Quaderni della Pergola | La Diversità

Page 1



Quaderni della Pergola | 1

Il nuovo numero dei Quaderni della Pergola ha per tema la diversità. La diversità ha mille sfaccettature, impossibile esaurirla in un solo Quaderno; impossibile decifrarla e connotarla in un unico aggettivo. La diversità è ciò che ci rende unici e irripetibili. La bellezza si nutre di diversità. La diversità sconfigge la noia e la ripetitività. Diversità è colorare il mondo con infiniti arcobaleni di mille tonalità. E’ suonare note sconosciute, parlare lingue di Paesi lontani; conoscere storie mai sentite, indossare abiti stravaganti; camminare su sentieri mai battuti, cambiare punto di vista in ogni situazione. La diversità è non avere paura di osare o di sbagliare. La diversità è ricchezza; è evoluzione e trasformazione. In questo Quaderno si alternano artisti così tanto diversi gli uni dagli altri: registi, attori, fotografi, scrittori, atleti, poeti, giovani donne, uomini saggi, giovani attori e Maestri di teatro, attori comici e drammatici. Ognuno con la propria storia, la propria ricerca ma tutti con la stessa voglia di condividere e di ascoltare. E così, lasciandoci con il saluto Maya “In Lak’ech, Io Sono un altro Te Stesso”, che il racconto abbia inizio…

2. Erri De Luca 3. Marco Tullio Giordana 9. Liliana Cavani 12. Tullio Solenghi 15. Con altri occhi 24. Robert Wilson 30. Willem Dafoe 33. Dal diario di un’attrice straniera... 34. La parola al pubblico 35. Dai palcoscenici del Teatro della Toscana 40. Massimo Ranieri 43. Gioele Dix 45. Nancy Brilli 47. La Storia racconta... 49. Jonathan Safran Foer 52. Fabio Volo 54. Oliviero Toscani 57. Maurizio Lombardi 60. Lorenzo Baglioni 63. Speciale Arte - David Bowie 66. Ai Wei Wei. Libero 69. Dai racconti di una giovane scrittice 71. Raccontando Una giornata particolare 73. A proposito di Orazio Costa 76. I volti della diversità


2 | Quaderni della Pergola

Oh Capitano, mio Capitano! di Erri De Luca

C

onsidero valore ogni forma di vita, la neve, la fragola, la mosca. / Considero valore il regno minerale, l’assemblea delle stelle. / Considero valore il vino finché dura il pasto, un sorriso involontario, la stanchezza di chi non si è risparmiato, due vecchi che si amano. / Considero valore quello che domani non varrà più niente e quello che oggi vale ancora poco. / Considero valore tutte le ferite. / Considero valore risparmiare acqua, riparare un paio di scarpe, tacere in tempo, accorrere a un grido, chiedere permesso prima di sedersi, provare gratitudine senza ricordare di che. / Considero valore sapere in una stanza dov’è il nord, qual è il nome del vento che sta asciugando il bucato. / Considero valore il viaggio del vagabondo, la clausura della monaca, la pazienza del condannato, qualunque colpa sia. / Considero valore l’uso del verbo amare e l’ipotesi che esista un creatore. / Molti di questi valori non ho conosciuto.

Valore, da Opera sull’acqua e altre poesie, Einaudi, Torino 2002 IMMAGINE CLARA BIANUCCI


Quaderni della Pergola | 3

Marco Tullio Giordana SCENA DOPO SCENA di Angela Consagra

La regia di Questi fantasmi! segna la ripartenza della Compagnia di Teatro di Luca De Filippo dopo la sua prematura scomparsa. Che cosa significa per Lei raccogliere questa eredità? La prematura scomparsa di Luca De Filippo è stata per tutti quelli che lo amavano uno shock. A me reso ancor più insopportabile dal fatto che la nostra amicizia era appena nata, ancora verde, e non aveva potuto maturare ancora i suoi frutti. Per questo quando Carolina Rosi, la sua battagliera compagna in teatro come nella vita, mi ha chiesto di continuare i progetti che stavamo accarezzando, ho subito aderito con entusiasmo. Per me, più che raccogliere un’eredità, si

“Vorrei dare l’illusione allo spettatore di trovarsi lì quasi di nascosto, di essere un voyeur che s’intrufola nelle vite degli altri” tratta di continuare il lavoro che Luca ha svolto sul repertorio di Eduardo, un lavoro che definirei di precisione filologica e contemporaneamente di continuo aggiornamento. Questo non ha significato per Luca l’asserzione di un unico paradigma né lo sbarramento di altre strade (tant’è vero che le commedie di Eduardo sono sempre state a disposizione anche di altre compagnie), ma per lui,

che lo sentiva “nel sangue”, il mondo di Eduardo non poteva che essere legato alle intenzioni del suo Autore, intenzioni di cui era stato addirittura testimone. Ovviamente non potrò fare io la stessa cosa, ma per quel che mi sarà possibile voglio rimanere fedele a quell’esempio.

Da quali particolari elementi è partito per la realizzazione di questa idea registica? Per la messinscena ha preso spunto da certi elementi legati alla tradizione o piuttosto ricorrono nella rappresentazione influenze diverse, anche cinematografiche? Il manoscritto originale del 1946, lo stesso riprodotto in filigrana nel manifesto dello spettacolo, dà indicazioni dettagliate. Assieme a Gianni Carluccio – che cura le scene e le luci dello spettacolo – abbiamo inteso riprodurre l’ambiente e l’arredo che Eduardo descrive in modo puntiglioso. Tuttavia non si tratta di una scena realistica (anche se non mancano i panni stesi e l’evocazione del palazzo “dello Spagnuolo”). Tutta la scena, mobili, pavimento, materia, è come fosse stata dilavata, coperta da una polvere impalpabile. Una scena che tende al monocromatismo evocando un’immagine emersa dalla memoria, come se l’ambientazione stessa fosse un fantasma. Per sua natura il cinema obbliga a un certo realismo; a meno che non si tratti di un fantasy, la realtà è la materia stessa del cinema, la sua carne. La luce può farla percepire in modo diverso, alterarne i colori, trasfigurarla, ma un mare sarà sempre un mare, un deserto un deserto, un albero un albero. In teatro invece ci si può liberare dal debito realistico addirittura nei materiali. Quinte, fondali, arredi, possono esser fatti con qualunque cosa. Lo stesso per i costumi, qui disegnati da Francesca Sar-


4 | Quaderni della Pergola

tori con allusione agli anni ‘40/‘50, ma interpretati in chiave più stilizzata. Per chi viene dal cinema questa possibilità di affrancarsi dal realismo è una magnifica liberazione.

In passato Lei ha affrontato per il teatro la drammaturgia contemporanea, da Siciliano a Stoppard e Tóibín… È con lo stesso spirito che si è avvicinato a un autore come Eduardo De Filippo che appartiene a un immaginario e a una memoria collettiva? Si è sempre liberi in teatro? Eduardo resta uno dei grandi del ‘900, conosciuto e rappresentato, insieme a Pirandello, anche fuori dai nostri confini. Grandezza che non è sbiadita

“La noia è il mio nemico mortale (non solo in teatro o al cinema, anche e soprattutto nella vita!), dunque spero sempre che nei miei spettacoli non faccia mai capolino”

passionevole, non rigido come quello dei moralisti. Si riconosce in Pasquale perlomeno la qualità del sognatore, del visionario. Che non si arrende anche quando tutti gli altri vedono in lui solo un fallito. Altrimenti perché Maria starebbe con lui, perché non l’ha già lasciato? Per tornaconto, per vigliaccheria? E se avesse invece intravisto qualcosa in lui di commovente, di suggestivo? Se ne avesse colto la voglia di vivere, di cacciare la testa fuori dall’acqua? La disperata vitalità, come avrebbe detto Pasolini?

Quali caratteristiche del teatro di Eduardo De Filippo sente più vicino a Lei? Forse proprio la posizione in cui sa mettersi rispetto ai suoi personaggi. È sempre con loro, mai sopra o sotto o di fianco. Non si sente diverso né migliore. Anche quando li maledice, si capisce che li ama.

In Questi fantasmi! sono presenti un lato comico ed uno più tragico come elementi che caratterizzano la commedia, in perfetto equilibrio tra loro. In un certo senso anche i suoi film mantengono questa stessa dualità narrativa?

col tempo, anzi l’attualità di un testo come Questi fantasmi! è addirittura sconcertante. Non pensiamo solo al quadro d’epoca, alla Napoli del dopoguerra, Magari fosse così, è un grande comall’arte di arrangiarsi, alla presenza li- plimento! Da quando ho cominciato beratrice/dominatrice degli Alleati. Il a frequentare cinema, opera e teatro tipo incarnato da Pasquale Lojacono - e - molto presto nella mia vita! - sono semreplicato nelle figure di Alfredo, di Ga- pre stato affascinato dagli autori che stone, del portiere Raffaele - con la sua sapevo utilizzare le due maschere, la coinconcludenza, i tentativi di sfangarla, mica e la tragica, trascinarmi dal pianto la disinvoltura morale, l’opportunismo, al riso. Euripide, Shakespeare, Corneille, i sogni ingenui e le meschinità, non è Molière, Manzoni, Cechov, Shaw, Ibmolto diverso dai connazionali d’oggi. sen… per dire i primi che mi vengono La grandezza di Eduardo sta nel non er- in mente. Per non parlare dei musicisti: gersi a giudice, nel non sentirsi migliore Cimarosa, Mozart, Rossini, Britten… o di lui. Non lo condanna né lo assolve, dei cineasti: Renoir, Wilder, Welles, Hisemplicemente lo rappresenta. Senza tchcock, Buñuel, Fellini, Woody Allen. sconti e senza stizza. È uno sguardo com- Inevitabile subirne l’influenza.


Quaderni della Pergola | 5

Dal punto di vista della regia, quali sono le diversità nell’impostazione di una messinscena per il cinema, la TV o il teatro? Parto da un’idea di naturalezza, di disinvoltura, di scioltezza nell’eloquio. Addirittura di velocità, di tempo (inteso in senso musicale). Questo perché mi sembra che il fraseggio, il flusso della recitazione, non debba mai essere interrotto o alterato, prendersi pause abusive. Non per un fatto di noia (anche la velocità può risultare noiosa!) ma perché vorrei dare l’illusione allo spettatore di trovarsi lì quasi di nascosto, di essere un voyeur che s’intrufola – che s’ammocca come dice Eduardo – nelle vite degli altri. Questo non sarebbe possibile ove la recitazione risultasse ieratica e pomposa, le parole pronunciate anziché dette. Ovviamente questa naturalezza è frutto, per quanto riguarda gli attori, di un’abilissima contraffazione, di un sofisticatissimo artificio. Al cinema è più facile controllarlo perché il microfono e la cinepresa sono vicini e come ultima risorsa c’è sempre il montaggio. A teatro bisogna portare la voce, farsi sentire anche in fondo alla sala (per questo prediligo i teatri all’italiana) e soprattutto dal vivo, non si può sbagliare! Questo comporta un artificio ancora più elaborato. Quando riesce però – e per riuscirci bisogna che gli attori non abbiano incertezze sulla memoria, bisogna che recitino in automatico, come in trance! – l’illusione della naturalezza è assoluta.

Da La meglio gioventù a Quando sei nato non puoi più nasconderti, fino a Romanzo di una strage: un tratto che caratterizza i suoi film è la pluralità di punti di vista ed è come se cercasse di mettere in scena “le ragioni di ciascuno,

anche le più perverse”. Il suo modo di raccontare una storia è cambiato nel corso del tempo o il primo approccio all’origine di un’idea è sempre il medesimo? Perdo molto tempo sulle sceneggiature, non solo su quelle in cui sono direttamente coinvolto sin dall’origine,

FOTO FABIO LOVINO

ma anche su quelle che mi vengono proposte e che non firmo. Mi sembra impossibile impadronirmi di tutti gli elementi se non approfondisco, leggo, rileggo, riscrivo. Durante i provini (dedico alla formazione del cast molto tempo) spesso mi rendo conto della funzionalità o meno di certe battute sentendole in bocca agli attori e anche in


6 | Quaderni della Pergola


Quaderni della Pergola | 7

quella fase intervengo e correggo. Ma solo durante le riprese, sul set, mentre si organizza la scena e sento dal vivo le battute, solo lì capisco veramente cosa fare. Cosa funziona e cosa sembra invece letterario, troppo scritto. Quindi anche lì, improvvisando o facendo ricorso alle tante varianti studiate a tavolino, accettando o filtrando il contributo creativo degli attori e dei collaboratori, continuo a intervenire, a cambiare. A tagliare anche, perché spesso basta un gesto, uno sguardo, a rendere inutili tante parole. A teatro è tutto diverso. Per me il testo è sacro, piuttosto che cambiare una battuta passo giorni interi a studiare cosa voleva dire l’Autore e perché non l’ha tagliata lui. In The Coast of Utopia, che consisteva in un dattiloscritto di circa 400 pagine, non ho tagliato una sola battuta, con grande soddisfazione di Tom Stoppard. Il testo è come un personaggio vivente, nessuno ha il diritto di amputarlo. Si può magari scegliere meglio la frase (quando si tratta di traduzioni) ma mi rifiuto di prendere la scorciatoia del taglio. Mi sembra che grondi sangue. Si tratta di trovare il modo giusto per dirlo, di faticare un po’ con gli attori, provare e riprovare finché non appare la strada buona. Ovviamente durante questo lavoro il testo cambia spesso prospettiva, vengono fuori altre intenzioni, si illuminano gli angoli bui, si scoprono mille sfumature in più. Una delle cose che più mi piacciono del teatro è proprio il tavolino. Quando senti leggere e ti rendi conto di tante cose che ti erano sfuggite. Faccio un esempio: in Questi fantasmi! il personaggio di Maria è in apparenza una donna irresoluta e fragile. Si è data ad Alfredo ma non vuole lasciare il marito. Forse addirittura non può (all’epoca non c’era il divorzio e la Questura poteva arrestarti per infedel-

tà!). Subisce, non prende mai l’iniziativa. Nel finale scopre che anche Alfredo l’ha lasciata, ma non ci sono indicazioni sulle sue reazioni. Vi ho intuito la possibilità di interpretare il personaggio

“Per me il testo è sacro, piuttosto che cambiare una battuta passo giorni interi a studiare cosa voleva dire l’Autore e perché non l’ha tagliata lui. Mi rifiuto di prendere la scorciatoia del taglio. Mi sembra che grondi sangue” in modo addirittura antitetico rispetto alla tradizione. Non una vittima, ma il contrario: una donna volitiva e forte, ancora innamorata del marito, non completamente disillusa. Non voglio anticipare cosa farà nel finale, sarà una delle sorprese di questa messinscena. Ciò che mi preme dire è che tutte le battute del testo sono perfettamente compatibili con questa intuizione, non c’è stato bisogno di cambiare una virgola o tagliare qualcosa che rimanesse scomodo. Un’ambivalenza dunque prevista, se non addirittura suggerita, dallo stesso Eduardo.

Lei ha affermato che “il bello del cinema è di riuscire ad amare e vedere cose diverse tra loro, anche antitetiche…”; qual è l’aspetto da cui parte, il più importante per Lei, nell’ideazione di una regia: l’attenzione per lo spazio, il rapporto con gli attori… Si comincia con la lettura, poi si va in piedi. Spesso la scena non è disponibile, dunque bisogna usare solo i tracciati, come nei film di Lars von Trier. Non ho ancora uno schema preciso in testa, faccio muovere gli attori secondo

Nella pagina accanto, la prima pagina manoscritta del testo autografo Questi Fanstasmi! di Eduardo


8 | Quaderni della Pergola

come verrebbe loro naturale. Guardo da fuori saltellando per tutto il teatro, cambiando continuamente posizione (voglio che tutti gli spettatori lo vedano bene!). Comincio a formulare uno schema. Scena dopo scena, curando di consumare tutto lo spazio, provando e ripetendo, poco alla volta la prossemica si precisa, la regia prende forma. Quando si comincia con le luci poi le cose diven-

corrivo per captarne la benevolenza, niente di sguaiato. Vorrei incuriosirlo, appassionarlo, soprattutto fargli seguire la storia senza annoiarlo. Chiedo di collaborare con la sua intelligenza, la sua perspicacia, la sua sensibilità. Trattandosi di un pubblico già in partenza motivato (il teatro è ancora frequentato da una sorta di élite) dovrebbe essere più facile, ma non sempre è detto. Mi

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

tano ancora più chiare. Preso di petto tutto insieme lo spettacolo è invincibile, ma sezionandolo in tante piccole parti e affrontandole una alla volta, come gli Orazi e i Curiazi, alla fine riesco ad averne ragione. Curiosamente faccio la stessa cosa anche sul set, magari mettendo meno rigorosamente a punto gli attori perché non voglio che il loro jeu diventi troppo meccanico.

Il pubblico: che cos’è per Lei? Quando dirige, pensa mai ai suoi potenziali spettatori? Ci penso sempre, anche se non voglio assecondarlo sempre. Nel senso che non vorrei mai fare niente di

preoccupo molto dei piani d’ascolto, di quando gli attori restano in attesa durante i lunghi monologhi degli altri e non sanno cosa fare. Mi preoccupo sempre che sappiano cosa fare e che le loro azioni o espressioni abbiano una giustificazione drammaturgica, non siano buttate lì tanto per riempire il vuoto. La noia è il mio nemico mortale (non solo in teatro o al cinema, anche e soprattutto nella vita!), dunque spero sempre che nei miei spettacoli non faccia mai capolino. In Questi fantasmi!, sia per la generosità del testo che per la brillantezza della compagnia, posso azzardarmi a garantire che non succederà.


Quaderni della Pergola | 9

Liliana Cavani IL MIRACOLO DI OGNI SERA Filumena Marturano è la sua prima regia teatrale, dopo aver girato tanti film e diverse opere liriche; che cosa l’ha spinta verso il palcoscenico? È vero che in passato aveva detto dei no importanti nell’ambito del teatro di prosa come, per esempio, a Paolo Grassi? Ho accettato l’invito generoso e ottimista di Geppy Gleijeses quando mi ha proposto questo lavoro. È un testo che mi piace moltissimo da sempre, ho an-

“Eduardo era un conoscitore del genere umano, del suo meglio e del suo peggio” che amato il film di De Sica con Sofia Loren e Mastroianni (con lui ho realizzato due film). Un’opera di grande impegno morale e oltretutto in anticipo sui tempi e scritto senza retorica, ma con la naturalezza della vita. Un capolavoro.

Lei ha descritto Filumena Marturano come una “grande storia d’amore che parla di etica della vita...” Filumena e Domenico sono al centro di un problema etico antichissimo e sempre attuale: di chi sono i figli, i figli nati fuori dal matrimonio? Al tempo di questa scrittura (1946), la legge non proteggeva questi “figli” considerati “il-

legittimi” (fuori dalla legge), una legge ferma al Medioevo. Filumena vi si ribella con la lucidità e una forza così generose da riuscire a trascinare l’ignaro borghese Domenico a capire il valore degli affetti fondamentali delle nostre vite. Sono stata fortunata ad avere due attori perfetti per il ruolo. Mi ci sono appassionata ed ho lavorato con la felicità che provo con i film. Dapprima temevo il testo in “napoletano” perché tante parole inizialmente mi sfuggivano, ma la forza recitativa che esprimeva Mariangela D’Abbraccio (tenace sostenitrice del testo) mi ha infine convinto che era giusto non cambiare nulla. Filumena è donna di popolo e così deve essere la sua lingua. Approfondendo il testo (che è un vero testo morale) mi ha commosso la bravura di Eduardo perché non ha composto un manifesto sociale con sapore didascalico come c’era il rischio che fosse. Nel cinema lo si sarebbe chiamato un film “impegnato” (si diceva così) cioè politicamente corretto. Di questi film ne sono stati fatti tanti, ma tra i più riusciti e più belli ci sono quelli di De Sica (il mio regista preferito) e proprio su Napoli: Napoli milionaria e L’oro di Napoli (capolavori). Forse è grazie a questi film che ho imparato ad amare e a capire un poco Napoli, la sua particolare cultura antichissima e sempre tanto viva. Quando preparavo il film La pelle ho parlato tanto con Roberto De Simone, profondo conoscitore della cultura napoletana (e campana) e questo mi aiutò moltissimo.

Lei conosceva e frequentava Eduardo De Filippo… Eduardo l’ho conosciuto perché avevamo la stessa avvocato-agente-amica (Teresa De Simone) e allora l’ho frequentato. Era simpatico, molto acuto, eppure c’era una nota amara che a


10 | Quaderni della Pergola

volte appariva. Era il napoletano che sapeva vedere nella realtà che appare degli aspetti che altri non afferrano. Paure? Preveggenze? Dolore? Non era banalmente pessimismo o ottimismo, ma qualcosa di più complesso. È che Eduardo De Filippo Eduardo era un sensibilissimo conoscie Liliana Cavani, tore del genere umano, del suo meglio e 1972 del suo peggio.

ze, Parigi, Milano, Zurigo…) però è la prosa a essere più simile al cinema, sia pure con grandi diversità. Al cinema si prova una scena, si gira e si passa oltre. La segretaria di edizione traccia una linea sulle pagine “girate” e non si ripete più. In teatro si ripete continuamente il testo. C’è modo di approfondire di più, c’è la possibilità di ottenere a volte da-

FOTO MARIO TURSI

“Ho avuto attori nel cinema così bravi che recitavano se stessi e la recitazione si umanizzava” Quale può essere l’apporto del fare cinematografico applicato alla regia di un testo teatrale? Il mio battesimo nella prosa (ammesso che ci sia poi un seguito) non poteva accadere con un’opera teatrale migliore di questa. Avevo lavorato in teatro per quindici opere liriche (Firen-

gli attori delle sfumature di recitazione che nel cinema non sempre si afferrano. L’attore poi in teatro è nudo, va in scena nudo ogni volta, misurato dal pubblico ogni volta. È indifeso contro la possibile indifferenza del pubblico e la sua incertezza o la stanchezza. Insomma, l’attore a teatro deve essere “nuovo di zecca” tutte le sere. “Non so come ci riescano” mi dico. È come se bevessero qualcosa che li fa essere “il personaggio”. Un po’ la regola del Dottor Jekyll e Mister Hyde e puoi quasi domandarti alla fine chi


Quaderni della Pergola | 11

è per davvero questo attore che “im- garde, Mastroianni, John Malkovich, persona” così bene quel personaggio? Charlotte Rampling, Claudia CardinaQuale è il limite racchiuso in quello le, Dominique Sanda, Helena Bonham che definiamo “persona”? Ma anche il Carter, ecc...) e mi ricordo scene intencinema ha i suoi misteri. Al comando se dove la recitazione si trasformava del regista: “azione!” l’attore (già cari- in “essenza”, cioè essere non l’attore co?) “impersona” il suo “personaggio”. che “impersona” il “personaggio”, ma In che modo? In modo giusto, oggettivo, l’attore che esprime se stesso essendosi perfetto come vuole il regista? Forse sì, infilato molto dentro ai meandri dell’ema forse no. Alla parola “azione” l’attore bravo cerca di essere il personaggio “Il teatro è abbastanza simile alla che c’è in sceneggiatura, quello che in vita. Ci si ripete e ci si rinnova ogni fase preparatoria il regista ha spiegato e rispiegato. Certo, cerca di farlo, ma giorno nelle nostre case, inconsciamente (se è l’attore giusto per si prova ad essere felici, la parte) rivela presto parte di se stesso. ad aggiustare le cose, Persona, personaggio, interpretazione sono parole ben poco stabili. Basta un si prova e riprova ad amare” dolore, una tristezza, una disperazione improvvisa a cambiare la “recitazione”. sperienza che la sceneggiatura va racL’attore a volte recita se stesso. Io ho contando. In questi casi il “personaggio” avuto attori nel cinema così bravi che a diventa più intenso. Ma al cinema la volte recitavano se stessi. Spesso me ne “creazione” accade una volta, nel corso sono accorta e sono stata grata perché del CIAK. In teatro deve accadere ogni la recitazione si umanizzava e l’esito sera… Questo è il piccolo “miracolo” del era più coinvolgente. teatro quando gli attori sono bravissimi. Se non si ripete il “miracolo” è zero. Filumena è un testo che richiede una Lei ha detto che lavorare a teatro grande bravura ma anche una sottile è diverso rispetto al cinema capacità di leggerezza e libertà da parte perché il mestiere del teatro è di tutti, perché pur essendo ormai un molto difficile: il lavoro fatto “classico” è totalmente profondamente non è mai definitivamente umano, da rivivere ogni sera. Del resto sedimentato, anzi ogni sera la il teatro è abbastanza simile alla “vita”. rappresentazione ha un nuovo Ci si ripete e ci si rinnova ogni giorno inizio… Nel cinema ci si concentra su una nelle nostre case, si prova ad essere scena e poi si passa alle seguenti in felici, ad aggiustare le cose, si prova e un racconto che si sviluppa in alcune riprova ad amare; si ama un uomo per settimane di lavoro. “Recitare” per il sempre come Filumena, si amano i figli cinema o in teatro è diverso. Due dif- e lo si spiega anche alla Vergine Maferenti viaggi nella recitazione. Non ria come fa Filumena. Filumena crede tutti gli attori sono disponibili per nella vita, la ama, la trova vivibile per cinema o teatro. In genere ho avuto quello cerca di raddrizzare le storture, attori che non hanno fatto teatro o di vincere le ingiustizie. Eduardo deve lo hanno fatto pochissimo. Ho avuto aver amato moltissimo questa commeattori fantastici (Lou Castel, Dirk Bo- dia, perché è pura vita.


12 | Quaderni della Pergola

Ricordando Anna Marchesini

Tullio Solenghi MEMORIE DI ANNI MAGICI Un suo pensiero su Anna Marchesini. Prima di tutto devo dire che per me e per Massimo Lopez questa è una perdita dolorosa. Il pubblico perde una delle più grandi attrici degli ultimi trent’anni e noi perdiamo un pezzo della nostra essenza, una porzione di vita. Anna Marchesini era per noi un’amica, una sorella e una compagna di giochi; anche dopo lo scioglimento del Trio ognuno di noi è rimasto per gli altri un punto di riferimento. Bastava una te-

“Dopo Franca Valeri, non credo che ci sia stata più nessuna attrice comica come Anna che avesse una grande valenza anche come autrice” lefonata per ristabilire il clima di quegli anni magici… C’è sempre stata una continua visitazione reciproca, anche perché quando si è sciolto il sodalizio artistico non abbiamo assolutamente permesso che finisse la nostra amicizia. Dopo Franca Valeri, non credo che ci sia stata più nessuna attrice comica come Anna che avesse una grande valenza anche come autrice. Lei si è sempre scritta tutto da sola: insieme a me e a Massimo quando preparavamo il ma-

teriale per il Trio, fino ad arrivare ai testi che le servivano per i suoi spettacoli da solista. Le sue apparizioni, soprattutto quelle televisive, nell’ambito teatrale del Trio erano sempre frutto delle sue idee. Fino a quando è diventata proprio una scrittrice a tutto tondo di racconti e romanzi.

Il lavoro del Trio era frutto di un grande impegno ma anche di tanto divertimento… Il Trio è la magia di un incontro! Al di là della condivisione di un mestiere, è stato un incontro di tre esseri umani che si sono scoperti grandi amici e in completa sintonia su una visione del mondo legata alla comicità. Nessun committente ci ha messo insieme e nessun committente ci ha sciolto: abbiamo sempre deciso tutto per conto nostro. È stata l’alchimia di tre persone che decidono di cavalcare i loro sogni e le loro passioni, al di là di qualsiasi ritorno economico: abbiamo sempre fatto delle scelte controcorrente - non ragionate o politically correct - che alla fine però si sono rivelate vincenti. La nostra era un’unione, ma che allo stesso tempo ci ha permesso di mantenere distinte le nostre tre identità. L’assetto del Trio era quello di una Compagnia teatrale in miniatura, dove ogni volta si ridistribuivano le carte e si cambiavano i ruoli: chi faceva da spalla diventava primo attore, e viceversa. La nostra composizione era al servizio dell’idea, dell’immaginazione e della creatività; anche in questo siamo stati anomali: la gente ci chiamava genericamente Trio, ma rimanevamo sempre per loro anche Solenghi-Marchesini-Lopez…


Quaderni della Pergola | 13

Quali sono i vostri ricordi insieme legati al pubblico? Il nostro primo referente è sempre stato il pubblico. E questo anche prima degli ascolti televisivi da capogiro quando facevamo TV o delle code da concerto rock per i nostri spettacoli in teatro. Conserviamo una foto di quegli anni fatta fuori dal Teatro Nuovo di Milano con una coda per venirci a vedere impressionante, lo stesso accadeva a Genova oppure a Roma

fosse l’artista che doveva esporre: lei ci disse che la coda era per noi… Non ci potevamo credere! Soltanto allora ci siamo resi conto delle dimensioni di

“Il Trio al di là della condivisione di un mestiere, è stato un incontro di tre esseri umani che si sono scoperti grandi amici e in completa sintonia su una visione del mondo”

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

al Sistina: noi rappresentavamo tre latitudini diverse – io il Nord, Anna il centro e Massimo il Sud – e quindi eravamo accolti ed acclamati così in tutta Italia. Agli inizi eravamo totalmente inconsapevoli di quello che ci stava accadendo: mi ricordo una volta al Teatro Bonci di Cesena dove c’era una coda di persone di fronte ad un ingresso; siccome si trattava di un teatro che faceva anche attività tipo vernissage chiedemmo alla cassiera quale

quello che avevamo seminato con le nostre incursioni televisive, e via così fino a quando ci hanno annunciato l’ascolto della prima puntata della nostra parodia dei Promessi sposi: quattordici milioni e mezzo di spettatori, quasi come una partita di calcio… Eravamo increduli! Ci sono tanti altri momenti meravigliosi nella nostra storia: il bello è che li abbiamo vissuti tutti insieme, come tre amici. Quello che siamo sempre stati.


Ora tu pensa: un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu sai che sono 88, su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu sei infinito, e dentro quei tasti, infinita è la musica che puoi suonare. Loro sono 88, tu sei infinito. Questo a me piace. Questo lo si puo’ vivere. Ma se tu, ma se io salgo su quella scaletta, e davanti a me si srotola una tastiera di milioni di tasti, milioni e miliardi di tasti, che non finiscono mai, e questa è la verità, che non finiscono mai e quella tastiera è infinita... Se quella tastiera è infinita, allora su quella tastiera non c’è musica che puoi suonare. Tu sei seduto sul seggiolino sbagliato: quello è il pianoforte su cui suona Dio. Cristo, ma le vedevi le strade? Anche solo le strade. Ce n’è a migliaia, come fate voi laggiù a sceglierne una, a scegliere una donna, una casa, una terra che sia la vostra, un paesaggio da guardare, un modo di morire. Tutto quel mondo, quel mondo addosso che nemmeno sai dove finisce e quanto ce n’è. Non avete mai paura, voi, di finire in mille pezzi solo a pensarla, quell’enormità, solo a pensarla? A viverla...

Alessandro Baricco Novecento. Un monologo, Milano, Feltrinelli 1994


Quaderni della Pergola | 15

CON ALTRI OCCHI Diverse visioni


16 | Quaderni della Pergola

Corri, Alex La vita diversa di Zanardi da Castelmaggiore di Riccardo Ventrella

N

on tocca a tutti vivere due vite, una completamente diversa dall’altra. La prima vita di Alex Zanardi da Castelmaggiore finisce nello stato tedesco del Brandeburgo, su un circuito motoristico dal difficile nome di Lausitzring. Il calendario segna 15 settembre 2001, e la formula automobilistica americana ChampCar fa tappa in Germania. Quattro giorni prima si era verificato il dramma delle Torri Gemelli, e gli organizzatori avevano cambiato la denominazione della gara in American Memorial 500. Il Lausitz è un circuito unico in Europa perché riproduce in una sua parte gli ovali di alta velocità così diffusi negli Stati Uniti: è stato aperto da poco, ma ha già chiesto un tributo eccellente in termini di vite umane, quello di Michele Alboreto, deceduto durante un test nel mese di aprile dello stesso anno. Zanardi era tornato a correre negli Stati Uniti proprio in quell’anno, dopo una seconda e deludente esperienza in Formula Uno. In America, invece, Zanardi è un idolo per aver vinto due volte consecutive il campionato, e per il suo carattere estroverso e sorridente. La stagione 2001 è stata travagliata, ma ora la vettura va molto meglio e la gara del Lausitz sembra quella giusta per ottenere la prima vittoria. Infatti, a tredici giri dal termine Zanardi è in testa. Si ferma per l’ultimo rifornimento, un’operazione concitata al termine della quale è investito anche da un getto di propellente uscito dalla manichetta. Si avvia lungo la corsia dei box a velocità controllata, poi rilascia il limitatore: la vettura si intraversa e entra in pista: un primo concorrente la evita ma il secondo la colpisce in piena velocità, a oltre duecentocinquanta all’ora, proprio dove stanno le gambe di Zanardi. Che vengono amputate, di netto e all’istante. I soccorsi evitano l’emorragia, ma la vita di Zanardi rimane in bilico. Dopo un mese e mezzo e svariate operazioni lascia l’ospedale, con due gambe in meno, staccate di netto sopra il ginocchio. Qui finisce la prima vita di Alex Zanardi da Castelmaggiore, e ne comincia un’altra. Da diverso, e diversa. Invece di deprimersi accetta l’improvvisa menomazione come una pagina inesorabilmente voltata su qualcosa di meglio. A dicembre di quell’anno già cammina, e Michael Schumacher gli consegna il premio Casco


Quaderni della Pergola | 17

d’Oro (col senno di poi, è stato molto meno fortunato di lui); grazie ai progressi della tecnica è in grado ben presto di tornare a guidare e quella passione mai sopita lo riporta nel 2003 su quel circuito, per compiere i tredici giri che il destino gli aveva negato. Torna all’automobilismo agonistico con le automobili da Turismo, guida ancora se pur solo per un test una macchina di Formula Uno e persino una moto. La gente comincia ad apprezzare il suo volto simpatico, da bolognese autentico e con quel cognome alla Andrea Pazienza, per la capacità di essere un esempio, per la

sua ricerca di una normalità non arte“La gente comincia ad apprezzare il fatta, ma vissuta in tutti i suoi limiti. Per caso, mentre è in viaggio in autostrada, suo volto simpatico per la capacità di scopre la handbike, quel particolare tipo essere un esempio, per la sua ricerca di bicicletta dedicata agli atleti disabili di una normalità non artefatta, ma che si muove con l’aiuto dei soli arti superiori. Si appassiona a quel particolare vissuta in tutti i suoi limiti” tipo di velocità, non certo paragonabile a quella delle automobili, e ottiene subito un grande risultato alla Maratona di New York. In breve diventa un punto di riferimento del paraciclismo, nel quale ha vinto quattro medaglie d’oro e due d’argento alle Olimpiadi, e ben sei d’oro ai Mondiali. Nel frattempo ha fatto un po’ di tutto, dal testimonial della disabilità al conduttore di trasmissioni televisive. Soprattutto, ha mostrato al mondo che esiste una via diversa per fronteggiare le avversità, e che una menomazione può essere una conquista, e non una privazione. Il destino non poteva prendersi gioco di Alex Zanardi, da Castelmaggiore.


18 | Quaderni della Pergola

L’acrobata delle Muse A Orizzonti Festival 2016 il ‘recitar parlando’ di Paolo Panaro di Matteo Brighenti

E

ntrambi impugnano la spada acuminata e aguzzano l’orgoglio, accendono l’ira. La notte dal colle di Sion scende nella catacomba di Santa Mustiola a Chiusi, provincia di Siena, e tutto intorno senti e vedi Tancredi che ferisce a morte Clorinda, la donna che ama e non ha riconosciuto. Puoi toccarla con gli occhi la Gerusalemme liberata del Tasso, è viva, qui, presente, perché Paolo Panaro riesce a scolpire la tua immaginazione con la sua voce. Ti fa vedere ciò che racconta. “Entro nelle immagini del testo – riflette – come il giardiniere che sa, pur non vedendole, dove arrivano le radici di una pianta. È un potere quasi metafisico che si trasferisce con la stessa qualità agli spettatori”.

Le sue narrazioni sono il risultato di un percorso di studi di trent’anni nel mondo della letteratura di ieri e di oggi, che lo ha portato a una forma di teatro assoluto, essenziale: autore, attore, pubblico. Un approccio che, se fino a qualche anno fa poteva essere la consuetudine, adesso risulta “Entro nelle immagini del testo teatrale d’avanguardia. “Mi sento totalmente come il giardiniere che sa, fuori rotta – sospira – rispetto alla direzione che ha preso il teatro, di una conpur non vedendole, dove arrivano testazione d’accademia. Io volevo solo le radici di una pianta” interpretare alcuni poeti e scrittori, sentire belle parole dette bene, non pensavo che potesse essere così originale, addirittura estremo”. Rifacendosi alla tradizione canterina degli antichi contastorie e affabulatori, Paolo Panaro è divenuto così uno dei pochissimi specialisti del racconto orale, tanto che Andrea Cigni l’ha voluto con sé a Orizzonti Festival 2016 per il rilancio della manifestazione chiusina a livello nazionale. Dal 29 luglio al 7 agosto ha eseguito anche Le mille e una notte nel Museo Civico e La Favola de Zoza da Lo cunto de li cunti di Basile sul Lago di Chiusi. È Orazio Costa che ha trasmesso a Panaro l’amore per la parola, alla Scuola di Interpretazione ed Espressione Scenica di Bari, dove si è diplomato nel 1988. “Costa era molto attento ai versi – ricorda – sosteneva che un attore che sa dirli è in grado di recitare tutto. Particolarmente noi italiani, perché sono stati i fini dicitori ad aver diffuso le opere dei grandi autori”. La grammatica poetica come radice della nostra cultura, interpretata attraverso il Metodo Mimico costiano. “Il mio primo approccio alla lettura – prosegue – è fisico. Cerco con le mani di seguire la storia, sono uno strumento del racconto. Il Metodo Costa sollecita poi negli uomini la scoperta della


Quaderni della Pergola | 19

capacità di diventare ciò che vediamo: per imitazione impariamo la vita che ci circonda”. Dopo una lettura ad alta voce, l’analisi si sposta sugli accenti, il ritmo, la musicalità del brano, scelto in base alla potenzialità di catturare il pubblico, e poi lo sguardo si allarga a tutto il mondo coevo. “Non per fare archeologia – interviene – ma per recuperare un certo tipo di sensibilità e il pubblico, all’improvviso, scopre di avere ancora dentro di sé la letteratura di secoli fa”. La cifra stilistica di Paolo Panaro è entrare nei personaggi, restandone però anche fuori, tiene cioè una distanza che rende il tempo che dobbiamo colmare per ritornare alle storie che narra. “C’è un po’ di estraniazione brechtiana in questo – FOTO ELENI ALBAROSA

ragiona – credo di averla imparata da attori come Totò o Herlitzka. È la forma stessa a essere sostanza per un attore. Oggi, però, il contenuto ha una forza tirannica sulla forma. Non siamo più al servizio della poesia, ma soltanto delle mode”. Invece, nella catacomba di Santa Mustiola, sulla porta di un sepolcro, circondati da amore e morte, siamo entrati in contatto con l’eternità. “Ho come la sensazione di aver contribuito a scrivere la Gerusalemme liberata – afferma – ho delle bellissime frasi in testa, che possono servire pure ad altre persone, soprattutto ai giovani”. Memoria, disposizione atletica dell’espressività teatrale, controllo perfetto del corpo nello spazio, sono i passi della ‘danza’ ipnotica che Panaro mette a servizio del racconto. “Io sono un mezzo, non dico niente di me – conclude – appartengo all’opera a cui do voce, sono un vaso riempito dal fiato dell’arte, sono ispirato dalle Muse”. Tutto il resto è parola.

Paolo Panaro nella Gerusalemme liberata


20 | Quaderni della Pergola

Nel mezzo del cammin del nostro Straniero A Kilowatt Festival 2016 la novità assoluta di Daniele Bartolini /DLT

L

a strada, la gente, la città. Lo spettacolo non c’è, o meglio, è la vita stessa. La tua. Vista con occhi nuovi, che non avevi mai avuto. Gli occhi della coscienza di essere, contemporaneamente, spettatore e attore come di una rinascita, da dentro a fuori, un ‘Big Bang’ emotivo che dà origine a un universo familiare, ma percepito come sconosciuto. “L’accadimento, quello per me è importante, esserci per davvero, con semplicità e sincerità – afferma Daniele Bartolini – tutte le volte il pubblico diventa protagonista, un compagno di scena, e non ci sono occhi esterni, di modo che non ci sono imbarazzi. Sono incontri intimi”. Infatti The Stranger (Lo Straniero), da lui ideato e diretto, è teatro interattivo on the road per un solo spettatore alla volta, u n ’e s p e r i e n z a immersiva e totalizzante, un labirinto di fermate, incontri, quadri che accompagnano un viaggio di scoperta, come succede a Meursault nell’omonimo romanzo di Camus o al protagonista di Ladri di biciclette di De Sica. Non esiste niente di simile al mondo. Presentato per la prima volta in Italia a Sansepolcro, in provincia di Arezzo, a Kilowatt Festival 2016, si tratta, in definitiva, di una sorta di ‘caccia al tesoro’ al contrario, dove il ‘tesoro’ sei tu. “Però non lo sai – precisa – lo straniero è in te, ma un po’ sono anch’io, non solo perché sono l’unico che nessun spettatore


Quaderni della Pergola | 21

incontra. Quando mi sono trasferito a Toronto, in Canada, non conoscevo nulla, allora camminavo, esploravo, mi perdevo. Un giorno ho avuto un’intuizione: quel camminare poteva diventare una performance”. Daniele Bartolini, fiorentino, classe ’84, ha cominciato facendo l’attore. È il 2004, la prima scrittura appena 20enne con Ubu c’è, l’Ubu Roi di Jarry nella versione di Giancarlo Cauteruccio. L’anno dopo fonda il Dopolavoro Teatrale (DLT), un collettivo di ricerca che ha voglia di aprirsi una propria via di sperimentazione: al momento ne fanno parte anche Rory de Brouwer, Danya Buonastella, Nicole Dufoe, Chiara Fontanella, Matteo Ciardi. Nel 2010 DLT crea per Fabbrica Europa K.I.T.E._ambiente di avvio Odissea, installazione rivolta al pubblico in “Trasferito in Canada non prima persona, da vivere come un’o- conoscevo nulla, allora camminavo, dissea consapevole o inconsapevole, al mi perdevo. Un giorno ho avuto pari dell’Odissea di Omero e dell’Ulisse di Joyce. “Sono sempre stato ossessiona- un’intuizione: quel camminare to dalla ricerca di un riavvicinamento poteva diventare una performance” con lo spettatore – riflette Bartolini – il teatro in quegli anni mi sembrava autoreferenziale. The Stranger, quindi, arriva da lontano: prima ho cercato un contatto nelle sale canoniche, poi fuori, in location, site specific, infine il palcoscenico è diventato il tessuto urbano”. Quella è l’ultima volta che si esibiscono in Italia. Nel 2012 Bartolini si trasferisce oltreoceano e dopo due anni gli viene l’idea che gli cambia la vita. “Usavamo ancora le cuffie, gli attori avevano i costumi, erano molto riconoscibili – interviene – ascoltavi e ti spostavi. Poi, ho capito che eliminando cuffie e costumi avrei attivato il quotidiano che abbiamo intorno. Allora è successo qualcosa che non mi sarei mai aspettato”. Un successo internazionale: The Stranger è in programma a Rieti, Nuova Delhi, Berlino, Cracovia, dopo essere stato a Vancouver, Mumbai. La durata è un’ora e viene replicato per un unico spettatore di solito sette volte di fila al giorno, tut- “Prima ho cercato un contatto nelle ti i giorni delle manifestazioni ospiti. A sale canoniche, poi fuori, e infine Toronto ha la sua squadra fissa, quanil palcoscenico è diventato il do si sposta viene reclutata sul posto. “È un lavoro sull’attore – spiega – non tessuto urbano” puoi ripeterti, davanti hai una persona sempre nuova con cui interagire. È duro, però ripaga. Non ci sono gli applausi, c’è molto di più: gli spettatori mi scrivono, tornano entusiasti”. Forse siamo di fronte allo spettacolo del futuro. “È una forma nuova, diversa – conclude – immediata, accade nel momento, e in Italia si è declinata anche come elogio alla bellezza”. Chissà che The Stranger non riesca a passare anche a Firenze per mostrarci l’arte che c’è e, soprattutto, l’arte che non riusciamo più a vedere. (M.B.)


22 | Quaderni della Pergola

Saltare come gamberi La rivoluzione di Dick Fosbury

I

n ogni disciplina dello scibile umano c’è qualcuno, ad un certo punto, che vede le cose diversamente da come tutti le avevano viste fino a quel momento, magari rielaborando teorie e prassi già esistenti. Copernico, basandosi su elucubrazioni risalenti all’antica Grecia, si convinse che erano i pianeti a girare attorno al Sole, e che la Terra non era al centro del sistema universale. Colombo era persuaso che si potessero raggiungere le Indie anche navigando verso ovest, e ne fu così convinto che non si accorse di aver scoperto un altro continente. Richard Douglas Fosbury, per tutti Dick, pur facendo le debite proporzioni, non è stato da meno di Copernico, o di Colombo. Negli anni Sessanta era uno dei tanti studenti di high school che si cimentavano nelle discipline atletiche. Fosbury, in particolare, era un saltatore in alto. Ora, poche cose sono conservative come l’atletica leggera. Da quando è stato inventato lo sport moderno si corre, si lancia e si salta più o meno allo stesso modo. Certo, materiali e metodi di allenamento hanno fatto passi da gigante, ma il mutamento delle tecniche è stato meno sensibile che in altri campi dell’attività umana. Il salto in alto, all’epoca di Fosbury, era dominato dal“Dick Fosbury portava due scarpe la tecnica dello “scavalcamento vendi colore diverso, perché la trale”, nella quale l’atleta prende una rincorsa obliqua e punta l’asticella con calzatura di quel colore aveva il ventre rivolto verso di essa, tentanil potere di spingerlo più in alto. do di superarla con un movimento di rotazione del busto. Si saltava così da Piccoli misteri di chi guarda le cose almeno cinquant’anni, da quanto cioè con occhi non comuni” George Horine della contea di San Diego introdusse il “western roll” vincendo le Olimpiadi di Stoccolma del 1912 e entrando nella storia come il primo uomo a valicare i due metri. Prima del “ventrale” c’era la sforbiciata, ovvero il superamento dell’asticella con un movimento ritmico delle gambe e atterraggio in piedi, che si continuò a praticare soprattutto in campo femminile almeno fino al secondo conflitto mondiale prima che fosse soppiantata. Alla metà degli anni Sessanta nessuno pensava che si potesse saltare in modo diverso. Ma nella sua high school Fosbury cominciò a fare diversamente: la rincorsa diventa semicircolare e dopo lo stacco è il dorso a rivolgersi verso l’asticella, e non il ventre. L’atleta poi richiama le gambe e atterra sul materasso, e il risultato è uno sforzo minore. La tecnica destò grande sospetto negli allenatori, che iniziarono a dire che Fosbury saltava “all’indietro come un gambero”. Pure, i risultati gli davano


Quaderni della Pergola | 23

ragione: nel passaggio al college, Università dell’Oregon, Fosbury si migliorò nettamente vincendo prima il campionato accademico e poi le selezioni per le Olimpiadi del Messico 1968. Come Copernico, anche Fosbury non aveva del tutto inventato questa tecnica: prima di lui un oscuro giovane atleta del Montana, Bruce Quande, sempre in una gara liceale aveva anticipato quel bizzarro modo di saltare. Che Fosbury lo avesse visto o meno, poco importa: vincendo lo scetticismo generale, che voleva impedirgli di vedere le cose diversamente, andò in Messico e vinse l’oro olimpico superando l’asticella posta a due metri e ventiquattro centimetri. Il

ragazzo di Portland a soli ventuno anni aveva stupito il mondo, ed era divenuto il Copernico del salto in alto. Da allora, quella tecnica ha preso il nome di “Fosbury flop”. Come già era successo per la sforbiciata, ventrale e Fosbury convissero ancora per qualche anno: nel 1978 il russo Vladimir Jašcenko stabilì il primato mondiale al coperto con due metri e trentacinque centimetri, che ancora oggi rimane la misura più alta mai superata con questa tecnica e nel 1977 Rosy Ackermann fu la prima donna a volare sopra i due metri, sempre col ventrale; mentre la sua grande avversaria, Sara Simeoni, saltava col Fosbury e la batté di un solo centimetro agli Europei di Praga del 1978. Dick Fosbury portava due scarpe di colore diverso, perché la calzatura di quel colore aveva il potere di spingerlo più in alto. Piccoli misteri di chi guarda le cose con occhi non comuni. (R.V.)


24 | Quaderni della Pergola

Robert Wilson LUCE, SILENZIO, ASCOLTO... How did you begin your theatrical work? When I work I always wonder, I never think of theater as something that just is. I grew up in a rather small town in Texas, as a child I have never seen an art gallery or a museum, and I never went to a show of prose, dance or opera because there were no theaters where I grew up I. When I was twenty I moved to New York, I saw for the first time Broadway shows and I

“Dobbiamo proteggere l’arte del passato e quella del nostro tempo, pensando alla nostra patria e anche a tutte le altre nazioni” did not like them. Still, for the most part, I do not like them. Instead George Balanchine and the New York City Ballet, as well as the shows of Merce Cunningham and Jon Cage, hit me immediately. I think, looking back on my work so far, you can see how dance has been the greatest influence on my visual art. Another key point of my life was in 1967: I was walking in New Jersey and I saw a policeman hitting a 13 years old Afro-american boy with a club. I grabbed the policeman’s arm and said: “Why do you hit this boy?” The policeman replied: “None of your business”. But actually it was because

Come è avvenuto il suo incontro con il teatro? Quando lavoro io mi interrogo sempre, non penso mai al teatro come a qualcosa che semplicemente è. Sono cresciuto in una cittadina piuttosto piccola nel Texas, da piccolo non ho mai visto una galleria d’arte o un museo e non sono mai andato ad uno spettacolo di prosa, di danza o ad un’opera perché non esistevano i teatri dove sono cresciuto io. Quando a vent’anni mi sono trasferito a New York vidi per la prima volta gli spettacoli di Broadway e non mi piacquero. Tutt’ora, per la maggior parte, non mi piacciono. Invece gli spettacoli di George Balanchine e del New York City Ballet, così come quelli di Merce Cunningham e Jon Cage mi hanno colpito subito. Credo che, guardando indietro il mio lavoro fino ad oggi, ci si accorga di come la danza abbia costituito la maggiore influenza per la mia arte visiva. Un altro punto fondamentale della mia esistenza è stato nel 1967: stavo passeggiando nel New Jersey e vidi un poliziotto che colpiva un ragazzino afro americano di 13 anni con un manganello. Afferrai il braccio del poliziotto e dissi: “Perché colpisci questo ragazzo?”, il poliziotto rispose: “Non sono affari tuoi”. Ma in realtà lo erano perché sono un cittadino e non posso sottrarmi alle mie responsabilità. Sono andato alla stazione di polizia con quel ragazzo e mi sono accorto che era sordo. Viveva in un bilocale con una famiglia afroamericana, più di una decina di persone; seppi che era stato da poco mandato in New Jersey dall’Alabama e prima ancora viveva in Louisiana. Nei mesi successivi divenni più consapevole della situazione: non aveva un tutore legale. Da quanto ne potessi dedurre non era mai stato a scuola e non conosceva le parole: pensava in un modo diverso,


Quaderni della Pergola | 25

I am a citizen and I cannot shirk my responsibilities. I went to the police station with that boy and I realized that he was deaf. He lived in an apartment with an Afro-american family, more than ten people; I knew that he had recently been sent to New Jersey from Alabama and before he lived in Louisiana. In the following months I became more aware of the situation: he did not have a legal guardian. As far as I could tell he had never been to school and he did not know the words; he thought in a different way, mainly in visual terms, through signs. The boy, Raymond, would have been put in an institution because it was judged ineducable. I convinced the judge to get his custody and my life took a totally different direction. I began to collect images that represent Raymond’s vision of the world: drawings, observations, dreams. In the end I made a show of seven hours, in silence. We showed part of it in New York City in 1979 and most of the audience left, the reviews and

prevalentemente in termini visivi, tramite i segni. Il ragazzo, Raymond, sarebbe stato messo in un istituto perchĂŠ giudicato ineducabile. Convinsi il giudice ad ottenere il suo affidamento e la mia vita

FOTO YIORGOS KAPLANIDIS

prese una direzione totalmente diversa. Cominciai a raccogliere le immagini che costituivano la visione del mondo di Raymond: disegni, osservazioni, sogni. Alla fine ne feci uno spettacolo di sette ore, in silenzio. Ne mostrammo una parte a New York City nel 1979 e molti degli


26 | Quaderni della Pergola


Quaderni della Pergola | 27

the critics were very negative. Until I’ve been invited to the Nancy Festival in France, where I showed the whole seven hours long performance and the success was huge. Then we moved to Paris, we’ve been on stage for five and a half months: every night more than 2200 people in front of a silent show. They began to ask me to collaborate with various theaters; I was not sure about this choice though, I had no background: I knew nothing about theater.

The move to the theater of words was then an immediate consequence? I have a loft at 147 Spring Street, different people who took part in my seven hours show began to come visit me; they belonged to all class origins: someone had a house in Park Avenue, but there was also a homeless, school teachers, children, elderly people ... So I continued to work with non-professionals who frequented my loft, until with much of my surprise I began to have success. It is just towards the end of the eighties that I thought I really wanted to do theater for the rest of my life. I was lucky and I worked at the Opéra National de Paris, La Scala and Il Piccolo in Milan, the Schaubühne in Berlin and in theaters around the world. But my roots have always been fundamental: I always come back with my heart and my head to when I was writing a text with someone who’d never been to school and had no words. It is also for this reason that I started looking for a place where I could find again the origins, in the countryside, away from Manhattan. I found this factory in Long Island and in 1990 I founded the Watermill Center, a place where we live with an ‘always open

spettatori se ne andarono dalla sala, le recensioni e la critica furono molto negative. Fino a quando non fui invitato al Festival di Nancy in Francia, dove mostrai il totale delle sette ore della performance e il successo fu enorme. Poi ci trasferimmo a Parigi, in scena per cinque mesi e mezzo: ogni sera più di 2200 spettatori davanti ad uno spettacolo in silenzio. Allora cominciarono a chiedermi di collaborare con vari teatri; io però non ero sicuro di questa scelta, non avevo un background alle spalle: non sapevo niente di teatro.

Il passaggio al teatro di parola è stato quindi un’immediata conseguenza? Ho un loft al 147 di Spring Street, lì iniziarono a venire a trovarmi diverse persone che avevano preso parte al mio spettacolo di sette ore; appartenevano a tutte le estrazioni sociali: qualcuno aveva una casa in Park Avenue, ma c’era anche un senzatetto, insegnanti di scuola, bambini, anziani… Così ho continuato a lavorare con non professionisti che

“Bisogna sostenere il nuovo, ma sempre guardando al passato” frequentavano il mio loft, fino a quando con mia grande sorpresa ho cominciato ad avere successo. È solo verso la fine degli anni Ottanta che ho pensato che avrei veramente voluto fare teatro per tutta la vita. Sono stato fortunato e ho lavorato all’Opéra di Parigi, alla Scala e al Piccolo Teatro di Milano, allo Schaubühne di Berlino e nei teatri di tutto il mondo. Ma le mie radici sono rimaste sempre fondamentali: ritorno sempre con il cuore e con la testa a quando scrivevo un testo insieme a qualcuno che non era mai andato a scuola e che era senza parole. Ed è anche per questo mo-


28 | Quaderni della Pergola

Sotto e nella pagina accanto, Willem Dafoe e Mikhail Baryshnikov in The Old Woman regia di Robert Wilson

door policy’. This is really very important, especially in a country like the United States of America where nowadays closure is predominant. We must protect the art of the past and that of our time, looking after our nation and at the same time after all other nations. This is one of the principles of the Watermill Center that is

tivo che ho cominciato a cercare un luogo dove potessi recuperare le origini, in campagna, lontano da Manhattan. Ho trovato questa fabbrica a Long Island e nel 1990 ho fondato il Watermill Center, un luogo dove si vive seguendo una politica di ‘porte sempre aperte’. Questo è molto importante, soprattutto in un Paese come gli Stati Uniti in cui di questi

tempi predomina la chiusura. Dobbiamo proteggere l’arte del passato e quella del nostro tempo, pensando alla nostra patria e contemporaneamente anche a tutte le altre nazioni. Questo è uno dei also involved in collecting and storing principi del Watermill Center che si diaries, records, historical books and occupa anche di reperire e conservare papers: if we lose everything, we lose diari, registrazioni, giornali: se perdiaour memory. Religion and politics di- mo tutto, perdiamo la nostra memoria. vide men, but perhaps Art and Cultu- La religione e la politica dividono gli uore have the opportunity to bring them mini, ma forse l’arte e la cultura hanno back together. Above all it is very im- la possibilità di riunirli. È importante portant to support new creations, but sostenere nuove creazioni, ma sempre always looking back at what man has guardando indietro a ciò che l’uomo ha done in the past. fatto nel passato.

“La religione e la politica dividono gli uomini, ma forse l’arte e la cultura hanno la possibilità di riunirli”


Quaderni della Pergola | 29

Which stage elements make your directing unique and unmistakable?

Quali elementi scenici rendono unica ed inequivocabile una sua regia?

Light is the mostly important element for the creation of a direction. It is easier for me to decide what to do in an empty space once I figured out the light, which changes slowly in relationship to the color. During rehear-

L’elemento davvero importante per l’ideazione di una regia è la luce. Per me è più facile decidere cosa fare in uno spazio una volta che ho capito la luce, che cambia lentamente in rapporto al colore. Durante le prove io

sals I start silently and in a second moment I have vision of the words. The French people, regarding my shows, talked about “structured silence” and indeed my shows that’s what they are: measured silence. Sometimes, when we are very quiet, we become more aware of the sounds: think about the conductor who starts the music in the absolute silence of the theater: the sound lands powerful and loud. Similarly, if Hamlet would speak his line in the complete silence of the theater, the audience will be more incline to grasp its intensity.

comincio sempre in silenzio, solo in un secondo tempo ho la visione delle parole. I francesi, in merito ai miei spettacoli, hanno parlato di “silenzio strutturato” e in effetti le mie messinscena è questo che sono: silenzio misurato. Certe volte, quando stiamo davvero molto zitti, diventiamo più consapevoli dei suoni. Pensiamo al direttore d’orchestra che dà il via alla musica nel silenzio assoluto del teatro: il suono arriva potente. Allo stesso modo, se nel silenzio Amleto pronuncia la sua battuta, il pubblico è più portato a coglierne l’intensità.


30 | Quaderni della Pergola

Willem Dafoe PURA ANIMALITÀ “Non sono strano; sono solo un ragazzo di strada del Wisconsin:” sono parole sue. Com’è arrivato al mondo della recitazione e a Hollywood? Il mio mestiere di attore in realtà è cominciato con il teatro… Dopo aver seguito dei corsi di recitazione, ho frequentato il gruppo d’avanguardia Theatre X e fondato a New York la Compagnia teatrale Wooster Group. Il nostro teatro si basava sull’analisi della letteratura, ma soprattutto sulla presenza fisica dell’attore in scena. Mi piace muo-

“Il naturalismo spesso uccide la sorpresa e smorza la tensione: ci fa sentire troppo comodi e invece noi dobbiamo costantemente cercare il pericolo” vermi nello spazio, ballare, dimenare il di dietro come si suol dire, e sono ancora continuamente affascinato da tutti i trucchi teatrali che un attore ha a disposizione per esprimersi. È stato proprio lo spettacolo in sé, la recitazione pura, a portarmi verso il teatro: lo studio dei testi per me arriva sempre dopo. Come Compagnia avevamo uno spazio tutto nostro e questa è una cosa molto importante, direi che è il motivo principale per cui siamo sopravvissuti. Vivevo dall’altra parte della strada e ogni mat-

tina ci incontravamo in quella che era diventata la nostra residenza artistica per lavorare e discutere insieme su cosa migliorare: provavamo e riprovavamo, proprio come se avessimo dovuto affrontare la prima dello spettacolo quella sera stessa, ogni giorno con lo stesso impegno ed intensità. Era una Compagnia di attori e di ballerini, tutte persone che avevano un background diverso ma unite dall’attrazione per il teatro… È stato un incontro molto fertile proprio per questo. Trascorrevamo il nostro tempo perennemente in prova, affrontando ogni spettacolo come se fosse l’ultimo: per tanto tempo abbiamo mantenuto questa sensazione di precarietà.

Che tipo di preparazione fisica avete sperimentato? La disciplina più importante è stata lo yoga. Ancora oggi rimane una preparazione fondamentale per me: è quasi un modo di concepire l’esistenza, un training necessario per il mestiere di attore e per la vita.

Che cos’è per Lei il personaggio? In realtà non penso mai così tanto al personaggio: i personaggi nascono mentre agiamo in scena. Nell’interpretazione cerco sempre dei fattori scatenanti che mi facciano arrivare all’essenza del personaggio: qualcosa che sia in grado di rapirmi interiormente e che possa cambiarmi, in modo da non riconoscere più me stesso. Soltanto così si diventa davvero liberi e si può attraversare la porta della finzione. Quando sento in scena di impegnarmi in cose che conosco bene e che mi fanno sentire più a mio agio, allora cerco l’alterazione e provo a fare qualcosa di diverso per accendere la fantasia. Deve cambiare la percezione di ciò che vediamo: è questa la sfida che tocca ad ogni attore e che


Quaderni della Pergola | 31

deve arrivare al pubblico. Sono cresciuto con l’oppressione del teatro inglese di tradizione, piuttosto impostato e statico, mentre credo che per affrontare il palcoscenico si debba ritornare all’origine e ad una sensazione quasi animalesca. Il naturalismo spesso uccide la sorpresa e smorza la tensione: ci fa sentire troppo comodi e invece noi dobbiamo cercare il pericolo.

Lei ha definito l’attore come quell’individuo “che indossa sempre una maschera …” È la maschera della recitazione e della finzione. Serve all’attore per nascondersi prima dietro al personaggio, poi per rinascere e sentirsi libero. Se l’attore si guarda allo specchio mentre recita un ruolo, non si riconosce più. È la fisicità che aiuta la trasformazione: ogni attore può attingere all’intelligenza del corpo, e il corpo è molto più intelligente di quello che noi pensiamo.

Il corpo è più vivo della mente perché sfugge al controllo del pensiero e della razionalità.

Che rapporto ha con il pubblico? Amo il pubblico, lo ascolto e voglio che alla gente lo spettacolo piaccia. Però quello che faccio deve interessare prima di tutto me stesso e toccare le mie emozioni. So che probabilmente ci sa-

ranno tante altre persone con la mia stessa sensibilità, ma durante l’interpretazione cerco di non pensare mai al pubblico perché altrimenti l’impulso e la spontaneità vengono limitati. Prima di arrivare a coinvolgere il pubblico, devi coinvolgere te stesso. Ho sperimentato la forza che arriva dal pubblico con gli spettacoli di Bob Wilson: tutto è molto diverso dal set perché al cinema sei tu con gli altri attori e i tecnici, è il cast il tuo pubblico, mentre con Bob Wilson reciti dal vivo davanti a tremi-


32 | Quaderni della Pergola

la spettatori. L’energia che si crea è incredibile. È stato Bob Wilson a venire a cercarmi e a voler collaborare: mi sono sempre piaciuti i suoi spettacoli perché caratterizzati da una grande apertura mentale, da una sotterranea verve comica e dalla voglia di sperimentare.

menti diversi: al cinema la macchina da presa diventa il tuo pubblico, mentre in teatro la tua coscienza ha a che fare con la presenza diretta di persone vive, con il cuore e l’anima di chi guarda lo spettacolo. Il teatro è più sano, in un certo senso.

Dal punto di vista dell’attore e della recitazione, qual è la vera differenza tra il teatro e il cinema?

Una volta raggiunto il successo e ottenuta la popolarità a livello mondiale, ci si sente mai non all’altezza delle aspettative?

È una domanda che mi faccio spesso e che mi fa riflettere… L’attore, come dicevo prima, è animalità. La sua parte istintuale affiora con semplicità perché si manifesta tramite il corpo che, entrando in contatto con la natura, mira alla verità. E questo vale sia al teatro che al cinema, in maniera tangibile, anche se si tratta di stru-

Accade sempre! E mi fa piacere che la paura e l’insicurezza legati a questo mestiere non scompaiano mai. La sicurezza ti impedisce, come attore, di trasformarti e di provare emozione. Essere nella certezza del noto non mi piace. Anche quando invecchi e diventi più maturo, è un brutto segno se ti accade di sapere in che modo già tutto avverrà.

IMMAGINE CLARA BIANUCCI


Quaderni della Pergola | 33

Dal diario di un’attrice straniera...

Verso il cambiamento di Nadia Kibout

FOTO FABRIZIO DE BLASI

I

o, attrice, per necessità sono passata alla scrittura e alla regia. Per smettere di sentire lamenti e lamentarmi io stessa della mancanza di storie e di ruoli in cui identificarmi. Non vedendomi e sentendomi rappresentata nei film, quale miglior modo che raccontare il Paese Italia, dal mio punto di vista, arabo africano francese? Spesso siamo considerati come una minoranza, dalla politica e dalle istituzioni, di conseguenza cresciamo col complesso di inferiorità finendo per nasconderci e farci piccoli, per non dire discreti e invisibili, alla società. Io credo che abbiamo invece tutto il diritto di affermarci e di superare il complesso di inferiorità che il mondo politico vorrebbe imporci. Nelle strade c’è lo specchio della società, multiculturale, multietnica ma nel mondo della cultura e dello spettacolo questo specchio di società scompare. Perché? È ora di farsi coraggio e aprire le porte alla multiculturalita! Se non si comincia dalla TV che è il primo mezzo di comunicazione di massa non si va da nessuna parte. Sono convinta che se ciò viene attuato attraverso la TV, il cinema seguirà molto più facilmente. Il cosiddetto mercato passa anche attraverso questa scatola così temuta. In seguito, io vorrei vedere nelle platee dei teatri e dei cinema un pubblico che mi somiglia, fatto di persone di varie origini, provenienze ed etnie. Quando mi siedo al cinema o in teatro mi sento sempre sola da questo punto di vista. Resto convinta che se portassimo storie e personaggi che somigliano a noi, ripeto, con l’avallare di chi decide e produce, noi non italiani “veri” potremmo conquistare una platea “multipla” e una fetta di mercato più importante. E quindi incrementare una certa economia del settore. Bisogna rendere partecipi le persone, far sentire che si parla di loro e quindi di noi “stranieri” che per scelta siamo arrivati in questo bel Paese che si chiama Italia. Un ulteriore fattore importante è quello dell’appartenenza. Se non si sente di appartenere a un Paese o a una Nazione, non vi è nessuna voglia di spendere nulla per essa, che sia denaro, energia fisica o impegno sociale. Essere riconosciuto in quanto individuo diverso, ma integrato, porta a sentirsi parte del Paese, della sua società e della sua storia, presente e futura. Il cittadino italiano su grande scala dà già questo segnale di apertura e accoglienza, perché aperto, curioso e voglioso di conoscere. È solo manipolato da una politica e del suo potere che fatica ad andare verso la vera crescita del Paese. Cioè la multiculturalità. Non molliamo. Continuiamo a credere nel futuro prossimo e nel cambiamento.


LA PAROLA AL PUBBLICO Riflessi di Alice Nidito

Foglie d’autunno vento caldo e sole e poi d’improvviso questo freddo il morso è serrato aghi di ghiaccio pungono dentro mentre sotto il vulcano si muove quale parte di me mi sta chiamando? riflessi di luce e cocci di vetro e dove finiscono le responsabilità cosa farebbe Amore?


Quaderni della Pergola | 35

Dai palcoscenici del Teatro della Toscana...

Una casa, un amico, una storia

“U

di Alfonso Spadoni* *Direttore del Teatro della Pergola dal 1961 al 1993

n teatro, un vecchio glorioso teatro, non è un edificio, un “locale”, ma una misteriosa creatura dell’uomo le cui cellule di materia inerte ferro legno cemento - sono in grado di sprigionare un’anima vitale e fremente. Un teatro, un vecchio, glorioso teatro, è qualcosa di vivo, è un amico, un appuntamento, un ricordo, uno specchio, un momento, un legame, una libertà, una nostra storia, una nostalgia, una sommessa felicità, un essere in tanti, un essere soli, un desiderio nascosto, un desiderio soddisfatto, la nostra casa, la bella casa degli altri, una verità sconosciuta, una verità dentro di noi, un incontro, una giustizia, una mano per il nostro cammino, un passo del nostro cammino, un libro dei libri perduti e ritrovati, e tante altre cose e molte altre ancora.


36 | Quaderni della Pergola


Quaderni della Pergola | 37


38 | Quaderni della Pergola


Quaderni della Pergola | 39


40 | Quaderni della Pergola

Massimo Ranieri DI CUORE E DI PANCIA

Attraverso i suoi scritti, le sue canzoni e i suoi versi in prosa trovo sempre me: Giovanni Calone. Io sono un personaggio vivianesco perché Viviani rappresenta sulla scena il popolo. Diversamente da altri, è un autore che ritrae la povertà dei diseredati ed io faccio parte di questa genia, provengo da una famiglia umile e con grande orgoglio difendo le mie origini. Già quarant’anni fa avevo portato in scena un testo di Raffaele Viviani e da allora mi sento ‘figlio di questo autore’. Viviani scrive in lingua napoletana, non in dialetto. La sua è la vera lingua napoletana che purtroppo nel tempo sta andando sempre di più a perdersi.

Secondo il regista Maurizio Scaparro si tratta di rappresentare uno spazio sospeso tra il mare e la terra, che voi durante le prove avete descritto come una sorta di “porto delle nebbie”… Napoli diventa un esempio di integrazione e di accettazione delle diversità? E, più in generale, che città è Napoli per Lei?

Dopo Viviani Varietà, con Teatro del porto ritorna ad indagare la figura di Raffaele Viviani; che cosa, dal punto di vista emozionale, continua a riportarla verso questo autore? È il bisogno del racconto. Ed è per questo che non smetto di continuare a raccontare il mondo di Viviani, del quale orgogliosamente ne faccio parte.

Per me è quella stessa Napoli a cui cent’anni fa Raffaele Viviani guardava con ironia, descrivendo questa città con la sua crudezza verbale e gergale. È la teatralità dei guappi, dei gagà, delle cocotte, degli zingari, dei pescatori, delle prostitute e degli emarginati. In tutti questi anni ho approfondito la conoscenza di questo autore, studiando molto. Ai tempi della messinscena di Patroni Griffi ero giovane, non sapevo ancora che cosa era il teatro perché provenivo dal mondo della canzone leggera. Attraverso Viviani ho preso coscienza e mi sono concentrato sui poveri e gli emarginati. Per me è stata proprio una lezione socio-politica. Viviani era un uomo di cuore e di pancia, infatti era uno che dava


Quaderni della Pergola | 41


42 | Quaderni della Pergola

fastidio ai potenti. Alla fine della corsa si sente che la sua è una musica che viene dal cuore, non dalla testa. Visto che viviamo in un’epoca di sms e selfie, oggi più che mai il canto scenico di quella Napoli antica e vera continua a mantenere una sua costante vitalità.

“Ogni artista è un diverso, altrimenti non farebbe questo mestiere…”

È vero, ritorno sempre al teatro. Non posso farne a meno. Spesso sento il bisogno di sottrarmi ai condizionamenti della tecnologia, allora sono spinto dal desiderio di rifugiarmi sul palcoscenico e di tornare a ‘casa’.

Il pubblico: che cos’è per Lei? Una sua definizione. Il pubblico è tutto. Senza il pubblico… per chi lavorare? Se dovessi dare una definizione, allora direi che il pubblico è il ‘porto’ del nostro lavoro.

Come vive quegli istanti che la separano dal palcoscenico? Ha particolari riti scaramantici? Come si concentra e prepara per la scena? Quei pochi istanti li vivo in camerino perché e lì che lascio me stesso per poi poter diventare… l’altro. Il camerino è, come dire, il nostro refugium peccatorum: lasci il resto fuori e tutto il mondo è lì dentro: pensieri, ansie, angosce, felicità, delusioni. Bisogna viverlo così il camerino: il tuo caffè, la tua sigaretta prima di andare in scena… Vivi un’altra vita, stai per essere catapultato in un altro mondo.

Nel corso del tempo i teatranti, per esprimersi, spesso sono stati visti come diversi o stravaganti rispetto all’opinione comune imperante: la diversità può essere un valore? Ha senso oggi parlare di diversità? FOTO FILIPPO MANZINI

Lei ha detto che il teatro l’ha formata, prima ancora che come artista, come uomo… Nel suo mestiere ha esplorato campi diversi: teatro, televisione, cinema, musica leggera… Quale urgenza la spinge a ritornare sempre verso il palcoscenico?

Certamente! Il teatro ha sempre irritato i politici perché è specchio della società. Non a caso gli autori teatrali vengono spesso additati e messi alla gogna. Infatti ogni artista è un diverso, altrimenti non farebbe questo mestiere… E se dovessi dire qual è la cosa più stravagante e curiosa che ho fatto nella vita risponderei senza dubbi che è proprio aver scelto questo mestiere.


Quaderni della Pergola | 43

Gioele Dix COME DUE GOCCE D’ACQUA...

me è una passione; soprattutto scrivo i testi dei miei spettacoli da tanti anni e faccio anche esperimenti di scrittura con altri amici e colleghi: per esempio, ultimamente sto preparando un lavoro con Paolo Hendel che mi ha chiesto di dargli una mano a scrivere e a fargli la regia… La mia passione si esprime nelle diverse forme del recitato: coltivo le tante possibili versioni dello stare in scena, incluso il mestiere di autore dietro le quinte. Il teatro resta comunque lo snodo centrale del mestiere di attore, il luogo dove crescere e fare gli esperimenti più belli. Questo sarà il terzo anno di seguito de Il malato immaginario e sono contento di pensare che per un lungo periodo mi infilerò tutte le sere in quel costume e starò dentro quella cuccia calda che è lo spettacolo; in quel mondo teatrale lì, fuori dalla quotidianità.

Se si volta indietro e pensa al momento in cui ha cominciato questo mestiere, alla strada percorsa finora… Che cosa contiene oggi la sua valigia di attore?

Lei è attore teatrale, comico e scrittore… La molteplicità è il tratto caratterizzante del suo essere artista? Ho sempre fatto fatica ad incasellarmi in un solo settore. Ho lavorato in teatro e al cinema, ho frequentato la TV e ho scritto dei libri perché per

Per prima cosa ci metterei l’esperienza perché oggi ho una certa confidenza con il palcoscenico, tanto da poter sostenere di sentirmi a volte più a mio agio in scena che fuori, nella vita vera… Il palco diventa davvero un posto dove ti senti bene: infatti io arrivo in teatro presto, mi piace guardare la sala vuota e respirare l’atmosfera legata ad un certo luogo teatrale. Inoltre nella mia valigia di attore ci metto i rapporti, tutte quelle relazioni che si costruiscono quando intraprendi un progetto: il regista, gli altri attori, gli autori, i tecnici, i fonici, i cameramen… Ti accorgi che quello che fai è legato alla qualità del lavoro di tanti altri e allo


44 | Quaderni della Pergola

scambio umano che si crea. E questo è qualcosa di prezioso: ci sono tanti altri mestieri, anche belli, ma che devi portare a termine da solo senza nessuno che condivida la tua stessa idea. Infine la mia valigia contiene un orologio speciale, capace di fermare il tempo: recitare significa fare dei voli avanti e indietro nel tempo, ritornando sempre, ancora una volta in più, a raccontare una storia.

posso descrivere è il mio spettatore immaginario. Il pubblico non lo sento mai ostile: mi sembra che andando a teatro faccia una scelta, quindi in generale provo sempre un moto di riconoscenza. Paradossalmente invece il mio spettatore immaginario – quando si prepara uno spettacolo si pensa sempre ai potenziali spettatori che ti guarderanno – viene a vedere tutti i miei spettacoli e non gli piacciono… Vale a dire che il pubblico incarna allora la mia coscienza critica, ed è come se fosse uno specchio un po’ antipatico che mi osserva e mi giudica.

Diversi come due gocce d’acqua è il titolo di un suo spettacolo. Nella diversità, alla fine, si arriva ad essere uguali?

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

“Il pubblico è la mia coscienza critica, come uno specchio che mi giudica” Se dovesse dire che cosa è per Lei il pubblico? Non so se posso rispondere esattamente a questa domanda, ma quello che

Questo spettacolo è dedicato ad un mio amico fraterno, con cui sono cresciuto insieme e condiviso un importante pezzo di vita: dagli otto fino ai trent’anni… Purtroppo lui è venuto a mancare e allora, dopo molti dubbi ed incertezze, ho deciso di dedicargli uno spettacolo. Quando se ne va una persona che ha segnato la tua vita ti meravigli che il mondo non si sia fermato e, anche se sai che la vita va avanti, un po’ ti vergogni perfino di non essere morto anche tu… Racconto di questa amicizia e rifletto su tanti argomenti: la vita, la morte, il dolore e il vuoto che lasciamo, le diversità… Noi eravamo diversi in tutto: lui era religioso e io no, lui era uno scientifico e io un artistico, lui era milanista e io interista… La diversità sta proprio nel confronto tra due esseri umani – due anime, due cuori, due cervelli – apparentemente così lontani ma che, uniti dal caso, alla fine possono trovare delle identità talmente forti da assomigliarsi. Proprio come due gocce d’acqua: identiche, ma allo stesso tempo diverse perché distinte.


Quaderni della Pergola | 45

Nancy Brilli QUESTIONE DI EMOZIONI Un’attrice si sente mai, in qualche modo, arrivata? No, mai. Ogni volta che affronto uno spettacolo o un film è un passo in più. Imparo sempre: se dovessi pensare di sapere già tutto, verrebbe meno la voglia di mettersi in gioco. E il mestiere di attrice non avrebbe più senso.

all’altro soltanto nella messa in piega… Nel senso che il personaggio che mi veniva richiesto era sempre il medesimo, la psicologia era la stessa. Invece ho fatto di tutto per allontanare i ruoli da me, da quella che sono io nella vita di tutti i giorni: i registi di solito si aspettano di vedere entrare dalla porta del loro ufficio esattamente il personaggio, mentre secondo me questa è proprio la negazione del mestiere dell’attore.

Interpretare il ruolo della ‘donna cattiva’ può essere intrigante? Credo che sia sicuramente divertente. Essere una cattiva a tutto tondo mi piacerebbe molto. I ruoli così definiti sono anche più semplici da interpretare rispetto a quelli più sfaccettati: i per-

FOTO CLAUDIO PORCARELLI

Che cosa deve avere un personaggio per convincerla ad interpretarlo? Deve essere molto diverso da me. Soprattutto al cinema e in TV – in teatro accade di meno – spesso ti viene chiesto di essere te stessa: più di una volta, i miei personaggi cambiavano dall’uno

sonaggi che non sono completamente buoni o completamente cattivi, ma che mantengono al loro interno diverse sfumature – non il bianco e il nero, ma i cosiddetti grigi – costituiscono una sfida. Invece se dovessi esprimermi sulla suddivisione esistente tra comico e drammatico, questi due generi hanno diverse


46 | Quaderni della Pergola

intenzioni ma entrambi esigono una tecnica. Molte volte mi è capitato di sentire parlare della commedia come se fosse qualcosa di minore rispetto al dramma, e questa è una cosa che mi fa infuriare: nel nostro mestiere non esistono generi minori. Noi, come italiani, abbiamo una tradizione nell’ambito della commedia. Il massimo si ottiene quando si riesce a sposare, sempre all’interno del comico, anche un taglio diverso e più profondo. IMMAGINE DALILA CHESSA

Riuscire a far ridere il pubblico è una cosa molto preziosa… Sì, e io credo che abbia anche qualcosa di vagamente erotico… È un piacere sensuale, c’è uno scambio fortissimo tra spettatori che stanno in sala e attori che recitano sul palco. È una questione di emozioni: quando si riesce a trasmettere qualcosa al pubblico e di rimando la platea ti dà energia, allora esci dal teatro volando… Essere attrice è qualcosa che ti dà una gratificazione immensa.

Nel corso del tempo i teatranti, per esprimersi, spesso sono stati visti come diversi o stravaganti rispetto all’opinione comune imperante: la diversità può essere un valore? Ha senso oggi parlare di diversità?

“La diversità è un valore assoluto perché noi come esseri umani abbiamo bisogno della complementarietà” È un po’ quello che Shakespeare perseguiva e che è presente anche nel nostro spettacolo Bisbetica. Shakespeare voleva anche divertire, ma con dei profondi tagli di verità e affondi nelle varie psicologie dei personaggi.

La diversità è un valore assoluto perché noi come esseri umani abbiamo bisogno della complementarietà: quando riusciremo a capire che dopo un vuoto ci deve essere un pieno, perché altrimenti le cose non si incastrano bene, faremo un passo in avanti. Personalmente nel mio mestiere amo misurarmi con le prove più strane: una volta mi sono perfino calata da un tetto vestita da sposa… Tutto ciò che rimane sempre uguale a se stesso, dopo un po’ diventa monotono.


Quaderni della Pergola | 47

La Storia racconta...

Paradise Now di Adela Gjata

L

a storia del teatro è segnata da episodi emblematici che per la loro atipicità e influenza diventano archetipi di un’intera epoca. Paradise Now, lo spettacolo simbolo del Living Theatre, è uno di questi. La performance, punto di arrivo di una visione teatrale basata sull’equazione arte-vita, celebrava l’utopia della rivoluzione realizzata. Per la sua carica sovversiva e liberatoria diventò l’immagine simbolica della ribellione sessantottina, incarnando gli ideali di una generazione.

Paradise Now era un’ascesa in verticale, un viaggio spirituale e un viaggio politico, interiore ed esteriore, personale e collettivo. Un viaggio per gli attori e per gli spettatori. Iniziava nel presente e si muoveva verso il futuro per poi tornare nel presente. Il percorso percorreva una scala di otto gradini che congiunge la terra al cielo. Ogni gradino era composto da un Rito, una Visione e un’Azione, cerimonie mistiche che coinvolgevano lo spirito e il corpo di attori e spettatori e che dovevano condurre alla realizzazione di un aspetto della Rivoluzione. L’apice di questa scala immaginaria, il Paradiso del Living, era la beatitudine di Dio che somigliava a una società pacifista abitata da uomini liberi. L’happening cominciava al chiuso dei teatri con l’agonia privata dell’uomo oppresso dalle proibizioni sociali per terminare in strada dove attori e spettatori, spogli dai vestiti e dalle convenzioni, professavano in un collettivo stato di gioia la “bella rivoluzione anarchica non violenta”. “Vorremmo riempire lo spettatore di gioia, di grande ardore, di grande speranza rivoluzionaria” sosteneva il newyorkese Julian Beck, fondatore del Living insieme a Judith Malina, per-


48 | Quaderni della Pergola

ché il viaggio verso il cambiamento avviene solo in seguito alla rivoluzione personale. Gli spettatori erano invitati a compiere, lì e allora, la propria rivoluzione e a riconoscere i segni di violenza che caratterizzavano il potere politico e la repressione nell’attaccamento alla proprietà individuale, nei tabù sessuali, nella paura e nel rifiuto dell’altro. Il debutto al Festival d’Avignone nel 1968 fu accompagnato da entusiasmi, scandali e polemiche. Paradise Now accompagnò, in seguito, numerose manifestazioni pacifiste e iniziative di disobbedienza civile in molte città europee; visse le barricate del maggio parigino, guidò operai in sciopero e insurrezioni studentesche. Ogni sua replica era anche una manifestazione politica che vedeva spesso l’intervento delle forze dell’ordine.

IMMAGINE DALILA CHESSA

Il Living Theatre, il gruppo che negli anni Cinquanta e Sessanta inventò la nuova avanguardia teatrale e l’off Broadway, ha anche voluto dire un nuovo stile di vita basato su un modello comunitario anarco-pacifista. La compagnia si presentava come una comunità fondata sui principi dell’amore, dell’uguaglianza e della libertà, eliminando ruoli e compiti all’interno del gruppo, un nucleo di difesa attiva pronto a rivolgere verso l’esterno i gesti emergenti della sua configurazione interna. Gli spettacoli europei dopo l’esilio dagli Stati Uniti (1963), i teatro-giornali di agitazione e propaganda nelle favelas di Sao Paulo negli anni Settanta e le nuove forme d’arte per le classi sociali emarginate, portarono alle estreme conseguenze la concezione del teatro come strumento di azione politica diretta. Non si trattava più di fare spettacolo, in nessuna forma. L’equazione vita-teatro si compie definitivamente, il concetto di impegno politico non è più semplice militanza, ma un modo di concepire e vivere la vita, di essere nel mondo. Un’ideologia utopica e arcaica in cerca dell’Eden terrestre, vissuta con un’intensità che alla fine la invera. Ma al tempo stesso un’ideologia talmente legata al clima culturale che ha contribuito a creare che, dissolvendosi quello, la stessa forza creativa è venuta meno.


Quaderni della Pergola | 49

Jonathan Safran Foer UN CORO DI VOCI

L’occhio della scrittura di Eccomi (Here I am) sembra soffermarsi sulle piccole cose della vita, sui particolari quotidiani che creano il romanzo della nostra esistenza… Quando ho scritto questo romanzo, la mia intenzione era quella di scrivere qualcosa di difficile da riassumere: leggi la quarta di copertina e ti fai un’idea, magari completamente fuorviante rispetto a quella che sarà poi la lettura. Non volevo concentrarmi su un’unica argomentazione, volevo le pagine traboccanti di argomentazioni: nel mio romanzo non c’è un punto di vista specifico, non prevale un lato politico, economico

“Con la scrittura si dà fiducia alla propria immaginazione e alla volontà di esplorare quello che si ha dentro” o filosofico… Non si racconta semplicemente di ebrei e americani, di cosa voglia dire appartenere ad una identità piuttosto che ad un’altra; il senso è ancora più profondo perché ci si sofferma su cosa significhi realmente essere un uomo o una donna… Tra questo libro e il precedente c’è stato un cambiamento a livello di vedute e di gusti personali. Forse quando ero più giovane avevo l’ambizione di raccontare grandi gesta e alte visioni: volevo analizzare l’amore del millennio, anche con versi solenni. I

personaggi anelavano un altrove, che veniva conquistato con gesta eroiche e a cui seguiva una ricompensa altrettanto mitologica. Maturando però mi sono reso conto che le cose più importanti non sono altrove, ma nel presente. Ecco perché in questo libro, molto più lungo degli altri ma in un certo senso anche più silenzioso, esamino la vita quotidiana di una famiglia: parlo di quando ci si lava i denti la sera e si fanno delle buffe espressioni davanti allo specchio, della scelta del filo interdentale piuttosto che un altro, dello shopping, della colazione e delle partite di calcio… L’insieme di tutte queste piccole cose rappresenta una sorta di ostacolo alla felicità a cui questa famiglia anela disperatamente. Tutti sentono di non poter vivere appieno la vita proprio a causa delle piccole cose e questo romanzo tratta proprio della loro incapacità ad essere presenti perché pensano che la felicità sia altrove. Sono persone che scappano dalla gioia. Jacob, uno dei personaggi, dopo essere stato al matrimonio della sua ex moglie torna a casa e si immagina di bussare alla porta del santuario della sua esistenza perché è convinto che dietro ci sia la felicità. Ma questa porta non si lascia abbattere, è troppo potente e resistente… Poi all’improvviso, la rivelazione: forse questa porta si apre nell’altro senso, non verso l’esterno ma all’interno. Quindi tutte quelle cose che riteneva piccole, triviali e troppo quotidiane, alla fine sono le grandi cose ‘del santuario della sua felicità’. Non sono quel genere di scrittore che si siede a tavolino e ha già in mente esattamente l’obiettivo a cui vuole arrivare: io preferisco seguire un processo costellato da tanti imprevisti, da varie notizie fortuite in cui mi imbatto e che butto dentro il mio romanzo. Cambio spesso gli incipit dei libri e a volte seguire il percorso di un personaggio secon-


50 | Quaderni della Pergola

dario mi costringe a riscrivere l’intero romanzo: anche dopo aver scritto un numero di pagine infinite, qualcosa di inaspettato invade la mia immaginazione e tutto riparte. La mia storia di scrittore è una storia di idee che vengono dalla periferia e che, in un certo senso, guadagnano il centro del romanzo.

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

Il suo stile narrativo come si sviluppa, proprio da un punto di vista prettamente tecnico? Quali sono i segreti della sua scrittura? Scrivendo mi piace mostrare il percorso della mia immaginazione: i miei ragionamenti e i miei pentimenti… Non è un lavoro lineare. I miei primi romanzi rappresentavano riflessione sui libri e sulla scrittura, mentre in Eccomi effettivamente ho lavorato tanto sulla mia anima. Non è un libro

autobiografico, e non perché io non mi associ a Jacob: il fatto è che non esiste una voce sola, ma è come se ci fosse un coro di voci, con tanti diversi punti di vista che costituiscono alla fine tutti insieme la mia espressione più personale. Cerco di scrivere libri che vadano al di là di qualsiasi categorizzazione, senza identificarsi in nessun genere particolare. Quando ho cominciato a scrivere questo romanzo, l’unica cosa che mi importava era di sentirmi orgoglioso e fiero del mio prodotto una volta finito: è una cosa molto difficile perché non è così automatico riuscire a trovare qualcosa da raccontare che mantenga vivo il tuo interesse per tanto tempo. E questo potrebbe essere valido per tutte le cose: una relazione, un lavoro… Non ho sognato fin da piccolo di diventare un romanziere, quindi sono entrato nel mondo della letteratura dalla porta sul retro, non da quella principale: non so cosa voglia dire essere uno scrittore prolifico, non mi interessa cambiare ogni anno argomento per i miei romanzi. Semplicemente devo trovare qualcosa da scrivere che sia capace di risvegliare il mio interesse nell’arco di un lungo tempo. Ci ho messo circa nove anni prima di cominciare a scrivere Eccomi, poi sono seguiti tre anni di scrittura: prima andavo a tentoni, mi muovevo nel buio cercando di accendere diversi interruttori che mi portassero alla luce.

Se non fosse diventato scrittore, che cosa avrebbe fatto? Io avrei tanto voluto fare l’ostetrico. Non il ginecologo, ma proprio l’ostetrico: la persona che fa nascere i bambini. Ho sempre pensato che sarebbe stata una maniera fantastica di trascorrere la propria vita e mi immaginavo proprio questa sensazione quando alla


Quaderni della Pergola | 51

fine di una settimana di lavoro come scrittore invece mi rendevo conto di non aver combinato nulla di buono. Avevo fissato la pagina vuota per ore ed ore, sentivo di aver scritto solo qualche stupida barzelletta che non aveva senso, mentre il mondo intorno a me stava andando a pezzi: sulle spiagge ar-

si dà fiducia alla propria immaginazione e alla volontà di esplorare quello che si ha dentro, partendo dal presupposto che la propria interiorità crei dei ponti e dei legami con altre persone. Infatti mi sorprendo se penso al successo dei miei libri in Italia: in Eccomi si parla di una famiglia ebrea che vive negli StaFOTO FILIPPO MANZINI

rivavano bambini morti dopo un lungo viaggio in cerca di speranza, c’erano terremoti e l’umanità viveva grandi tragedie quotidiane… E io che cosa avevo fatto in quella settimana? Avevo scritto poche righe, e mi chiedevo che senso avesse tutto questo. Invece se fossi stato un ostetrico alla fine della settimana avrei potuto dire: “Ho aiutato decine di bambini a nascere”, quindi il bene che avevo fatto sarebbe stato evidente, molto più che scrivendo. L’arte è quella cosa in cui il bene non è apparente, ma è un bene estremamente potente, anche se meno ovvio. La cosa più bella del mestiere di scrittore è che

“La mia storia di scrittore è una storia di idee e di emozioni che vengono dalla periferia e che, in un certo senso, guadagnano il centro del romanzo” ti Uniti, che cosa ha a che fare questo racconto con il vostro Paese? Ma i libri non riguardano una regione specifica, bensì il significato dei libri e dei romanzi sta sotto la superficie delle parole. I libri magari non cambiano il mondo, ma rappresentano la forma d’arte più intima.


52 | Quaderni della Pergola

Fabio Volo DIVERSE IDENTITÀ

Untraditional è il nome della nuova serie TV che ha ideato e interpretato… Sostanzialmente, nel mio mestiere, io scrivo. Ho scritto delle sceneggiature, dei libri, dei programmi televisivi e radiofonici… Untraditional è il risultato di un sogno: insieme ad un gruppo di per-

sone siamo riusciti a raccontare il Paese, la mia vita e quella di tanta gente in un modo a cui tengo particolarmente: io interpreto me stesso e tutte le figure riconoscibili - sono 2 o 3 personaggi famosi a puntata - che incontro interpretano se stesse, anche se io poi le ho sceneggiate tutte costruendo dei personaggi veri e propri. I produttori non mi hanno ostacolato, anzi hanno dato libera espressione creativa alle mie idee. La creatività è il respiro della personalità, e per me è tutto. Non parlo necessariamente di lavori artistici o legati allo spettacolo: qualsiasi mestiere, se esprime creatività, stimola il pensiero e nutre l’interiorità dell’individuo. In Italia non ci sono tante operazioni come quella di Untraditional, dove i personaggi interpretano loro stessi, mentre nei Paesi anglosassoni queste trasmissioni sono già parecchio diffuse.

Essere il protagonista del soggetto raccontato: quanto si rimane davvero se stessi e quanto invece si recita una parte? Questa è la scommessa! Guardi una puntata e pensi: “Ma quella battuta l’avrà detta davvero nella vita vera?”. Nel pubblico si crea uno spaesamento


Quaderni della Pergola | 53

e, sotto il profilo della recitazione degli attori, tutto è molto divertente perché le improvvisazioni sono continue. Io stesso seguo delle serie televisive da molto tempo, come tutti ormai, e ho la fortuna di vivere cinque mesi all’anno a New York, la patria di questo format. Credo che le serie televisive si identifichino come la nuova narrativa: tutti i più grandi sceneggiatori si cimentano in questo tipo di serialità. Al di là del soggetto specifico – che può spaziare da storie quotidiane che toccano la vita di tutti noi a trame più fantastiche come, per esempio, le serie televisive che parlano di zombie – alla fine si torna sempre all’essenza di un racconto originario: si narra il viaggio dell’eroe. Ogni protagonista affronta una serie di dinamiche personali e sociali che segnano un percorso.

faccio la radio, la TV, recito in dei film e scrivo libri: utilizzo vari mezzi di comunicazione, anche molto diversi tra loro, per descrivere la realtà che ho intorno. È come quando si visita una città: se vai a piedi vedi certe cose, se la percorri in bicicletta ne scopri delle altre, in macchina è un’altra cosa… Pur essendo la stessa città, la puoi raccon-

Quindi le serie TV sono la nuova forma di romanzo popolare? Ancora oggi io preferisco leggere un romanzo sulla carta piuttosto che su un tablet… In realtà, quando una storia è ben raccontata, cambia poco il mezzo che si utilizza: tante persone, per esempio, usano il web pensando che questo significhi essere moderni e invece spesso un linguaggio vecchio messo sul web non ne cambia assolutamente la sostanza. Detto questo, sicuramente le serie TV sono una delle massime espressioni possibili per raccontare sia i tormenti umani che la situazione sociale che ci circonda.

Il suo essere artista si esprime attraverso la TV, il teatro, i libri… Io non sono solo un presentatore, sono un autore, nel senso che tutto quello che racconto recitando o quando conduco un programma viene sempre scritto prima. Da tanti anni

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

“La creatività è come se fosse il respiro della personalità” tare in maniera diversa. Io lavoro nello stesso modo: ci sono idee che si adattano di più alla velocità della radio, altre invece alla narrativa, e spesso elementi differenti si mischiano tutti insieme. Nel mio lavoro non ho mai seguito una distinzione rigida delle varie forme artistiche, anzi tutto si intreccia; ho iniziato con le TV piccole, una vera palestra per tutta la mia generazione che ci ha permesso di raccontare, a modo nostro e seguendo certe strade nuove che più ci corrispondevano, proprio noi stessi. Alla fine io faccio soltanto il mio lavoro, che esprime diverse identità. Ma è questo quello che sono.


54 | Quaderni della Pergola

I mestieri dell’Arte Il Fotografo

Oliviero Toscani RUBANDO L’ANIMA Perché è diventato un fotografo? Io sono figlio di fotografi e dopo la scuola d’arte è stato naturale per me cominciare a fare il fotografo. Oggi scattare fotografie è diventato più facile che parlare e scrivere… Tutti fanno foto! Ma non sei un fotografo solo perché scatti delle fotografie: es-

“Non è la tecnologia che ti fa inventare qualcosa, ma sei tu, con la tua interiorità, che porti la tecnica verso l’innovazione. Non si è fotografi solo perché si scatta: essere fotografo significa essere un autore” sere un fotografo significa essere un autore. Mi è capitato più volte, durante i miei giri per il mondo, di sentire qualcuno che mi abbia detto di non fotografarlo perché aveva paura che gli rubassi l’anima… Alcune religioni, per esempio, seguono questa fede. È chiaro che, come fotografo, questo tipo di concetto risulta essere molto intrigante: pensare di fotografare qualcosa di intangibile e di non concreto – l’anima appunto – è affascinante perché nella realtà è possibile

fotografare invece soltanto ciò che esiste. Ho provato a vedere cosa vuol dire fotografare l’anima: quando si fotografa qualcuno che non è abituato ad essere fotografato, ci si accorge che la persona in questione guarda nell’obbiettivo in modo molto diverso rispetto a chi è abituato a farsi guardare come accade, per esempio, nella moda… È dieci anni che giro il mondo con la macchina fotografica e un fondalino bianco chiedendo alla gente di essere fotografata e ho scoperto che ognuno di noi è un’opera d’arte. L’essere umano è unico e irripetibile, non è riproducibile: ciascun individuo ha la sua personalità e la sua sensibilità, un suo cuore e un suo cervello. Tutto intorno a noi tende a unificarci: aspiriamo di continuo a conformarci ad una certa forma di bellezza, invece l’essere umano è unico. Sto portando avanti questo tipo di ricerca, continuerò fino a quando non morirò o finché il mio fisico me lo permetterà perché così riesco ad incontrare la gente e a confrontarmi con la diversità. Esiste una sola razza umana, la nostra, e il futuro del mondo – anche da un punto di vista economico – risiede nella libera circolazione dell’essere umano. Finché non si capirà che i grandi Paesi sono quelli che si mettono in gioco per affrontare i grandi problemi come quello dell’immigrazione, non potrà esserci un futuro. Sono convinto che il territorio della Sicilia farà un incredibile balzo sociale in avanti: sui barconi non arrivano solo i delinquenti, ma ci sono anche intelligenze nuove che hanno la voglia e il sogno di ricominciare tutto daccapo. Arriva chi conserva una speranza e una diversa visione: l’im-


Quaderni della Pergola | 55

FOTO OLIVIERO TOSCANI

migrazione porta nuovo sangue e una nuova morfologia anche fisica, così apprenderemo nuove date per fare festa e nuove religioni che dobbiamo imparare a frequentare. Qualsiasi religione è il risultato di un’immaginazione ed è necessario accettare l’immaginazione altrui. Non esiste l’uguaglianza, piuttosto bisogna accettare le differenze.

A proposito di questa ricerca sulla differente personalità altrui e sull’uguaglianza, uno dei suoi lavori è legato al ritratto dei matrimoni… Ho aperto una cappella di sposalizi, dove regna la libertà assoluta: si può venire vestiti come si vuole e le coppie possono essere etero o gay. Sono le


56 | Quaderni della Pergola

foto di questi matrimoni a decretarne la validità. Ormai la realtà che vediamo è fatta di immagini su cui si basano anche i nostri giudizi. L’operato dei politici e la nostra visione delle guerre, per esempio, sono filtrati dalle immagini che troviamo su Internet, in TV o sui giornali… Viviamo di immagini che sono diventate più reali della realtà: non crediamo a niente se le storie che sentiamo non sono provate dalla

la comunicazione può essere alla fine anche un’arma letale. È un po’ come è accaduto per la TV: l’uomo tende a lasciarsi imbambolare. Io ho fondato Fabrica, un centro di ricerca sulla comunicazione moderna. Faccio un mestiere che è basato sulla tecnologia, ma occorre stare attenti: la tecnologia deve stare dietro la testa, non davanti, perché prima bisogna imparare a vedere il soggetto e soltanto dopo do-

“Esiste una sola razza umana, la nostra, e il futuro del mondo – anche da un punto di vista economico – risiede nella libera circolazione dell’essere umano”

cumentarlo. È la capacità della nostra immaginazione a fare la differenza, il resto è solo tecnica. Ogni generazione ha le sue tecnologie: si è passati dalla matita, alla macchina da scrivere al PC. Tutti i nuovi strumenti hanno un potenziale enorme, ma non bisogna essere schiavi della tecnologia: non è la tecnologia in sé che ti farà inventare qualcosa, ma sei tu, con la tua interiorità, che porterai la tecnica verso l’innovazione.

tecnologia dell’immagine. L’esperienza diretta è confinata a pochissime cose, il mondo sta veramente cambiando e non ce ne rendiamo neanche conto:


Quaderni della Pergola | 57

Maurizio Lombardi UNA VITA DA PERFORMER Perché si diventa attori? Io non potevo fare altro nella vita. Anche se non provengo da una famiglia di artisti, penso lo stesso di essere veramente un figlio d’arte perché mia madre è la vera attrice di casa: ha una tale capacità vocale, canora e anche mimica, eppure non è mai stata un’artista di professione come neppure mio padre. Ma in senso artigianale, viste le loro qualità, mi sento ugualmente un figlio d’arte. All’inizio i miei genitori non erano tanto contenti che facessi l’attore, ma credo che sia normale: si tratta di una famiglia semplice, mobilieri di professione, e forse questo ha minato il

“Ci si abitua a tutto, tranne che agli applausi. È un grazie meraviglioso: in quei momenti senti che stai vivendo a mille!”

prima volta sentii il suono degli applausi del pubblico che alla fine di uno spettacolo possono sembrare scontati… Ma in realtà ci si abitua a tutto, tranne che agli applausi. È un grazie meraviglioso: in quei momenti senti che stai vivendo a mille!

Qual è il momento più emozionante del suo mestiere? La parte più emozionante è sicuramente durante lo spettacolo: ci sono momenti in scena in cui ti commuovi e perfino piangi, altri in cui ridi… Forse non vivi tutte le sere con lo stesso grado di intensità, però l’alchimia che si crea con il pubblico che ti sta davanti in platea è sempre magica. Personalmente cerco di fare succedere qualcosa, tra me e chi mi sta guardando, anche perché ciò che scrivo ed interpreto ruota sempre attorno ad un momento ben preciso che mi ha colpito: magari andando in bicicletta per Firenze trovo una fonte di ispirazione… Ecco perché nei miei spettacoli tento di ricreare in scena quel territorio che mi aveva toccato e commosso, in qualche modo, affinché anche gli altri arrivino allo stesso punto emotivo.

Lei diversifica la sua attività tra teatro classico e d’avanguardia, cinema e televisione…

Io sono un autodidatta. Non ho semio approccio iniziale alla recitazione guito gli studi classici che si fanno per perché non concepisci subito l’essere un diventare attori, però ho avuto la forattore come un mestiere. Se sei davvero tuna di ‘entrare in bottega’ presto da un figlio d’arte e respiri in un ambiente Ugo Chiti con la Compagnia dell’Arca artistico fin da piccolo, è chiaro che la Azzurra dove i personaggi ti venivano tua indole sboccia prima. Comunque tagliati e cuciti addosso: una volta che ho iniziato a 16 anni, nel ruolo di Ber- entri in bottega e c’è chi sa dipingere alla nardone in un musical a Pontassieve. grande, è quasi naturale che quando Non avevo mai recitato prima, mi det- esci vuoi fare i tuoi quadri: un po’ come tero una videocassetta da guardare per succedeva nelle botteghe artigianali del imparare la parte e la rifeci uguale sul Quattrocento a Firenze… Non avendo palco. Ricordo la forte emozione, per la frequentato Accademie di nessun tipo,


58 | Quaderni della Pergola

diciamo che mi sono fatto da solo, con curiosità e facendomi influenzare da qualsiasi cosa. Purtroppo oggi sono costretto ad incasellarmi in un ruolo perché è così che in Italia si intende questo mestiere: attore, autore o regista, ma in

Essere attore partendo da Firenze, è difficile? Credo che sia difficile fare questo mestiere non tanto a Firenze, quanto in Italia… Voglio maledettamente bene a questa città, teatralmente è forte: nella

FOTO BARBARA LEDDA

“L’attore è un guerriero nudo, nel senso che non possiede armi, ma può difendersi e attaccare con la voce, il corpo, la poesia, i sentimenti, la passione e il cuore” realtà io mi definisco un performer. Se vado in un luogo nuovo, per esempio, mi identifico davvero e anche fisicamente con quel posto: lo assorbo in profondità, in un modo che poi cerco di tradurre sul palcoscenico. In questo senso la mia esibizione è una performance totale, proprio perché l’immedesimazione con quello che voglio raccontare è assoluta.

mia fantasia la vedo come un luogo di scambio culturale di tipo anglosassone – mi ispiro molto al teatro e al cinema americano e inglese – dove i giovani attori si incontrano per strada a scambiarsi nuovi testi, come se si trattasse di una piccola West End mediterranea… Sono stato molto anche a Roma, la città del cinema, ma alla fine oggi con le telecamere digitali si possono fare film ovunque.

È attratto dal web come genere espressivo? Se c’è il progetto giusto, perché no? Anche se io sono un po’ all’antica: datemi un palcoscenico, una luce e un testo … E poi si comincia a recitare.


Quaderni della Pergola | 59

Per riuscire ad affrontare il palcoscenico, Lei ha detto di continuare ad imparare da tutti…

Perché un attore non smette di farsi delle domande? Un attore che non si pone delle domande è un attore morto. Bisogna sempre mettersi in discussione. L’attore è un guerriero nudo, nel senso che non

È vero, sono le persone ad essere fondamentali. Perché apprendi sempre qualcosa di nuovo, da tutti. Con Franco Di Francescantonio, per esempio, ho capito l’importanza dell’uso del corpo. È tramite il corpo che al pubblico arrivano le prime immagini, ancora prima delle parole. Ci sono dei segni che si fanno involontariamente con le mani mentre si parla: in un monologo emergono dei codici visivi veramente ancestrali che vanno a colpire il pubblico. Mi piace molto essere diretto. A volte addirittura arrivo davanti al regista quasi senza memoria, in modo che sia lui a spiegarmi dettagliatamente come vuole che io faccia la parte. Il lavoro con Luca Zingaretti mi è servito per ripulirmi da un punto di vista attoriale: in una scena di The Pride stavo fisso in palcoscenico e inizialmente facevo dei piccoli micromovimenti, esprimendo l’emozione che sentivo, mentre Luca mi ha aiutato a FOTO SALVATORE SMILARI conquistare rigore esigendo l’immobilità. Essendo nel cast della serie The possiede delle armi, ma può difendersi e young Pope sono stato diretto da Paolo attaccare con la voce, il corpo, la poesia, Sorrentino ed è stata un’esperienza i sentimenti, la passione e il cuore. E poi fantastica. Sul set c’erano centinaia di - rifacendosi anche ai miti greci - l’attore comparse, la Cappella Sistina e il Vati- è una sorta di super eroe perché ha il cano sono stati interamente ricostruiti potere di far ridere e piangere le persoa Cinecittà: Paolo ti fa entrare nella ne. La recitazione è come una macchina storia. La sua scrittura è perfetta e tu del tempo e l’energia nucleare per farla devi recitare la parte così, com’è stata funzionare viene dal pubblico. Premo pensata all’origine; naturalmente lui il bottone della mia interiorità e parto, ti fa provare più e più volte dandoti trascinando con me gli spettatori ovunulteriori piccoli accorgimenti… Il bello que: nel passato, ma anche nel presente. di questo mestiere è che quando arrivi E questo è bellissimo perché, se ci pensi, a giocare con questi giganti, finalmen- il presente non si vive mai appieno: si te senti di avere una retribuzione per ricorda il passato oppure si cerca il futututto il tedio, la malinconia e l’assurdi- ro. Il teatro ti permette di accedere dalla tà, per tutte le domande legate a que- porta del C’era una volta… di quando eri sto mestiere. bambino e ti fa viaggiare.

Maurizio Lombardi nel suo spettacolo Biancaneve


60 | Quaderni della Pergola

Lorenzo Baglioni TRA WEB, NUMERI E RISATE I suoi esordi in questo mestiere. Ho cominciato a Firenze in un musical della Magno Prog di Nicola Magnini. Non avevo mai recitato né studiato prima e feci il provino un po’ per caso: il teatro mi era sempre piaciuto. Però fui preso come protagonista e da lì è cominciato tutto… Parallelamente per un periodo facevo anche il dottorato di ricerca in matematica e le due strade – la recitazione e la matematica – si sono intrecciate per un po’.

Sembrano due mondi molto diversi… È vero, anche se tutt’ora mi è rimasto l’approccio scientifico nell’affrontare questo mestiere, soprattutto in fase di creazione e di scrittura insieme a mio fratello che è ricercatore in chimi-

“Credo nel potere comunicativo della comicità e della musica. Entrambe arrivano bene al cuore della gente” ca all’Università. Il nostro metodo di scrittura è razionale e scientifico, anche se condito di emozioni. La comicità è come la musica: ci sono tante regole e meccanismi da rispettare, i tempi comici richiedono regole. La comicità è una cosa, anche molto tecnica, che si impara: ho letto molto libri che teorizzano come funziona, inoltre è utilissimo riguarda-

re gli spettacoli dei grandi Maestri della comicità proprio per tentare di capirla. Soprattutto se sei portato e sei naturalmente comico, ci sono tante cose che puoi imparare.

Si dice che tutti i comici conservino dentro di sé un lato drammatico… La comicità spesso è dolore. È la classica torta in faccia del clown: alla fine questa gag ha un che di triste: per arrivare a riderne, finiamo per immedesimarci con quel dolore lì…

Lei è diventato molto popolare per le sue parodie cantate nei filmati comici su youtube; com’è nata questa idea? Lavoravo in vari spettacoli di prosa, principalmente con il Teatro di Rifredi e con Alessandro Riccio, ma ad un certo punto mi è venuta voglia di fare qualcosa di diverso rispetto alla prosa teatrale e al musical. Dei monologhi comici come in Italia poteva fare Roberto Benigni o tanti comici americani, che avevo scoperto su Youtube. Mi affascinava l’idea di non avere scenografie, costumi e trucco: sul web sei solo tu con il pubblico: ti basta un microfonino, puoi cantare e recitare dappertutto. Abbiamo scritto Selfie, un monologo comico con una parte musicale molto presente, e invece di fare un trailer abbiamo provato a creare una pagina su facebook chiamata Lorenzo Baglioni caricando qualche spezzone dello spettacolo ma dandogli una dignità a sé: non semplicemente di realizzare il trailer dello spettacolo Selfie. Visto il successo ottenuto, abbiamo allora iniziato ad affiancare all’attività live una produzione di contenuti per il web che provenisse dagli spettacoli ma soprattutto dalla realtà. Io scrivo tutto con Michele, mio fratello; ogni tanto ci vengono in mente


Quaderni della Pergola | 61

delle idee e se ad entrambi ci divertono comincia il processo per metterle sul web: sono cose sempre molto veloci, dipende da quanto vogliamo impacchettare più o meno il motivo del nostro racconto. Ultimamente abbiamo lavorato con Haider Rashid che ci ha curato la regia dei video. Con lui ho girato anche Sta per piovere, un film drammatico dove interpreto un algerino di seconda generazione nato e cresciuto a Firenze, as s oluta mente fiorentino in tutto, ma a cui ad un certo punto per motivi burocratici non viene riconosciuto il permesso di soggiorno e viene espulso dal Paese. Mi piace più approcciarmi alla comicità, però anche i ruoli drammatici mi affascinano.

In uno dei suoi video - Canto anch’io - un ragazzo sulla sedia a rotelle le chiede di venire con Lei e i suoi amici al mare o a vedere una partita di calcio, ma ciò non è possibile per via delle barriere architettoniche. È stato difficile mantenere uno spirito giocoso ed ironico affrontando il tema della diversità?

Dopo che uscì il nostro video su Le ragazze di Firenze, Iacopo Melio - poi il protagonista di Canto anch’io – ci ha contattato per dirci che gli era molto piaciuto. Con la sua Associazione

FOTO GIANLUCA ZANI

Vorrei prendere il treno si occupava già di sensibilizzare la gente sul problema delle barriere architettoniche e ci chiese di fare qualcosa insieme, proprio per fare arrivare il messaggio al maggior numero di persone possibili. Non voleva una cosa triste o di compatimento, anzi: dovevamo girare qualcosa di allegro. Un’idea che


62 | Quaderni della Pergola

fosse anche una sfida. Ci è venuto in mente che Jannacci ha sempre fatto così nelle sue canzoni: abbiamo preso la musica di Vengo anch’io. No, tu no e abbiamo cambiato il testo costituendo un gioco comico sul tema come veicolo di comunicazione. È stata un’esperienza bellissima: quel video ha fatto più di dieci milioni di visualizzazioni e non ce lo aspettavamo assolutamente. Non avevamo neanche chiesto i diritti della canzone perché pensavamo che IMMAGINE CLARA BIANUCCI

in vendita su iTunes senza chiederci soldi. È stata ai vertici della classifica, così il ricavato è andato interamente all’Associazione di Iacopo.

La comicità è dunque in grado di raccontare qualsiasi cosa? Io credo molto nel potere comunicativo della comicità e della musica. Entrambe arrivano bene al cuore della gente. Ci piace unire questi due aspetti con la libertà di esprimere qualsiasi concetto. Recentemente abbiamo anche provato a raccontare grazie a questo binomio degli argomenti più didattici, che sono poco musicali o comici: tra gli ultimi video, il rapper del Teorema di Ruffini oppure ci siamo immaginati una boy band che spiega le Leggi di Keplero… Lo spunto comunque proviene sempre dalla realtà, è una sorta di autoritratto di quello che mi succede intorno partendo dalle piccole cose. L’intento è di cercare di far spostare il punto di vista al pubblico, per arrivare insieme a notare qualcosa di diverso e che li faccia esclamare: Ganzo!

Dal teatro al web, dal cinema alla TV con Colorado … Anche se i canali comunicativi sono diversi, il punto di partenza è sempre lo stesso?

“La comicità spesso è dolore. È la classica torta in faccia del clown. Alla fine questa gag ha un che di triste: per arrivare a riderne, finiamo per immedesimarci con quel dolore lì…” nessuno ci avrebbe considerato, invece visto il boom di risultati la Universal e la famiglia Iannacci sono stati gentilissimi con noi: ci hanno permesso di pubblicare la canzone e metterla

Cerchi di preservare quello che sei in ogni mezzo di comunicazione, plasmando il tuo punto di vista a seconda dello strumento che stai utilizzando ma non alterandolo troppo, facendo in modo che comunque ti appartenga. Il web ti permette di arrivare ad un numero spropositato di spettatori e per me il pubblico è importante: durante il processo creativo e realizzativo non faccio mai delle cose che divertano soltanto me, penso sempre al fatto che sto raccontando una storia a qualcuno.


Quaderni della Pergola | 63

Speciale Arte David Bowie

Luca Scarlini ZIGGY STARDUST

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

Il suo libro Ziggy Stardust. La vera natura dei sogni* è dedicato interamente a David Bowie…

*Ziggy Sturdast. La vera natura dei sogni, Add Editore, Torino 2016

Io non sono un fan vero e proprio di David Bowie, ma ho sempre avuto un’ammirazione molto grande per questo cantante. Il mio mestiere è quello di raccontare le arti tra il Barocco, il Rinascimento e il Novecento, soffermandomi su certi eventi capaci di cambiare un’epoca e di lasciare il segno. Ziggy Stardust è una delle più note creazioni

di Bowie: un suo personaggio immaginario e titolo del concept album del 1972, vetta del glam rock in cui si mischiano musica e performance. Non è certo il primo artista che va travestito in scena o che si propone come un Messia dello spettacolo, però è il primo ad aver dato a questi elementi una formula nuova caratterizzata da una compattezza artistica che ancora oggi risulta straordinaria. David Bowie è stato capace di toccare il pubblico facendo emergere un mondo che fino ad allora era rimasto background. Con il progetto Ziggy tutto questo universo sotterraneo viene per la prima volta alla luce con delle immagini che continuano ancora a parlare alle giovani band.

Ziggy Stardust è un progetto fortemente teatrale? Sì, è un progetto di teatro. Il fatto musicale si esprime attraverso il teatro e il cinema: la tuta indossata da Ziggy è assolutamente una versione glam della tuta di Alex in Arancia meccanica, film fondamentale per rappresentare un mondo pronto ad esplodere, una distopia di un futuro prossimo dove la violenza è all’ordine del giorno. Il guardaroba di Bowie era ricchissimo di costumi


64 | Quaderni della Pergola

Sotto e nella pagina accanto, vedute della mostra David Bowie is al MAMbo di Bologna

e in questo senso lui ha contribuito ad una rivoluzione anche nel campo della moda. Il ’68 era passato da poco e la moda con le sue eccentricità e i suoi lussi veniva contestata: tutti andavano in giro vestendosi alla stessa maniera con i jeans, invece grazie alle invenzioni di David Bowie la moda ritorna preponde-

“Prima di Bowie mai l’ambiguità era stata trasformata in una forma di espressione artistica dando un’incarnazione esatta alla parola unisex e abolendo la dimensione della riconoscibilità sessuale” rante. Aveva un sarto di corte, Freddy Burretti, e Daniella Parmer dipingeva le stoffe indiane nella casa di Bowie, dove aveva aperto un laboratorio di tintura per ottenere i colori necessari alla rappresentazione, introvabili in Inghilterra. Bowie rende popolare il più grande designer di moda giapponese del

Novecento, Kansai Yamamoto: Bowie si mette questi abiti giapponesi asimmetrici ideati dallo stilista, con delle forme estremamente astratte, che allora da principio nessuno voleva. È il progetto Ziggy a permettere che una moda così sperimentale possa diventare famosa e andare in scena; ogni giorno Bowie cambiava almeno 15 outfit: in tournée e in qualsiasi apparizione pubblica proponeva sempre un diverso look, il suo sarto viveva incatenato alla Singer perché doveva cucire abiti sempre nuovi per il giorno dopo… Ziggy costituisce quindi un progetto di arte totale, in cui il costume, il teatro e la musica hanno un peso uguale.

Ogni sua performance seguiva una precisa ritualità? Certo, anche perché Bowie ha sempre avuto un fortissimo interesse per le religioni orientali. Dietro alla composizione di Ziggy c’è un ritiro di sei mesi presso un monastero buddista lamaista in Scozia: è da quell’esperienza che derivano molti dei gesti e degli elementi di Bowie. I grandi Messia del rock – Jim Morrison, Janet Joplin e Jimi Hendrix – cercavano la comunione con il pubblico, mentre il personaggio Ziggy fa un’operazione radicalmente diversa: si mette in scena, ma per se stesso, e infatti durante i concerti Bowie non parlava al pubblico per-


Quaderni della Pergola | 65

ché stava nella dimensione di Ziggy, riesce a diventare una rockstar, alle in un altro mondo. La creatura Ziggy sue condizioni e seguendo un immacon la sua band arrivava a cinquanta ginario estremo, quindi lui realizza persone impiegate sul palcoscenico, il suo sogno. Ha tredici anni quando come un musical, quindi lo spettacolo suona con la sua prima band e quando era davvero molto complesso perché esplode Ziggy ne ha ventisette: sono i musical ancora non esistevano. Zig- tanti anni, in cui prova disperatagy ha un impatto travolgente, anche mente ad essere una rockstar. Ottiene perché l’ambiguità sessuale per noi oggi è quasi una banalità, ma all’epoca in Inghilterra nessuno giocava con la sua identità sessuale. In una famosa dichiarazione, Bowie afferma di aver conosciuto la prima moglie Angie quando “entrambi uscivano con lo stesso uomo…”. La stampa conservatrice odiava David Bowie e durante la lunga tournée americana negli Stati più esattamente quello che vuole alle sue conservatori ebbe anche minacce di condizioni, riuscendo a portare il teamorte. Prima di David Bowie c’erano tro e l’arte nella musica rock. A quel già stati performer ambigui, ma mai punto è Bowie stesso a distruggere l’ambiguità era stata trasformata in tutto uccidendo il personaggio Ziggy uno strumento di espressione artisti- con un concerto finale da lui definito ca dando un’incarnazione esatta alla “il più lungo della stagione e della mia parola unisex e abolendo la dimensio- vita”. Nella sua lunga ed eclettica carne della riconoscibilità sessuale. riera David Bowie ha cambiato mode e stile di continuo. David Bowie non può essere una cosa sola. In un dialogo David Bowie è riuscito a del ’74 uscito sulla rivista Rolling Stone, incarnare i sogni del pubblico? Da un lato credo di sì, ma la vera Bowie e il grande scrittore americano natura dei sogni di cui parlo nel tito- William Burroughs ragionano prolo del mio libro ha molto a che vedere prio sulla natura dei sogni: realizzarli con il fatto che quando i sogni si rea- è una delle cose più pericolose che esilizzano fanno anche piangere. Bowie stano…


66 | Quaderni della Pergola

Firenze contemporanea

Ai Wei Wei. Libero da Arturo Galansino*

Sopra Reframe, 2016 Ai Weiwei Studio Nella pagina accanto Selfie, 2012-oggi Ai Weiwei Studio

C

on la mostra Ai Wei Wei. Libero, per la prima volta Palazzo Strozzi si apre in modo così esplicito ed evidente al contemporaneo. L’edificio viene usato nella sua interezza ed entrando il visitatore avrà un’esperienza completamente diversa del luogo. Si tratta di una mostra d’arte contemporanea ma fruibile in un modo classico ed inclusivo, che rende accessibile a tutti questa esibizione. Una mostra di arte contemporanea fatta in modo diverso, mantenendo quella che è la cifra stilistica di Palazzo Strozzi. Grazie al contemporaneo i visitatori potranno riscoprire il palazzo stesso, per la prima volta dopo decenni ‘messo a nudo’: per questa mostra sono state tolte tutte quelle strutture effimere che di solito vengono usate per appendere i quadri. Le bifore bellissime che fanno filtrare la luce, le decorazioni rinascimentali, gli antichi camini: si riscopre il Rinascimento attraverso l’arte e il linguaggio di un artista contemporaneo. Il tema tra l’artista cinese e il Rinascimento italiano è uno dei fili rossi che attraversa questa mostra perché parte della formazione di Ai Wei Wei. Il padre era molto vicino alla cultura europea, soprattutto francese; quando la famiglia venne mandata in esilio, in uno dei pochi libri che la Rivoluzione culturale cinese aveva risparmiato dal rogo, Ai Wei Wei ricorda che c’era l’immagine della Venere del Botticelli agli Uffizi. Quest’opera nell’infanzia lo aveva fatto sognare un altro mondo e un’altra cultura; anche per questo motivo parte della


Quaderni della Pergola | 67

mostra è un omaggio dell’artista al Rinascimento italiano. Ai Wei Wei è un artista speciale. Si tratta non soltanto di uno dei più grandi artisti viventi, ma anche di uno dei più influenti opinion leader a livello mondiale. La sua fama è stata amplificata dall’attività di dissidente: la biografia è importante per capirne l’ arte, tutti i motivi della sua protesta. Una specificità di questa esposizione è il fatto di aver instaurato uno speciale rapporto con questo artista che si è mosso in maniera libera – proprio come l’aggettivo che dà il nome alla mostra – all’interno di Palazzo Strozzi sconvolgendone le frontiere e le divisioni interne. Ma libero è anche un aggettivo che può riferirsi a lui stesso. Fino alla fine del 2015 Ai Wei Wei non poteva viaggiare, per diversi anni il governo cinese ha ridotto i suoi diritti civili. La mostra di Palazzo Strozzi nasce già due anni fa, con l’artista che ha voluto direttamente partecipare alla visione e acquisendo così una profonda conoscenza degli spazi, ma da lontano. Adesso Ai Wei Wei ha riottenuto la libertà e risiede stabilmente a Berlino, anche se ha ancora problemi per ritornare in Cina.

N

el dicembre dell’anno scorso Ai Wei Wei è potuto venire personalmente a Palazzo Strozzi e visionare gli spazi. Pur essendo un artista contemporaneo, il rapporto con il passato e con la tradizione del suo Paese segna profondamente tutta la sua arte. Le pareti di Palazzo Strozzi e della Strozzina sono piene di sue citazioni: “tutto è arte tutto è politica”, parole significative e forti per spiegare quello che è il suo pensiero. Ai Wei Wei nasce nell’agosto del ’57 a Pechino. Il padre, famoso e raffinatissimo poeta, è candidato più volte al Premio Nobel ma durante gli anni della Rivoluzione culturale, gli anni difficili di Mao, viene condannato e mandato in esilio nel deserto dei Gobi. La famiglia viveva in una sorta di spelonca, per un certo periodo anche sotto terra; il padre, fine intellettuale, costretto ai lavori forzati e a pulire le latrine di questo posto ai confini del mondo. È un periodo della storia cinese in cui i libri venivano bruciati, quindi il momento è davvero difficile, soprattutto per un uomo di grande cultura come il padre di Ai Wei Wei. Con la morte di Mao nel ’76 la famiglia può ritornare a Pechino e Ai Wei Wei comincia la sua vita di studente: fonda il collettivo Stars e si apre alla modernità. Ha 24 anni e 30 dollari in tasca ma segue una sua compagna e si trasferisce a New York, dove si mantiene facendo il pittore e conducendo una vita abbastanza scapestrata, giocando a black jack nei casinò. Fino ad allora aveva studiato cinema ma non aveva trovato una sua strada vera e propria: è solo avvinandosi all’arte contemporanea che diventa consapevole del suo ruolo e che comincia ad interrogarsi sul significato del suo essere artista. Ritorna in Cina nel ’93 perché il padre è malato, ma si rende conto che la situazione culturale e

da Ludovica Sebregondi

*Arturo Galansino è Direttore Generale della Fondazione Palazzo Strozzi. Gli interventi di Arturo Galansino e Ludovica Sebregondi sono tratti dalla presentazione al pubblico della mostra Ai Wei Wei. Libero presso la Biblioteca delle Oblate.


68 | Quaderni della Pergola

Study of Perspective 1995-2011, neugerriemschneider Berlin

l’arte di quel Paese sono rimaste assolutamente bloccate. Pubblica allora Libro nero, Libro bianco e Libro grigio, che rimangono opere fondamentali per la nuova arte cinese: per la prima volta vengono raccolte in Cina testimonianze dell’arte occidentale. Scatta fotografie – a New York aveva scattato qualcosa come 10.000 foto in bianco e nero – creando un corpus iconografico definito come una specie di blog ante litteram e che dimostra l’importanza di Internet per lui. La rivoluzione culturale in Cina aveva annientato ogni ricordo del passato abbattendo gli edifici più caratteristici e storici per costruire palazzi verticali, delle case che non fanno assolutamente parte della tradizione cinese. Ai Wei Wei è dunque attivo anche in ambito architettonico: raccoglie parti di templi, vasi e mobili delle varie dinastie, per riappropriarsi delle vestigia del passato più antico. Tra le sue ideazioni c’è la costruzione del grande stadio di Pechino per le Olimpiadi, ma nel maggio del 2008 in un terribile terremoto muoiono circa 70.000 persone: crollano gli edifici, collassano le scuole perché costruite al risparmio. Subito dopo il terremoto il governo era passato con le ruspe sopra le macerie nel tentativo di azzerare le responsabilità e di dimenticare quel momento drammaticissimo della vita del Paese, ma Ai Wei Wei si impegna tramite il suo blog perché i nomi dei morti, soprattutto dei bambini, vengano allo scoperto. Diventa allora un personaggio inviso al governo: viene picchiato, il suo studio a Shanghai distrutto. Il 3 aprile del 2011 viene fermato all’aeroporto di Pechino e segregato in un luogo nascosto: per 81 giorni è in una cella, sorvegliato a vista. Dal 2011 Ai Wei Wei è un dissidente; a lungo vive segregato in casa, poi gli viene restituito il passaporto ma non può lasciare la Cina, fino al luglio 2015 quando è di nuovo finalmente libero. Oggi Ai Wei Wei si interessa delle questioni del nostro tempo: i problemi legati alla Palestina, i rifugiati, i migranti… Come l’installazione sulla facciata di Palazzo Strozzi, pensata per la prima volta da Ai Wei Wei esclusivamente per Firenze e che ci chiede di guardare con occhi nuovi il Palazzo: questi gommoni arancioni che si adattano perfettamente, come delle cornici, alle bifore di Palazzo Strozzi e che ricordano i gommoni rossi di salvataggio dei migranti nel Mediterraneo, non i gommoni grigi degli scafisti… L’opera diventa allora la prova evidente che non ci possiamo sottrarre a questo tema, non possiamo far finta che questo problema mondiale non esista.


Quaderni della Pergola | 69

Dai racconti di una giovane scrittrice...

Limone e cioccolato di - Siamo diversi. Orsola - Io leggo, tu no. Lejeune - Io guardo la TV, tu no. - Io conosco il teatro, tu no. - Io conosco il calcio, tu no. - Tu sei razionale, io sono sognatrice. - Io cerco le soluzioni, tu esplori le possibilità.

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

- Due persone devono essere simili per andare d’accordo? - Dice che gli opposti si attraggano. - Funzionerà nella vita quotidiana? - Tu fai troppe domande, io mi limito a sentire. - Io penso e cerco di prevedere. - Non sono cose prevedibili, tu hai paura del sentire ma sta dominando lui e nonostante tutti i tuoi ragionamenti, stai soccombendo. Lei lo salutò così, con un sorriso malizioso e la certezza che l’istinto avrebbe vinto. Lui rimase fermo e pensieroso, confuso da questo modo di pensare, completa-


70 | Quaderni della Pergola

mente estraneo al suo mondo. Lui le donava leggerezza, lei ammorbidiva i suoi spigoli razionali. Lei si confondeva con gli ostacoli, lui le cercava soluzioni. Erano completamente diversi e si stupivano del modo di vivere dell’altro, tacciandosi di follia a ogni piè sospinto fra risate e occhi sgranati. Passavano ore e ore a parlare trovando un istinto con un filo comune, sotterraneo e nascosto che si incontrava. Nonostante la vita li avesse portati a reagire ed evolversi in maniera diversa, alla fine qualcosa dentro di loro li attirava l’uno verso l’altra, come due rami che si discostano l’uno dall’altro, a partire da una forcella, percorrendo spazi diversi, ma incontrandosi di nuovo con le foglie. In fondo la diversità chiede un adattamento, chiede novità e nuove scoperte, obbliga ad uscire dal proprio piccolo universo e ad esplorare possibilità diverse da quelle previste. Non si regalavano mai giudizi, a volte qualche presa in giro condita di affetto, ma rispettavano l’uno il mondo dell’altro. - Cosa fai oggi? - Non lo so, devo controllare l’agenda. - Vedi che non sei normale. - Perché tu cosa fai? - Devo andare a lavoro, poi dovrei trovare il tempo per fare la spesa, portare fuori il cane e andare a salutare la nonna. - In che orari? - Non lo so… vedrò cosa ci rientra, come verrà fuori la giornata via via che scorre. - Lo vedi che sei tu a non essere normale? Questi erano i loro dialoghi, ridevano l’uno dell’altro, godendo a volte nel prevedere le risposte che sarebbero state date, perché erano proprio le loro stranezze a renderli originali e unici ai loro occhi. IMMAGINE CLARA BIANUCCI

Cosa succederà fra loro? Non lo possiamo sapere, la vita ha miliardi di variabili ogni secondo che passa e l’incontro fra due persone è sempre molto fragile e instabile, la verità è che le diversità più facilmente avvicinano piuttosto che allontanare. Deve finire questa storia del “siamo troppo diversi per poter stare insieme”, altrimenti non esisterebbe il vitello tonnato, non esisterebbero le fragole con l’aceto e neanche il pecorino con il miele. Ho sempre amato i lati agrodolci della vita. Limone e cioccolato?


Quaderni della Pergola | 71

Raccontando Una giornata particolare* di Marta Bianchera

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

*Dalle riflessioni di una studentessa sul film di Ettore Scola Una giornata particolare, con Sophia Loren e Marcello Mastroianni

A

ntonietta è la casalinga fascistizzata, madre e moglie prima di tutto, prima ancora della percezione della sua dignità di donna e persona. Gabriele è l’intellettuale discriminato, isolato a causa della sua omosessualità. Posizione sociale, ideologia, istruzione, prospettive di vita… Nulla li accomuna. Eppure, nell’annientamento imperante operato dal regime fascista verso tutto ciò ritenuto diverso, saranno proprio queste anime opposte a toccarsi e capirsi. La passione fugace che condivideranno nell’arco di una sola giornata è frutto della pressione subita dall’esterno che inevitabilmente penetra all’interno delle loro vite. Il regista Ettore Scola sottolinea costantemente questa invasione dal punto di vista sonoro: ciò che fa da sottofondo alla vicenda è la costante eco radiofonica della parata militare in onore della discesa di Hitler a Roma, evento a cui partecipa l’Urbe in tutta la sua totalità. La radio della portinaia diffonde nel condominio deserto la cronaca della parata ed è così che i rumori della folla eccitata per l’avvento del Führer, le incursioni degli aerei a bassa quota e la voce chiara e metallica di Guido Notari (celebre annunciatore dell’EIAR) si fanno simboli del fascismo stesso, nella sua natura di aggiogamento della società, di esaltazione della forza bellica e virile e nella capacità di penetrare nella sfera quotidiana degli uomini. Gabriele ci appare come l’emblema della diversità, «antifascista, sovversivo, un depravato» dirà la becera portinaia cercando di mettere in guardia Antonietta dal cattivo soggetto. Diverso anche da se stesso, quando confessa di aver cercato invano di essere ciò che non è frequentando pubblicamente una donna. Diverso però anche fra i diversi, tanto da provare passione carnale per Antonietta. Quest’ultima, invece, è la rappresentazione della normalità: madre frustrata nel ruolo di serva,


72 | Quaderni della Pergola

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

scaltra e pragmatica, ma profondamente avvilita dalla quotidianità poiché, in quanto donna, il regime pretende da lei di generare nuovi fascisti e di provvedere alle loro necessità, nulla di più. Nella sua giornata particolare questa donna forte e fiera si scoprirà diversa da ciò che aveva sempre creduto di essere: da custode del focolare ad adultera senza rimorso. Del resto come provare rimorso per qualcosa che, seppur sbagliato, dona felicità? La natura umana non ha limiti né costrizioni e nemmeno un regime totalitario, che dell’autorità e della normalizzazione ha fatto i suoi baluardi, ha la capacità di spazzare via la violenta potenza dell’individuo. La solitudine è il vero anello di congiunzione in questa diversità. Sola è Antonietta, nel suo ignorante fanatismo che la porta a venerare il suo Duce-dio creandone addirittura un ritratto con i bottoni, sola perché considerata dal marito una macchina per fare figli. Solo è anche Gabriele, privato dell’amore, umiliato e confinato perché non appartenente alla schiera dei regolari. Diverso deriva dal latino di-vergere: andare altrove. Ed è solo nell’eccezionalità di una casa momentaneamente abbandonata dai suoi numerosi e fragorosi abitanti, di un condominio popoloso interamente svuotato, di un vasto quartiere improvvisamente disabitato, che per un attimo Antonietta e Gabriele vanno altrove, sono altrove, sono altro. L’estrema bellezza di questo film sta nella capacità magistrale del regista di sfumare, come tempera nel bicchiere, i toni angoscianti e infelici, rendendolo un capolavoro della diversità e della sovversione individuale, lontano però dai toni aspri di una ribellione schiettamente politica. Una prova registica intima, grave e spensierata al tempo stesso. Un capolavoro in cui sapientemente si mescolano dolce ironia, cupa tristezza e ricerca spasmodica di attimi di spensieratezza, di felicità. Perché in Una giornata particolare si riesce anche a sorridere. È come se, giocando con paure e libertà, Scola volesse sintetizzare, in una sola giornata, il rapporto dell’individuo con la collettività, i sentimenti, le angosce e la ricerca della felicità. In una delle più celebri battute che Gabriele ed Antonietta si scambiano sentiamo dire: Antonietta: “E mo’ perché ridete?” Gabriele: “Perché la vita è fatta di tanti momenti diversi, e ogni tanto arriva anche il momento di ridere, così all’improvviso, come uno starnuto… A Lei non capita mai?” Quasi banale nella sua disarmante semplicità, ma la vita, in fondo, è proprio questo.


Quaderni della Pergola | 73

A proposito di Orazio Costa...

Il valore di un uomo

L

a volontà di Orazio Costa di applicare il suo Metodo Mimico in ambiti non teatrali è stata una caratteristica del suo lavoro. Questa volontà nasceva dalla convinzione che si trattasse di un metodo di sviluppo emotivo e comunicativo per l’uomo ancor prima che per l’attore. Per questo Costa, specialmente a partire dagli anni ‘80, mise in atto numerosi corsi che si rivolgevano a categorie professionali specifiche (infermieri, fisioterapisti) o a persone con patologie sia fisiche che mentali. L’applicazione del Metodo in situazioni di disagio psichico è stata ed è quindi una costante del lavoro del Centro di Avviamento all’Espressione (CAE), che ormai da anni effettua corsi in convenzione con Asl e altri istituti. L’Associazione Autismo Firenze si occupa di adolescenti e adulti con disturbi dello spettro au“Il Metodo Mimico si prefigurava tistico, e gestisce in convenzione con come uno strumento ideale, l’ASL 10 di Firenze il Centro Riabilitativo Casadasè, frequentato da ragazzi perché per Costa l’interpretazione e ragazze che seguono progetti indiviteatrale deve essere innanzitutto duali e di gruppo mirati all’acquisizione della massima autonomia possibile. la riscoperta di una condizione Nel Centro i ragazzi sono impegnati in emotiva, prima che tecnica” laboratori che curano diversi aspetti, dalle azioni necessarie alla vita quotidiana al mantenimento e al potenziamento delle abilità cognitive e sociali. Tre anni fa la presidente dell’Associazione, Maria Carla Morganti, mi propose di fare un corso di teatro ai ragazzi. Concordammo da subito due aspetti: che avrei fatto il Corso di Metodo Mimico così come era strutturato nei corsi CAE del Teatro della Pergola, quindi senza nessuna variazione o semplificazione; e che mi riservavo, insieme a lei e agli operatori del Centro, di decidere di interrompere il progetto nel caso avessimo verificato l’impossibilità di effettuarlo in modo soddisfacente. Fin dall’inizio infatti questo progetto aveva almeno due caratteristiche che lo rendevano un vero e proprio esperimento: aveva pochissimi precedenti e comunque diversamente strutturati; e poi, sopratutto, l’idea non era quella di utilizzare il teatro come ipotetico strumento terapeutico, ma di lavorare con questi ragazzi con un metodo applicato principalmente all’ambiente teatrale, utilizzandolo per cercare di valorizzare le loro peculiari modalità espressive. In questo il Metodo Mimico si prefigurava come uno strumento teoricamente ideale, perché per Costa l’interpretazione teatrale deve essere innanzitutto la riscoperta di una condizione emotiva, prima che tecnica. Si tratta cioè di recuperare innanzitutto quella istintività emotivo-espressiva, caratteristica dell’infanzia, alla quale ne-

di Pier Paolo Pacini


74 | Quaderni della Pergola

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

cessità sociali e conflittualità psicologiche mettono spesso, nel corso del tempo, una specie di sordina. Quindi un processo creativo e non imitatitivo, che accede alla fase comunicativa solo in una fase successiva. Ma nel caso del corso presso Casadasè, la questione era se fosse possibile mettere in moto questo processo in ragazzi autistici che, pur nella grande diversità dei profili individuali, hanno in comune difficoltà più o meno gravi nell’area della comunicazione, in particolare per quanto riguarda appunto la sfera emozionale, legata ad una difficoltà specifica a comprendere il linguaggio emotivo degli altri e di conseguenza a comunicare le loro stesse emozioni, che spesso quindi vengono espresse attraverso modelli imitativi e ripetitivi. Se fosse cioè possibile per mezzo del Metodo innescare un processo attraverso il quale ognuno fosse in grado di mettere in campo le sue proprie particolari modalità espressive e comunicative senza il timore più o meno conscio che potessero essere modalità che, in quanto non convenzionali, venissero considerate inadeguate. Non è questa la sede per affrontare in poche righe un aspetto così importante come quello dei risultati ottenuti, che dovrebbe essere affrontato da persone competenti e in maniera scientifica. Ma posso dire che questi risultati sono stati, anche a detta degli operatori del Centro Casadasè, sorprendenti. Abbiamo infatti potuto osservare significativi miglioramenti, non soltanto nei ragazzi con minori problematiche, ma soprattutto in quelli con maggiore compromissione comunicativa. Credo sia comunque possibile e interessante offrire una minima indicazione dei risultati più eclatanti. Per prima cosa un incremento della capacità di mantenere l’attenzione per periodi di tempo che si sono via via dilatati, fino ad arrivare a questo ultimo anno in cui sono stato in grado di tenere lezioni di un’ora con un livello di concentrazione da parte dei ragazzi, anche quelli più gravi, equivalente se non spesso addirittura superiore a quello che riscontro nei corsi classici. Poi una disponibilità alla ricerca e all’utilizzo di espressività fisiche originali che si sono raffinate in maniera pro-


Quaderni della Pergola | 75

gressiva, parallelamente ad un affinamento della capacità di costruire un gioco espressivo sempre più complesso. E come conseguenza di questo un miglioramento, in alcuni casi importante, della capacità comunicativa verbale e non verbale. A conclusione del corso di questo anno i ragazzi hanno chiesto di poter fare un lavoro sulla musica dell’Apprendista Stregone di Paul Dukas, mediata d a l l’i m m a g i n ario della versione disneyana. E, nonostante i diversi profili personali, sono stati tutti in grado di realizzare in modo completo ed estremamente efficace una vera e propria interpretazione mimica, da loro concepita, del brano musicale. Inoltre si è evidenziata la peculiarità di una emozionante collaborazione spontanea, non premeditata, tra i ragazzi: quelli con compromissioni più gravi sono stati costantemente aiutati da quelli con maggiore capacità, sia durante gli ultimi incontri preparatori che durante la presentazione del lavoro. Un esempio di solidarietà che, al di là delle considerazioni dell’ambito particolare in cui questo progetto è nato, deve farci riflettere, per usare le parole di Costa, sul “valore dell’uomo e della sua umanità”.

IMMAGINE DALILA CHESSA


76 | Quaderni della Pergola

I volti della diversità Fabio Canino

Spicchi di felicità La diversità: che cos’è? Una sua definizione. La diversità è ricchezza. Perché dove c’è diversità ci sono anche tanti punti di vista e tante esperienze, vari amori e vite. La diversità serve a confrontarsi con gli altri e ad affrontare le differenze: soltanto così possiamo capire se stiamo andando nella direzione giusta, se riusciamo ad essere esseri umani capaci di arricchire la propria vita e quella degli altri. L’ho raccontato anche nel mio libro, Rainbow Republic, che la diversità è un valore e l’arcobaleno ne è il simbolo. L’arcobaleno è composto da tanti colori che presi singolarmente magari vedi che non ci incastrano con gli altri accanto: il giallo con il nero, il marrone con il verde… Pensi: che cosa c’entrano l’uno con l’altro? Ma è quando i colori sono colti tutti insieme che acquistano significato. È la diversità a formare l’arcobaleno… E che cosa c’è di più bello di un arcobaleno dopo la tempesta?

Ha senso oggi parlare di diversità?

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

Ha assolutamente senso! Bisogna confrontarsi con le diversità e costruirsi la propria personale esperienza in merito a questo argomento. È bello essere diversi l’uno dall’altro: il dramma del mondo è quello di voler essere per forza tutti uguali. In questo modo non si va da nessuna parte: la diversità deve servire proprio a renderci unici, protagonisti della nostra vita e del nostro mondo. Io ho un mio modo di agire e di reagire alle cose, questo non vuol dire che tutti debbano fare lo stesso: è così che si esprime la diversità. Credo che alla fine – al di là di qualsiasi religione, razza o orientamento sessuale a cui si appartenga – la vera cosa che tutti ricerchiamo è sempre una: vogliamo la felicità! E la nostra diversità deve fare in modo che ognuno di noi riesca a portare a se stesso e agli altri almeno un piccolo spicchio di felicità, affinché si sia tutti più felici e si possa andare avanti insieme.

La cosa più diversa, stravagante o curiosa che ha fatto nella vita… Innamorarmi!


Quaderni della Pergola | 77

I volti della diversità Giulio Scarpati

Stravaganza e quotidianità La diversità: che cos’è? Una sua definizione. La diversità è varietà. La diversità segna le differenze: nelle piante, negli animali, negli esseri umani… La diversità è espressione dei tanti modi di pensare e dei tanti modi di essere che costituiscono l’individuo nella sua interezza. Tutto quello che è diverso, che ti fa vedere le cose da un altro punto di vista, è un arricchimento. L’ideale è avere più punti di vista possibili, quando invece tutte le diversità sono omologate su un unico punto di vista si ha la dittatura. Come accade nel nostro spettacolo Una giornata particolare, dove la ragazzina che torna a casa dopo aver visto Hitler e Mussolini in visita alla città dice: “Mamma, Hitler era bellissimo!”. La dittatura è capace di regimentarti, fino al punto di farti credere qualsiasi cosa.

Ha senso oggi parlare di diversità? La diversità oggi, soprattutto quando si esprime sui Social che io per fortuna frequento poco, è subito rifiutata. Si vive l’omologazione: la gente prende a parolacce chi la pensa diversamente su un certo argomento, come se essere distinti facesse partire immediatamente la fucilazione virtuale.

La cosa più diversa, stravagante o curiosa che ha fatto nella vita…

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

Penso che la diversità e la stravaganza siano legate al palcoscenico. E a questo proposito cito il grande Tino Carraro, che nella vita era un uomo assolutamente pacifico ma quando interpretava Re Lear si trasformava e ti lasciava a bocca aperta… Il luogo della follia è il palcoscenico, poi nella vita l’attore disperde l’aspetto più stravagante proprio per riuscire ad esserlo poi in scena. Le cose più stravaganti che mi sono capitate nella vita sono state a causa della TV: il fatto di essere popolare mi ha fatto fare cose che magari altrimenti non avrei fatto… Per esempio, una volta a Torino un ragazzo mi disse che era fidanzato, ma sua suocera – una mia grandissima fan – non lo vedeva di buon occhio… Così ha citofonato a casa della ragazza e mi ha supplicato di parlare con la suocera; lei è scesa e io le ho detto di non preoccuparsi, che era un bravo ragazzo… Ma io non lo avevo mai visto prima! La popolarità ti fa entrare in una piccola follia collettiva, senti che ci sei comunque dentro anche tu…


78 | Quaderni della Pergola

I volti della diversità Elio

Noia, mai! La diversità: che cos’è? Una sua definizione. La diversità è il sale, il condimento essenziale della vita perché senza diversità tutto è uguale e noiosissimo. Io, fin dall’inizio della mia attività artistica, ho costantemente cercato la diversità. Oggi se si usa il termine diversità il pensiero corre subito all’orientamento sessuale, invece per me la diversità abbraccia ogni aspetto dell’esistenza umana, non solo le scelte in campo sessuale. Per vivere, non si può fare a meno della diversità. Io non mi sento uno stravagante: so di essere percepito in questa maniera da chi mi segue, ma in realtà penso che questo sia l’unico modo per intraprendere un’attività nel mondo dello spettacolo. Non c’è arte quando si ripete quello che fanno gli altri e non c’è arte quando segui l’omogeneità.

Ha senso oggi parlare di diversità? Assolutamente sì, certo che ha senso parlare oggi di diversità! Deve esistere una diversità tra un artista e l’altro, tra una canzone e l’altra, tra una persona e l’altra… Non si può essere tutti uguali. Sarebbe opportuno parlarne maggiormente perché, per esempio, nel campo della musica la diversità si è quasi del tutto estinta: la diversità di composizione, la diversità di interpretazione, la diversità nel timbro della voce… Il rischio è quello dell’omologazione e della perdita della propria unicità. IMMAGINE CLARA BIANUCCI

La cosa più diversa, stravagante o curiosa che ha fatto nella vita… Non ce n’è soltanto una, ma diciamo che quella che mi ha reso più orgoglioso è stato il breve arco di tempo che ci ha portati – come gruppo Elio e le Storie Tese – dal Festival di Sanremo al film con Rocco Siffredi… Questo è il passaggio artistico di cui vado più fiero.


Quaderni della Pergola | 79

I volti della diversità Serra Yilmaz

Un mondo aperto La diversità: che cos’è? Una sua definizione. La diversità è una ricchezza, se fossimo tutti identici sarebbe un mondo molto povero, in tutti i sensi… Il fatto di essere individui diversi l’uno dall’altro ci rende più ricchi e ci aiuta a riflettere, a scoprire sempre nuove cose. Per me veramente la diversità è un valore che non dobbiamo assolutamente perdere. Dobbiamo lottare per preservare le nostre differenze. Diversità è anche imparare l’umiltà per constatare che ci sono tante civiltà differenti: nessuna è superiore o inferiore, semplicemente sono diverse.

Ha senso oggi parlare di diversità?

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

Sì, oggi più che mai. Siamo ritornati ad un mondo dove la diversità non viene accettata, dove manca il rispetto per chi non è uguale a te. Non voglio usare il termine tolleranza perché è un concetto che non mi piace: si deve tollerare quello che non è proprio giusto, ma che ci si adatta ad accettare… Nell’ambito della diversità il termine rispetto è quello più corretto, secondo me. A venticinque anni sognavo un mondo con meno disuguaglianze, con meno ingiustizie e più libertà, che avesse un rispetto maggiore verso l’uomo e la natura… Purtroppo non è andata così. Il mondo che mi ritrovo davanti adesso, alla mia età, è molto diverso da quello che avevo sognato.

La cosa più diversa, stravagante o curiosa che ha fatto nella vita… La nostra professione ci fa scoprire sempre diverse sfaccettature dell’universo: grazie ai personaggi che l’attore è chiamato ad interpretare, l’attore diventa maggiormente osservatore della realtà e quindi molto più aperto. Il mestiere di attrice è unico, come uniche sono tutte le persone che vivono su questa Terra. Ma non credo che l’artista debba necessariamente essere stravagante o singolare…


80 | Quaderni della Pergola

Quaderni della Pergola Materiale raccolto da Angela Consagra, Alice Nidito, Chiara Zilioli, Filippo Manzini, Matteo Brighenti, Riccardo Ventrella, Orsola Lejeune, Clara Bianucci, Dalila Chessa, Raffaello Gaggio, Adela Gjata, Pier Paolo Pacini, Marta Bianchera, Costanza Venturini, Elisabetta De Fazio

Via della Pergola 12/32 - 50121 Firenze Centralino 055.22641 www.teatrodellapergola.com www.teatrodellatoscana.it

Progetto Grafico Walter Sardonini/Social Design Impaginazione ed elaborazione grafica Chiara Zilioli Interviste Angela Consagra

Info e contatti quaderni@teatrodellapergola.com

Fondazione Teatro della Toscana Presidente Dario Nardella Consiglio di Amministrazione Antonio Chelli, Barbara Felleca, Maurizio Frittelli, Raffaello Napoleone, Duccio Traina Collegio Revisore dei Conti Giuseppe Urso Presidente, Roberto Lari, Adriano Moracci Direttore Generale Marco Giorgetti © 2016 FONDAZIONE TEATRO DELLA TOSCANA

La fotografia di copertina e dell’editoriale, la fotografia della lavagna di Eduardo De Filippo e l’album fotografico Dai palcoscenici del Teatro della Toscana… sono di Filippo Manzini. A pag. 35 il palcoscenico del Teatro della Pergola; a pag.36 dall’alto il palco centrale del Teatro della Pergola e la sala del Teatro Studio ‘Mila Pieralli’; a pag.37 il Saloncino del Teatro della Pergola, la sala del Teatro Niccolini e il Teatro Era; a pag.38 il foyer, il palcoscenico e il sipario del Teatro della Pergola; a pag. 39 la sala del Teatro Era e la sala del Teatro Niccolini. Le traduzioni dall’inglese delle interviste a Bob Wilson e Willem Dafoe sono di Raffaello Gaggio L’intervista dedicata a Bob Wilson è frutto del Meeting a Palazzo Strozzi in occasione del conferimento all’artista delle Chiavi della Città di Firenze L’intervista a Willem Dafoe è stata ispirata dall’incontro con l’attore organizzato dalla Biennale Teatro 2016 di Venezia Le interviste di Oliviero Toscani e Fabio Volo prendono spunto dagli incontri nell’ambito del Wired Next Fest a Firenze L’intervista a Jonathan Safran Foer è parte della presentazione del nuovo romanzo Eccomi edito da Guanda al Teatro Franco Parenti di Milano

© 2016 EDIZIONI POLISTAMPA

Via Livorno, 8/32 - 50142 Firenze Tel. 055 7378711 (15 linee) info@polistampa.com www.polistampa.com

Si ringraziano Gabriele Guagni, Simona Mammoli, Elisabetta De Fazio e Luciana Canesi per l’amichevole collaborazione Un ringraziamento speciale a Tullio Solenghi


La lavagna con la scritta EDUARDO viene conservata nei locali del teatro e fa riferimento al corso di drammaturgia che Eduardo De Filippo realizzò nei primi anni Ottanta al Teatro della Pergola. Questa citazione ha ispirato la nascita dei Quaderni della Pergola come elemento figurativo delle prime copertine. E ancora continua ad essere un simbolo del nostro modo di concepire il teatro.


Colui che differisce da me, lungi dal danneggiarmi mi arricchisce‌ Antoine de Saint-ExupÊry


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.