio questa forma di espressione mi ha dato una vita straordinaria. Non so cosa sarei senza. Ma penso che il dono più grande che il cinema ha regalato a me, come a molte persone come me, è l’opportunità di usare la nostra voce per chi non ha voce. Ho pensato molto ad alcune delle questioni dolorose che stiamo affrontando come collettività. Penso che a volte pensiamo o ci viene fatto credere che sosteniamo cause diverse. Io invece vedo molte cose in comune. Penso che, sia che si parli di disuguaglianza di genere o di razzismo o di diritti Lgbtq o dei diritti degli indios o dei diritti degli animali, stiamo sempre parlando di una lotta contro l’ingiustizia. Stiamo parlando di lottare contro la convinzione che una nazione, un popolo, una razza, un genere, una specie, abbia il diritto di dominare, controllare, usare e sfruttare qualcun altro impunemente. Penso che stiamo sempre più diventando disconnessi dalla natura. Molti di noi hanno, colpevolmente, una visione egocentrica del mondo, e tutti crediamo di essere il centro dell’universo. Saccheggiamo la natura e le sue risorse. Ci sentiamo in diritto di inseminare artificialmente una mucca e rubarle il suo cucciolo, anche se il suo pianto angosciante è inequivocabile. Poi le prendiamo il latte, destinato al suo vitellino, e lo mettiamo nel nostro caffè e nei nostri cereali. Temiamo l’idea di un cambiamento personale, perché pensiamo di dover sacrificare qualcosa, di dover rinunciare a qualcosa. Ma noi esseri umani, al nostro meglio, siamo così creativi, ingegnosi, che possiamo creare e sviluppare dei sistemi di cambiamento vantaggiosi per tutti gli esseri senzienti e per l’ambiente. Sono stato un farabutto e un egoista. A volte sono stato anche crudele, una persona con la quale era difficile lavorare, ma sono grato che molti di voi in questa stessa sala mi abbiano concesso una seconda possibilità. Credo che diamo il meglio di noi quando ci sosteniamo l’uno con l’altro. Non quando ci annulliamo a vicenda per i nostri errori del passato, ma quando ci aiutiamo a crescere, quando ci insegniamo a vicenda e quando andiamo insieme verso il riscatto. Quando aveva 17 anni, mio fratello [River] scrisse questo verso: «Corri in soccorso di qualcuno con amore e seguirà la pace».
Discorso alla premiazione degli Oscar 2020 Miglior Attore Protagonista per Joker
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A piedi scalzi, cammino. Con gli occhi aperti osservo questo mondo. Incanto e bellezza Tutto quello che trovo, tutto quello c’è. Incanto e bellezza Con delicatezza cammino, in ascolto del silenzio che c’è. Con le mani sul cuore, cammino, Testimone oggi di quello che domani tu sarai.
. A.
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La Storia racconta...
I RAGAZZI DEL PARADISO di Adela Gjata
C
ome in un’opera teatrale dove ci sono protagonisti, secondi ruoli e comparse, la sala all’italiana possiede posti differenziati, acquisiti o disposti secondo la gerarchia sociale. Il teatro serve da lente alla città, rispetta e svela l’organizzazione urbana. Soprattutto il teatro all’italiana, spazio di relazione, interno e assoluto, un ambiente che fonda – citando Fabrizio Cruciani – una «forma mentis del teatro». Qua l’esperienza dello spettatore si pone a metà strada tra la cultura e il tempo libero. Tra il Sette e l’Ottocento i palchi venivano abitati da quella fetta della società che il sociologo statunitense Thorstein Veblen chiama «la classe del tempo libero ostentato», la cui aspirazione maggiore consiste nel sottolineare la propria presenza, sfoggiare ricchezze e toilette, ignorando il lavoro. I palchetti diventano, specialmente per le dame, piccoli palcoscenici individuali dove celebrare il piacere di mettersi in mostra.
All’origine il pubblico popolare occupa la platea, mentre i signori – le figure rappresentative della città – si distribuiscono lungo i palchetti, unica posizione che possa soddisfare la loro duplice vocazione di attori e spettatori insieme. Due spazi e due posizioni diverse, poiché, se nei palchi ci si siede, in platea si resta in piedi. In alto si civetta, in basso ci si agita. Il teatro all’italiana preserva a lungo l’opposizione tra gli spettatori seduti e gli spettatori in piedi. I primi si possono distrarre, i secondi meno; i primi possono essere mondani, i secondi tutt’altro; i primi affermano il potere di uno status sociale, i secondi soprattutto una natura. Più tardi la borghesia eliminerà il popolo dalla platea per spingerlo in ‘paradiso’, nel loggione, mentre questa prenderà posto, democraticamente, su sedie tutte uguali, di fronte alla scena. Quando gli spettatori della platea sono costretti a sedersi, la cultura si sostituisce al gioco, l’ordine soffoca la libertà. La ‘piccionaia’, che rifiuterà una simile autorità, resisterà all’addomesticamento ancora qualche decennio. Ultimo nido della resistenza, marginalizzata e disprezzata, la galleria diventa un riparo dalle norme che regolano il teatro, rifugio di giovani curiosi e di autentici esperti che mal sopportano le millanterie della scena e l’esibizione della sala. Sbocciato a cavallo tra il XIX e il XX secolo per offrire uno spazio al pubblico popolare, il loggione è spesso focolare di azioni e voci controcorrenti, legati ai fervori giovanili dei partecipanti. Esso spezza il monotono bon ton della sala,
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animandola. Se la platea e i palchi sono galanti, la galleria si mostra sanguigna, talvolta refrattaria all’ordine, indomabile. Da lei ci possiamo aspettare fischi e libertà di dissenso. Il 12 gennaio 1910, nel corso della prima serata futurista al Politeama Rossetti di Trieste, il ventenne Vittorio Osvaldo Tomassini si fece notare dalle forze dell’ordine per un monito lanciato dal loggione contro i disturbatori. È tra i gradoni della galleria che i più giovani sentono per la prima volta la magia della scena, è là che si accendono passioni e desideri. Claudio Abbado più volte avrebbe ricordato la prima impressione indelebile dell’infanzia, l’ascolto dal loggione della Scala dei Notturni di Debussy diretti nel 1941 da Antonio Guarnieri «quasi con un dito». Il ‘paradiso’ della sala è anche lo spazio per eccellenza dei giovani abbonati, raccolti al Teatro della Pergola attorno a una formula: ETI21, un’iniziativa innovativa introdotta negli anni Settanta, poi adottata da molti teatri italia-
ni, che dava la possibilità ai giovani al di sotto del ventunesimo anno di età di acquistare biglietti a prezzi ridottissimi. Lo slogan era «A teatro senza il Provveditore», perché la scelta di andare a teatro era delegata esclusivamente ai ragazzi, svincolati dall’intermediazione della scuola e degli insegnanti. Grazie all’ETI21 un’intera generazione prese l’abitudine di recarsi alla Pergola con la stessa naturalezza con cui andava al cinema, riuscendo in certi anni a toccare la quota di 20.000 iscritti, tanto che, nel 1980, si decise di innalzare la soglia ai ventisei anni d’età. Oggi, degna erede dell’ETI26 è la PYC (Pergola Young Card), una comunità di giovani spettatori under30 che va alla Pergola non solo per vedere gli spettacoli, ma per vivere il luogo teatrale, esplorando il dietro le quinte e incontrando gli artisti più amati, dandosi appuntamento a mostre d’arte e feste conviviali. Per ritrovare insieme la dimensione rituale Foto di Filippo Manzini e familiare del teatro.
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UNO SPETTACOLO DI PUBBLICO
Generazioni a Teatro nelle immagini dell’Archivio Storico Foto Locchi
I
l 22 giugno 1718, in occasione del debutto dell’opera Scanderbeg di Antonio Vivaldi, il Teatro della Pergola apriva le porte ai suoi primi spettatori paganti; fino a quel momento infatti, a partire dalla sua inaugurazione avvenuta nel 1657, il Teatro aveva ospitato solo spettacoli e celebrazioni riservate alla corte medicea e ai suoi invitati. La mostra Spettatori. Il Teatro della Pergola e il suo pubblico, racconta le curiosità e gli aneddoti, le mode e le (cattive) abitudini del pubblico nel corso dei secoli attraverso documenti storici, oggetti, costumi e immagini d’epoca. Il Teatro è stato nella sua storia palcoscenico di opere in musica, operette, spettacoli di prosa delle più importanti Compagnie; ha ospitato veglioni e festini e giocatori d’azzardo ai tavoli di bambara, faraone e bassetta. Ma è stato palcoscenico anche di molto altro ancora. Nei primi anni del Novecento, ad esempio, poteva accadere di vedere il Regio Teatro della Pergola affollato da spettatori animati che assistevano agli eventi sportivi, come la boxe organizzata direttamente sul palcoscenico, o la scherma e il pattinaggio, ospitati in Saloncino; da appassionati di musica leggera che partecipavano al concerto del Quartetto Millepiedi e dai piccoli spettatori del Teatro Pubblico al della Fiaba; il pubblico elegante per le serate mondane che si mostrava nel Teatro della Pergola foyer o quello “protagonista” delle sfide canore di Voci e volti della fortuna, per lo spettacolo programma condotto da Enzo Tortora precursore del celebre CanzonisLa bella Addormentata sima. La situazione del Teatro della Pergola rifletteva, in un certo senso, della Compagnia quella dell’Italia, attraversata in quegli anni da un’alternanza di periodi amatoriale “Il Pergolino” di crisi e voglia di riscatto. Testimoni ne sono le immagini provenienti (1957) dall’Archivio Storico Foto Locchi, nato a Firenze in Piazza della Repubbli©Archivio Foto Locchi ca (allora Piazza Vittorio Emanuele) nel 1924 come studio d'arte e tecnica di Gabriele Guagni
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fotografica. Come nella tradizione della tipica bottega artigiana i giovani apprendevano il mestiere attraverso l'esempio e l'insegnamento dei più anziani, ai quali era affidato il compito di tramandarne “lo stile Foto Locchi”, semplice, pulito, caratterizzato dalla necessità di cogliere l'attimo tipica del fotogiornalismo. I vecchi maestri cercavano di infondere negli apprendisti la consapevolezza che attraverso il proprio obiettivo l’artista non si limita a documentare la realtà ma la rappresenta, interpretandola con sforzo creativo. La lezione che si è sempre insegnata da Foto Locchi è che il fotografo professionista non deve essere solo un bravo tecnico, ma deve saper sviluppare una propria sensibilità artistica capace di rendere ogni scatto un’opera fotografica. L’Archivio Storico Foto Locchi, posto sotto la tutela del Ministero per i beni culturali, è oggi considerato per il suo alto valore storico e artistico uno tra i più importanti a livello nazionale. Un corpus d’immagini in costante divenire. Immagini del mondo dello sport e dello spettacolo, della moda e della grande Storia, istantanee di consuetudini e quotidianità della vita di ieri e di oggi. Cinque milioni di scatti capaci non soltanto di documentare la storia di Firenze ma di riportare in vita atmosfere ed emozioni in un susseguirsi di attimi preziosi ed evocativi. Alcune di queste sono presenti all’interno della mostra Spettatori: la selezione è stata ispirata dalla volontà di offrire non solo uno sguardo diverso sul pubblico, ma anche uno sguardo sul pubblico diverso che frequentava il Teatro nella prima metà del XX secolo. Un pubblico assolutamente eterogeneo, ma accumunato dalla voglia di ritrovarsi per ridere, piangere, tifare, meravigliarsi… Un’esperienza da vivere tutti insieme, come nell’immagine che ritrae un’intera famiglia all’interno di un palco alla fine degli anni Cinquanta, sospesi nell’attesa emozione che precede l’inizio di uno spettacolo per bambini. Istantanea di un Teatro, allora come oggi, ponte tra le generazioni.
FOTO FILIPPO MANZINI
La mostra Spettatori. Il Teatro della Pergola e il suo pubblico nella Sala Oro del Teatro della Pergola
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FIRENZECONTEMPORANEA
WikiPedro
TI RACCONTO LA MIA CITTÀ
Diventare Wikipedro – ovvero fare dei video da caricare su Internet per spiegare con ironia i luoghi più conosciuti, ma anche quegli angoli più nascosti, della città di Firenze – è stato difficile?
Tutto è nato come un gioco, anche se nell’idea di partenza volevo diventare un giovane imprenditore “È fondamentale per me avere dato ispirato dal video di Marco Monteun’impronta umana, perché è come se avessi magno, Il mio viaggio a New York. abbattuto ogni barriera esistente Partendo da questa ispirazione ho tra chi fa il video e il pubblico che lo guarda” dato una mia impronta a questa idea che si è evoluta continuamente, seguendo il mio isitinto. Avendo un appartamento da affittare ai turisti, mi sono detto: perché non creare un blog? Volevo dare delle notizie utili per chi veniva a Firenze e allo stesso tempo far divertire gli spettatori nei
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miei video, facendoli venire a dormire a casa mia. In realtà non è mai venuto nessuno, quindi ho capito di avere fallito questo mio proposito, ma mi divertivo troppo a fare video. Ho cominciato a raccontare sul Web Firenze, come se fossi al bar con gli amici. Adesso sono molto seguito sui Social: Youtube, Instagram o Facebook, dove si arriva a circa 150.000 followers…
per cogliere l’imprevisto. Tutto è improvvisazione: arriva qualcuno che mi saluta e si ferma nel video insieme a me. Una volta, per esempio, sono cascato dalla bicicletta mentre giravo oppure, durante un altro video, mi hanno arrestato i carabinieri. Interpretavo un contadino e sono arrivato in piazza Signoria con una pala per zappare: sono arrivati i carabinieri perché la pala è considerata come un’arma… Ci sono dei video a cui La storia più antica di Firenze sono particolarmente legato come il e della Toscana passa da un video per San Valentino sui cinque linguaggio giovane… luoghi dove baciare la fidanzata opQuesti video rispecchiano total- pure quelli in giro per la Toscana, i mente la mia personalità. Io non sono Bagni di San Filippo o l’Abbazia di una guida turistica e non sono, per San Galgano: se entri dentro la psicoesempio, laureato in storia dell’arte. logia di questi luoghi non puoi non Sono semplicemente appassionato emozionarti. di Firenze e della Toscana e, forse, la Al di là della curiosità storica ciò fortuna è che ho trovato il mio modo che affiora in video è la curiosità di raccontare l’arte in maniera simdall’umanità della città patica e leggera, accessibile a tutti. Il di Firenze… video come mezzo di comunicazione È fondamentale per me avere dato mi piace moltissimo, così ho cercato di unire questa grande passione per il un’impronta umana, perché è come cinema e per il teatro con qualcosa di se avessi abbattuto ogni barriera esistente tra chi fa il video e il pubblico storico ed utile. che lo guarda. Autore e spettatore: Come si svolge, dal punto di vista siamo uguali, quello che faccio io lo pratico, l’elaborazione di ogni puoi fare anche tu… Io non ti sto inpuntata? segnando niente, mostro solo delle Mi riprendo con il telefono, que- informazioni utili. Il modo di parsto è il format e così deve rimanere: lare in video, abbastanza spontaneo, non mi piace essere ripreso da altri… credo che sia arrivato al cuore della Preparo la parte storica facendo ri- gente. Fra poco uscirà anche un mio cerche perché il linguaggio che utiliz- libro edito da Mondadori, Non sei zo è scherzoso, ma non mi piacereb- mai stato a Firenze se…, una guida be mancare di rispetto a un museo, a di Firenze divisa in quattro quartieri un teatro o a un’opera d’arte. L’ironia piena di tutte le curiosità che di solito è una forma di intrattenimento che racconto. La bellezza va valorizzata comunque rappresenta sempre me in una chiave futura. Io cerco di imstesso. Il coinvolgimento del pubbli- pegnarmi valorizzando musei meno co nel video girato è importante: la conosciuti e meno visti: mi piacerebtelecamera deve essere sempre accesa be un turismo più di qualità.
Nella foto Pietro Resta in arte Wikipedro Foto di Giacomo Biancalani
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S P E C I A L E P I N O C C H I O
Matteo Garrone
LUCI, COLORI ED EMOZIONI
Con il film Pinocchio, Lei ha detto di aver realizzato un sogno che aveva da tanti anni…
Ho iniziato a disegnare la storia di Pinocchio quando avevo 6 anni; è un racconto che mi accompagna, fin da allora. Come regista era difficile resistere alla tentazione di realizzare un film che raccontasse la storia “Nel mio modo di raccontare ho esplorato di questo burattino che diventa un più volte quel delicato territorio bambino in carne ed ossa. Ho avuto dove si mescolano reale e soprannaturale: la fortuna di avere accanto a me dei il cinema, per me, è un mondo magico” compagni di viaggio straordinari: tutti gli attori mi hanno aiutato a dare la vita ai personaggi della storia del libro e hanno contribuito, inoltre, a caratterizzare il film con leggerezza e ironia. Pinocchio è un film per tutti: piccoli e grandi. Da dove nasce la sua fascinazione
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per le favole? Sicuramente nel mio modo di raccontare ho esplorato più volte quel delicato territorio dove si mescolano reale e soprannaturale: il cinema, per me, è un mondo magico. Credo, però, che questo film sia un caso a sé e sono, al tempo stesso, molto felice perché riconosco che ogni fotogramma mi appartiene profondamente. Abbiamo cercato di fare un film che potesse arrivare a tutti, un film dal carattere popolare, così come è il grande capolavoro di Collodi. Pinocchio è un libro che nasce come un testo universale, che si rivolge a tutti indistintamente, al di là delle diverse classi sociali e dell’età. Il grande sforzo che abbiamo intrapreso è stato di cercare di realizzare un film che potesse far riscoprire un classico, un’opera così viva nell’immaginario collettivo, al di là delle varie generazioni nel corso del tempo. La sfida è di riuscire a sorprendere e incantare il pubblico con questa narrazione, ancora una volta in più. Quali sono i suoi punti di riferimento per la costruzione di questa storia?
Se devo pensare ad un punto di vista figurativo, sicuramente sono partito dalle immagini di Mazzanti, che è stato il primo illustratore di Pinocchio e cha ha disegnato stando a contatto con l’autore, Carlo Collodi. Inoltre, sono stato influenzato dalla pittura dei macchiaioli e dalla loro semplicità cromatica, così come lo sceneggiato TV Pinocchio di Luigi Comencini del 1972 mi ha ispirato per certe atmosfere e il senso di povertà. Forse nel film si può ritrovare anche un'eco del cinema di Tim
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
Burton, un regista che conosco bene e che ammiro. Tutto però è arrivato in maniera non premeditata, ma soltanto andando avanti con il lavoro. Che cosa rende il messaggio di Pinocchio così universale e trasversale?
Si tratta di una narrazione che può essere letta in mille modi diversi, seguendo tante chiavi di lettura. Soprattutto è una grande storia d’amore tra un padre e un figlio: attraverso una serie di errori il figlio capisce l’importanza della redenzione e torna ad amare il padre. È anche la storia di un bambino che rifugge dall’ordine costituito per inseguire i propri piaceri: un bambino debole nei confronti delle tentazioni e per questo tratteggiato con un carattere universale. Qualsiasi bambino si può riconoscere nel personaggio, in questo universo talmente ricco di immagini e di personaggi così tipicamente italiani. Il paesaggio stesso diventa un ulteriore personaggio della storia, con le luci, i colori, l’atmosfera che emerge visivamente. Il lavoro di ricerca per le ambientazio-
Nella foto il Pinocchio di Jim Dine, immagine della mostra Enigma Pinocchio. Da Giacometti a LaChapelle, prodotta e organizzata da Fondazione CR Firenze e Fondazione Parchi Monumentali Bardini e Peyron e Generali Valore Cultura con il coordinamento del Gruppo Arthemisia, in collaborazione con Unicoop Firenze e con il patrocinio del Comune di Firenze e la Fondazione Nazionale Carlo Collodi
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ni è durato anni, non è facile trovare dei luoghi che oggi siano rimasti integri, sappiamo quanto purtroppo l’Italia sia stata distrutta dagli anni ‘60 in poi. Ogni film mi fa pensare ad un luogo e i luoghi per me sono importanti per raccontare l’anima dei personaggi. Le nostre riprese filmiche si sono sviluppate tra la Toscana e la Puglia; nel momento che
“Soprattutto Pinocchio ho affrontato è una grande storia d’amore questa storia ho tra un padre e un figlio” capito che non
Nella foto il regista Matteo Garrone sul set del film Pinocchio
Collodi. Il nostro è un film italiano, con le maestranze che rappresentano l’eccellenza del nostro Paese – dagli effetti speciali, la scenografia, il montaggio, il suono fino, per esempio, ai truccatori e al costumista – e con facce italiane: i volti degli attori hanno reso questa storia commovente, con tutte quelle sfumature che mi auguro Collodi avrebbe ama-
to vedere. Il piccolo Federico Ielapi, il bambino del nostro film, si è sottoposto a quattro ore di trucco tutti i giorera importante ni sul set per mesi ed ha resistito in girare tutto il film in Toscana, an- maniera eroica… Il libro di Collodi che perché la Toscana di oggi è ben è pieno di animali e la difficoltà magdiversa da quella di fine Ottocento. giore, nella trasposizione filmica, è La narrazione, per certi versi, può stata quella di renderli antropomorfi. essere più vicina ad un paesaggio La nostra attenzione principale, proincontaminato che abbiamo trovato seguendo con l’elaborazione del film, in un’altra parte d’Italia come la Pu- è stata di mantenere sempre un granglia, piuttosto che andare a girare a de rispetto nei confronti dell’autore.
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A
tutti i giovani e tra questi ci sono anche i miei tre figli. Per vent’anni ho fatto il calciatore. Questo certamente non mi rende un maestro di vita ma ora mi piacerebbe occuparmi dei giovani, così preziosi e insostituibili. So che i giovani non amano i consigli, anch’io ero così. Io però, senza arroganza, qualche consiglio lo vorrei dare. Vorrei invitare i giovani a riflettere su queste parole. La prima è passione. Non c’è vita senza passione e questa la potete cercare solo dentro di voi. Non date retta a chi vi vuole influenzare. La passione si può anche trasmettere. Guardatevi dentro e lì la troverete. La seconda è gioia. Quello che rende una vita riuscita è gioire di quello che si fa. Ricordo la gioia nel volto stanco di mio padre e nel sorriso di mia madre nel metterci tutti e dieci, la sera, intorno ad una tavola apparecchiata. E’ proprio dalla gioia che nasce quella sensazione di completezza di chi sta vivendo pienamente la propria vita. La terza è coraggio. E’ fondamentale essere coraggiosi e imparare a vivere credendo in voi stessi. Avere problemi o sbagliare è semplicemente una cosa naturale, è necessario non farsi sconfiggere. La cosa più importante è sentirsi soddisfatti sapendo di aver dato tutto, di aver fatto del proprio meglio, a modo vostro e secondo le vostre capacità. Guardate al futuro e avanzate. La quarta è successo. Se seguite gioia e passione, allora si può parlare anche del successo, di questa parola che sembra essere rimasta l’unico valore nella nostra società. Ma cosa vuol dire avere successo? Per me vuol dire realizzare nella vita ciò che si è, nel modo migliore. E questo vale sia per il calciatore, il falegname, l’agricoltore o il fornaio. La quinta è sacrificio. Ho subito da giovane incidenti alle ginocchia che mi hanno creato problemi e dolori per tutta la carriera. Sono riuscito a convivere e convivo con quei dolori grazie al sacrificio che, vi assicuro, non è una brutta parola. Il sacrificio è l’essenza della vita, la porta per capirne il significato. La giovinezza è il tempo della costruzione, per questo dovete allenarvi bene adesso. Da ciò dipenderà il vostro futuro. Per questo gli anni che state vivendo sono così importanti. Non credete a ciò che arriva senza sacrificio. Non fidatevi, è un’illusione. Lo sforzo e il duro lavoro costruiscono un ponte tra i sogni e la realtà. Per tutta la vita ho fatto in modo di rimanere il ragazzo che ero, che amava il calcio e andava a letto stringendo al petto un pallone. Oggi ho solo qualche capello bianco in più e tante vecchie cicatrici. Ma i miei sogni sono sempre gli stessi. Coloro che fanno sforzi continui sono sempre pieni di speranza. Abbracciate i vostri sogni e inseguiteli. Gli eroi quotidiani sono quelli che danno sempre il massimo nella vita. Ed è proprio questo che auguro a Voi ed anche ai miei figli.
Lettera di Roberto Baggio ai giovani Festival di Sanremo 2013
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A proposito di Orazio Costa
PARLANDO CON mAURO CARBONOLI Ricordo la prima volta che ho visto il Maestro Orazio Costa. Ho lucidissimo in mente il mio esame di ammissione all’Accademia di Arte Drammatica ‘Silvio d’Amico’. Io arrivai da Milano insieme a un gruppo di amici, per fare l’esame per il corso di attori. Mi chiese subito: “Perché fai l’esame, ti interessa il teatro, conosci qualcosa di teatro?”. Alle selezioni si presentava gente che non aveva neanche la più pallida idea di cosa fosse il teatro e io invece potevo vantare la mia conoscenza del lavoro di Strehler e Grassi da prima del '47 e avevo visto nascere Il Piccolo Teatro. Così, ottenni subito la sua simpatia. Erano anche gli anni in cui frequentava, come studente di regia Andrea Camilleri, il quale mi precedeva negli studi di un anno. Con lui e con tutti gli altri si stava sempre insieme. Orazio Costa e “Tutto il teatro italiano deve Andrea Camilleri erano due personaggi completamenqualcosa a Orazio Costa: te opposti: uno cattolico e cristiano, l’altro comunista e Lui è stato un vero Maestro, donnaiolo. Camilleri, una volta cominciata l’Accademia era quel tipo di insegnante che come allievo unico di regia con Orazio Costa, decise si metteva accanto a te, studente ad un certo punto di ritirarsi e ritornare in Sicilia. Gli e giovane attore, analizzando sembrava che l’incompatibilità di opinioni con il Maeinsieme il testo passo passo, stro fosse ormai inconciliabile… Così Camilleri venne trovando ogni colpo di scena chiamato dalla madre di Costa, la quale gli comunicò e cercando di scoprire il vero che andandosene avrebbe dato un dolore troppo grande nodo drammatico” al figlio e questo non lo avrebbe potuto sopportare. La figura della madre è stata fondamentale per Orazio, a tal punto che arrivò persino ad aggiungere alla sua firma, il cognome di lei, Giovangigli. Quello fra Camilleri e Costa è stato un rapporto di odio, ma in realtà di grande affetto e stima pur nella diversità di caratteri, che è andato avanti per tutta la vita. Personalmente, io ebbi un incontro immediatamente positivo con Orazio Costa. In quel momento ero il più giovane tra i ragazzi che frequentavano l'Accademia e già dal primo anno Costa preparava i due spettacoli che hanno segnato a lungo la nostra permanenza in Accademia, il Mistero della vita, un insieme di laudi umbre messe insieme da d’Amico, e l’Aminta di Torquato Tasso. In particolare, per l’Aminta occorreva un attore giovane che recitasse il prologo di Amore e Costa scelse me, l'unico fra i ragazzi del primo anno. La mattina andavo a lezione in Accademia, poi spesso il pomeriggio si provavano nel teatrino i due spettacoli: ebbi, insomma, questa fortuna di seguire da subito il lavoro di Orazio Costa
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molto da vicino. Costa era un asceta del teatro, un uomo che poteva apparire anche gelido per certi versi, con forti simpatie ed antipatie. In particolare, cosa significava godere delle simpatie di Orazio Costa? Per esempio, quando avevamo fame noi studenti riuscivamo a farci invitare a pranzo in viale Parioli 10, dove lui abitava con la mamma. In quell’epoca, siamo intorno agli anni Cinquanta, entrò in commercio il primo registratore per fermare l’audio della voce e Costa ne comprò subito uno; quando pronunciavamo le nostre battute, lui ci registrava sempre e se sbagliavi, non si scappava più: ti faceva riascoltare il tuo errore più volte, andando avanti e indietro, e poi riavvolgendo ancora il nastro, con la registrazione. L’ascolto del registratore era diventato come un gioco, ma al tempo stesso uno strumento di tortura: andavi a casa di Costa a mangiare e per ore sentivi queste registrazioni… Sul modello del Piccolo Teatro di Milano aveva messo su il Piccolo Teatro di Roma, riorganizzando il Teatrino di via Vittoria, che era il Teatrino dell’Accademia, poi trasferitosi al Teatro delle Arti. I giovani attori usciti dall’Accademia e che allora popolavano quel teatro erano Tino Buazzelli, Nino Manfredi, Rossella Falk, Paolo Panelli, Bice Valori… E naturalmente Salvo Randone, l’attore che forse Costa preferì per tutta la vita. Ognuno di questi grandissimi attori poi è diventato a capo di una Compagnia a se stante; tutto il teatro italiano deve qualcosa a Orazio Costa: lui è stato un vero Maestro, era quel tipo di insegnante che si metteva accanto a te, studente e giovane attore, analizzando insieme il testo passo passo, trovando ogni colpo di scena e cercando di scoprire il vero nodo drammatico. Un regista che ha preso in mano l’opera di Alfieri, che ai più risultava assolutamente ostica e sconosciuta, e l’ha invece resa popolare. Com’è avvenuto l’incontro con il Metodo Mimico, disciplina essenziale per diventare attori, secondo la metodologia ideata da Orazio Costa e su sollecitazione del regista francese Jacques Copeau? Il gruppo che si è diplomato all’Accademia prima di me, e che comprendeva attori come Manfredi o Panelli, è stato il primo ad accogliere questo Metodo. Il mio triennio ci credeva e non ci credeva, spesso ci scherzavamo su: “Devo essere come la goccia che si stacca dal rubinetto? Si vede che quella che ho rappresentato era una goccia calda?”. Al di là di quelle che potevano essere le nostre battute estemporanee, certamente eravamo tutti affascinati da ciò che Orazio Costa ci raccontava. A volte ci spiegava il Metodo Mimico partendo da esempi concreti della vita quotidiana: anche guidare la macchina era per lui tutta una questione di mimica. Qualche anno dopo il Metodo Mimico esplose nel panorama teatrale in tutta la sua potenza; gli spettacoli diretti da Orazio Costa erano meravigliosi e naturali al tempo stesso: in quegli anni, infatti, utilizzava delle scene semplicissime che si portava dietro dall’Atelier di Copeau: un praticabile, due scale, e quasi tutti gli spettacoli venivano fatti su questo modello di palcoscenico. Era un uomo capace di provare anche per dodici ore di fila, impegnandosi dalla mattina alla sera senza tregua, con un desiderio inarrestabile di approfondire e scavare ogni problematica. Un grandissimo regista e un Maestro, vero, al pari di Visconti o Strehler.
Mauro Carbonoli è una figura di spicco del teatro italiano del secondo Novecento. Nato a Milano nel 1929, dopo aver frequentato l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica diretta da Silvio d’Amico, è stato attore di prosa, cinema e televisione, e ha collaborato con alcuni tra i maggiori artisti della sua epoca. Tra i fondatori della prima cooperativa teatrale in Italia, Teatro-Insieme, ha quindi indirizzato la sua carriera sempre più verso l’attività organizzativa, ricoprendo il ruolo di Direttore del Teatro di Roma, del Piccolo di Milano, dell’Associazione teatrale dell’Emilia Romagna, del Teatro Eliseo, del Teatro Pubblico Pugliese e dello Stabile del Veneto. Nel 1983 ha fondato, con Sergio Fantoni, la cooperativa Contemporanea ’83. Dal 1992 al 1996 è stato Direttore generale dell’Ente Teatrale Italiano. È autore del libro Anche a dispetto di Amleto, Cinquant'anni di teatro e altro (edizione Aracne 2019)
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Quaderni della Pergola |Passato Presente Futuro A cura di Angela Consagra, Alice Nidito, Clara Bianucci, Gabriele Guagni, Filippo Manzini, Orsola Lejeune, Matteo Brighenti, Adela Gjata, Clara Neri, Marco Giavatto, Lavinia Bussotti, Dalila Chessa, Valentina De Matteis, Simona Mammoli, Davide Pietroniro, Silvia Meneghini, Laura Bardazzi, Alice Pieroni
Via della Pergola 12/32 - 50121 Firenze Centralino 055.22641 www.teatrodellapergola.com www.teatrodellatoscana.it
Progetto grafico di Walter Sardonini/Social Design Impaginazione ed elaborazione grafica di Clara Bianucci
Info e contatti quaderni@teatrodellapergola.com
Interviste di Angela Consagra La poesia a pagina 67 e l’editoriale in quarta di copertina sono di Alice Nidito Le immagini alle pagine 2, 3 e 47 sono di Clara Bianucci
Fondazione Teatro della Toscana Presidente Tommaso Sacchi
Le fotografie di copertina, in seconda di copertina, della lavagna di Eduardo De Filippo e la fotografia a pagina 33 sono di Filippo Manzini
Consiglio di Amministrazione Vice Presidente Antonio Chelli, Antonia Ida Fontana, Giovanni Fossi, Maurizio Frittelli, Elisa Giobbi, Duccio Maria Traina Collegio dei Revisori dei Conti Presidente Roberto Giacinti, Tamara Governi, Adriano Moracci, Gianni Tarozzi, Giuseppe Urso
La rubrica Dietro le quinte è a cura di Walter Sardonini La Lettera ai giovani di Lino Guanciale è tratta dal programma televisivo di Serena Dandini Stati Generali. L’intervista a John Travolta è frutto dell’incontro con l’artista in occasione della Festa del Cinema di Roma 2019. L’intervista ad Achille Lauro è stata ispirata dall’incontro con il pubblico nell’ambito del Wired Festival 2019 a Firenze. L’intervista a Matteo Garrone fa riferimento alla conferenza stampa di presentazione del suo film Pinocchio.
Direttore Generale Marco Giorgetti
Si ringraziano per l’amichevole collaborazione Elisa Di Lupo e Costanza Venturini
© 2020 FONDAZIONE TEATRO DELLA TOSCANA
CHIUSO IN TIPOGRAFIA IL 24/02/2020
La lavagna con la scritta EDUARDO viene conservata nei locali del teatro e fa riferimento al corso di drammaturgia che Eduardo De Filippo realizzò nei primi anni Ottanta al Teatro della Pergola. Questa citazione ha ispirato la nascita dei Quaderni della Pergola come elemento figurativo delle prime copertine. E ancora continua ad essere un simbolo del nostro modo di concepire il teatro.
Passaggi generazionali; la vita che si trasmette di generazione in generazione. Quali errori evitare? Quali sogni incoraggiare? Essere giovani cosa significa? Quali le responsabilità per gli adulti in questi tempi attuali? E quali le responsabilità di questi giovani ventenni? Sono i tempi di Greta Thunberg, dei cambiamenti climatici, della vita iniziata e consumata sui Social indistintamente da giovani e meno giovani. Quali i rischi e quali le occasioni di vera crescita evolutiva? I cosiddetti vecchi hanno concretamente qualcosa da passare culturalmente e socialmente ai giovani di oggi? O sono i giovani di oggi le guide che potrebbero condurre la società attraverso questi tempi presenti in cammino verso il futuro? E in tutto questo il teatro cosa ci racconta, cosa può testimoniare e insegnare ? Teatro, come luogo sacro, antico e ancora esistente, dove per eccellenza si celebrano il presente, il passato ed il futuro come molti artisti hanno raccontato partendo dalla loro esperienza, dai loro ricordi, dai propri sogni. Un dialogo continuo dentro e fuori il palcoscenico per provare a creare arte e bellezza, a servizio di questo nostro mondo in divenire.