La gioia nell’osservare e nel comprendere è il dono più bello della natura. Albert Einstein
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Ode al giorno felice Questa volta lasciate che sia felice, non è successo nulla a nessuno, non sono da nessuna parte, succede solo che sono felice fino all’ultimo profondo angolino del cuore. Camminando, dormendo o scrivendo, che posso farci, sono felice. Sono più sterminato dell’erba nelle praterie, sento la pelle come un albero raggrinzito, e l’acqua sotto, gli uccelli in cima, il mare come un anello intorno alla mia vita, fatta di pane e pietra la terra l’aria canta come una chitarra. Tu al mio fianco sulla sabbia, sei sabbia, tu canti e sei canto. Il mondo è oggi la mia anima canto e sabbia, il mondo oggi è la tua bocca, lasciatemi sulla tua bocca e sulla sabbia essere felice, essere felice perché sì, perché respiro e perché respiri, essere felice perché tocco il tuo ginocchio ed è come se toccassi la pelle azzurra del cielo e la sua freschezza. Oggi lasciate che sia felice, io e basta, con o senza tutti, essere felice con l’erba e la sabbia essere felice con l’aria e la terra, essere felice con te, con la tua bocca, essere felice. Pablo Neruda
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34 Friedrich
Schiller
4 Gabriele Lavia In lotta con se stessi “Tutto quello che facciamo nel presente è il trasferimento delle storie e dei sentimenti che ci hanno preceduto ad un tempo contemporaneo”
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Giuseppe Battiston
Lampi di gioia... come la marea
8 i carissimi padri... si raccontano
20 Paolo Di Paolo Le parole dentro la testa “A volte sei governato dall’inquietudine ed ogni indizio quotidiano può diventare una storia: c’è come un’insoddisfazione costante, una mancanza che devi colmare attraverso le storie”
23 Federica
Di Martino
Lampi di gioia... energia pura
An die Freude (Inno alla gioia)
35 gioia e 24 Un teatro, tanti attori Stefano Accorsi, Marco Baliani, Fabrizio Bentivoglio, Alessio Boni, Sergio Rubini, Iaia Forte, Gioele Dix, Laura Morante, Fabrizio Gifuni, Toni Servillo, Pierfrancesco Favino, Filippo Timi, Claudio Bisio, Marina Rocco, Lucia Mascino, Glauco Mauri, Lucia Poli, Emilio Solfrizzi, Vinicio Marchioni, Lucia Lavia, Alessandro Preziosi, Neri Marcorè, Luca Zingaretti, Elio
sciagura Sempre non dura...
44 Paolo
Pierobon
Lampi di gioia... in equilibrio
46 Francesca
Archibugi
La luce di un incontro “Per scrivere una sceneggiatura si può partire da un testo teatrale, da un romanzo oppure può incubare a lungo dentro di te una nuova storia: l’importante è non abbandonare mai la tua visione delle cose”
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matura, segue la nostra strada e si moltiplica in altre”
48 Valeria
Bruni Tedeschi
68 L'estate lo sa La poesia
61 pagina di diario 72 Massimo
Intima 62 Dai racconti fragilità di una giovane “L’attore è forse scrittrice... l’unico mestiere cotone capace di guardare leggero alla vita umana, di lavorare sull’interiorità degli esseri umani e su se stessi”
Bottura
69 La Pina Tutti pazzi per Tokyo
77 Nietzsche che dice?
54 La storia racconta... lustrini e stelle filanti
56 Ezio Bosso Gioia assoluta “Ogni ultima nota è un nuovo inizio per chi ci sta intorno ma anche per noi; la musica muta, tramuta e
Il cuore di ogni piatto “La cucina è vicina all’arte: l’ossessione per la qualità degli ingredienti è uguale all’ossessione per la qualità delle idee”
70 Luciana
Littizzetto
64 Luis Sepúlveda Le storie della terra “Immaginare una storia è una gioia incomparabile. D’altro canto la tradizione orale è antica quanto l’umanità. Siamo esseri umani per la nostra capacità di raccontarci le cose””
Una risata salverà il mondo “Quando dico una battuta la gente è contenta e questo mi fa stare veramente bene: siamo felici, sia io che il pubblico; c’è allegria e vedo che le rughe vanno all’insù invece che all’ingiù…”
78 A proposito di Orazio Costa... Un canto infinito Tra Teatro e Poesia
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Gabriele Lavia
In lotta con se stessi “Tutto quello che facciamo nel presente è il trasferimento delle storie e dei sentimenti che ci hanno preceduto
ad un tempo contemporaneo”
di Angela Consagra
* Se vuoi essere contemporaneo leggi i classici Piemme, Milano 2017
Senza conoscere i classici è impossibile raccontare la vita e la cultura contemporanea: questa è la tesi che porta avanti nel libro intitolato, appunto, Se vuoi essere contemporaneo leggi i classici…*
La parola contemporaneo significa insieme, con lo scorrere del tempo: è il tempo che abbiamo davanti, un tempo che contiene anche tutto quello che è già stato, fin dall’inizio della storia dell’uomo. Il grande psicoanalista Franco Fornari sosteneva che per capire quello che noi siamo dobbiamo immaginare di avere davanti un velo trasparente dove stanno nostro padre e nostra madre, poi dietro un altro velo trasparente con i nostri nonni, e così via, fino ad arrivare al primo uomo apparso sulla Terra. Soltanto guardando in trasparenza possiamo conoscere la nostra origine e ogni giorno che passa diventa più difficile comprendere veramente chi
siamo: agli albori dell’umanità ciò era più semplice perché i riferimenti a cui ispirarsi erano pochi. Oggi essere colti costa tantissimo e anzi non ci riusciamo, non ci possiamo riuscire… Ecco perché ci siamo specializzati con la filosofia, una materia che ancora oggi non può fare a meno di trattare dell’essere umano. Il contemporaneo tiene conto di tutto e “tradiziona”, nel senso che trasferisce, tutto ciò che è passato a ora. Tutto quello che facciamo è il trasferimento delle storie e dei sentimenti che ci hanno preceduto ad un tempo contemporaneo. Non possiamo uscire da questa condizione temporale perché questo non è soltanto un fatto di cultura, ma di natura. L’unico modo per essere contemporanei è guardare alla tradizione, prendendo coscienza di sé, una coscienza che ci riporta ad un tempo immemore e originario. Per arrivare ad essere contemporanei bisogna co-
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FOTO FILIPPO MILANI
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noscere tutto: è necessario mettersi dietro a quei veli trasparenti di cui parla il mio grande Maestro e amico Franco Fornari, solo così è possibile capire questa continuità che dal passato porta ad oggi. Pensiamo, per esempio, a quella battuta meraviglio-
decisivo e la battuta non viene scritta in inglese, Shakespeare fa ricorso al latino per sottolineare l’emozione. E finisce con le parole di Bruto, di una tale bellezza: “Venite amici, immergiamo le nostre mani nel sangue del tiranno e quante volte questo gesto e queste parole in lingue ancora sconosciute, su palcoscenici non ancora costruiti, verranno dette da attori non ancora nati, e ogni volta che gli spettatori udranno queste parole diranno: quegli uomini hanno agito per la libertà dell’uomo”. Lei ha detto che il suo teatro è essenzialmente fisico; che ruolo gioca quindi la parola in questa visione teatrale?
FOTO FILIPPO MANZINI
sa del Giulio Cesare di Shakespeare: Bruto, Cassio e gli altri congiurati hanno appena colpito Giulio Cesare che sanguinante si gira: Bruto trema, ha paura, non ha il coraggio di colpire ancora e Giulio Cesare arranca, non ce la fa più, ha già ricevuto tante coltellate e si avvicina a Bruto dicendogli: “Et tu, Brute?”… Questo è un capolavoro di scrittura: è un momento
È talmente complesso l’accadere del teatro che io ritengo sia nato prima della parola. L’uomo ha avuto l’esigenza di raccontare se stesso attraverso se stesso: in un primo tempo probabilmente il teatro era danza, movimento e suono… Il mio teatro è essenzialmente fisico ma non vuol dire che non dia importanza alla parola. L’evento teatrale è prima di tutto fisico, avviene prima del dire: la comunicazione avviene con il corpo dell’attore. Cosa fa l’attore quando sta in scena? C’è il tramonto dell’attore stesso e sorge il personaggio: vi è sempre una lotta tra i due, anche se legati insieme: è un combattimento vita-morte, è una guerra, un tormento. Il massimo dell’armonia (da armos, che è l’unione dei contrasti) è proprio il gioco dei contrari. Ecco perché in molte culture il teatro viene chiamato gioco: il gioco è il massimo della contraddizione e dell’impegno. Anche una partita di calcio, da questo punto di vista, è un gioco, proprio come il teatro. È un combattimento con se stessi.
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Lampi di gioia...
come la marea Giuseppe Battiston
Che cos’è per Lei la gioia?
La gioia potrebbe essere una forma di unità di misura della felicità… Quando si vive un momento positivo e di allegria, anche se ci sentiamo contenti pensiamo sempre che la felicità arrivi dopo e che non sia mai quella che stiamo provando. Ecco che in questo senso la gioia può essere un modo di misurare questo stato d’animo. Essere attori è uno stato gioioso?
IMMAGINE DALILA CHESSA
Dovrebbero esserlo tutti i lavori! Il mestiere dell’attore, in particolare, non so quanto abbia a che fare realmente con il sentimento della gioia: io mi diverto moltissimo quando sto in scena, ma il divertimento non è esattamente gioia… Tutte le attività legate all’arte – pensa allo scrittore oppure a chi studia costantemente come musicista – sono mestieri precari, sia economicamente e sia sotto il profilo della creatività. La difficoltà vera per un artista sta nella capacità di autorigenerarsi e di evolversi, di riuscire a crescere sempre artisticamente. D’altro canto, se gli artisti non vivessero sulla propria pelle la precarietà, non vivrebbero neanche, probabilmente, una condizione di ricerca per evadere dalle difficoltà perché tendenzialmente si è pigri. Lei è portato più alla gioia o al lato malinconico dell’esistenza? Io sono come le maree sotto la luna: ondivago…
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I C A R I SS I M I PA D R I ... S I R ACCO N TA N O “Carissimi padri… Almanacchi della Grande Pace (1900-1915)”, il progetto che il Teatro della Toscana e Emilia Romagna Teatro hanno portato avanti in questi ultimi anni. A Firenze il gruppo di attori, guidati da Claudio Longhi e Giacomo Pedini, ha messo a ferro e fuoco la città, in contesti simbolici dell’arte e della cultura fiorentina: dal Teatro della Pergola, al Teatro Niccolini e allo Spazio Alfieri, dal Museo Novecento a Palazzo Strozzi, dalle aule scolastiche fino alla Biblioteca Marucelliana. Sono stati coinvolti nella realizzazione di Atelier, performance itineranti, laboratori di scrittura scenica, conferenze e cene-spettacolo tantissimi cittadini, creando così di fatto una comunità di spettatori/ interpreti che ha partecipato e seguito tutte le fasi del progetto. Il tessuto cittadino è stato coinvolto quindi in prima persona in una ricognizione, dai toni grotteschi, sulle folle origini della Grande Guerra e sui quindici anni in cui lo spensierato ottimismo del Novecento ha ceduto il passo alla Prima Guerra Mondiale.
LA REGIA
Claudio Longhi Il vostro ultimo spettacolo si chiama Istruzioni per non morire in pace: da dove nasce questo titolo?
È il frutto della collaborazione con il gruppo di attori che costituisce l’ensemble di Carissimi padri…; insieme cerchiamo un modo particolare di lavorare, di stare dentro agli spettacoli e alla città che li ospita. Seguiamo un principio di coralità che è visceralmente calato dentro le dinamiche
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di costruzione degli spettacoli stessi, con dei lavori di gruppo sulle drammaturgie e sulla promozione delle stesse. Il fatto di coinvolgere anche parte della cittadinanza nei nostri spettacoli è legata ad un’idea didattica del fatto teatrale, nel l ’acce zione più alta e nobile del termine. Lo spettacolo segna la sintesi di un lungo percorso: Istruzioni per non morire in pace si propone di attraversare i famosi anni della Belle Époque e dunque in particolare quel periodo storico che da un certo punto di vista ha incubato lo scoppio della Grande Guerra. Questo spettacolo rappresenta veramente una cavalcata vertiginosa nei primi quindici anni del secolo; il mondo che viene descritto racconta un contesto sociale che inconsapevolmente sta dandosi delle regole e che si avvia inevitabilmente verso il massacro. Si tratta di una sorta di agghiacciante manuale che detta le istruzioni, appunto, per non morire in pace e che anzi induce ad ogni costo a far deflagrare una guerra. Sembra una condizione paradossale, ma è così: quello che è accaduto in quegli anni ha fatto sì che ci si trovasse su una polveriera e allora non è stato fatto nulla per disinnescare quella pericolosa situazione. Devo dire che ragionandoci sopra, con il senno di poi,
a riguardare quegli anni e tenendo ben presente ciò che ci circonda oggi sotto il profilo politico e sociale, il contesto in cui ci troviamo può far accapponare la pelle…
La Compagnia durante l’allestimento al Teatro della Pergola
FOTO FILIPPO MANZINI
Il teatro può raccontare la guerra?
Uno dei problemi fondamentali è proprio la complessità del mondo contemporaneo di cui la guerra rappresenta uno dei tanti volti. Può la guerra essere raccontata attraverso il teatro? La mia soggettiva risposta è che ancora il teatro può essere uno strumento per rappresentare la realtà. È un teatro che viene in qualche modo messo sotto pressione perché si deve torcerlo per arrivare ad aprirlo ad una dimensione che di gran lunga eccede i suoi confini convenzionali. Se si segue il proprio percorso con passione, intelligenza e determinazione, il palcoscenico è in grado di continuare a rimanere tutt’oggi il modo migliore per raccontare temi cruciali come i conflitti che toccano le nostre vite.
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Gli attori dell’ensemble... Che cosa vi ha lasciato questo lunghissimo percorso di Carissimi padri…?
In piedi da sinistra: Eugenio Papalia, Simone Tangolo, Michele Dell’Utri, Donatella Allegro, Simone Francia, Nicola Bortolotti, Diana Manea. In basso: Lino Guanciale, Olimpia Greco.
LINO GUANCIALE: Umanamente il lascito più forte è dato dal risultato del tanto studio fatto sugli eventi politici di quegli anni della Grande Guerra perché è impressionante la contiguità con il nostro momento storico; ci sono tanti livelli di sovrapponibilità, ed è una fortuna, perché oggi mi rendo conto di avere qualche strumento in più per cercare di orientarmi nelle mie scelte, anche di voto, di fronte agli stati di
crisi in cui ci troviamo. Le ripercussioni di eventi macrostorici hanno sempre una dimensione microstorica. Io sono stato il primo del gruppo ad avere cominciato a lavorare con Claudio Longhi, abbiamo intrapreso insieme questo viaggio e ciò che ci proponevamo, fin dall’inizio, era di fare un teatro che fosse popolare e politico allo stesso tempo, con una forza valenza militante. Non parlo in termini di semplice schieramento politico, ma mi riferisco alla politica vera e dunque alla ricerca del bene comune. Per arrivare a questo obiettivo occorre documentarsi su cosa sia stato il mondo di ieri per arrivare a comprendere meglio quello di oggi, solo in questo modo è possibile compiere delle scelte consapevoli. Anche la nostra vocazione didattica e popo-
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lare serve a questo intento: cercare di costruire un rapporto forte con il pubblico teatrale facendo passare sulla scena dei contenuti politici che non creino del semplice consenso, bensì un dibattito. Come attore io sono arrivato ad avere una popolarità importante solo dopo che tutto con i Carissimi padri… era già nato, quindi anche la popolarità io la vivo con lo stesso imprinting con cui noi viviamo da sempre in Compagnia lo scambio con il pubblico: cercare di ascoltare e dare attenzione a tutti, creare un legame. Non si tratta di un semplice rapporto amicale, piuttosto direi che il termine giusto è politico. DIANA MANEA: Carissimi padri… è un progetto che nasce su un impianto cittadino, quindi il primo impatto è stato di tipo conoscitivo. È un rapporto molto personale perché con la nostra azione teatrale andiamo ad invadere il mondo privato degli altri. Noi dei Carissimi padri… siamo infatti convinti che per essere attori si debba costruire una coscienza teatrale perché abbiamo una fortuna: con il nostro mestiere possiamo far muovere dei pensieri ed è un aspetto assolutamente non scontato del fare teatrale, soprattutto perché il pubblico ormai si è disabituato ad andare a teatro. Inoltre in Istruzioni per non morire in pace, ultimo capitolo del progetto Carissimi padri…, recitiamo mascherati indossando i camauri – delle maschere in garza – e quindi un aspetto molto bello del lavoro fatto insieme che mi porto dietro è la ricerca dell’espressività partendo dal fatto che il tuo volto non si vede: bisogna dare più forza alla parola che diventa allora qualcosa di concreto.
EUGENIO PAPALIA: Quando lavori ad un progetto del genere sono diversi i piani che si intersecano: pensi alla crescita personale e al tuo mestiere di attore che si rap-
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porta all’interno di una Compagnia con l’obiettivo di un lavoro artistico oppure c’è il punto di vista più esterno, che si basa sul confronto con la comunità. Tutto ciò che si crea intorno allo spettacolo diventa estremamente importante: la formazione del pubblico, il rapporto umano che si instaura. Lo spettacolo è la parte finale di un progetto che vede in precedenza tanta gente
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partecipare attivamente. È un tipo di teatro sociale, nel senso che si occupa della società e del contesto in cui viene creato. Noi lo chiamiamo teatro partecipato. L’essenza è che tu non sei un attore scritturato
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rapporto con il pubblico… La cosa più semplice e diretta: riavvicinarsi alla gente e anche fare esperienza di quello che può essere proporre una lettura in un luogo non specificatamente teatrale raccontando qualcosa a delle persone che non hanno mai messo piede in un teatro. Fare delle letture in una biblioteca o in una scuola, proporre lezioni-spettacolo al mattino con i ragazzi del liceo, dell’università o delle scuole elementari: tutto questo ti porta, una volta arrivato sul palco per lo spettacolo, ad essere diverso.
DONATELLA ALLEGRO: Penso a ciò che ho imparato di nuovo: abbiamo dovuto studiare molto per portare a termine questa esperienza perché all’interno del progetto abbiamo fatto moltissime attività, lavorando non solo come attori impegnati nelle rappresentazioni, letture o cene-spettacolo, ma anche come formatori in svariati laboratori e Atelier rivolti a gruppi di persone o partner istituzionali, già a loro volta molto competenti e con cui abbiamo collaborato. Io ho condotti laboratori con adulti, persone dalle quali ho imparato tanto e quindi sono stati dei laboratori atipici: più che andare ad insegnare, è come se fossi divenuta portatrice di un loro pensiero che ho cercato poi di incanalare dentro per uno spettacolo e che prima fa a quelli che erano i margini tematici le prove, poi va in tournée e l’espe- del nostro progetto. Importante è starienza si esaurisce. Tu sei un attore ta anche la ricerca musicale, che doche ha un dialogo continuo con gli veva essere estremamente precisa da spettatori e con l’intera comunità di un punto di vista storico e filologico: riferimento. per ogni serata la musica doveva essere profondamente contestualizzata, SIMONE TANGOLO: Questa quindi attinente come periodo storico è un’esperienza che ci ha lasciato e in tema con la performance, lettura un antico modo di riscoprire un o cena-spettacolo che proponevamo.
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SIMONE FRANCIA: Lo spettacolo è solo la conclusione di un lungo progetto. È il percorso ad essere importante perché, prima di tutto, ti obbliga a studiare e non soltanto attorialmente, ma dal punto di vi-
in scena devono parlare al pubblico. Presupponiamo di relazionarci con uno spettatore attivo, uno spettatore che si pone delle domande, secondo una concezione brechtiana dell’esistenza e che noi in scena risolviamo
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sta culturale e documentaristico. La funzione culturale dell’attore come operatore culturale non è sempre così chiara a tutti, invece l’attore deve sempre essere preparato rispetto al mondo in cui si trova ad operare perché i sistemi produttivi cambiano. Bisogna cercare dei nuovi modi per affrontare la crisi: per fare questo mestiere è necessario riferirsi alla propria contemporaneità. Essere solo attori non basta più. Fin dall’antica Grecia si andava a teatro non solo per ridere e divertirsi: in scena il pubblico vedeva rappresentati i suoi problemi. E anche oggi deve accadere lo stesso: i temi che si mettono
attingendo al grottesco e al cabaret, proprio per mostrare il retro della medaglia della Storia e di quello che può essere successo. E’ cambiato il vostro modo di essere attori dopo questa esperienza?
MICHELE DELL’UTRI: Quando ho incontrato Longhi eravamo nel contesto del Teatro Greco di Siracusa, all’Istituto del Dramma Antico. Lui faceva una regia e io feci un provino; fino a quel momento io vivevo in maniera non armonica l’esigenza di fare spettacoli con il desiderio di condurre laboratori
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e di instaurare dei rapporti teatrali diretti con il pubblico. Mi mettevo molto in discussione perché non capivo quale lavoro volessi fare davvero; invece con l’esperienza del teatro partecipato Longhi, insieme al gruppo degli altri attori, mi ha consentito una strutturazione e una modernizzazione di questa
NICOLA BORTOLOTTI: Sì, è cambiato ed è sempre in relazione alla comunicazione teatrale che si muove in un contesto che è mutato. È difficile pensare solo all’ambito
mia duplice aspirazione. Ormai la relazione con gli spettatori attraverso i Social e gli incontri dal vivo è diventata un’attività importante quanto lo spettacolo stesso ed è così per tutta la Compagnia: è una forma di teatralità che si è espansa ed è fuoriuscita dal mero accadimento teatrale. Ognuno di noi ci ha messo qualcosa di suo per ridefinire in maniera collettiva il proprio modo di essere attore. Inoltre dal punto di vista prettamente interpretativo ci ha permesso di affrontare dei regi-
della progettazione dello spettacolo puro. I tradizionali capocomici italiani si muovevano pensando di anno in anno a quale commedia mettere in scena e a quale Compagnia creare, invece oggi accanto a questo tipo di discorso occorre trovare una via per misurarsi con la nostra contemporaneità. Se l’attore si pensa soltanto riferito a quel magnifico contesto che è il luogo del teatro rischia di perdere il contatto con ciò che lo fa esistere: il pubblico, che deve rimanere sempre la ragio-
stri grotteschi, di stampo brechtiano, e ci ha regalato quindi un uso più consapevole del mezzo attoriale.
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NICOLA BORTOLOTTI: Il mio rapporto con il lavoro è da innamorato e ciò significa che alcuni giorni ho una grande voglia di farlo, altre volte OLIMPIA GRECO: Il mio sta- invece no. Periodicamente ho voglia re sul palcoscenico è il risultato di di cambiarlo, ma non lo faccio mai. un’abitudine da musicista, e non Ho capito che questo è il mio modo di tanto da musicista di scena ma pro- stare dentro al mestiere: è un rapporprio da musicista concertista ov- to vivo, fatto di grande passione. vero la persona che suona con altri musicisti e non sta sul palco con gli attori… Però la musica per i Carissimi padri… è estremamente drammaturgica, si presenta anch’essa come una delle componenti teatrali impegnate nel progetto globale. In Istruzioni per non morire in pace io stavo seduta in platea vicino al pubblico e all’inizio questa può essere una condizione che influisce sul modo di suonare: ti dà molta emozione stare gli occhi negli occhi con gli spettatori e sapere che ascoltano tutto così da vicino… ne ultima per cui fai determinate scelte ed intraprendi un preciso tipo di percorso.
Il vostro essere attori, il fatto di stare sul palcoscenico, è legato alla sensazione della gioia?
DONATELLA ALLEGRO: Io non sono nata con il sogno di voler fare l’attrice, anche se ho sempre recitato avevo escluso la via professionale, fino a quando questa scelta non è stata inevitabile… Non mi liberavo più della recitazione: tutto cambiava nella mia vita, tranne questo aspetto. È come una malattia perché comporta una vita non facile: fisicamente è un mestiere estremamente faticoso e poi alterni dei picchi di grande gioia, in cui provi un senso di libertà e di condivisione umana, a dei momenti in cui provi un’insicurezza talvolta davvero esagerata.
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MICHELE DELL’UTRI: Essere attori è una malattia e al tempo stesso la sua medicina… Quando si parla di questo mestiere sembra tutto così astratto e retorico, invece io lo vivo in maniera molto concreta. È il mio modo di essere cittadino, il mio modo di stare al mondo, per parlare ed ascoltare gli altri.
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SIMONE FRANCIA: I sentimenti che si vivono rispetto a questo mestiere sono sempre contrastanti. Ci sono insoddisfazione ed inquietudine, legate al senso della precarietà, ma c’è anche un sentimento forte che è l’energia, quella che occorre per fare le cose. Il mio
OLIMPIA GRECO: Quando sono sul palcoscenico suonare costituisce qualcosa di molto intimo, un momento privato in cui mi ritengo protetta dalla musica. L’ascolto della musica è gioia: ogni brano accompagna un sentimento, si va dalla melanconia all’irrequietezza o l’allegria… Tutte sensazioni che è possibile vivere intensamente attraverso il suono. LINO GUANCIALE: Il mestiere dell’attore è fatica, ed è anche ansia, perché si tratta di una professione che ti mette per costituzione in una condizione di eterna precarietà: non parlo solo dal punto di vista economico, ma anche della condizione di stare continuamente in scena. Tu, attore, stai su palcoscenico in bilico come il funambolo: stare di fronte alla gente ti dà una sensazione di pericolo, si può cadere da un momento all’altro, ma nel momento in cui riesci a cambiare questo sentimento in esaltazione, ecco che ne vieni ripagato con il più grande dei piaceri: la vicinanza del pubblico. Per me essere attori è entusiasmo; è riscoprire una forza interiore che ognuno di noi è in grado di generare, una forza da riscoprire come motore dell’esistenza. Un’altra parola chiave è educazione, naturalmente in senso politico e quindi nell’accezione più radicale del termine: per il bene della polis.
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mestiere io l’ho sempre visto come un artigianato più che un’arte. È l’atteggiamento con cui si fanno le cose che ti permette di comunicare al pubblico qualcosa che magari non si aspettava…
DIANA MANEA: Io sono sempre spaventata quando sto sul palcoscenico, ed è veramente un grande spavento, con cui ti misuri ogni sera. Però è uno spavento con cui è bellissimo confondersi e confrontarsi, fatto di gioia, gioco e divertimento.
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EUGENIO PAPALIA: Ormai la figura dell’attore sta cambiando: l’attore sta diventando una figura a metà tra il performer e l’operatore culturale… Forse la parola che utilizzerei per descrivere questo mestiere è sfida: noi viviamo una sfida continua, prima di tutto con noi
della gioia. Stare sul palco è sempre un momento festoso. Ricordo che una volta a Modena, per esempio, nonostante i temi trattati nello spettacolo siano critici, tutta la cittadinanza si è alzata per cantare insieme a noi. Per gli attori chiudere lo spettacolo con il pubblico
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stessi, poi con il pubblico che ci sta attorno e con il materiale poetico che ci troviamo a dover affrontare. Sicuramente si tratta di una sfida felice e gioiosa, altrimenti non riusciresti a farlo, questo mestiere… C’è dunque una felicità, una gioia estrema, nel riuscire a trasmettere qualcosa al pubblico.
che interviene così, all’unisono, è emozionantissimo. Del resto essere attori non è sempre una cosa facile: si vive continuamente in una sorta di precariato assoluto, però quando ti rendi conto che è la cosa che sai fare meglio, che ti manca fortemente quando non la fai e che non ne puoi proprio fare a meno, allora vivi sentimenti contrastanti e vai lo stesSIMONE TANGOLO: Sicura- so avanti con questo mestiere: senti mente il fatto di essere attori è uno che è decisamente la cosa che contistato d’animo legato alla sensazione nui a scegliere e che fa per te.
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L’AIUTO REGIA
Giacomo Pedini Il progetto legato ai Carissimi padri… è stato un viaggio lungo quasi tre anni…
È stato un lavoro di riflessione e di analisi sulla realtà, un’attività complessa e stratificata che ha coinvolto persone diverse per abitudini, discorsi individuali e provenienze. Un viaggio che si è mosso tra città diverse, da Modena a Firenze, e che ci ha dato una semplice opportunità, quella di costruire un discorso insieme ad altre persone, che si arricchisce, si modifica e si sviluppa nel tempo. Esiste quindi la possibilità di un agire teatrale fatto di tante piccole e differenti relazioni tra gli individui che si condensano come massima espressione nello spettacolo da palcoscenico. È una pratica teatrale costruita sul dialogo tra persone che si incontrano in uno spazio comune. Qual è l’ambito di azione in cui si muove all’interno del progetto?
È molteplice, è una figura che attraversa una serie di ambiti di lavoro: per quanto riguarda lo spettacolo è l’aiuto regia, mentre nell’ambito progettuale è una posizione che sta a metà tra l’ideazione di un programma, l’organizzazione e anche il Dramaturg, per usare un’espressione legata alla figura professionale del teatro tedesco.
Come vede il futuro? Una sua riflessione.
Allo stato attuale dei fatti questo modus operandi sta andando avanti, si cerca di sistematizzare questa modalità di lavoro che abbiamo messo in piedi inizialmente in maniera più provvisoria. Il tentativo è quello di integrare sempre di più tale metodo di lavoro con quelle che sono le caratteristiche dei teatri che producono queste operazioni - i teatri nazionali - che possiedono già le proprie caratteristiche strutturali organizzative. Il fine è di essere sempre più armonici e organici all’attività del teatro stesso facendo in modo che diventi una pratica diffusa. Fino adesso abbiamo parlato delle origini della Grande Guerra perché ha significato riflettere sulle dinamiche del potere, sulle conseguenze nefaste che la casualità e gli errori possono generare. E anche i nostri progetti futuri non possono prescindere dall’esigenza di elaborare un discorso sul presente, capace di creare una condivisione con tipologie di spettatori differenti. Il futuro di questi progetti sta nella capacità di continuare ancora a ragionare su qualcosa che collettivamente ci interessa, ci coinvolge o ci preoccupa, che crediamo comunque sia necessario come discorso di riflessione sulla realtà. Uscire dal senso di isolamento e di impotenza in cui il nostro sistema di vita quotidiana ci ha portati, credo che sia un’esigenza molto forte, per tutti. Allora l’intervento teatrale può diventare un canale di espressione e una possibilità della messa in dialogo tra la gente, che poi è la funzione primaria del teatro, quella più complessa e profonda, oltre al puro piano del divertimento.
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S PEC I A L E M E S T I E R I D ’A R T E
Paolo Di Paolo Le parole DEntro la testa
Istruzioni per non morire in pace del gruppo Carissimi Padri..., già a livello di scrittura, affronta la Storia, quella con la esse maiuscola, in maniera gioiosa…
Quando si racconta la guerra teatralmente o cinematograficamente si arriva sempre alla rappresentazione del luogo di battaglia, invece parlando con Longhi e con tutto il gruppo “A volte sei governato dall’inquietudine ed ogni di lavoro abbiamo pensato di non far indizio quotidiano può diventare una storia: vedere in scena la trincea, il sacco di c’è come un’insoddisfazione costante, una juta o i soldati al fronte. Quell’idea di mancanza che devi colmare attraverso le storie” gioiosità, di solarità e anche di frivolezza che si respirano ha un risvolto, anche un po’ spettrale e macabro: è la spensieratezza di chi va verso la catastrofe senza rendersene conto. Quella che chiamiamo Belle Époque è una fase della storia occidentale ed euro-
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pea simile a quella che stiamo vivendo, in cui i conflitti – almeno a certe latitudini – sono sotterranei, mandano dei bagliori ma non diventano costitutivi della quotidianità, anche se tuttavia ci sono dei segni che portano verso la catastrofe. Un’inesauribile curiosità: è questo il sentimento predominante che bisogna possedere per raccontare la Storia?
con il regista, con l’assistente regista, con alcuni attori come Lino Guanciale, in particolare, oppure come Simone Tangolo che si è impegnato sui testi per le canzoni… Ogni momento è stato condiviso e rimodellato sugli attori che sarebbero stati in scena. La necessità che allora si crea è di tradurre un materiale complesso, per- “Se esci dal teatro magari non ché saggistico, in avendo capito tutto, ma avendo una trasparen- guadagnato nuovi interrogativi e za che arrivi al dubbi, questa è l’opportunità più pubblico. Sono bella che ti può essere regalata” gli attori a dover trovare una coloritura tonale, un certo gesto, per tradurre parole anche molto plumbee e burocratiche. Quando si scrive un romanzo sei tu, l’autore, ad essere il grande burattinaio di tutto, mentre noi abbiamo sperimentato una collettività del lavoro: la quotidianità con la Compagnia è stata determinante.
Bisogna partire a raccontare dalla Storia, quella nota a tutti e supportata dalla storiografia, aggiungendo dei dettagli più personali: il punto è stato quello di lavorare su elementi apparentemente marginali, per renderli invece centrali. Se racconto dell’Italia che entra in guerra dal punto di vista di una famiglia italiana, una qualunque, sono in grado di calare una prospettiva più generica su una dimensione più specificatamente narrativa: ci si può soffermare su dei personaggi, Lei ha detto che la parola dialogo, anche di invenzione, ma modellati su prima di tutto, acquista un valore testimonianze reali. È la libertà che ci fondamentale nel suo mestiere… prendiamo per compiere sulla Storia La dimensione del dialogo, della un lavoro di immaginazione: è l’attrito produttivo tra finzione e Storia conversazione e della dialettica mi a determinare quello che poi si vede sembra la situazione più fertile per ogni rapporto umano. Solo in virtù sul palco. del fatto che intavoli un dialogo con Qual è la specificità di scrivere per qualcuno, ma anche semplicemente il teatro rispetto agli altri generi che incontri uno sconosciuto ed inteletterari? ragisci con lui, direi che è qualcosa di Io non ho un’esperienza forte di talmente prezioso ed è una questione scrittura per il teatro, ma credo che il che mi ossessiona. In passato ho scritgruppo dei Carissimi padri… cercas- to dei libri-conversazione per entrare se proprio una figura più di narrato- in contatto, attraverso delle interviste, re che di drammaturgo puro. Ciò ha con altri scrittori più adulti ed esperconsentito la creazione di una specie ti di me. Provare ad interrogarli e a di collage di narrazioni e io non ho creare un dialogo con loro è stata una scritto da solo come quando di soli- guida, ancora prima di pensare che to progetto un romanzo o un saggio: avrei scritto io stesso libri di narrati- A sinistra: c’è stato un lavoro costante di dialogo va. Il teatro moltiplica le possibilità di foto di Zoe Guerrini
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dialogo perché si nutre di una scomposizione costante: il dialogo base è quello tra il testo e la platea, poi c’è uno scambio tra Dramaturg e regista, tra il regista e gli attori e infine tra gli attori stessi… Un attore che dialoga con un altro attore è semplicemente la quintessenza dell’esperienza teatrale.
ma, deve necessariamente essere un’esperienza conoscitiva. Se esci dal teatro magari non avendo capito tutto, ma avendo guadagnato nuovi interrogativi e dubbi, questa è l’opportunità più bella che può essere regalata. Non è sempre necessario comprendere ciò che si sta guardando: di fronte ad un quadro o ad un’installazione contemporanea può esserci incomprensione, però è una porta che si apre. In questa centrifuga di possibilità che la cultura è in grado di offrire, tu, spettatore, sei portato a confrontarti con qualcosa che prima non conoscevi e che ti colloca in una condizione conoscitiva. Il mestiere di scrittore è caratterizzato da uno stato gioioso legato alla creatività?
FOTO FILIPPO MANZINI
Esiste una parte misteriosa in questo rapporto che l’autore ha con la scrittura. Sicuramente lo scrittore cerca di tradurre una personale inquietudine e la sua volontà di dialogo nelle parole e nelle storie che utilizza. In fondo essere scrittori è una condizione naturale, che presuppone un gesto artigianale – si producono dei libri – ma la scrittura comincia già prima, nella tua testa: vedo, per esempio, una persona in treno che mi colpisce e ne immagino la vita che c’è dietro… A volte sei governato dall’inquietudine ed ogni indizio quotidiano può diventare una storia: c’è come un’insodSecondo Dacia Maraini, con disfazione costante, una mancanza cui Lei ha spesso collaborato, il che devi colmare attraverso le storie. teatro si può intendere solo come Nell’immedesimazione di una vita un processo di conoscenza: è che non è la tua – per citare Carrère d’accordo con questa definizione? – penso che ci sia “una lacuna origiIl teatro che lascia il segno, così naria” determinata dalla necessità come anche la letteratura o il cine- di essere riempita con la scrittura.
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Lampi di gioia...
energia pura Federica Di Martino
Che cos’è per Lei la gioia?
Per me la gioia è la vita… La gioia più grande che ricordo, una gioia enorme, è legata al mio lavoro e ad un’età particolare perché avevo solo 18 anni quando mi hanno preso in Accademia. Avrei così studiato per diventare attrice! Sei talmente giovane che quel tipo di gioia lì si esprime senza freni, sei senza problemi o pensieri, per cui sprizzi felicità e addirittura ti metti a saltare: quando passi ad un’altra età cominci a contenere certi scoppi di felicità. Essere attori è uno stato gioioso?
IMMAGINE DALILA CHESSA
Oggi come oggi fare il mio mestiere è una gioia, nel senso che siamo messi talmente male a livello sociale che certamente il mio lavoro non lo vivo con tormento, non servirebbe a niente. L’angoscia che ti afferra prima di entrare in scena permane sempre, però l’approccio al mestiere è giocoso perché io sono sempre contenta di lavorare. Gli attori possono essere definiti dei pazzi a continuare a scegliere questo mestiere con tutte le difficoltà pratiche che comporta, però sono certa che nel momento in cui vanno in scena e quindi hanno la possibilità di fare quello che amano fare, vivono la loro ‘pazza gioia’… Ogni gioia alla fine è un po’ pazza perché è un sentimento speciale, legato ad uno stato d’animo irruento e non lineare: è uno scoppio energetico, uno scoppio di ilarità incredibile. Lei è portata più alla gioia o al lato malinconico dell’esistenza?
Io normalmente mi sveglio e sono felice di affrontare la giornata, ma sono anche un contrasto vivente: diciamo che vivo la mia gioia con malinconia, sono una persona solare ma anche molta chiusa…
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Un teatro, Il Teatro della Toscana, assecondando la sua vocazione nazionale, ha ospitato e accolto in questi primi anni di lavoro tanti attori, ognuno con una propria identità, rappresentativa di un modo di essere e di attraversare la scena. Attori che in questo tempo hanno animato, con gioia, i Quaderni della Pergola e che ci hanno accompagnato nella narrazione regalandoci una nuova idea o un’inaspettata scintilla di emozione. Perché, come scrive il critico Valerio Magrelli, l’attore “è un esploratore e un viaggiatore – e molto altro – per conto terzi. E quei ‘terzi’ siamo tutti noi, spettatori di storie di ieri e di oggi, lontane storicamente oppure prossime alla nostra quotidianità. Gli attori in scena si interrogano, si fanno delle domande profonde che cercano risposte non semplici. Risposte che l’attore vuole trovare insieme a tutti noi”.
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tanti attori Stefano Accorsi “Ci vuole incoscienza per diventare attori e anche molto rigore. È un mestiere fatto di contraddizioni. C’è sempre il bisogno di avere l’attenzione degli altri, ma non solo: si tratta di una creazione autentica, che svela dei lati profondi, al di là dell’attore che sta sempre lì ad aspettare qualcuno che gli dia una battuta per vivere e per esistere. Deve esserci una passione forte a sostenerti e bisogna credere in se stessi, crederci tanto.”
Marco Baliani “Ogni spettacolo è un work in progress, non arrivo mai alle prove sapendo già quale direzione intraprendere: il mio lavoro registico è di ascolto. La bellezza del teatro è proprio questa, l’esplorazione. Ancora oggi, ad affascinarmi, è il percorso. Ciò che accade prima della messinscena è infinitamente più interessante dello spettacolo in sé.”
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Fabrizio Bentivoglio “Il momento più emozionante per un attore è il tempo della vestizione in camerino, quando l’attore indossa il costume di scena e la persona, poco alla volta, si trasforma in personaggio. Il momento più privato e rituale di un attore.”
Alessio Boni “Già nelle rappresentazioni greche si rispondeva ad una necessità insita nell’essere umano: l’uomo che si mette a confronto con un altro uomo. Il calore umano e l’energia che si sprigionano in questo scambio reciproco tra attore e spettatore non si può quantificare: è come l’amore, cambia ogni giorno e non si può razionalizzare. Proviamo a pensare ad un teatro con mille spettatori all’interno e a quanta energia ogni singola persona riesce a sprigionare, un insieme di molecole e pensieri che uniti creano coraggio, energia, amore.”
Sergio Rubini “Se il pubblico ci segue è perché siamo riusciti, in qualche modo, ad essere veri. Il pubblico è dunque lo specchio della nostra capacità di scavare a fondo in noi stessi e di essere autentici. Quando riusciamo a farlo, il pubblico ci sorride.”
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Iaia Forte “Ricevere gli applausi del pubblico è un momento catartico, ma in modo inverso rispetto al punto in cui si entra in scena. Il passaggio dal camerino al palcoscenico inizia già quando ci si trucca, è l’inizio verso una nuova dimensione che si abbandona soltanto all’applauso finale. In quell’attimo non vivi solo la felicità di raccogliere il risultato del tuo lavoro, ma è anche un modo per disincarnarsi dal personaggio, ritornando a qualcosa di più materico. Soltanto dopo uno spettacolo ti senti veramente libero e comprendi che il teatro allora ti restituisce alla vita, al mondo, al quotidiano e alla concretezza delle cose.”
Gioele Dix “Recitare significa fare dei voli avanti e indietro nel tempo, ritornando sempre, ancora una volta in più, a raccontare una storia.”
Laura Morante “Al cinema lo spettatore ti vede sul grande schermo come un’immagine virtuale e bidimensionale; invece tutto a teatro si svolge hic et nunc, noi attori siamo lì presenti, in quel particolare momento, e può succedere qualsiasi cosa…”
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Fabrizio Gifuni “La vita è fatta di continui condizionamenti ed interferenze, ma in palcoscenico io mi sento quasi sempre libero… Il palcoscenico è la mia seconda casa. Sono convinto che i teatri, se vissuti nel modo giusto, possono ancora essere un’oasi straordinaria di libertà. Spesso quello che ci circonda è talmente brutto, duro e violento che diventa ancor più fondamentale preservare questi luoghi: è come se fossero dei polmoni pulsanti all’interno di una città, luoghi che sprigionano luce e forza.”
Toni Servillo “Il mestiere dell’attore ha conosciuto in questi anni, sul piano popolare, una sorta di banalizzazione, quando non di volgarizzazione, legata esclusivamente a un talento che molto spesso è solo espressione generica di una capacità funambolica. Serve allora una sorta di cultura personale e di disciplina, capace di mettere in discussione tutto questo, perché gli attori sappiano che quando si misurano con un testo si confrontano con un materiale poetico, che essi stessi devono diventare poesia vivente. Se c’è qualcosa che si impara dopo aver vissuto anni di teatro e migliaia di repliche, è che sul palcoscenico ti perdi e ti ritrovi di continuo… E in questo gioco di perdite e di ritrovamenti senza fine arrivi a capire qualcosa di te.”
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Pierfrancesco Favino “Ogni ruolo è l’espressione di un bisogno che deve essere raggiunto, vita o morte: non ci sono vie di mezzo. Le azioni, i conflitti: questo è il sale della recitazione. L’energia che il teatro richiede è vita, non si tratta solo di mera sopravvivenza.”
Filippo Timi “Come i clown che camminano sul filo fingendo di cadere ma che nel mezzo fanno i salti mortali, allo stesso modo io mi sento un pagliaccio circense che fa i salti mortali con l’anima. In scena sembra che zoppichiamo – in senso metaforico – però cadiamo dopo aver fatto un salto mortale con i sentimenti. Bisogna essere atleti dell’anima, dei ‘super attori’, e in fondo ognuno di noi è un ‘super essere umano’: tutti, messi emotivamente in condizioni estreme, riescono a fare un salto mortale. Qualunque essere umano, proprio perché goffo, spinto da una reale urgenza, vola.”
Claudio Bisio “Il comico ha una visione della realtà quasi spiazzante perché anticipa alcune cose che risiedono, in modo latente, in tutti noi e che ci appartengono. Raccoglie l’essenza della realtà per restituircela in termini assurdi, a volte perfino surreali.”
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Marina Rocco “È una cosa incredibile andare in tournée per l’Italia, ogni regione è profondamente diversa dalle altre, nei costumi e nel modo di essere. Non è che semplicemente piace o non piace uno spettacolo, è che il pubblico ha un suo carattere e un suo modo di esprimersi. Noi lo spettacolo lo facciamo lo stesso, a volte anche un po’ soffrendo, perché alla fine siamo tutti in cerca d’amore.”
Lucia Mascino “Amo quei personaggi che sotto sotto celano qualcosa e che contengono una parte inespressa: una bomba inesplosa emotivamente. Personaggi che riescono a toccarmi intimamente e che io riesca quindi ad abbracciare facendoli miei.”
Glauco Mauri “C’è differenza tra recitare ed interpretare: quando reciti descrivi la geometria del personaggio, mentre l’interpretazione esprime qualcosa in più, è entrare dentro la complessità dell’animo umano.”
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Lucia Poli “Il tempo trascorso in palcoscenico, spettacolo dopo spettacolo, è un tempo ritagliato dalla realtà che non coincide con lo scorrere del tempo naturale. Nella vita reale spesso sonnecchiamo o ci annoiamo, così il tempo si sfilaccia; invece nella concentrazione del palcoscenico tutto diventa particolarmente fervido e messo a frutto: è il tempo dei momenti forti, quando si vive appieno la vita.”
Emilio Solfrizzi “Il viaggio che un attore compie nei personaggi e nella storia che sta interpretando è un viaggio emozionale, un percorso dell’anima. Riuscire a far sorridere il pubblico: io in scena sento sempre in maniera potente e forte questo tipo di responsabilità. Più in generale avverto comunque di continuo la responsabilità del fare che è comunque una parte del mio tratto caratteriale. Secondo me non si può andare a cercare la risata semplicemente in chiave catartica, creare un momento comico soltanto quando si deve fuggire dalle cose tristi… La risata bisogna essere capaci di farla arrivare anche nei momenti positivi. Tentare di far raggiungere un istante di felicità agli spettatori: questa tensione continua costituisce una grande responsabilità”
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Vinicio Marchioni “L’impostazione che il regista dà non deve ‘mangiare’ mai l’interpretazione di un attore. Il regista costruisce lo spettacolo insieme all’emotività, al mood espressivo che un attore porta sempre con sé. Essere un interprete ti colloca a metà tra un tipo di linguaggio che esisteva già prima di te – le parole scritte dall’autore – e il linguaggio voluto dall’impostazione registica. Il risultato è ancora un altro linguaggio, quello della scena…”
Lucia Lavia “Stare sul palco è una sensazione assurda, una dimensione ‘altra’ ed è una caratteristica del mestiere che mi piace guardare anche in chi mi sta vicino: gli altri attori entrano in scena e il loro sguardo cambia, come se avessero varcato una linea invisibile. In scena io, Lucia, sono sempre me stessa ma sono anche qualcun altro. È il personaggio che vince.”
Alessandro Preziosi “Per essere attori occorre sostenere una tensione continua verso la fantasia o meglio la follia, che rappresenta il coraggio che ci vuole per affrontare il palcoscenico.”
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Neri Marcorè “Credo in una funzione civile del teatro che è quella di guardare al presente e di descriverlo. In teatro è fondamentale provare emozione, perché è come se fosse la benzina che si brucia durante ogni spettacolo e che ti fa andare avanti.”
Luca Zingaretti “Sono diventato attore quasi per caso. L’unica cosa che poteva indurmi a pensare al fatto che sarei potuto diventare un attore è il mio carattere: per natura io sono una persona inquieta, che è continuamente alla ricerca di qualcosa… Essere attori significa anche mantenere dentro di sé una spinta in avanti, la voglia di guardare sempre oltre e non accontentarsi mai.”
Elio “L’ingrediente indispensabile per riuscire a portare avanti una scelta, qualunque essa sia, è l’entusiasmo inteso come amore o passione. Solo così è possibile arrivare al pubblico e tutto si mette in moto. Per creare veramente qualcosa è necessario fare scandalo. È così che si diventa rivoluzionari.”
Gioia, bella scintilla divina, figlia degli Elisei, noi entriamo ebbri e frementi, celeste, nel tuo tempio. La tua magia ricongiunge ciò che la moda ha rigidamente diviso, tutti gli uomini diventano fratelli, dove la tua ala soave freme. L’uomo a cui la sorte benevola, concesse di essere amico di un amico, chi ha ottenuto una donna leggiadra, unisca il suo giubilo al nostro! Sì, chi anche una sola anima possa dir sua nel mondo! Chi invece non c’è riuscito, lasci piangente e furtivo questa compagnia! Gioia bevono tutti i viventi dai seni della natura; tutti i buoni, tutti i malvagi seguono la sua traccia di rose! Baci ci ha dato e uva, un amico, provato fino alla morte! La voluttà fu concessa al verme, e il cherubino sta davanti a Dio! Lieti, come i suoi astri volano attraverso la volta splendida del cielo, percorrete, fratelli, la vostra strada, gioiosi, come un eroe verso la vittoria. Abbracciatevi, moltitudini! Questo bacio vada al mondo intero Fratelli, sopra il cielo stellato deve abitare un padre affettuoso. Vi inginocchiate, moltitudini? Intuisci il tuo creatore, mondo? Cercalo sopra il cielo stellato! Sopra le stelle deve abitare! An die Freude, Friedrich Schiller
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gioia e sciagura sempre non dura...
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ORIZZONTI DI GLORIA La gioia nello sport
di Riccardo Ventrella
C’
è un contropiede, o un quasi contropiede. La palla caracolla nell’area presidiata dai giocatori in maglia bianca. Si muove da una parte all’altra, toccata dai giocatori in maglia azzurra che come il matador fanno spostare il toro in attesa di infilzarlo con la banderilla. A un certo punto, dal lato destro dell’area la palla torna verso il centro. Il giocatore destinatario del passaggio la tocca col piede destro, facendola alzare: la sfera pare sfuggirgli, come per un controllo maldestro, e invece il giocatore s’allunga e prima che tocchi terra di nuovo la colpisce col sinistro in un fendente mortale. Il portiere non può che farla passare. Il giocatore si alza da terra e inizia una lunga corsa parabolica verso il lato del campo, come se volesse sfuggire all’abbraccio dei compagni. Urla con le braccia aperte e i pugni serrati, urla “gol, gol”. Alla fine i compagni lo placcano, lo atterrano, lo sommergono con la loro gioia. Il Presidente della Repubblica in tribuna d’onore si alza in piedi come un tifoso qualunque, lasciando di stucco il Re e tutti gli altri capi di stato. La notte è ormai arrivata su Madrid, e non sarà una notte qualunque.
Cambio scena. Siamo in Francia, sulle Alpi, nel dipartimento dell’Isère, su una strada che da Le Bourg-d’Oisans sale per mille e certo metri di dislivello fino all’Alpe d’Huez. Ci sono ventuno tornanti sui quattordici chilometri di quel percorso. È il 19 luglio del 1997, e fa molto caldo. Si corre la tredicesima tappa del Tour de France, partita da Saint-Étienne. C’è un omino su quella strada, calvo in testa e con delle grandi orecchie che sembrano volerlo inchiodare a terra. Ha una maglia variopinta sul blu, e sale, sale molto più veloce degli altri. Lascia il gruppo del quale faceva parte e si mette a inseguire gli altri corridori in fuga. Non è stato mai benigno il destino con l’omino dalla cervice pelata. Due anni prima una macchina lo ha investito in allenamento, spezzando le gambe. Al Giro d’Italia di quell’anno un gatto lo ha fatto cadere,
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obbligandolo al ritiro. E allora lui sale, sale veloce perché ogni tornante abbrevia l’agonia della fatica. Anche la maglia gialla, il leader della classifica, un tedesco che pare un armadio in confronto a lui, cede e resta indietro. Lui sale, sale i tornanti ognuno dedicato ad uno dei vincitori degli anni passati. Si entra nel paese dell’Alpe, la bici percorre l’ultima curva e l’omino finalmente alza la testa dal manubrio, apre le braccia: apre le braccia e urla di liberazione, con i pugni serrati. Dopo tanta sfortuna ha vinto. La gioia nello sport è un misto di esultanza e liberazione, di peso che scende dalle spalle, di un traguardo raggiunto, quale esso sia. La gioia diventa storia, al pari della sconfitta. Lacrime che si mescolano e uniscono vinti e vincitori. La prima gioia è quella di Marco Tardelli dopo il gol del 2-1 durante la finale Italia-Germania (allora ancora Ovest). Una rete di rara bellezza, per preparazione ed esecuzione balistica. Un simbolo storico quell’urlo reiterato con Pertini che scatta in piedi lasciando di stucco Juan Carlos di Borbone. L’urlo di un Paese intero che dopo un decennio di tristezza e terrorismo vuole lasciarsi tutto alle spalle, tornare a riunirsi sotto una bandiera a lungo vituperata per festeggiare una vittoria sportiva e dare spazio a una visone più ottimista della vita. Gli anni Ottanta cominciano forse lì, da quell’urlo liberatorio che attraversa il prato verde del Santiago Bernabeu. La seconda gioia è quella di Marco Pantani, vincitore per la seconda volta sulle rampe dell’Alpe d’Huez, la Sorbona delle salite ciclistiche. Se c’è una parabola del riscatto umano dalle sfortune, quella scritta da Pantani nella assolata giornata alpina del 19 luglio 1997 è una delle più cristalline. Condannato a una lunga immobilità da un incidente pauroso, fermato dalla sfortuna nel Giro del rientro, trova in quel giorno la rinascita. Cadrà ancora, e tragicamente. Ma quell’ascesa rimane una straordinaria pagina di ciclismo e di sport, di cui oggi rimangono i ricordi filmati e il record assoluto della salita, ancora imbattuto dopo vent’anni. Mai come nello sport gioie e dolori sanno toccarsi e diventare quasi una cosa sola, da sperimentare a giorni alterni. Mai come nello sport il sale delle lacrime è lo stesso del sudore e della fatica. Si piange sempre e comunque, ed è questo che ci fa sembrare lo sport un fatto così toccante.
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E quindi uscì a riveder il teatro Alessio Martinoli tra Buzzati e Shakespeare in una RSA
di Matteo Brighenti
L
a gioia regala gioia. Fare qualcosa di utile, con tutte le sue forze e anche le debolezze, rendere felice chi vive d’arte, autori o spettatori, è l’entusiasmo che muove caparbiamente Alessio Martinoli. “Se vogliamo che la gioia sia nostra ospite – afferma – dobbiamo essere i primi a portarla agli altri. Costa impegno, dedizione, fatica, sacrificio, studio, ma se non si passa da tutto questo sarà soltanto una gioia apparente, effimera”.
FOTO FRANCESCO SPAGNUOLO
Alessio Martinoli con Carmen, una ospite della RSA ‘Il Giglio’
Cita il francese Jacques Copeau, “il teatro nasce dove ci sono delle ferite, dove ci sono dei vuoti”, per raccogliere insieme i fili che legano Cantiere Futurarte, Esperimento deserto e RSSA – Residenze socio shakespeariane assistite, i progetti con cui è “uscito dal teatro con il teatro”, volendo smettere di avere e dare giudizi affrettati e cercare di capire come possiamo ricominciare a essere liberi e solidali. “Sono una persona che cerca. Mentre cerco vengo ‘folgorato’ – chiarisce – da una visione, e allora ne seguo la strada, la sperimento. Sono un artista, un operatore culturale, un attore? Se in uno di questi ruoli posso essere un valore aggiunto allora lo interpreto”. L’importante è approfondire e coltivare la propria passione, e fare esperienze. “Un mondo di appassionati – domanda – non sarebbe più bello? Un mondo in cui ognuno dà qualcosa a tutti”.
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Classe 1983, fiorentino, laurea magistrale in Storia, critica e produzione dello spettacolo, Martinoli nasce drammaturgo, regista, attore, e cresce ideatore e sviluppatore di format culturali. Recentemente, ha lavorato come interprete in due produzioni del Teatro della Toscana, Il sogno di Alice di Sara Morena Zanella, viaggio con sonno e risveglio per bambini dai 6 ai 10 anni, e Il deserto dei Tartari, lettura teatrale a puntate del romanzo di Dino Buzzati a cura di Andrea Macaluso. “Il teatro per me – interviene – è un luogo di esperienze complicate, ostinate e meravigliose. Certo, se fossimo tutti dei bravi attori interpreteremmo sempre noi stessi o meglio quello che vorremmo essere”. Dal capolavoro di Buzzati, uno dei suoi libri preferiti, nel 2014 è partito Esperimento deserto (collaborazione di Laura Bandelloni), un percorso di incontri, residenze, laboratori, una nuova via di fruizione dell’arte volta all’apertura e al rinnovamento delle pratiche, con una finestra online su esperimentodeserto.com e una pièce in lavorazione. L’anno precedente aveva preso il via Cantiere Futurarte per mettere in relazione e valorizzare chi fa cultura a Firenze: quattro incontri a Palazzo Vecchio “e poi – racconta – siamo finiti a ‘suscitare’ eventi culturali gratuiti nei locali per creare un’alternativa alla “Il teatro per me è un luogo mancanza di spazi”. L’esperienza, condivisa con Lorenzo di esperienze complicate, ostinate Berti, è terminata a fine 2016. “Cerco di andare dove non e meravigliose” c’è nulla – riflette – o dove non sono mai andato. Non essendoci un manuale d’istruzioni, a volte mi capita di essere troppo avventato, di tirarmi indietro, di perdere il controllo della situazione, altre volte sono mancate le risorse, ma ho sempre dato il massimo”. RSSA – Residenze socio shakespeariane assistite è l’ultima creazione progettuale di Alessio Martinoli con Francesco Dendi e ha l’obiettivo di rappresentare ogni anno un testo di Shakespeare sul ‘palcoscenico’ della Residenza Sanitaria Assistenziale (RSA) ‘Il Giglio’ di Firenze diretta da Silvano Di Geronimo. Il cast è formato da attori scelti fra gli anziani della struttura, lo staff e ragazzi under 25: l’estate scorsa hanno messo in scena Amleto2016, quest’estate è in programma La commedia degli errori 2017 (24-26 giugno). “Facciamo del teatro – spiega – uno strumento di conoscenza. E lo è ogni giorno, grazie al rapporto fra i giovani e gli anziani, che non è mai facile. Non siamo all’Opera di Pechino, ma l’impegno e la dedizione non mancano”. La gioia, allora, è l’orizzonte di un sogno che mette il futuro in costante relazione con il presente. “Voglio fare al meglio quello che mi aspetta – conclude – per poi riuscire a guardare più in là, a Francesco d’Assisi, il mio nuovo spettacolo su un personaggio che insegue l’esempio di Francesco, come Francesco aveva fatto con Gesù”. Come da una vita Alessio Martinoli rincorre il suo vulcanico entusiasmo.
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Due pazzi sono I Carullo-Minasi e la fiera bellezza della vita fragile
L
a gioia è coscienza. Un cammino profondo alla riscoperta di sé e del confronto con gli altri, una condivisione di doni che non tace neppure inevitabili debolezze. “È la gioia della ricerca che diventa essa stessa – precisano Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi – ricerca d’amore, amore nei confronti della vita. La consapevolezza dell’assurdo dell’esistenza non può e non deve scadere in rabbia e di sperazione paralizzante”.
Occhi incantati e concreti, pensieri liberi e tenaci: bisogna attraversare il buio per generare la stella danzante di cui parla Nietzsche. Giuseppe e Cristiana ne hanno trovato un firmamento intero nella loro unione, e con il teatro, iniziata quasi dieci anni fa a Messina. Di là dal mare, da Reggio Calabria, arriva Giuseppe Carullo, di qua dalla Sicilia proviene Cristiana Minasi, anche avvocato abilitato, laureata con lode. Insieme hanno fondato la loro casa comune sulla scena, la Compagnia Carullo-Minasi. “La qualità di Cristiana che più apprezzo – esordisce Carullo – è che non molla mai. È tenace, irrefrenabile, le piace migliorarsi sempre e conquistare nuovi traguardi”. Gli fa eco Minasi: “In Giuseppe vedo la fede e l’intelligenza di sapere restituire valore a ogni piccola cosa pronta a diventare sacra. Ritrovo l’impazienza e la pazienza, la capacità di amare e di farsi amare”. Tenacia irrefrenabile e impaziente pazienza “La gioia è coscienza. diventano voglia di riscatto nel 2010, quando una malatUn cammino profondo alla tia importante costringe Giuseppe in ospedale. All’epoca riscoperta di sé e del confronto la Compagnia non esisteva, avevano condiviso solo due con gli altri, una condivisione spettacoli da attori, Euphorìa di Adele Tirante e Fragile di doni che non tace neppure di Tino Caspanello. “Vole-vamo raccontare – spiegano inevitabili debolezze” – l’indescrivibile forza dell’uomo. Questo si è poi trasformato nella metafora concreta del nostro desiderio più grande: fare teatro e, soprattutto, insieme”. Nasce così Due passi sono (2011), con cui la coppia sancisce ufficialmente il proprio connubio teatrale di autori/attori e registi, vincendo i premi Scenario per Ustica 2011, In-Box 2012 e l’Internazionale Teresa Pomodoro 2013. Si parla del cicaleccio ossessivo di una coppia in continua lotta tra il voler stare ‘dentro’, protetta da regolamenti e prescrizioni, e la speranza di uscire ‘fuori’, rischiare, magari pure fallendo. “La ricerca della felicità – sostengono – implica un rischio, un salto nel vuoto, nell’immaginazione. Ciò che più ci
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interessava era descrivere l’incapacità di intravedere, in tutto ciò che è ignoto e sconosciuto, la meraviglia e la potenza di ciò che ci resta da vivere”. Da allora, a testi originali hanno alternato adattamenti di classici non teatrali, dai dialoghi di Platone alle Operette morali di Leopardi. ‘Intelligenti’, ‘poetici’, ‘ironici’, sono gli aggettivi usati più spesso per definire i loro lavori. “Da Platone – osservano – abbiamo appreso che la maggiore intelligenza sta Cristiana Minasi e nel non avere certezza o risposta alcuna. Al limite, ci facciamo promotori di Giuseppe Carullo
FOTO GIANMARCO VETRANO
una poetica volta alla sottrazione per la riscoperta dell’uomo nella sua essenza prima e più vera: la piccolezza, la debolezza. Così ‘giochiamo’ con il teatro per smascherare ogni omologazione e proclamare la diversità come valore”. Un valore quanto mai al centro dell’ultima creazione, Delirio Bizzarro (2016), in cui la Compagnia Carullo-Minasi sperimenta una nuova forma di elaborazione drammaturgica a partire da domande a pazienti di strutture psichiatriche. “Lo spettacolo – dichiarano – affronta l’impossibile linea di demarcazione tra normalità e follia, linea arrogantemente segnata dalla Scienza che tutto crede di dominare, anche la persona e la sua complessità. Non ci rimane quindi che essere tutti pazzi, affetti da un ‘delirio bizzarro’ che tutti ci riguarda”. D’altronde, non è stata un’idea a spingerli a fare teatro insieme, ma una pazzia. “Non c’è follia più grande, in cui però riconosciamo la nostra fierezza, che tentare con i nostri piccoli atti poetici – concludono Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi – di ritrovare l’energia e la voglia di stupirci ancora e ancora, restituendo alla vita la sua più grande virtù: la sua delicata fragilità”. (M.B.)
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Sei tanto strana ma tu mi piaci Anna e Totò insieme
È
il 1960, l’Italia è investita dai potenti effetti del boom economico. C’è La dolce vita, che da qualche mese è ufficialmente un film tale da destare un certo scandalo. Il benessere è per molti, ma non per tutti. Ci sono quelli che rimangono indietro, inesorabilmente, degli ultimi ai quali del benessere non toccano nemmanco le briciole. Il cinema italiano, anch’esso in stato di qualche benessere, cerca di rappresentarli in vario modo: sono gli emigranti del viscontiano Rocco e i suoi fratelli, o i ladruncoli dei Soliti ignoti.
C’è un altro film di Mario Monicelli, meno citato di quanto meriterebbe e a torto considerato minore, che racconta una piccola e deliziosamente triste storia di marginalità: è Risate di gioia, pellicola che passa alla storia anche per essere l’unica nella quale due grandi attori italiani hanno lavorato insieme. Fu un insieme di mere casualità a portare sul set di questo film Anna Magnani e Totò. I due inizialmente si guardarono con sospetto, soprattutto per quanto riguarda la Magnani che gradiva poco, da premio Oscar, “Eppure Umberto e Gioia sanno mescolarsi con un attore allora legato ad un genere di citrasfigurarsi quando si fingono nema particolarmente commerciale. Alla fine i due lavoaltro, e diventano stelle del rarono con una buona intesa, facendo a chi la diceva più varietà. Allora il loro sorriso grossa (ovviamente).
s’allarga e non è più smorfia ma felicità per un istante, e poi Bene è precisare che “gioia” prima ancora che uno starisata, una risata di gioia” to d’animo è il nome del personaggio della protagonista,
Gioia Fabricotti detta Tortorella, di professione comparsa a Cinecittà. Lasciata sola l’ultimo dell’anno a Piazza Esedra dalla comitiva con la quale avrebbe dovuto festeggiare a cena perché “tredicesima” a tavola, si imbatte in Umberto Pennazzuto detto Infortunio, sua vecchia conoscenza. Umberto deve il suo soprannome alla propria occupazione, se così si può chiamare, di simulatore di incidenti onde riscuotere l’indennizzo assicurativo. I due si incontrano a una festa alla quale Umberto è andato per assistere il ladro Lello, che vuole mettere a segno qualche colpo approfittando dei veglioni. Umberto non rivela a Gioia il perché sia lì, vergognandosi della cosa: anzi, i due fanno finta di essere artisti del varietà e si esibiscono in una versione irresistibile di Geppina Gepì. La lunga notte va avanti, con i tre che si separano e si ritrovano, sempre spinti dal desiderio di Lello di sgraffignare qualcosa. Gioia si invaghisce del giovane senza capire realmente le sue reali intenzioni finché, davanti al tentativo di rubare la collana della statua della Madonna in una chiesa, sarà lei
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stessa a fermare Lello, finendo per essere accusata del furto. Uscita di prigione otto mesi dopo, nel giorno di Ferragosto, troverà Umberto ad aspettarla. Una piccola storia triste che si svolge nella Roma notturna e festiva di Capodanno, e finisce nella Roma assolata e deserta di Ferragosto, simile a quella che poi apparirà nel Sorpasso. Nuovi riti per una società nuova, che si perde dietro al nascente astro del consumismo e diventa sempre più indifferente al prossimo. Una società che traccia una linea di demarcazione sempre più netta
tra chi ha molto, chi ha qualcosa e chi non ha nulla, lasciando inesorabilmente indietro gli appartenenti all’ultima categoria. Umberto e Gioia non sono nemmeno più campioni dell’arte di arrangiarsi: semplicemente annaspano in una corrente che si è fatta sempre più forte, e lascia sempre meno spazio alla fantasia e all’improvvisazione. Per quelli come loro ci sono solo le strade della città come deserto palcoscenico di una commedia che non può più essere recitata, e viene superata dalle strane bizzarrie di un ricco americano che, ad imitazione di Anita Ekberg, vuole fare un bagno nella Fontana di Trevi. Eppure Umberto e Gioia sanno trasfigurarsi quando si fingono altro, e diventano stelle del varietà. Allora il loro sorriso s’allarga e non è più smorfia ma felicità per un istante, e poi risata, una risata di gioia. (R.V.)
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Lampi di gioia...
in equilibrio Paolo Pierobon
Che cos’è per Lei la gioia?
Forse la gioia più grande nella vita di ognuno di noi è riuscire ad individuare quello che davvero ci piace fare, spesso non ci si riesce e ci si arrabatta… L’immaginazione ti apre sempre una possibilità nella ricerca della gioia perché ti obbliga a pensare ad un’altra alternativa e ti permette di sognare. Essere attori è uno stato gioioso?
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
Quando vanno male le cose, quando non trovi lavoro e stai tanto fermo senza avere ruoli da interpretare, ti sembra il mestiere più brutto del mondo. E poi, un altro aspetto negativo è che si tratta di un mestiere esposto molto al giudizio degli altri. Però, quando hai la fortuna che tutto riesca bene e giri per il verso giusto, allora la gioia è grande e indescrivibile. Quando in teatro o al cinema ti capitano dei ruoli che hanno uno spessore umano, tutto diventa fantastico e gioioso, sia per l’attore che per lo spettatore: quella finzione della scena ti aiuta a cambiare le tue prospettive e percepire davvero la vita. Lei è portato più alla gioia o al lato malinconico dell’esistenza? Tento di coltivare entrambi questi sentimenti perché è sbagliato essere soltanto malinconici o soltanto gioiosi… È giusto tenere dentro di sé questi stati d’animo in maniera bilanciata. Le degenerazioni sono sbagliate: pensiamo, per esempio, alla depressione… Non ne vale mai la pena, secondo me. È il giusto equilibrio fra i due elementi l’obiettivo a cui dobbiamo tendere.
“Vorrei condividere questo premio con Micaela Ramazzotti, perché senza di lei, senza Donatella, Beatrice non potrebbe esistere. Siamo un po’ come Stanlio e Ollio. Io sarei Stanlio e lei Ollio. O Sancho Panza e Don Chisciotte. Poi, ringrazio Franco Basaglia che cambiò radicalmente l’approccio della malattia mentale in Italia, ringrazio Paolo Virzì che mi guarda da anni con tenerezza, allegria e senza paura. Ringrazio la mia amica Barbara, che mi propose ufficialmente la sua amicizia il primo giorno di asilo e mi dette un po’ della sua focaccia facendomi sentire magicamente non più sola. Ringrazio poi i miei amici, le mie amiche, senza i quali non potrei vivere. E la mia povera psicoanalista… Ringrazio Leopardi, Ungaretti, Pavese ma, soprattutto, Natalia Ginzburg, i cui libri mi illuminano e mi consolano. Ringrazio Anna Magnani, Gena Rowlands e suo marito, De André, Chopin, mia madre, Brassens, mia sorella, mia zia. Ringrazio di nuovo Paolo Virzì che mi ha scelta per interpretare questo personaggio meraviglioso, triste, buffo e fantasioso. E tutti i registi che mi hanno accolto nel paese meraviglioso della loro fantasia. E in anticipo ringrazio quelli che forse mi accoglieranno ancora e mi permetteranno di vivere questa vita parallela che è il cinema. Ringrazio gli uomini che mi hanno amata, che ho amato e anche quelli che mi hanno abbandonata, perché mi sento fatta di tutti loro, ed è a loro che mi racconto. Ringrazio gli sconosciuti che mi fecero un sorriso, un gesto, nei giorni più bui. Ringrazio i miei due meravigliosi bambini. Ecco. E grazie a voi. Scusatemi.” Valeria Bruni Tedeschi, il discorso di ringraziamento per il Premio come Miglior Attrice Protagonista ai David di Donatello 2017
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S P E C I A L E P A Z Z A G I O I A
Francesca Archibugi
È la prima volta che ha lavorato ad una sceneggiatura, quella de La pazza gioia, di un film non diretto da Lei stessa?
Sì, è stata la prima volta ed è stato veramente bellissimo… Io e Paolo Virzì siamo amici, fin da quando abbiamo cominciato a fare cinema, ai tempi del Centro Sperimentale che frequentavamo insieme da studenti. Per La pazza gioia il gruppo della “Per scrivere una sceneggiatura si può partire da sceneggiatura è formato da me e Paoun testo teatrale, da un romanzo oppure puoi lo, penso che lavorare con lui sia una incubare a lungo dentro di te una nuova storia: cosa fuori dal comune. A Roma la l’importante è non abbandonare mai mattina io vado a lavorare in ufficio la tua visione delle cose” in bicicletta, so che mi aspettano Paolo e anche Francesco Piccolo, l’altro nostro amico sceneggiatore e scrittore, e penso di essere fortunata. Siamo insieme, lavoriamo e ridiamo: questa
la luce di un incontro
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è una cosa preziosa. Paolo Virzì è un regista molto forte, al contrario di me che invece con il tempo sento che la forza la perdo… Intorno a me esistono tanti modi che mi comunicano sempre un’impalpabile svalutazione della mia persona e questo aspetto io non riesco più a contestarlo come quando avevo vent’anni. Per essere degli artisti bisogna avere una forza inimmaginabile e Paolo ce l’ha. Ecco perché scrivere per un regista bravo come lui lo considero un regalo che mi ha dato questa fase della mia vita. Il film è imperniato essenzialmente su due figure femminili, incarnate dalle protagoniste Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti. La scrittura di una donna può forse rendere con uno sguardo più attento ed equilibrato la descrizione di queste donne fragili e forti allo stesso tempo?
Non credo che Paolo mi abbia scelto per scrivere la sceneggiatura di questo film in quanto donna, anzi lui dice sempre che scrivo come un uomo… Non si tratta solo di svelare un cinema al femminile, piuttosto direi che fondamentale è stato il mio interesse da sempre per il dissesto psichiatrico, anche per vari trascorsi personali e famigliari… Paolo sapeva che ero contigua a questa materia. Inoltre il processo di scrittura è avvenuto tenendo ben presente fin dall’inizio la personalità delle due protagoniste: i personaggi sono talmente appiccicati a Micaela Ramazzotti da una parte e a Valeria Bruni Tedeschi dall’altra… Contrariamente a quanto accade molte volte, in questo caso già in fase di sceneggiatura erano già state scelte le interpreti. L’idea del film a Paolo è venuta un giorno che Micaela era
andata a trovarlo sul set de Il capitale umano e ha visto un attimo nel buio Micaela e Valeria che chiacchieravano vicine. L’intuizione del film, la prima luce, è stata un’immagine legata a queste due attrici, sulla quale Paolo ha poi sviluppato l’idea. Quali sono le difficoltà di scrivere un testo originale per un film rispetto ad una sceneggiatura che invece si basa su un romanzo o comunque su spunti reali?
Il lavoro di adattamento di “L’idea del film a Paolo è venuta un testo e il la- un giorno che Micaela era voro su un sog- andata a trovarlo sul set de “Il getto originario capitale umano” e ha visto un sono due mon- attimo nel buio Micaela e Valeria di abbastanza che chiacchieravano vicine. diversi. Furio L’intuizione del film, la prima Scarpelli che è luce, è stata un’immagine legata stato il maestro a queste due attrici, sulla quale di sceneggiatura Paolo ha poi sviluppato l’idea” mio e di Paolo - lo consideriamo una specie di padre, colui che ci ha messo al mondo dal punto di vista della scrittura e del mestiere – diceva sempre che non c’è possibilità di essere estranei in un progetto, qualunque cosa ci propongano di fare. Si può entrare dentro a qualsiasi storia: per lui era importante non che cosa fai, ma come lo fai… Si può partire da un testo teatrale, da un romanzo oppure puoi incubare a lungo dentro di te una nuova storia: l’importante è non abbandonare mai la tua visione delle cose. In particolare, io scrivo sempre con molta attenzione la sceneggiatura, è una lunga fase prepa- A sinistra: ratoria al film. La scrittura è inscin- Micaela Ramazzotti dibile dal mio modo di fare cinema. e Valeria Bruni Tedeschi Per me stare seduta e scrivere signi- in una scena del film La pazza gioia fica la felicità.
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Valeria Bruni Tedeschi
Intima fragilità
“L’attore è forse l’unico mestiere capace di guardare alla vita umana, di lavorare sull’interiorità degli esseri umani e su se stessi”
Come ha costruito il personaggio di Beatrice Morandini nel film La pazza gioia di Paolo Virzì? Per arrivare ad una interpretazione così intima ha messo qualcosa di suo, che le appartiene profondamente, in questo ruolo?
Sì, io lavoro solo facendo i conti con me stessa… Certe volte nella vita di un attore avviene come una congiunzione astrale tra quella che è l’esistenza più intima e il personaggio che viene proposto da un particolare regista: si crea un’alchimia rara e preziosa, un clima speciale dato dal clima della troupe, dal rapporto con un altro attore, da un’altra attrice con cui guardarsi… Ed è allora che tutti questi elementi quasi chimici fanno volare il personaggio, ma è quasi una cosa che va al di là di noi, qualcosa di inconsa-
pevole e bello. Io ho girato diversi film ambientati in ospedali psichiatrici, si tratta di luoghi profondamente dolorosi, ma anche molto cinematografici: ci sono persone che soffrono ma che hanno una grande libertà, senza i condizionamenti del Super Io. In particolare, il lavoro che ho fatto per La pazza gioia nella costruzione del personaggio è stato quello di conversare con il mio Super Io per riuscire a distaccarmene: volevo vedere cosa succedeva se questo ‘poliziotto interiore’ che mi obbliga nella vita ad essere sempre perfetta ed educata spariva. È così che è nato il personaggio. Per prepararmi ad essere la Beatrice Morandini de La pazza gioia avrei potuto forse consultare dei medici o dei pazienti di alcune cliniche per immergermi completamente in certi
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ambienti, invece ho sentito il bisogno di lavorare essenzialmente con la mia intimità. Non esiste un metodo uguale per tutte le interpretazioni possibili: il Metodo Strasberg, per esempio, mi ha aperto degli orizzonti quando l’ho scoperto ma credo che per ogni regista, per ogni “Diventare una regista non è aver film, per ogni interrotto il lavoro di attrice, personaggio sia piuttosto è la continuazione necessario cercae l’estensione di questo mestiere” re il metodo giusto. Ci sono film che anche se fanno piangere aprono il cuore in modo allegro e La pazza gioia è uno di questi. Sul set ho potuto sentirmi libera perché sapevo che Paolo Virzì mi accettava completamente. Questa libertà fisica ed emotiva, senza inibizioni e complessi, è stata una giubilazione per me.
stessa: per i ringraziamenti avevo scritto delle cose e dovevo dirle tutte, l’unico ordine che mi ero imposta era di andare fino in fondo con i miei pensieri… Forse in un’altra occasione mi sarei scoraggiata, avrei finito per rimuginare che le cose da esprimere erano noiose, invece mi sono detta: “Vado fino in fondo; se mi danno il Premio cerco di essere generosa, in qualche modo…” E ho aggiunto qualcosa di intimo, solo mio, a quel ringraziamento. E poi spesso possono accadere anche degli imprevisti come il piede che mi si è impigliato nel vestito quando mi sono alzata per ritirare il Premio; sono dei momenti meravigliosi: l’incidente, a differenza di ciò che avviene nella vita reale, al cinema o in teatro crea allegria.
Ed è per questo che l’assegnazione del premio come Miglior Attrice per La pazza gioia ai David di Donatello, accompagnato da un suo memorabile discorso di ringraziamento, ha significato per Lei un momento di felicità pura?
Lei ha interpretato film molto diversi tra loro, intervallando la commedia al dramma, ma sempre con una sorta di filo rosso che lega tutte le sue scelte: il ritratto di una serie di donne fragili, delle figure femminili tormentate e sempre un po’ nevrotiche…
La mattina prima della cerimonia eravamo tutti noi attori al Quirinale davanti al Presidente della Repubblica e abbiamo ascoltato un discorso di Roberto Benigni che è stato veramente bello, intelligente e profondo: lui ha parlato dell’importanza morale ed etica della gioia per un artista, del dovere alla gioia che riguarda ognuno di noi. C’è stato qualcosa di quel discorso che mi è rimasto dentro ed ho pensato che nel caso avessi vinto il Premio avrei dovuto essere non soltanto gioiosa, ma addirittura combattiva con me
Ho iniziato la mia carriera con il film Le persone normali non hanno niente di eccezionale e nonostante quel primo titolo fosse già caratterizzante, non mi sono mai sentita cristallizzata in un ruolo né etichettata definitivamente. Sono andata avanti con me stessa, anche se sicuramente io sono quel tipo di donna lì… Ho interpretato anche dei personaggi diversi, più rotondi e meno nevrotici, però nei ruoli che mi impegnavo di portare a compimento ho sempre aggiunto una certa solitudine, una inquieta fragilità, che
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forse è la sfumatura che alla fine ho La sua carriera di attrice si è svolta parallelamente in Francia e in più voglia di raccontare di me stessa. Italia… Più che i film io scelgo i registi o meCi sono dei periodi in cui non mi glio mi faccio scegliere dai registi che incontro prima per una chiac- propongono di girare nessun film chierata al bar e che non devono an- in Francia, mentre in Italia ricevo noiarmi: se mi annoio bevendo un tante offerte oppure accade il contra-
caffè non accetto di girare il film… È vero che nel lavoro dell’attore non sempre si può scegliere. Ci sono dei periodi in cui è impossibile perché si ha bisogno di lavorare e si accetta di tutto, ma in generale la mia scelta si indirizza verso quei registi che mi appassionano perché mi sembra così di iniziare un discorso emotivo con loro, un legame profondo, ed è questo che davvero mi interessa.
rio… Recitando nel film La seconda volta mi sono resa conto che avevo bisogno di lavorare in italiano e non esprimermi soltanto in francese: è stato allora che mi sono sentita finalmente completata. Io posso pensare e anche sognare in francese, però mi sento profondamente italiana perché la mia infanzia è stata in Italia. Le mie radici sono italiane e il mio inconscio appartiene a questo Paese.
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I suoi film da regista come, per esempio, Un castello in Italia appaiono talmente autobiografici e personali, mentre in genere i registi tendono a non esporsi così tanto. Come è avvenuta questa scelta nel passaggio dietro la macchina da presa?
Le attrici Valeria Bruni Tedeschi, Valentina Carnelutti e il regista Paolo Virzì sul set del film La pazza gioia
Credo che uno dei motivi che spinga una persona ad intraprendere la carriera di attore sia quello di mostrarsi agli altri, raccontando se stessi e cercando di tirare fuori la propria intimità. E da regista io faccio i mei film partendo proprio dal punto di vista dell’attrice: li scrivo come attrice e anzi mi piace sentirmi un’attrice che gira dei film: è come se si confermasse la mia identità. Questi film nascono da mie esperienze di vita, anche se poi li
ho sempre scritti insieme ad altri sceneggiatori perché c’è bisogno per esprimersi di staccarsi dal soggetto. Un film è un’elaborazione della realtà, non è la realtà nuda e cruda. C’è un montaggio, si mette in ordine il caos che viviamo. Anche quando dico: “Sono me stessa nel film”, in realtà lo sono seguendo un certo
ordine che è dettato dalle esigenze del film stesso. Diventare una regista non è aver interrotto il lavoro di attrice, piuttosto è la continuazione e l’estensione di questo mestiere. La necessità che sta alla base di tutto è sempre la medesima: il desiderio di esprimermi e svelarmi al pubblico. Mi ricordo quando diversi anni fa ho iniziato a fare i primi corsi di teatro: mi sentivo estremamente sola e la recitazione costituiva una maniera per incontrare molte persone,
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un po’ come quando ci si iscrive ad un club – tipo quelli che giocano a bridge – e condividi con gli altri un entusiasmo vero ed una passione. La recitazione da subito è stato sinonimo di incontri, invece mi sembrava che nello studio puro ci fosse qualcosa di troppo solitario. E questo anche se la mia passione iniziale è
re in dei ruoli che sentivo non toccare appieno la platea e soffrivo: ci mettevo tutta me stessa… Riuscire a congiungersi con i sentimenti del pubblico è un meccanismo misterioso, ma l’importante è fare tutto quello che si può ed affrontare la scena in maniera onesta, prima di tutto con se stessi. Essere attori è un mestiere appassionante ma
allo stesso tempo “Certe volte nella vita di un destabilizzante: attore avviene come una si è sempre in congiunzione astrale tra quella balia del deside- che è l’esistenza più intima e il rio degli altri… personaggio che viene proposto Un’attrice in scena quali Però l’attore è da un particolare regista: si crea sentimenti porta sempre con sé? forse l’unico me- un’alchimia rara e preziosa” In scena cerco sempre di fare il stiere capace di mio meglio, tentando – come già det- guardare alla vita umana, di lavorare to prima – di svelare qualcosa di me sull’interiorità degli esseri umani e su stessa. L’obiettivo è arrivare al pubbli- se stessi. Si tratta di un lavoro meraco, anche se non sempre ci si riesce. A viglioso ed insopportabile allo stesso volte in teatro mi è successo di recita- tempo. stata la letteratura. Ero immersa nei testi, tentavo anche di scriverli, poi mi sono resa conto che avevo voglia di viverli.
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La Storia racconta...
Lustrini e stelle filanti di Adela Gjata
N
ell’ultimo scorcio dell’Ottocento si spengono le luci nei teatri e si accendono quelle dei café-chantant. I locali iniziano ad ospitare una piccola pedana, un pianoforte e una folla di artisti che alternano numeri, soprattutto di canto. In Italia questo uso si estende a macchia d’olio e in brevissimo tempo caffè grandi e piccoli, ricchi e poveri, hanno un piccolo palcoscenico, adattato o appositamente costruito, dove si avvicendano pot-pourri di operette in voga, canzoni popolari, attrazioni di equilibristi, contorsionisti e ventriloqui, cinesi al codino, spagnoli alle nacchere, francesi all’apache e americani alla craquette. Il cuore pulsante degli spettacoli erano però le ammiccanti esibizioni delle sciantose: canti e balli concertati in un esultante scenario di lustrini, ventagli, foulard, lanterne magiche, stelle filanti, proiettori, luci colorate e bauli a sorpresa. I café-chantant generarono le prime forme di cabaret e il genere detto della macchietta, capitanato dall’amatissimo Nicola Maldacea, capostipite della famiglia dei comici di varietà. Quei piccoli palcoscenici furono inoltre scuole di recitazione per fuoriclasse come Leopoldo Fregoli, mago del trasformismo; l’estroso e esuberante Petrolini; Viviani dalla risata grottesca e amara; l’incantevole Lina Cavalieri, “massima testimonianza di Venere in Terra” secondo D’Annunzio; Anna Fougez, sciantosa elegantissima, prima cantautrice italiana; Wanda Osiris, regina del Varietà, e Totò: il Principe della risata. Il primo caffè-concerto italiano sboccia nella Napoli famelica e crapulona di fine Ottocento, già di per se stessa smisurato palcoscenico di un eterogeneo e mastodontico complesso di commedianti. Un elegantissimo locale scavato nei sotterranei della Galleria Umberto I ad opera di intraprendenti impresari, i fratelli Marino, che lo intitolarono alla regina, simbolo di bellezza femminile. Il Salone Margherita si inaugura nel 1890 e racchiude il sogno parigino della società partenopea, sulla scia dei celebri Moulin Rouge e Folies Bergère. I signori directeurs-proprietaires decidevano i numeri di attrazione delle chanteuses e delle gommeuses, le quali, oltre il favore del pubblico, dovevano guadagnarsi quello del direttore di scena, o meglio, del régisseur, e dello chef-d’orchestre. Sul suo palcoscenico sfilarono diverse dispensatrici di vezzi e di piaceri, vedette di fama internazionale come la spagnola Carolina Otero, nota come la bella Otero; Cléo de Mérode, dal raffaellesco profilo, ex ballerina di fila dell’Opéra di Parigi; l’ammiccante Eugénie Fougère che nel 1897, venticinquenne e già celeberrima, con le sue canzonette eccentriche elettrizzò la già vulcanica Napoli; la procace Consuelo Tortajada, bellezza andalusa; Lucy Nanon, fiamminga
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dalla voce ammaliante. I viveurs, gli habitués e il pubblico occasionale del Salone Margherita potevano farsi servire dalla buvette birra a choppen, absinthe, rhum, kirsch, kümmel e champagne Grand Gremant, in un’atmosfera di baccano a suon di orchestrine, bicchieri e monete date in pagamento. Recitare, cantare, suonare, era per la Napoli di allora un bisogno inconscio, per dimenticare crucci e miserie del vivere quotidiano. Una filosofia di vita. Negli anni della Grande Guerra i café-chantant diventarono l’oppio di allegria di chi Isaac Israëls (1865-1934), Café-chantant in Dance Group, Paris
voleva sfuggire alle bombe e alle macerie. Tra le poltrone dalla spalliera grassa di brillantina sedeva il vecchio ganimede in panciotto bianco, il commendatore col monocolo e la fama di conquistatore, il figlio di famiglia che poteva spendere una banconota da cento per la canzonettista in voga, il giovane parrucchiere che la sera si concedeva un paio d’ore ‘di vita’, ma anche intere famiglie. I frequentatori vi ritrovavano una forma di aggregazione tra simili, la gioia di farsi gioco di tutto e di tutti, gli attori del pubblico, il pubblico degli attori. Il pubblico diventa il primo protagonista, sia nel caso del locale ricco in cui è lì a dare spettacolo e a mettersi in mostra, sia nei locali minori dove sono gli spettatori che, con giudizi e interventi, diventano i produttori primi di questo genere. Il segreto dei café-chantant dimorava nel dialogo continuo tra scena e platea: lo spettacolo si nutriva del gioco, della fantasia e della partecipazione gazzarrosa e innestatrice di atti e verbi spettacolari che arricchiva di sorprese la rappresentazione. Il genere entra in agonia quando questa compartecipazione si tramuta in compostezza e silenzio, nel momento in cui gli spettatori vi trovano unicamente motivi di diletto. Il café-chantant esce definitivamente di scena nel primo dopoguerra, segnando la fine di un’epoca della quale divenne simbolo: la spensierata ed euforica Belle Époque.
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Ezio Bosso
Gioia assoluta “Ogni ultima nota è un nuovo inizio per chi ci sta intorno ma anche per noi; la musica muta, tramuta e matura, segue la nostra strada e si moltiplica in altre”
“Scrivo perché interpreto, interpreto perché scrivo”: sono parole sue. Inoltre Lei ama definirsi “direttore d’orchestra, compositore e pianista all’occorrenza…” La musica è dunque pura espressione? E più in generale, che cos’è per Lei la musica?
La musica è una fortuna che ci siamo andati a cercare. Dal mio punto di vista la musica è essenziale nelle vite di ognuno di noi, e ricopre tutte le esigenze della nostra esistenza. La musica ha una natura maieutica che porta alla conoscenza, più la frequentiamo e più scopriamo, impariamo e siamo liberi. Ci connette con il passato, ci rende presenti l’uno per l’altro e ci insegna il futuro. Ma soprattutto, come dico sempre, ci insegna la cosa più importante: ascoltare, ascoltarci l’un l’altro.
Oltre a comporre la musica per i suoi concerti, Lei ha collaborato con i nomi più importanti del mondo del teatro, dell’opera e del cinema, da James Thierré a Gabriele Salvatores. Come il modo di esprimersi cambia in relazione alla diversa scrittura a cui è destinata la musica, dalla composizione pura alla musica scritta per la scena o il cinema?
Vivo la musica come una responsabilità. Qualcosa per cui essere a servizio e onorare. Lo stesso pensiero ce l’ho sia che stia studiando o sia che stia suonando per qualcuno, ce l’ho quando ascolto le esigenze delle orchestre con cui lavoro e ovviamente ascolto e imparo le richieste e le esigenze delle altre arti con cui posso collaborare. Mi metto al loro servizio, o metto le mie conoscenze al loro servizio. In realtà non cambia molto nel rigore che c’è tra scrittura
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da concerto o quella da programma. Cambia lo spazio e il tempo in cui esprimere le stesse fondamenta insite nella musica. Suonando in tutto il mondo, in che modo cambia il modo di proporre la musica in contesti tanto diversi l’uno dall’altro? La musica è un linguaggio universale, in grado di superare ogni confine?
Non credo che cambi molto da un luogo a un altro, cambiano magari le prime reazioni, forse, ma infine il percorso diventa comune. Anche se, sarò sincero, il concetto che la musica sia un linguaggio universale è un luogo comune. È un principio tipico della presunzione della cultura cosiddetta occidentale. È antropologicamente provato che certe musiche possono irritare alcune popolazioni e la percezione del suono è differente in tanti luoghi. Ci sono persino popoli che temono la musica e nella loro cultura non esiste. Ma gli strumenti per rendere tutti più vicini attraverso il suono esistono in ogni dove, capaci di trovare il suono comune, e difatti dovremmo parlare di suono più che di musica. In ogni caso l’unica cosa universale per me è il sorriso. Lei è stato amico di Claudio Abbado e collabora anche con l’Associazione Mozart 14 guidata da sua figlia Alessandra che crea musica per i detenuti, i bambini e destinata alla cura delle persone. Un suo ricordo del grandissimo Maestro Abbado.
dizione e passione sono basi da cui dovremmo tutti partire per essere una società migliore. Perché la musica è un esempio di società migliore, ed anche questo me lo ha insegnato lui. In Italia si dovrebbe parlare di più di musica e celebrare (e nel suo caso nemmeno quello…) di meno, ricordando di più persone come Claudio. La mia paura è proprio che vengano dimenticati i suoi insegnamenti in musica. Ha detto che Beethoven è stato fondamentale per Lei, una sorta di padre artistico, perché le ha insegnato ad essere libero… È il suo artista preferito, quello che quando sa di dover interpretare la rende felice?
È il mio papà, dico sempre, in fondo è nato tutto da lui. Lo dico sorridendo, ma non troppo. In qualche modo sì, Beethoven mi rende felice ogni volta che è presente nei programmi che devo affrontare. Ma in realtà per me sono più importanti le basi che il pensiero. È appunto grazie al suo insegnamento, quello di cercare di essere liberi, anche da se stessi, che posso dirle tranquillamente che non esiste l’artista preferito. La risposta su Beethoven-padre è nata dalla domanda classica: “Chi è il tuo musicista preferito?” A cui normalmente rispondo: “È come chiedere a un bambino se vuole più bene alla mamma o al papà. Ecco, posso dire che mio papà è Beethoven.”
Essere musicisti Claudio è stato ed è un faro acè uno stato gioioso? Essere musicisti non lo so, ne coceso. Spesso mi accorgo di quanto ancora sia presente in me. Il suo in- nosco tanti arrabbiati e lamentosi. O segnamento e quello che la Mozart che si prendono davvero troppo sul 14 continua a portare avanti con de- serio. Fare musica è uno stato di gioia
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assoluta se si arriva a trascendere. Es- noi; la musica muta, tramuta e matusere musicisti può essere tante cose, ra, segue la nostra strada e si moltiplianche solo un mestiere. ca in altre. Come direttore d’orchestra, qual è il momento più emozionante?
Qual è il suo primo ricordo legato alla musica?
Non saprei dirglielo, sono continui e differenti stati emotivi. La musica è vita ed è vita insieme ad altri. C’è quel momento di terrore che arriva un secondo prima di alzare la bacchetta alla prima prova, quello del risolvere in uno sguardo e un gesto un problema insieme a un collega dell’orchestra che ti rende orgoglioso. E quello del sorriso già nostalgico della chiusa dell’ultimo accordo. Vede? Sono già tre momenti differenti e le assicuro che ce ne sono tanti e tanti altri… Non so se basterebbero per scrivere anche solo un libro.
Eravamo con i miei genitori in un negozio di spartiti musicali di una prozia paterna. Un vecchio negozio IMMAGINE CLARA BIANUCCI
impolverato e “Chi è il tuo musicista preferito? confuso, con le A cui normalmente rispondo: pareti a tiretti - È come chiedere a un bambino Mario Brunello, con cui Lei ha quei cassettini se vuole più bene alla mamma o spesso collaborato, ci ha detto che a finestrella da al papà. Ecco, posso dire che mio il viaggio della musica non arriva cui uscivano le papà è Beethoven” mai ad un punto d’arrivo e che, anzi, partiture in orizla strada della musica si percorre zontale - e io mi all’infinito… sentivo così bene lì dentro… Poi vidi La musica comincia sempre molto il primo pianoforte, credo fosse uno prima di quel che pensiamo e finisce Steinway mezza coda, e rimasi impiemolto dopo di quel che pensiamo. trito: come se persino il suono fosse Ogni ultima nota è un nuovo inizio svanito, ricordo solo il vuoto intorno per chi ci sta intorno ma anche per a me. Mi portarono via in uno stato
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catatonico. Ricordo mio padre che mi prese in braccio e io che continuavo a fissare quel pianoforte già fuori dalla porta. Ancora oggi ho dentro quel silenzio e quel pianoforte ce l’ho negli occhi. Avevo poco più di 3 anni. Parla spesso della musica in relazione al tempo: il tempo condiviso della musica, la musica
dono tutto: il tempo di una persona, il suo sentimento, persino la società e il tempo in cui quella persona ci vive, la sua ricerca e i suoi pensieri. Quelle note e quei segni che lasciamo e che ci hanno lasciato restano per diventare di qualcun altro: diventano di chi le suona, di chi le ascolta, di chi le scrive e al tempo stesso connettono i tempi e si trasformano in una catena di
FOTO SONIA PONZO
Il 26 maggio è uscito The Venice Concert, il nuovo album di Ezio Bosso. In estate sarà in concerto a Torino (20/22 giugno), a Roma (12 e 26 luglio), a Caserta (18 luglio), a Bologna (22 luglio), a Udine (31 luglio), a Palermo (7 agosto, a Taormina (9 agosto) e a Catania (9/13 agosto)
vita. Sono fonte di ispirazione, sono il presente che non è passato, sono un ponte libero per il futuro. Ce lo insegnano autori come Bach, Monteverdi, Beethoven, Mozart, per citarne pochissimi, e tutti coloro che non a caso continuiamo a interpreA mio avviso, le cose che restano tare, suonare, immaginare. Tutti sono quelle che cerchi e sono quelle quei musicisti a cui continuiamo ad che lasci, soprattutto che lasci libere appartenere e a farci appartenere. di mutare. Non si tratta di semplici Per questo io la chiamo musica libeoggetti. La musica ne è esempio ed ec- ra. E le cose che restano, sicuramencezione perché è un atto d’amore. Le te, sono per natura quelle che siamo note sono piccoli oggetti che racchiu- in grado di rendere libere. che è in grado di rubare il tempo… La sua ultima raccolta si intitola The Things That Remain… Che valore assume quindi il suono rispetto all’elemento temporale per Lei? Alla fine quali sono le cose che rimangono?
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pagina di diario
D
omenica, primo pomeriggio di fine maggio. Firenze. Pedalo nella calura di una città già deserta di turisti. Una città in cui è estate al di primo sole sincero. I ciottoli delle vie del centro emanano calore e i Marta Bianchera* freddi marmi faticano a donare quel poco di frescura che basterebbe a evitare la fuga verso la brezza del Tirreno o la pace del Monte Morello. La tranquillità delle vie assolate ne rivela la magia, sembra di essere in un dipinto di De Chirico dove tutto appare sospeso. La via è stranamente sgombra: io, la mia bici, un padrone, un cane. Incrocio lo sguardo dell’uomo e, con solidarietà, sorrido per salutare… o forse sorrido perché sento una gioia crescere dentro: all’improvviso mi sento parte di questa città. Percorrere per l’ennesima volta quella strada, ma in un momento di assoluta intimità è stato fondamentale. Finalmente, dopo tre anni qui, non mi sento più ospite. L’arrivo della busta con la conferma dell’avvenuto cambio di residenza non ha avuto lo stesso effetto; dovevo pedalare per un’afosa strada vuota per sentirmi davvero un’abitante di questa meravigliosa città. Una città in cui l’arrivo della primavera si festeggia nei prati con i baccelli freschi e il pecorino; la stessa città che nella sua interezza si riversa sulle sponde dell’Arno per assistere ai fuochi di San Giovanni, in quello che si rivela essere un grande rito collettivo. La città solcata dal suo bel fiume che separa le due facce della stessa medaglia: la Firenze della facciata del Duomo, preziosa e ricamata come fosse d’uncinetto, e la Firenze di Santo Spirito, semplice e liscia come la tela grezza di un artigiano. Penso a questo mentre parcheggio la bici. Entro al numero 18 del Teatro della Pergola, ingresso dipendenti. Entro e mi sento a casa. Gioie e dolori vengono condivisi qui: si ride e si piange, insieme. Le colleghe sono la famiglia, per chi la famiglia ce l’ha lontana. Salgo due rampe di scale e arrivo ai camerini. Questa è un’enorme fortuna, oltre che una gioia: conoscere i più grandi attori del teatro contemporaneo e scoprirli così umani e vicini. Sento che Firenze, la bella “Fio*Marta Bianchera lavora re”, è ancora tutta da scoprire per me. Ma già la devo ringraziare per tutto ciò dietro le quinte ed è l’addetta ai camerini che mi sta donando: gioie vere, sincere come quel sole che mi ha fatto sentire del Teatro della Pergola. per la prima volta profondamente parte di lei. IMMAGINE CLARA BIANUCCI
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Dai racconti di una giovane scrittrice...
cotone leggero
S
entivo le setole del pennello morbido accarezzarmi le guance, ora erano più colorite, sovrastate da due occhi brillanti, come se guardi dassero qualcosa di nuovo. Le gambe erano accarezzate dall’aria e Orsola Lejeune da una stoffa leggera e fresca che le sfiorava appena. I piedi bianchi si distendevano finalmente in quei sandali leggeri, finalmente liberi. Acchiappai la borsa ed uscii. Camminavo quasi intimidita, tirando la gonna verso il basso, con una sensazione di nudità data da nient’altro che una nuova stagione e le gambe liberate dai pesanti vestiti invernali. Era la prima giornata di primavera inoltrata, dopo un inverno prolungato e rigido. La pelle si risvegliava e sentiva di nuovo il sole che la carezzava. L’aria era frizzante, sapeva di verde, di vita, pulviscolo di sole, e nascita. Il prato davanti a casa sembrava più verde che mai e i bambini correvano felici, urlando festanti. Non avevo fretta, decisi di sedermi un attimo a godermi quel sole, a guardare quella meraviglia. Un cucciolo mi si avvicinò per accogliere una carezza, prima di essere richiamato dal padrone, e allontanarsi con movimenti scoordinati e agitati. “Hai visto? Oggi ho guadagnato degli anni! Mi sono messa i leggins come voi giovani!” Lo disse così, proprio con la g morbida. Era una vecchia signora molto strana, con un ombretto azzurro e dei grandi occhiali a coprirle il viso. Un sorriso bellissimo, pieno di dolcezza e mi stava fissando con un’aria divertita. La guardai meglio e notai che aveva indossato delle calze molto coprenti, con le cuciture a vista. Non osai dirle nulla e assentii, sorridendo. “Che bei capelli lunghi che hai! Io non li pettino nemmeno più” disse sfiorando quei morbidi riccioli bianchi. “Come ti chiami?” “Orsola.” “Che bel nome importante! Io, Renata!” “Piacere, Renata.” “Che bella questa primavera. Fra poco vado al mare, torno più bella di Marilyn Monroe! Ci vai allo stadio, Orsola?” “Non mi piace il calcio.” “Io ci andavo sempre la domenica, era una gran festa. Ora non posso più andarci, è diventato pericoloso alla mia età, potrei cascare e farmi male. Siccome non ci vado più, il dottore mi ha dato delle fialette da fare ogni dieci giorni. La prima l’ho fatta ieri.” La guardai interdetta, pensando che fosse confusa per l’età. Aspettò e mi
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guardò. Vedendo che non capivo, continuò ridacchiando: “Sai per le ossa…” Continuai a fissarla: “Per le ossa! Il calcio per le ossa!” Iniziò a ridere e io con lei. Su un prato a ridere a crepapelle con un’anziana signora mai vista prima. “Bene, vado. È l’ora del sonnellino. Goditi la vita, non c’è niente di meglio
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
che la prima bella giornata di sole.” La vidi allontanarsi, appoggiandosi ad un bastone e con il passo lento e calmo. Rimasi di nuovo sola, in mezzo a quel prato verde, costellato di piccole margherite e un leggero vento che faceva frusciare le foglie degli alberi vicini. Successe in quel momento. Proprio quel giorno lì, in quel momento, fu una delle rare volte in cui percepii la gioia nel momento stesso in cui la sentivo. Provocata da nessuno, né ricordata a posteriori. Era gioia pura che mi attraversava il corpo dalla punta dei capelli, alla punta dei piedi come una scossa. Il sole, la primavera, le margherite, il prato, la festa dei bambini, la corsa del cucciolo, quella dolce signora e la vita. Essere viva mi rendeva felice. Una pazza gioia.
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S P E C I A L E S C R I T T U R A
Luis Sepúlveda
le storie della terra
Dopo aver scritto nel ’96 Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, Lei è ritornato al mondo delle fiabe solo dopo tanti anni. Qual è stata la molla che l’ha ricondotta verso questo genere narrativo?
A partire dal 2012 sono stati pubblicati i libri Storia di un gatto e “Immaginare una storia è una gioia incomparabile. del topo che diventò suo amico, StoD’altro canto la tradizione orale è antica quanto ria di una lumaca che scoprì l’iml’umanità. Siamo esseri umani per la nostra portanza della lentezza, Storia di un capacità di raccontarci le cose” cane che insegnò a un bambino la fedeltà… Il fatto è che nel frattempo sono diventato nonno ed è diventato importante costruire un serbatoio di fiabe da cui attingere per poter creare dei racconti. I bambini ti provocano tantissimo e quindi ti spronano alla scrittura. Storia della
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lumaca che scoprì l’importanza della lentezza, per esempio, è un libro nato dopo che un giorno mio nipote Daniele che allora aveva dieci anni mi ha fatto una domanda: stava in giardino con una lumaca in mano e si avvicinò chiedendomi: “Nonno, perché le lumache sono così lente?” Ad un bambino è difficile dare una risposta tecnica attingendo alla teoria scientifica del movimento, quindi mi sono preso un po’ di tempo per rispondere e ho scritto una favola. Il genere della favola, scrivere per questi piccolissimi lettori, è qualcosa di molto difficile perché i bimbi sono esigenti e non leggono qualsiasi cosa. Ai bambini piace il linguaggio senza ambiguità, un tipo di scrittura molto diretta, ma che allo stesso tempo deve conservare al suo interno il dono della poeticità. Riuscire a trovare il perfetto equilibrio tra questi due aspetti narrativi: è questa la grande sfida a cui tutti noi autori siamo chiamati. Comunque, mi piace l’idea di scrivere per degli individui molto giovani che sono soltanto all’inizio della loro grande avventura nella letteratura.
funzionano… Quando ci si trova in una posizione non armonica o senza un equilibrio si cominciano a formulare dei pensieri ed ogni pensiero inevitabilmente porterà ad un’azione. Io sento una grande ammirazione per gli scrittori uruguaiani: nelle loro favole i personaggi principali sono neutrali alla narrazione e si confrontano con un antagonista, che può essere rappresentato da un animale, da un oggetto o anche da una situazione atmosferica. Il personaggio più importante non “In Argentina ancora oggi viene si vede, non ha organizzata una manifestazione una presenza in cui le nonne, “las cuentafisica ma è sem- cuentos”, sono delle cantastorie pre presente ed perché raccontano storie e con le è la sua mora- loro parole descrivono l’universo. le che si vuole Credo che ogni racconto, anche condividere con quello più fantastico, parta dalla il lettore. Ecco quotidianità e sia un invito perché in tutte a conoscere il mondo” le mie fiabe vengono sempre suggeriti una serie di valori da perseguire, anche se tali insegnamenti non sono incarnati da una corporalità definita: non si vedono fisicamente, ma questi valori giocano un ruolo fondamentale All’interno di ogni tradizione nello sviluppo della storia. Storia letteraria, in qualunque parte di una gabbianella e del gatto che le del mondo – da Nord a Sud, da insegnò a volare, per esempio, preOriente a Occidente – esistono le senta tutto un insieme di personagfiabe e i protagonisti non sono gi vari: il gatto Zorba, la gabbianella solo esseri umani: gli animali o Fortunata, questo gruppo di gatti gli oggetti diventano personaggi simpatici nel porto di Amburgo, ma a tutti gli effetti… c’è un personaggio invisibile e privo Si, questo è il potere sovversivo di corporalità che entra di prepodelle favole. Credo che tutta la let- tenza nell’intreccio, è presente in teratura sia sovversiva perché è ca- tutte le azioni della favola ed è costipace di donarti degli elementi per tuito dal senso di solidarietà. Questi capire il mondo. La letteratura ti gatti del porto hanno un modo di induce alla riflessione, ti fa pensare confrontarsi con la realtà, una loro a certi aspetti della società che non particolare forma esistenziale che
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aspira ad un mondo migliore e che no senza raccontare una storia. La si sostenta in questo valore univer- parte materna mi ha invece regalato sale chiamato, appunto, solidarietà. le vacanze nel Sud: una quarta parte di me è mapuche – l’abitante originaIn Morfologia della fiaba rio del Cile – e si tratta di una parola di Vladimir Propp si delinea composta da mapu, che significa terlo schema-tipo delle fiabe: ra, e che, che invece vuol dire gente. equilibrio iniziale, rottura dello Mi piaceva molto questa parte della stato di calma, peripezie dell’eroe famiglia, gente della terra, anche se e ritorno all’equilibrio. Nei suoi non ne comprendevo perfettamente libri invece il tema predominante la lingua perché è un tipo di linguagsembra essere quello dell’invito a gio estremamente complesso. Alla condividere e a stare tutti insieme, fine della giornata il gruppo si riuanche tra gatti e topi, per niva per raccontarsi una storia: c’era esempio, che Lei rende amici… molta allegria e addirittura una volta Credo che ogni racconto, anche durante l’estate si celebrava la gioia quello più fantastico, parta dalla della trasmissione del racconto tra quotidianità e sia un invito generale le generazioni adulte e quelle giovaa conoscere il mondo. La storia del ni, in una cerimonia guidata da un gatto e del topo che diventano amici vecchio mapuche che insegnava ai mi è venuta in mente un giorno in un più piccoli come si raccontava una parco in Spagna davanti ad un grup- storia. Anche se non capivo tutte le po di bambini che giocavano tutti parole che si dicevano, partecipaassieme: in mezzo a loro c’era un vo alla tensione collettiva e al senso bimbo cieco ed dell’attesa che aveva la gente intor“Il genere della favola, scrivere era straordina- no a me quando veniva narrata una per questi piccolissimi lettori, è ria la dimostra- storia… Non ho mai dimenticato qualcosa di molto difficile perché zione di amore questa esperienza. Durante il corso i bimbi sono esigenti e non da parte del della mia vita poi ho sempre voluto leggono qualsiasi cosa. gruppo nei suoi intraprendere un viaggio immagiAi bambini piace il linguaggio confronti. Que- nario verso questa altra parte di me senza ambiguità, un tipo di sto ragazzo non che appartiene al Cile, come se, in scrittura molto diretta ma che vedente era inte- qualche modo, si dovesse delineaallo stesso tempo deve conservare grato nel gruppo re la geografia della mia intimità. I al suo interno il dono per divertirsi e miei libri avevano sempre raccontadella poeticità” partecipare in- to storie da un punto di vista molto sieme agli altri a occidentale, seguendo le mie origini quell’allegoria della vita rappresen- mediterranee: nonna basca, nonno tata dal gioco… È la dimostrazione andaluso, altra nonna italiana… Mi di un valore universale: accettare chi mancava ricongiungermi con la mia è diverso da noi. Io ho avuto un’in- parte india e ho iniziato cosi a svifanzia abbastanza felice perché sono luppare la Storia di un cane che insecresciuto vicino ai miei nonni: ave- gnò a un bambino la fedeltà: l’unico vano un rapporto speciale con la in grado di raccontare questo tipo di letteratura, soprattutto mia nonna storia doveva essere un personaggio paterna non faceva passare un gior- distante dalla specie umana come
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può essere un cane. Allontanandosi dai comportamenti degli esseri umani si riesce, nel modo più affettivo e verosimile possibile, a capirli
la nostra capacità di raccontarci le cose. In una regione dell’Argentina ancora oggi viene organizzata una manifestazione in cui le nonne, las
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
meglio. La similitudine insita nella letteratura è differente da quella che è la vita reale ed è per questo che tutte le mie favole sono nate con una sola semplice intenzione: raccontare storie. Immaginare una storia è una gioia incomparabile. D’altro canto la tradizione orale è antica quanto l’umanità. Siamo esseri umani per
cuenta-cuentos, sono delle cantastorie perché raccontano storie e con le loro parole descrivono l’universo. Tanto le mie origini, come la tradizione occidentale e orientale della favola, hanno un significato quando scrivo. Io sono quello che ho letto e ascoltato, per cui ho pianto e riso. Io sono la somma di tutto questo.
L’estate lo sa Improvvisa e leggera, piena di colori o di un unico colore acceso giallo limone; come un cucchiaio di zucchero tra bolle effervescenti come un tuffo a picco nell’acqua salata. A volte arriva senza presentazioni; a volte scompiglia i capelli e solletica la pancia; a volte è un’intuizione d’Amore. Eppure a volte dimentico e nel ricordo ricerco il colore, l’odore ma non funziona… E allora aspetto. Sorella malinconia, visioni di luna. Guardo il cielo. Riempio d’aria e di nuvole i polmoni, tutto si fa d’oro, il silenzio è rotto. Il vivace canto di un nuovo giro di danza ronza tra l’anima e la pancia… …la bambina è tornata!
A.
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tutti pazzi per tokyo
P
er scrivere I love Tokyo io e mio marito Emiliano Pepe ci abbiamo messo entusiasmo ed amore. La scrittura è stata lunghissima, abbiamo da curato ogni dettaglio: dentro a questo libro c’è tutta me stessa, le mie La Pina* passioni, quello che è il mio immaginario costruito negli anni. Credo che la gente abbia voglia di viaggiare, sia proprio spostandosi fisicamente e sia metaforicamente restando a casa. Questo libro non è una guida sul Giappone, non è neanche un diario: è un po’ come se fosse una canzone d’amore verso questa città che io, appunto, amo follemente. Il Giappone è un Paese sicuro, in cui secondo me è possibile viaggiare in maniera confortevole, anche a dispetto delle paure che ci colpiscono tutti quanti dal punto di vista degli spostamenti e della sicurezza… Tokyo è una città sicura per una questione culturale, che dà importanza al rapporto con il prossimo, ma anche per una questione di benessere individuale. È una città capace di darti mille input al secondo, in cui sai che non verrai fregato o derubato tanto facilmente: questo ti permette di rilassarti e rigenerarti, senza l’ansia di dover stare attenti e difendersi. Il piacere di viaggiare è, a dispetto di tutto, una delle gioie della vita. E il viaggio in Giappone è un viaggio che veramente ti cambia la vita. Tokyo è una città di 15 milioni di abitanti, ma è al tempo stesso una città molto silenziosa, pur essendo la città forse più tecnologica della Terra. In Giappone i bambini possono essere grandi perché hanno tutti gli strumenti per vivere secondo la loro dimensione e i loro interessi, ma anche i grandi possono essere bambini: ci si può baloccare e ritrovare il piacere del gioco, perdendosi in una serie infinita di ninnoli che paradossalmente finiscono *dalla presentazione per farti sentire protetto. Se si è stati in Giappone si torna migliori, quindi la del libro I love Tokyo ragione primaria di questo libro è il desiderio di condivisione: per noi è una (Vallardi, Milano 2017) gioia che le persone vadano in Giappone perché sappiamo che vanno inconalla manifestazione Tempo di Libri di Milano tro alla felicità… E dunque, buon viaggio a tutti! FOTO ZOE GUERRINI
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P A R O L E E C O M I C I T À
Luciana Littizzetto
una risata salverà il mondo
I suoi monologhi, così come i libri che scrive, provocano la risata perché traggono spunto da quello che tutti noi vediamo o viviamo ogni giorno…
Per riuscire a far ridere gli altri occorre parlare di qualcosa comune alla maggioranza degli spettatori, qualcosa che tutti più o meno sanno, così puoi lavorare su una cosa conosciuta e ci puoi scherzare su, sicura che chi ti ascolta attinga allo stesso codice comunicativo. Si può spazia“Quando dico una battuta la gente è contenta e re su diversi campi per creare l’effetquesto mi fa stare veramente bene: siamo felici, sia to comico e far scaturire il riso: le io che il pubblico; c’è allegria e vedo che le rughe mie riflessioni toccano le pubblicivanno all’insù invece che all’ingiù…” tà – sono le cose che mi piacciono di più e che mi ispirano maggiormente perché sempre un po’ paradossali – oppure gli intrecci delle serie televi-
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sive, così come i rapporti tra l’uomo e la donna… Io sono una comica e quindi so che per ottenere l’effetto divertente e liberatorio di una risata, è necessario essere sinceri e trasparenti, non si può fare finta… Io non amo quelli che fanno finta di ridere mentre eseguono i loro pezzi comici, magari ripetuti sempre gli stessi per anni e anni. Ad un certo punto non c’è più niente da ridere, ecco perché attingo di continuo a situazioni reali legate alla quotidianità e alle piccole cose che ci circondano: per divertire il pubblico devo prima di tutto divertirmi io stessa, a volte quando scrivo i miei monologhi rido da sola! Più una situazione che descrivi è conosciuta, come dicevo prima a proposito delle pubblicità, più la risposta della gente arriva perché è naturale identificarsi con ciò che si racconta.
invece che all’ingiù… Spesso, prima di andare in onda, ricevo delle raccomandazioni: “Luciana, attenta a quel che dici!”, eppure non mi capacito: la comicità dovrebbe essere libera, altrimenti – dico io – chiamate Suor Germana! Fondamentale è l’improvvisazione, anche se ormai so che devo evitare, se possibile, di parlare di certi argomenti tipo, per
La comicità, che cos’è per Lei? Una sua riflessione.
Io sono una distruttrice di professione. In genere la mia comicità è legata alla televisione, alla radio, alla scrittura di libri e pochissimo al teatro. Non mi è mai piaciuto fare l’attrice di teatro perché io sono una donna di radici e di affetti famigliari, invece con il teatro stai sempre fuori di casa in giro nelle varie piazze. Ma il teatro vissuto professionalmente è meraviglioso perché la relazione diretta che si instaura con il pubblico è unica, si vive una sensazione inebriante. Qualunque sia il contesto, il raggio d’azione in cui mi ritrovo a muovermi, quando dico una battuta la gente è contenta e questo mi fa stare veramente bene: siamo felici, sia io che il pubblico; c’è allegria e vedo che le rughe vanno all’insù
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
esempio, le questioni che attengono alla religione… Per me la comicità è legata molto alla sfera famigliare, fa parte del mio vissuto; nei miei libri ci sono donne vere, ecco perché ogni cosa fa piangere e ridere insieme: la realtà non è soltanto divertente, tutto è permeato dalla malinconia.
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FOTO PAOLO TERZI
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Massimo Bottura
Il cuore di ogni piatto “La cucina è vicina all’arte: l’ossessione per la qualità degli ingredienti è uguale all’ossessione per la qualità delle idee”
La sua cucina spazia da un tipo di cibo tradizionale fino alle sperimentazioni più ardite con la cucina molecolare; come si riesce ad ottenere questo effetto?
Quando devo descrivere quello che facciamo nell’Osteria francescana (il nostro ristorante nel cuore di Modena) dico sempre che comprimiamo le passioni – in particolare, l’arte, la musica e la curiosità per il cibo stesso – dentro a dei bocconi masticabili. Convertiamo le nostre passioni instaurando un dialogo continuo con il passato perché noi siamo seduti su secoli di storia. Guardiamo al passato ma in chiave critica e mai nostalgica: vogliamo portare il passato nel futuro. Mi serve la tradizione per riuscire a filtrarla con un occhio contemporaneo e giungere alla sperimentazione. Il cibo si trasforma in qualcosa che trasmette emozione.
Oltre ad avere inaugurato la serie Chef’s Table di Netflix, con l’Osteria francescana ha guadagnato tre stelle Michelin ed il primo posto, prima volta per un italiano, nella classifica dei World’s 50 Best Restaurants Awards…
Il segreto del mio successo è alzarmi la mattina, andare a letto la sera e nel frattempo riuscire a fare veramente ciò che ho deciso di fare, quello che più mi piace. Una volta che decidi di diventare un cuoco, di fare l’attore o di creare un testo - qualsiasi professione si scelga e dal momento che la decisione viene presa - ci metterai tutto te stesso e farai di tutto perché la gente entri nel tuo mondo. Fare quello che ci piace è fondamentale per dare sempre il massimo. Dopo questi importantissimi riconoscimenti mi hanno chiesto cosa c’è nel futuro di Massimo Bottura… Io ho risposto: ancora futuro!
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to alla mia porta per chiedermi se avessi bisogno di una mano in cucina la signora Lidia Cristoni che era appunto una razdora ovvero Se si è emiliani, si sa: la mattina una massaia di Campazzo, grande ti svegli e sulla terra piatta intor- sfoglina. Da lì è nato un sodalizio no a te c’è la nebbia, molta nebbia, che definirei eterno: lei è ancora un che ti costringe all’immaginazione. punto di riferimento per tutti i raQuali sono stati i suoi Maestri, quelle figure fondamentali che hanno influenzato il suo modo di cucinare?
Il Croccantino di Fois Gras dell’Osteria Francescana
Anzi, non ti costringe, piuttosto ti permette l’immaginazione. Sono cresciuto con l’idea che la tavola sia il vero luogo d’incontro per la famiglia, questa è stata la mia prima grande scuola. La domenica mattina si piegavano i tortellini tutti insieme, si chiacchierava in un misto di aromi e di ricordi che si sono sedimentati per sempre dentro di me. E un giorno, anni dopo, quando già avevo aperto la Trattoria del Campazzo in un paesino isolato ed abitato solo da zanzare, ha bussa-
gazzi che arrivano alla Francescana e devono imparare a tirare la sfoglia. Nel corso degli anni ho conosciuto cuochi internazionali come George Cogny - nei giorni di chiusura della trattoria andavo da lui per imparare la cucina classica francese: quante terrine ho preparato… - e Alain Ducasse, con la sua ossessione per la qualità e il culto della semplicità, oppure lo spagnolo Ferran Adrià che mi ha regalato la capacità di essere libero, pur partendo dalla conoscenza esatta degli ingredien-
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ti. L’obiettivo è sempre quello di riuscire ad esprimere emozioni. Grazie a mia moglie Laura Gilmore mi sono avvicinato all’arte contemporanea: senza la sua velocità di pensiero newyorchese non avrei mai concettualizzato la mia cucina. La cucina è vicina all’arte: l’ossessione per la qualità degli ingredienti è uguale all’ossessione per la qualità delle idee. Il taglio di Fontana non è bello in quanto tela bianca con uno squarcio, ma è affascinante perché c’è un’ossessione dietro: non è l’estetica ad essere importante, piuttosto è il pensiero che diventa fondamentale.
mune. Lidia mi diceva che bisogna partire sempre dalla speranza, dal sogno, perché soltanto così si riesce ad arrivare. Lei nel dopoguerra era una mondina e si alzava prima che sorgesse il sole per andare a lavorare, ma cantava ed era felice anche se non aveva niente perché aveva la speranza del futuro. Il segre- “Non ci può essere ricerca to per ognuno in cucina senza la voglia di di noi deve es- esplorare, in un processo che può sere la curiosità, essere definito creativo: in questo farsi tante do- senso si possono riconoscere delle mande: se ogni analogie tra essere cuochi e il giorno che entro lavoro di un architetto, in cucina mi in- -un poeta o un musicista” terrogo, allora arrivano nuove risposte. Questo è il In Osteria Francescana potere dell’innovazione. Non ci può collabora con un gruppo di essere ricerca in cucina senza la voragazzi che la seguono da glia di esplorare e percorrere nuove diversi anni: Lei è lo Chef, strade in un processo che può essere ma anche il loro Maestro… definito creativo: in questo senso si Cerco sempre di parlare al possono riconoscere delle analogie plurale perché non sono solo io a tra essere cuochi e il lavoro di un creare il mestiere, ma siamo noi. architetto, un poeta o un musicista. La cosa più difficile è tenere insieQuindi l’arte entra in tutti i suoi me una squadra unita e in Osteria piatti? ci sono 45 ragazzi che stanno creIo non mi ritengo un artista, ma dendo in questo nostro progetto. L’ingrediente più importante per un artigiano capace di concettuail futuro è la cultura e non avreb- lizzare le proprie realizzazioni che be senso che l’Osteria fosse tra nascono dall’incontro di idee, culi primi ristoranti nel mondo se ture, tecniche e gesti. Quando negli fosse solo un posto dove si man- anni Novanta abbiamo inventato gia molto bene. In Osteria faccia- il nostro Croccantino di Fois Gras mo qualcosa di diverso: grazie ai ci siamo ispirati a certe opere delcontinui stimoli culturali creia- la Biennale di Venezia: volevamo mo dei sogni. La nostra squadra, rompere con il passato per creare il a partire dagli uffici fino alla nuovo. Per questo piatto ho tagliasala e alla cucina, è un tutt’uno. to una terrina di fois gras francese È stata proprio la razdora Lidia come fosse uno stelo, penetrandola Cristoni ad insegnarmi l’umiltà con un coltello per creare un incavo e a creare una squadra che deve al centro dove ho versato dell’aceto lavorare insieme per un fine co- balsamico invecchiato cinquant’an-
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ni dalla mia famiglia. È nel cuore È vero che l’idea di creare il Refettorio, un luogo dove si che infatti deve risiedere la parte più riutilizzano gli sprechi alimentari preziosa, quella legata agli affetti. E per sfamare chi non ha nulla, è ancora, ho aggiunto delle nocciole partita dall’arte contemporanea? del Piemonte e delle mandorle della L’arte è l’espressione più alta Sicilia, quindi il Nord e il Sud che si incontrano e che insieme a Modena dell’essere umano, profonda fonte di rappresentano tutta la spina dorsa- ispirazione per me. Basta guardare a Joseph Beuys e al suo We shall never stop planting. L’opera si perpetua anche dopo la sua morte piantando alberi… Beuys ideava sculture come gesti sociali: è lui che mi ha ispirato l’idea del Refettorio, con una visione della conoscenza legata al senso di responsabilità. Il Refettorio è nato per Expo Milano 2015: un luogo dove hanno cucinato i migliori chef per nutrire i senzatetto di Milano. Altri Refettori sono stati aperti anche a Modena e nelle favelas di Rio De Janeiro. Prossimamente un nuovo Refettorio, insieme a Robert De Niro, sarà aperto nel Bronx di New York. Nel mondo 860 milioni di persone non hanno niente da mangiare, mentre il 33% del cibo prodotto viene sprecato le italiana. Nel cuore c’è Modena e ogni anno. La risposta non può allora dunque per me la gioia di mangia- trascendere da una componente etica: re… Questo piatto trasmette emo- ricostruire la dignità delle persone. E zione, è qualcosa di internazionale sono proprio le persone a fare la difche diventa famigliare, qualcosa ferenza in questo nostro progetto del capace di conquistare il cuore. Un Refettorio: non bastava avere una curisotto, anche scotto, se cucinato da cina, abbiamo coinvolto anche architua mamma lo mangi perché ti dà tetti, designer, artisti, tutti coloro che emozione. creano il bello, per aiutare gli altri.
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Nietzsche che dice? di Tobia Pescia
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l teatro, nella sua versione ancestrale può essere con un po’ di fantasia ricondotto a quel momento in cui la tribù, riunendosi intorno al fuoco, nel buio di una grotta o sotto le stelle nelle verdi praterie africane, metteva in scena balli e storie di caccia. Un momento di gioia e di trasporto fescenninico che nessuna società, da quella preistorica a quella odierna ha mai realmente perso, semmai dimenticato. Il rito della gioia e della follia persiste come archetipo irrinunciabile dell’essenza umana. Tutte le espressioni teatrali meno colte e più popolari ne portano traccia. Il ballo e la musica, fino alla tran-
FOTO TOBIA PESCIA
Sopra: i Coldplay in concerto a Udine
ce estatica, sono il segno di questo archetipo. I partecipanti al rito/spettacolo, il pubblico, assistono alla catarsi. Dalla mimesi delle scene di caccia, ai misteri dionisiaci in cui l’attore/sacerdote sacrificava il trágos/capro (da cui tragedia), dalle maschere plautine al ballo sfrenato negli odierni rave dei boschi della norvegia, il dio Teatro dalla doppia faccia tragicomica si rivela. Una maschera che ride una maschera che piange a svelare la profondità e l’inquietudine dell’animo umano, ma anche la sua irrinunciabile leggerezza. Il teatro tragico come sostiene Nietzsche sarebbe il luogo dove lo spirito apollineo e quello dionisiaco stanno in perfetto equilibrio. Dioniso appunto è il conduttore dei riti della follia estatica, della pazza gioia. E non è un caso che esso rappresenti la natura primordiale dell’uomo, quella più istintiva e animalesca. La linfa vitale fortemente legata alla follia creativa della natura. Colui che riconduce alla vita dopo la morte dell’inverno. Il dionisiaco dunque è quella componente che il nostro mondo civilizzato sta lentamente dimenticando. Obnubilati dalla perfezione apollinea della scienza e della tecnologia. Al teatro forse il compito di restituire follia, gioia e irrazionalità alle nostre vite.
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A proposito di Orazio Costa...
Un canto infinito Tra Teatro e Poesia
O
razio Costa Giovangigli: una vita tra teatro e poesia. Proprio dagli studi teatrali nasce la mia attenzione verso la poesia del di Maestro. La ricerca nata in occasione delle transcodificazioni Lucilla Bonavita* teatrali delle opere di Luigi Pirandello, in modo particolare dei Sei personaggi in cerca d’autore, di Così è se vi pare e della Favola del Figlio cambiato, ha orientato la mia attenzione verso la poesia alla quale Costa ha dedicato le pagine della sua vita in un arco temporale che inizia negli anni Quaranta e si dispiega con una certa intensificazione verso gli anni 1960 e 1970: il dato estetico degli anni giovanili è sostituito gradatamente dal tema esistenziale e da quello etico-religioso che “passando dai prodigi del creato a quelli dell’identità e della storia non manca di esaltare ‘l’altro maggiore’, di esigere un di più del puro esistere”, come af“È evidente l’osmotico rapporto ferma Mario Luzi nella Introduzione del libro di poesie che esiste tra il poeta e l’attore di Orazio Costa Luna di casa, edito dalla casa editrice che deve farsi poeta, che deve far Vallecchi nel 1992, oltre al quale non vi sono scritti crivibrare un canto infinito nella tici o teorici sulle poesie del Maestro che sono custodite finita realtà. La poe-sia di Costa, nei Quaderni dell’Archivio Costa. Una poesia di ricerca, allora, risuona sul palcoscenico dunque, sulle tematiche esistenziali più care all’Uomo del Mondo, il Teatro, di tutti i tempi e che solo la poesia, unita ontologicadi cui Costa è stato sublime mente all’amore, può condurre: “L’amore ama la poesia. e raffinato cantore” La poesia crea l’amore. Bruciare di poesia può volere bruciare d’amore? Ma bruciare d’amore per le creature può essere un aiuto a vivere in quella vita che l’amore monotono per la creature isolata ci dona a prova, ci toglie a prova per darci una sete d’amore che se non dissetata ci fa amari e aridi”, secondo quanto Costa scrive nel Quaderno n°4, nella nota del 29.01.1995.
*Lucilla Bonavita è una studiosa della poetica di Orazio Costa ed autrice del saggio critico Poesie Edite e inedite Orazio Costa, Fabrizio Serra Editore 2015
La poesia, parallelamente alla pratica registica, diventa un mezzo per arrivare al cuore delle creature e non è che un tentativo dell’uomo di parlare con Dio perchè anche quando i componimenti affrontano altre tematiche come l’amore o la guerra, il solipsistico ‘io’ o l’interlocutorio ‘tu’, il loro discorso poetico si dispiega al cospetto di Dio. Nella sua produzione poetica, Costa definisce anche la funzione: la poesia e l’arte contribuiscono a sviluppare la fantasia, la partecipazione passionale e appassionata alla vita e contemporaneamente elevano lo spirito.
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La poesia acquista allora una profonda responsabilità etica che comporta l’assunzione di un livello stilistico che ne esalti la dimensione ontologica: nella produzione lirica si avverte un’esigenza di suono, si ascoltano parole viventi, palpitanti di viventi che si compongono in una tessitura fonico-lessicale che rinviano agli stilemi ereditati dal simbolismo francese. La parola secondo Orazio Costa deve inverarsi nella scrittura, nel disegno, nel teatro altrimenti, come voce di persona, rischia “l’inutilità, l’assenza, il fruscio appena di qualcosa di maggiore, la scia scomparente di un battello,
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
o d’un uccello acquatico, come l’odore (nemmeno il profumo) della vita vivente, fermentante e fiorente. La parola va colta, raccolta dalla emozione, rituffata nel tino o nel crogiolo di nascita e di fermentazione e di fusione. Questo fa l’attore ricevendola e cogliendola dal poeta”, come sostiene nel Quaderno n°39, nota del mese del 01.12.1993. È evidente l’osmotico rapporto che esiste tra il poeta e l’attore che deve farsi poeta, che deve far vibrare un canto infinito nella finita realtà. La poesia di Costa, allora, risuona sul palcoscenico del Mondo, il Teatro, di cui Costa è stato sublime e raffinato cantore.
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Quaderni della Pergola
Materiale raccolto da Angela Consagra, Alice Nidito, Chiara Zilioli, Filippo Manzini, Matteo Brighenti, Riccardo Ventrella, Orsola Lejeune, Clara Bianucci, Tobia Pescia, Dalila Chessa, Clara Neri, Zoe Guerrini, Marta Bianchera, Adela Gjata, Gabriele Guagni, Simona Mammoli
Via della Pergola 12/32 - 50121 Firenze Centralino 055.22641 www.teatrodellapergola.com www.teatrodellatoscana.it Info e contatti quaderni@teatrodellapergola.com
Progetto Grafico Walter Sardonini/Social Design Impaginazione ed elaborazione grafica Chiara Zilioli Interviste Angela Consagra La poesia L’estate lo sa e l’editoriale in quarta di copertina sono di Alice Nidito La fotografia di copertina e dell’editoriale e la fotografia della lavagna di Eduardo De Filippo sono di Filippo Manzini
Fondazione Teatro della Toscana Presidente Dario Nardella Consiglio di Amministrazione Antonio Chelli, Barbara Felleca, Maurizio Frittelli, Raffaello Napoleone, Duccio Traina Collegio Revisore dei Conti Giuseppe Urso Presidente, Roberto Lari, Adriano Moracci Direttore Generale Marco Giorgetti
I disegni del sommario e della rubrica Un teatro, tanti attori sono di Clara Bianucci Le interviste a Francesca Archibugi e Valeria Bruni Tedeschi sono frutto degli incontri con la stampa e con il pubblico in occasione del Bif&st- Bari International Film Festival 2017 Le interviste a Luis Sepúlveda e a Luciana Littizzetto sono state ispirate dagli incontri organizzati dal Salone Internazionale del Libro di Torino e dalla manifestazione Tempo di Libri di Milano L’intervista a Massimo Bottura prende spunto dall’incontro nell’ambito del Wired Next Fest di Firenze
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CHIUSO IN TIPOGRAFIA IL 6 GIUGNO 2017
La lavagna con la scritta EDUARDO viene conservata nei locali del teatro e fa riferimento al corso di drammaturgia che Eduardo De Filippo realizzò nei primi anni Ottanta al Teatro della Pergola. Questa citazione ha ispirato la nascita dei Quaderni della Pergola come elemento figurativo delle prime copertine. E ancora continua ad essere un simbolo del nostro modo di concepire il teatro.
Incontrare la gioia, farsi travolgere dalla sua energia inebriante. Saltare di gioia, piangere dalla gioia, vivere nella gioia o fuggirla per rifugiarsi sotto le onde del mare della malinconia. Ci sono artisti grati a quell’attimo di pazza allegria; altri che si raccontano e raccontano storie attraverso parole gioiose, risate, passioni da batticuore. È come innamorarsi. Lasciarsi toccare da quel sentimento di sana follia, dove tutto vibra di leggerezza e avvolge anche ciò che sembra non vada per il verso giusto. Per altri artisti la gioia è quel continuo tormento verso il superamento di se stessi, quello slancio di passione che fa correre più veloce, più forte, per raggiungere il traguardo e vincere la corsa della vita. Gioire è assaporare la vita come fosse un piatto di un grande chef che attraverso l’equilibrio di gusti ricercati dona sorrisi, nutrimento per l’anima e per gli occhi. Ogni gioia, una pazza gioia!