Quaderni della Pergola | L'incontro

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Al di là del bene e del male esiste uno spazio. Lì è dove ti reincontrerò... Rumi



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I ragazzi che si amano I ragazzi che si amano si baciano in piedi contro le porte della notte e i passanti che passano li segnano a dito

ma i ragazzi che si amano non ci sono per nessuno ed è la loro ombra soltanto che trema nella notte stimolando la rabbia dei passanti la loro rabbia il loro disprezzo le risa la loro invidia

I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno essi sono altrove molto piÚ lontano della notte molto piÚ in alto del giorno nell’abbagliante splendore del loro primo amore.

Jacques PrĂŠvert


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11 Stefano Fresi Racconti d’incontri avanti verso il prossimo

Monica Guerritore

Tra mito e follia

“Il mio modo di fare teatro è diventato un’esperienza collettiva, nel senso che non devo 12 Stefano rappresentare né far Massini vedere agli altri nulla, Le parole non devo mostrare dentro la testa per forza di fare “A volte sei l’attrice” governato

Francesca Reggiani

Dietro ogni risata

“Ogni artista deve necessariamente mettersi in gioco e mischiare continuamente le carte, solo così si può trovare la strada per andare avanti”

16 Emanuele

Gamba

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21 teatri e luoghi

dall’inquietudine ed ogni indizio quotidiano può diventare una storia: c’è come un’insoddisfazione costante, una mancanza che devi colmare attraverso le storie”

Dove porta il cuore “I nostri progetti sono degli universi fatti di incontro, scoperta ed esplorazione”

18 Fabrizio

Bentivoglio

La bellezza ci salverà “Sta in questo dare e ricevere tra attori e pubblico, il grande nutrimento del teatro”

22 Pierluigi

Cappello

Lettera per una nascita

23 meglio lasciarsi che non essersi mai incontrati Storie di avvicinamento

32 Thomas

Richards

Un vulcano pieno di vita “Il lavoro creativo attuale del Workcenter è sempre, come in passato, collegato alla crescita dell’attore e ad un concetto di pedagogia continua”


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45 Lino Guanciale

Racconti d’incontri

epifanico momento

34 Jane

Fonda Robert Redford

Come la prima volta “Quando ci è capitato di incontrarci, lavorare insieme è stato facile. Non c’è mai stata la necessità né di discutere né di spiegarci niente, così è stato e così è ancora oggi”

46 Vittorio Storaro ...E luce fu! “Il cinema deve essere un equilibrio tra le arti e lo spettatore, grazie al contributo di tre colonne fondamentali – immagine, musica e parola – riceve un’emozione”

62 I diplomati 54 Bruno Barbieri della Scuola Quando arte per attori e sapore si “Orazio Costa” incontrano L’incontro “Gli chef sono le del Teatro nuove rockstar, ma non sarei diventato quello che 72 accademia sono senza le lezioni dell'uomo di mia nonna. La memoria è tutto: è così che si realizza l’arte in cucina”

74 Marco

Giorgetti

50 La storia racconta... Il crocicchio di rue du Château

56

Pierfrancesco Favino

Attori si nasce e si diventa “Attraverso la Scuola dell’Oltrarno vogliamo dare la possibilità ai giovani di affermare la propria esistenza, in modo che grazie a certi strumenti e con delle tecniche possano arrivare a trovare qual è il loro linguaggio e la loro verità”

40 Mika 52 Dai racconti Il cuore di una giovane delle cose scrittrice... “Le melodie sono gocce di spesso il frutto pioggia degli echi della mia anima, esprimono il mio temperamento libanese che attinge al Sud del mondo”

Tre anni di teatro “Quello che ci resta dentro dopo uno spettacolo è sempre una nuova domanda, una nuova possibilità o un punto di vista inatteso”


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Monica Guerritore

Tra mito e follia

“Il mio modo di fare teatro è diventato un’esperienza collettiva, nel senso che non devo rappresentare né far vedere agli altri nulla, non devo mostrare per forza di fare l’attrice”

film Mariti e Mogli, probabilmente di ricordandosi dello spettacolo Scene Angela Consagra da un matrimonio che avevo fatto con Gabriele Lavia e che è tratto da Bergman, l’autore da cui il soggetto di Woody Allen proviene. Ha legato a me quest’idea, di cui amava tanto il film, anche per la regia e questo è un fattore piuttosto curioso e persino stupefacente: è un pensiero un po’ folle quello di rivolgersi ad un’attrice donna come regista… Quest’azzardo me l’ha resa subito simpatica! E che cosa mi ha dato la collaborazione con Francesca Reggiani? Mi ha donato quella vena un po’ folle Diciamo che Francesca mi ha dato che a me manca, mentre io a lei cretantissimo e allo stesso modo do di aver trasmesso una certa proio credo di aver dato molto a fondità che nelle commedie molto Francesca… È stata proprio spiritose e ironiche di Woody Allen Francesca ad avere l’il- è sempre presente. Woody Allen raluminazione di dica le sue commedie attingendo ai legare il mio testi dei suoi Maestri, da Bergman a nome al Strindberg, per cui la mia conoscen-

In questa stagione teatrale sta portando in tournée Mariti e Mogli, uno spettacolo che interpreta, tra gli altri, insieme a Francesca Reggiani: com’è avvenuto questo incontro scenico? Siete due artiste che provengono da universi differenti: un’impostazione più teatrale e drammatica per Lei e invece un’appartenenza alla comicità televisiva e al mondo delle imitazioni per Francesca Reggiani. Quali sono i punti in comune tra voi e quali quelli che vi rendono più distanti?


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za del famigliare, di un’indagine più teatrale sui rapporti esistenti tra mariti e mogli, ha approfondito questo percorso che abbiamo intrapreso. Una vena di follia leggera da parte sua e per me invece le radici dentro

perta di un racconto che è fatto non solo di parole – lei è abituata ad essere un’attrice da one woman show e a riempire lo spazio scenico da sola – ma anche di rapporti di forza in palcoscenico. Ha scoperto quindi il racconto fatto di sguardi, di dinamiche tra i personaggi, di sviluppo della trama: siamo in otto sul palcoscenico, sempre presenti, e lei si è immersa in questa dimensione dello spettacolo di prosa con un talento incredibile. Dal punto di vista della regia, essere attori e contemporaneamente registi di se stessi, che tipo di difficoltà oppure di vantaggio comporta? È una dimensione che aiuta la comprensione dello spazio scenico?

FOTO FILIPPO MANZINI

Per Mariti e Mogli ho scritto anche la drammaturgia perché Woody Allen mi ha dato personalmente l’autorizzazione a trarre dal suo film uno spettacolo teatrale, cosa che mi rende particolarmente orgogliosa perché non l’aveva mai fatto prima… Alla fine è come se, quando scrivi, avessi davanti a te uno spettacolo già realizzato nei mesi precedenti: si tratta di vedere ciò che potrebbe essere, delineando quella sala e descrivendo quella notte: sentire il rumore della pioggia, sceglieil mito, all’interno delle psicologie re le musiche, affidarsi allo swing e in cui scava Woody Allen: questo è chiedere al coreografo di impostare quello che ci siamo scambiate come certi passi, individuare gli attori, i bagaglio culturale. costumi, le luci… È tutto un lavoro che si forma precedentemente nella Siete due figure apparentemente mia mente, dentro la mia immagimolto diverse… nazione: quando arrivo alle prove, Sì, e questo è l’aspetto più affa- lo spettacolo è già fatto, manca solo scinante… Per Francesca questo la messa in scena. Occorre un dopprogetto ha segnato anche la sco- pio sul palco che reciti le mie battu-


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te mentre sono in sala a dirigere, poi magicamente lo spettacolo diventa materico e acquista una sua realtà. L’unico problema è che io arrivo per ultima a dire la mia parte in scena perché voglio continuamente guardare da giù, dalla visuale della platea, se il risultato finale è come me lo immagino.

sera dove andassimo a parare, io e il pubblico, uniti in quel rito collettivo che è il teatro… La mia valigia di attrice con il tempo si è svuotata perché è sempre pronta, non essendo piena, ad accogliere gli effetti personali del nuovo ‘fanta- “Il pubblico è la molla, il motore sma’ teatrale che e il riparo che mi permette di sta arrivando… osare. Non ho paura di provare Dopo aver affrontato a lungo Per me la que- strade nuove o di imbarcarmi il palcoscenico, il pubblico stione non è mai in esperimenti originali perché che valore assume? quella di entra- sento di averlo dalla mia parte” Lei è molto amata dal pubblico… re dalla quinta Sì, lo sento ed è una percezione al palcoscenico per far vedere agli meravigliosa… Il pubblico è la mol- spettatori che sto recitando un ruola, il motore e il riparo che mi per- lo: alla fine sono sempre me stessa mette di osare. Non avendo timore in scena. del pubblico, non ho neanche paura di provare strade nuove, di imbarcarmi in esperimenti originali o avventure inedite perché sento di averlo con me, dalla mia parte. Dopo tante repliche, un’attrice come vive l’incontro con il palcoscenico?

Io non vivo più quella frattura che divide la quinta dal palcoscenico e questo è avvenuto soprattutto a partire dagli spettacoli come Madame Bovary, che ho fatto con il regista Giancarlo Sepe: il mio modo di fare teatro è diventato un’esperienza collettiva, nel senso che non devo rappresentare né far vedere agli altri nulla, non devo mostrare per forza di fare l’attrice. L’unica condizione è quella di riunirci, io e il pubblico, per raccontarci una storia e per riuscire a comprendere insieme questo mistero che è l’essere umano. Quando interpretavo, per esempio, Oriana Fallaci ed entravo in scena con quel cappotto di leopardo e la sigaretta in bocca, mi chiedevo ogni


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Francesca Reggiani

Dietro ogni risata “Ogni artista deve necessariamente mettersi in gioco e mischiare continuamente le carte, solo così si può trovare la strada per andare avanti”

perché ho sentito il bisoHo avuto questo copione sotto gno di gettaril braccio per anni e nessuno l’ave- mi in questa nuova va mai capito prima… Ad un tratto sfida: ogni artista deve necesla vita ti dà delle risposte: il fato o il sariamente mettersi in gioco e destino, in qualsiasi modo lo voglia- mischiare continuamente le carte, mo chiamare, mi ha fatto incontrare solo così si può trovare la strada per Monica Guerritore e abbiamo messo andare avanti… su questa operazione che ha un’impronta prevalentemente femminiChe cos’è per Lei la comicità? le. Nel giro di poco tempo abbiamo La comicità è un dono. Si può montato lo spettacolo: oltre ad essere studiare per diventare attori una delle interpreti femminili, Moni- drammatici, mentre non tutti ca ha curato anche l’adattamento e la sono portati per il comico… L’iregia, mentre io ho bisogno in questa ronia e il sarcasmo non si possono fase di concentrarmi essenzialmente acquisire dall’esterno, soltanto se sulla pura recitazione. Dopo anni di già ce l’hai puoi studiare ancora e one woman show è stato importan- approfondire certi meccanismi, i te per me affidarmi a qualcuno che famosi tempi comici. Vengo da dieci scrivesse il testo o scegliesse le luci… anni di one woman show nei teatri Ritengo che ripetere sempre le stesse e per me è stata una felicità: ogni cose sia micidiale per noi attori, ecco volta lo spettacolo è una grandissiPerché ha scelto di intraprendere un progetto teatrale legato al film di Woody Allen, Mariti e Mogli?


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ma emozione ed è il risultato del mio lavoro con gli autori, Valter Lupo e Gianluca Gigliarelli che mi seguono da sempre. Tengo molto alla preparazione dei testi: il pensiero e la parola stanno dietro ad ogni risata. Anche nelle imitazioni che ho fatto in TV il mio principale lavoro è con gli autori: al di là di “La comicità è un dono. una rappresenSi può studiare per diventare tazione più esteattori drammatici, mentre non riore e becera del tutti sono portati per il comico, personaggio in per l’ironia o il sarcasmo” questione, l’im-

to fai ridere!”. E pensare che proprio io sono diventata un’attrice comica, io che ho sempre voluto essere una straordinaria attrice drammatica… Di certo nel mio futuro non avrei mai immaginato di produrre degli sketch comici e del resto nel nostro mestiere, quando si inizia a percorrere una strada, è il mestiere stesso che ti chiama, nel senso che se sei una comica è difficile poi diventare ‘una Laura Morante’, la recitazione di carattere serio diventa allora qualcosa di indipendente dalla mia volontà.

FOTO FILIPPO MANZINI

portante è riuscire a trasmettere un contenuto. Io ho studiato con Gigi Proietti, negli anni Ottanta abbiamo collaborato con la Bottega di Gassman, ma al di là della preparazione specifica – che rimane preziosa e fondamentale per formare il carattere di un’artista – sono l’improvvisazione e l’istinto a fare la differenza. Proietti mi ripeteva spesso: “Francesca, tu non provarla la parte, che tan-

Il palcoscenico: come si prepara ad affrontarlo?

Ogni spettacolo è sinonimo di divertimento. Non c’è nessuna lotta da fare con me stessa: seguo la scuola proiettiana, nel senso che mi butto a capofitto nella gioia della rappresentazione. Incontro il pubblico e la comunicazione tra noi diventa fondamentale: il pubblico è allora sinonimo di grande accoglienza.


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Racconti d’incontri

Avanti verso il prossimo... Stefano Fresi

Come ha incontrato il teatro?

Il mio incontro con il teatro è avvenuto grazie ad Augusto Fornari, che ha avuto l’idea di farmi scrivere delle musiche per il teatro e anche di farmi parlare in scena. Allora eravamo ventenni, lui era un attore e io facevo il pianista: ho mollato gli studi classici e ho cominciato a concentrarmi sul teatro. Del resto, il teatro lo incontri ogni volta che stai per andare in scena: ricordo quanto Gigi Proietti una sera dietro le quinte, nonostante l’enorme esperienza, fosse seriamente terrorizzato. Ci ha guardato e ha detto, alla romana: “Farà ride’, stasera?”, poi si è voltato ed è entrato sul palco. È stata una lezione di teatro indimenticabile, da grandissimo Maestro quale è: questo significa rispettare sempre il pubblico. Ed è anche un modo per raccontare ai giovani la fatica di questo mestiere, ogni volta come se fosse la prima volta… L’incontro più deludente e quello più importante che ha avuto.

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

Il più deludente è stato quando con una Compagnia c’era stata fatta la promessa di fare insieme tante repliche di uno spettacolo e poi invece la produzione è svanita nel nulla: mi è dispiaciuto molto… Le soddisfazioni sono tante, difficile sceglierne una, però una delle più emozionanti è stata durante una replica del Sogno di una notte di mezza estate con la regia di Massimiliano Bruno al Teatro Romano di Verona. Una sera si è alzato un vento incredibile, il fumo di scena ci girava tutto intorno e si è coperto il cielo di nuvole: proprio all’applauso, sull’ultimo verso del monologo finale di Puck, si è spenta la luce, c’è stato un tuono e poi la pioggia. Insomma, è stato un momento unico e ci siamo sentiti accolti dalla natura, come se fossimo dentro a qualcosa più grande di noi… C’è un incontro che sta ancora aspettando o invece è già arrivato?

Il nostro è un mestiere corale e dunque che vive di incontri, l’attore che lavora da solo non esiste. Di incontri ce ne sono stati tanti e tutti bellissimi, per cui adesso aspetto il prossimo e poi ancora il prossimo…


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Stefano Massini

Parole e libertà “Ogni volta che qualcuno scrive, dipinge oppure scolpisce, ogni volta che noi ci esprimiamo in qualunque arte, in realtà fondamentalmente parliamo di noi stessi”

Nella stagione del Teatro della Pergola ci sono tre importanti testi di Stefano Massini, apparentemente molto diversi tra loro: Il nome della rosa, L’ora di ricevimento (banlieue) e Vincent Van Gogh. L’odore assordante del bianco. Quale può essere il filo, da un punto di vista ideale, capace di legare questi testi?

A destra: foto di Alessandro Botticelli

Credo che tutte le volte che qualcuno scriva, dipinga oppure scolpisca, tutte le volte che noi ci esprimiamo in qualunque arte, in realtà fondamentalmente parliamo di noi stessi. A cambiare è solo il grado in cui l’autore si cela, il nascondiglio che viene usato sotto forma di alibi o di alter ego. Io ho sempre utilizzato dei pretesti nelle mie opere proprio per raccontare qualcosa che mi appartenesse profondamente. Vincent Van Gogh. L’odore assordante del

bianco è uno dei primi testi che ho scritto e risale a tredici anni fa, mentre L’ora di ricevimento (banlieue) è un mio testo recente: entrambi mi rappresentano tantissimo. Il primo conserva al suo interno l’idea di un teatro narrativo, con una drammaturgia assolutamente non minimale e anzi ricca di personaggi, di evocazioni, di tempi e di colpi di scena: è un tipo di scrittura più simile alla struttura di un romanzo che non a certe forme laconiche della drammaturgia contemporanea. Questo testo presenta una profonda riflessione sull’arte e sul ruolo dell’artista che si pone contro la società: parla di Van Gogh, che per definizione viene considerato il pittore del colore, nella fase della sua reclusione in un manicomio della Francia meridionale. In quegli anni si riteneva che i colori fossero eccitanti per le personalità psicotiche o isteriche e dunque


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il colore veniva negato: i pazienti erano immersi in aule con pareti e letti completamente bianchi. Oggi sappiamo che paradossalmente si tratta di una soluzione tremendamente negativa: pochi colori sono invece eccitanti come il bianco, che è la somma di tutti i colori. L’ora di ricevimento (banlieue) nasce da un viaggio di lavoro a Tolosa, dove ho conosciuto una ragazza che è una insegnante di materie letterarie nelle banlieue alla periferia della città. Lei mi ha raccontato questa sua condizione con aneddoti tra il buffo e il drammatico: in questa scuola disagiata si ritrova a dover parlare di Voltaire, Baudelaire, Rousseau e Verlaine davanti a una classe formata per il 90% da “Io ho sempre utilizzato dei magrebini, slavi, pretesti nelle mie opere proprio russi, cinesi, e via per raccontare qualcosa che mi dicendo… Sono alle appartenesse profondamente” persone quali fondamentalmente non interessa veramente niente della letteratura francese. L’ora di ricevimento (banlieue) rappresenta dunque uno sguardo sulla contemporaneità, un confronto tra culture diverse che viene espresso in una visione teatrale. Per quanto riguarda lo spettacolo Il nome della rosa, non lo considero affatto come un mio testo: si tratta di un adattamento del romanzo di Umberto Eco. Mi è stato chiesto di scrivere un testo teatrale che fosse fedele all’originale e trovo che sia stato giusto così; il libro di Eco è talmente importante e talmente noto, ha una sua struttura definita che presuppone una certa concatenazione degli eventi: se non accadono quelle cose il meccanismo poliziesco non si dipana… Era difficile inserire al suo interno altri miei interventi narrativi o drammaturgici.

Come si arriva, dal punto di vista della scrittura, a rendere drammaturgico un testo che originariamente non lo è?

Provenendo dal grande insegnamento di Luca Ronconi, io sono sempre stato convinto che il teatro sia qualcosa di totalizzante: ogni cosa alla fine è teatralizzabile. E, anzi, ho sempre ritenuto inaccettabile la parola teatralizzazione perché parte dalla convinzione che esista al mondo qualcosa di non teatrale. La nostra vita, invece, in ogni momento è altamente teatrale perché è l’essere umano stesso ad esserlo. Partendo da questo presupposto, più che altro si tratta di operare delle scelte: la drammaturgia è la selezione di quei fatti che sul palcoscenico diventano intriganti e fonte di emozione rispetto ad altri avvenimenti più secondari. Il teatro è quel luogo dove viene assimilata la realtà, per essere scomposta in una forma critica e dialettica. Dobbiamo pensare al teatro come se fosse una specie di apparato digerente, in cui noi spettatori come dei ruminanti separiamo le sostanze nutritive – il messaggio degli spettacoli a cui assistiamo – per riuscire ad assimilare e quindi a comprendere le parole degli autori. In che modo un personaggio narrativo si arricchisce o diventa diverso nel passaggio dalla scrittura alla scena?

Sono sempre stato un autore libero, nel senso che i miei testi li ho percepiti come dei materiali molto vasti, in modo da permettere a chi dovrà poi pensare alla conseguente messinscena di privilegiare ciò che desidera. In molti casi i miei testi non hanno neanche l’assegnazione


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delle battute: è come se fossero dei grandi fiumi all’interno dei quali il regista e gli attori possono attingervi con una libertà assoluta. Ogni messinscena è sempre una forma rinnovata di drammaturgia, non esiste mai un’unica drammaturgia dettata dall’autore del testo. La neurobiologia ci insegna che soltanto il 13% del giudizio che noi formuliamo davanti a una scena dialogata nasce da quello che i personaggi si dicono, il resto va attributo al modo in cui vengono pronunciate le battute, alle relazioni spaziali tra i vari caratteri… Un drammaturgo sarebbe folle se imponesse il rispetto teocratico del proprio testo. Ogni spettacolo è il risultato di quell’ulteriore forma di drammaturgia che è la messa in scena.

di intrattenimento presente nell’attuale Occidente industrializzato – si creano una tale quantità di miti quotidiani… È molto facile mimetizzarsi dentro questa folla di visi che in ogni momento diventano popolari: sono glorie che ritornano spesso nell’ano-

Lei è diventato uno degli autori teatrali più importanti in Italia e all’estero; come vive la popolarità?

Molto di quello che è avvenuto nel mio percorso negli ultimi diciassette anni non sarebbe successo se non avessi fatto il mio ingresso al Piccolo di Milano tanti anni fa come assistente alla regia, incrociando Luca Ronconi. Trovarmi adesso ad essere consulente artistico di quel teatro è il coronamento di un percorso e di un sogno. Essere popolare significa aver creato dei precedenti di successo e ciò è straordinario perché queste opere rappresentano quello che hai costruito, ma al tempo stesso possono essere ingombranti: sono delle pietre di paragone con le quali devi continuamente confrontarti. Essendo una persona piuttosto schiva, per mia fortuna questa popolarità avviene in un momento in cui grazie ai Social e ad Internet – grazie ad un tipo

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

nimato, per cui diventa spontaneo anche il fatto di nascondersi dietro a questo meccanismo. Soprattutto quando appari in TV quell’ebrezza della riconoscibilità, anche da parte della gente per strada, ha i suoi risvolti: da un lato, in qualche modo, ti senti esposto e dall’altro è moltiplicata la gente che è gentile con te e ti offre un caffè al bar!


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Fabrizio Bentivoglio

La bellezza ci salverà “Sta proprio in questo scambio, in questo dare e ricevere in cambio tra attori e pubblico, il grande incontro e nutrimento del teatro”

un testo che ci ha subito impressionato: non avevo mai letto niente scritto da Stefano Massini, e fin dalla prima lettura mi sono convinto della bellezza e della validità del progetto. La prima lettura di un testo è quella che ti fa decidere se partecipare o meno all’avventura rappresentata dallo spettacolo. Ogni viaggio teatrale è, alla fine, un’avventura. In particolare, Interpretare il ruolo del Profes- L’ora di ricevimento (banlieue) solsor Ardèche, il protagonista de L’o- lecita nel pubblico la curiosità verso ra di ricevimento (banlieue), è stata un argomento che in genere siamo un’occasione più unica che rara… La abituati a subire, soprattutto nei dimessinscena di questo testo, grazie scorsi dei capi di Stato o delle grandi al Teatro Stabile dell’Umbria che lo associazioni presenti nei vari dibattiti ha prodotto, ha segnato un incontro televisivi. Il tema della convivenza tra creativo e ha fatto nascere una gran- persone appartenenti a diverse etnie è de collaborazione tra un attore, un qualcosa che ci riguarda tutti, proprio drammaturgo e un regista: in questo come esseri umani. Bisogna tentare di modo io, Stefano Massini e Michele analizzare quel particolare rapporto Placido abbiamo avuto la possibilità che si crea con chi ha altri usi e costudi lavorare insieme. Questa unione si mi, altri modi di vestire, di mangiare è creata anche grazie alla validità di e di pregare rispetto ai nostri. Questi La scolaresca del professor Ardèche – il personaggio da Lei interpretato nello spettacolo L’ora di ricevimento (banlieue)– è composta da un crogiuolo di culture e di razze diverse. Questo scambio tra varie diversità di origini e di culture, che tipo di incontro-scontro è in grado di realizzare?


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individui stanno arrivando sul nostro territorio, nel posto in cui siamo nati e vissuti, ed è per questa ragione che necessariamente dobbiamo imparare a conoscerci e a capirci, entrando in relazione gli uni con gli altri. Nel film Scialla! Lei era già entrato, attraverso il suo personaggio, in relazione con il mondo dei giovani e della scuola trovando un punto di incontro, disincantato e pieno di affetto al tempo stesso, con questa realtà. Ardèche, il professore de L’ora di ricevimento (banlieue), che uomo è?

Le affinità tra me e lui sono tante: più o meno abbiamo la stessa età e apparteniamo alla stessa generazione, quella “Il momento più emozionante dei lontani anni è proprio quello della Settanta. Noi preparazione e della vestizione pensavamo di in camerino, quando l’attore fare la Rivoluindossa il costume di scena e zione e addiritla persona, poco alla volta, si tura di riuscire trasforma nel personaggio che a cambiare il incontrerà il pubblico. mondo: volevaStiamo parlando del momento mo renderlo un più privato e rituale di un attore” posto migliore, ma non ci siamo riusciti. Quelli come me e il professor Ardèche sono portati a pensare invece che il mondo sia andato verso la giusta direzione: ecco perché Ardèche, per esempio, continua a predicare la bellezza ai suoi studenti. Anch’io, come lui, sono convinto che la nostra sia una realtà davvero drammatica ma allo stesso tempo portatrice di giustizia e di poesia. Riuscire a tramandare concetti così alti alle nuove generazioni è qualcosa di estremamente complicato, ma Ardèche non può farne a meno, è più forte di lui.

Quali sono le differenze, dal punto di vista della preparazione e dell’interpretazione dell’attore, tra cinema e teatro?

Forse a cambiare non è tanto l’energia del personaggio, quanto la misura che serve a te per raccontarla quell’energia. Una cosa è trovarsi in una stanza con un microfono nascosto nei vestiti e una macchina da presa a pochi metri, tutta un’altra cosa è stare su un palcoscenico con il pubblico in platea, nei palchi, sul loggione. Poi al cinema una volta che la scena è fatta, quando il regista dice “Buona!”, tu te la puoi tranquillamente dimenticare, non la rifarai mai più. E se l’hai sbagliata, te la tieni sbagliata. A teatro invece no, domani c’è un’altra replica, un altro pubblico. Quale strada l’ha condotta verso questo mestiere? E verso la passione per la musica?

Credo che la strada sia la stessa, sia per il mestiere di attore che per il mio essere musicista, e la continuo a scoprire percorrendola. Poi gli incontri hanno fatto il resto. Da Peppino Patroni Griffi e la Compagnia dei Giovani, fino a Peppe Servillo con la sua Piccola Orchestra Avion Travel. Del resto, non so che uomo sarei diventato senza il teatro. Sta proprio in questo scambio, in questo dare e ricevere in cambio tra attori e pubblico, il grande incontro e nutrimento del teatro. Il momento più emozionante del nostro mestiere è proprio quello della preparazione e della vestizione in camerino, quando l’attore indossa il costume di scena e la persona, poco alla volta, si trasforma nel personaggio che incontrerà il pubblico. Stiamo parlando del momento più privato e rituale di un attore.


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teatri e luoghi di Marta Bianchera

T

eatro è da sempre esperienza collettiva condivisa. È relazione, quindi incontro. A teatro il pubblico incontra la passione di un attore, la visione di un regista, l’ironia di un autore. La compagnia incontra un pubblico favorevole o piuttosto rumoroso. Ma cosa accade quando il teatro incontra un luogo?

Accadono performance originali e visionarie: il Teatro dei luoghi di Fabrizio Crisafulli. Questo metodo teatrale porta alla creazione di spettacoli in cui il cuore di ogni azione risiede nell’incontro della compagnia con il sito della performance. Vivendo concretamente nell’ambiente attori, registi e tecnici imparano a conoscerne la quotidianità, le persone che lo popolano, la storia grande e piccola che lo ha attraversato, la memoria che esso custodisce. Fuori dalla tradizionale sala prove e senza copioni, è nella fase iniziale di osservazione e ascolto che si gettano le basi di ciò che sarà lo spettacolo ultimato. Tale esperienza viene poi rielaborata artisticamente dal regista, che imprime così la sua visione poetica.

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

Durante la preparazione di Numina, percorso notturno nella necropoli della Banditaccia a Cerveteri, gli attori e il regista entrano in contatto con l’atmosfera e le persone del luogo, reali o immaginate, presenti o passate. Scoprono l’architettura del paesaggio e interagiscono con gli elementi che li circondano: tumuli, pietre e alberi. Lavorano rielaborando antiche credenze e divinità del popolo etrusco; fantasticano sulla vita quotidiana di donne dai nomi immaginifici, trovati in elenco in un libro di storia. Ma si concentrano anche sulla vita attuale del sito, registrando rumori e suoni di animali, perfino alcune delle spiegazioni delle guide turistiche ai visitatori; elementi eterogenei fatti emergere poi dal fondo di un grande fosso come una sorta di misterioso “rigurgito” dello spettacolo che il pubblico sente giungere come dalle viscere della terra. Numina è poesia fra passato e presente, porta con sé le voci di chi è stato e di chi vi è ora. Porta con sé lo spirito del luogo. Buona parte del pubblico è composto da chi quei luoghi li vive quotidianamente, da abitanti incuriositi oltre che da intellettuali e colti amatori. I cittadini di Cerveteri assistono allo spettacolo di cui si sentono partecipi e nel quale vedono rappresentata la propria storia. Esattamente ciò che accadeva più di duemila anni fa, quando il popolo ateniese accorreva alle grandi feste dionisie per vedersi riflesso nella narrazione dei miti fondativi della propria civiltà. Incontri differenti, ma entrambi costitutivi dell’essenza stessa del teatro.


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SPECIALETE ATROEMUSIC A

Emanuele Gamba dove porta il cuore

Come nasce, nel vostro lavoro come Compagnia Todomodo, l’incontro tra musica e parole?

Io sono cresciuto circondato dalla musica: l’amore per la lirica e per la musica sinfonica non mi ha mai abbandonato. Quando abbiamo cominciato quest’avventura, l’ambizione era “I nostri progetti sono tutti legati a dei mondi quella di creare un teatro musicale drammaturgici che risuonano di una propria originale: noi italiani siamo figli di musicalità: sono degli universi fatti di incontro, Verdi, Rossini e Puccini, quindi il noscoperta ed esplorazione…” stro pensiero è stato che fosse possibile ideare oggi un teatro musicale di qualità. Siamo alla ricerca continua di soggetti che abbiano in sé una musicalità nel racconto. I nostri progetti sono tutti legati a dei mondi drammaturgici che risuonano di una propria musicalità: sono degli universi fatti di incontro, scoperta ed esplorazione…


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Abbiamo la convinzione che la parola trovi nella musica un completamento che possa avvicinare il pubblico al racconto. Andiamo un po’ dove ci porta il cuore: ci innamoriamo di alcune storie e cerchiamo di capire quale possa essere la giusta musica per accompagnarle, cerchiamo l’autore che sia il più vicino possibile al mood del testo in questione. Musica ribelle, il vostro ultimo lavoro, in che modo si lega con lo spettacolo precedente, Spring Awakening?

C’è un legame fortissimo tra questi due lavori. Sono due canti alla vita. Spring Awakening è il canto dell’individuo che da bambino si fa adolescente, per poi diventare adulto passando attraverso tutte le sofferenze, le paure e i dubbi che questa particolare fase della vita comporta. Musica ribelle è una specie di ‘seconda puntata’: si descrive il giovane adulto, organizzato non in maniera individuale ma sotto forma di un gruppo – il collettivo – ovvero la forma relazionale più in voga negli anni ‘60 e ‘70. È un gruppo che tenta di immaginare la possibilità di un mondo nuovo. Spring Awakening ha un carattere esistenziale individuale, mentre Musica ribelle fotografa l’incontro di tanti esseri umani che combattono insieme o che comunque tentano di incidere sulla realtà. Negli anni ‘70 tutto diventava un atto politico: si veniva messi in piazza e svelati pubblicamente, con il fine di migliorare il privato di ciascuno di noi.

Concordo con quello che asseriva Carmelo Bene: il teatro non può essere “il luogo della digestione”, anzi come obiettivo primario deve poter divertire e commuovere nel profondo… Solo ricevendo un’emozione posso dirmi vivo! Penso che sia questa la sua missione. Il teatro può essere anche luogo d’incontro tra diverse generazioni?

Assolutamente sì, si impara molto dalle differenze, anche generazionali. Noi ci determiniamo come esseri umani confrontandoci e anche prendendo le distanze dai nostri genitori. Il teatro riunisce nello stesso posto i giovani e gli ultraottentenni: la visione è unica, ma ciascuno svilup- “Abbiamo la convinzione pa una propria che la parola possa trovare versione dei fatti. nella musica un completamento Ed è a partire dal per avvicinare il pubblico risultato di que- al racconto” sto rapporto, di questo scambio teatrale, che bisogna lavorare per costruire il futuro. Dal punto di vista registico, qual è il primo elemento da cui parte per costruire uno spettacolo?

Io sono uno di quei registi che amano molto gli attori: da ex attore quale sono stato, capisco bene quanto possa essere doloroso e ardito mettere in scena una storia e al tempo stesso svelarsi al pubblico. Quando sul palcoscenico racconti il carattere di Amleto, lo fai partendo da ciò che sei: la storia si sviluppa e anche tu, all’interno di te stesso, cambi insieme al personaggio. Fondamentale per me Il teatro può essere un punto rimane anche l’evocazione dello spadi incontro? zio, cerco di individuare e mettere in Il teatro rimane il luogo delle idee, scena il giusto habitat per far muovere dell’incontro e anche dello scontro. i vari personaggi.

A sinistra: un momento dello spettacolo Musica ribelle, foto di Andreana Ferri


Scrivo per te parole senza diminutivi senza nappe né nastri, Chiara. Resto un uomo di montagna, aperto alle ferite, mi piace quando l’azzurro e le pietre si tengono il suono dei “sì” pronunciati senza condizione, dei “no” senza margini di dubbio; penso che le parole rincorrano il silenzio e che nel tuo odore di stagione buona nel tuo sguardo più liscio dei sassi di fiume esploda l’enigna del “sì” assordante che sei. Scriverti è facile; e se potessi verserei la conoscenza tutta intera delle nuvole la punteggiatura del cosmo la forza dei sette mari, i sette mari in te nel bicchiere dei tuoi giorni incorrotti. Ma non sono che un uomo, e quest’uomo ti scrive da un tavolo ingombro e piove, oggi, e anche la pioggia ha le sue beatitudini sulla casa dalle grondaie rotte quando quest’uomo ti pensa e fra tutte le parole da scegliere non sa che l’inciampo nel dire come si resta e come si preme nel mistero del giorno nuovo in te che prima non c’era adesso c’è.

Pierluigi Cappello Lettera per una nascita da “Mandate a dire all’imperatore” Crocetti Editore - 2010


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meglio lasciarsi che non essersi mai incontrati storie di avvicinamento


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IL DOTTOR lIVINGSTONE, SUPPONGO Incontri tra esploratori

di Riccardo Ventrella

A

metà dell’Ottocento l’Africa è un po’ dannatamente pericolosa, e per lunghi tratti ancora non esplorata. Il dominio inglese è maggioritario, insieme a quello francese. Ferve ancora l’attività di coraggiosi esploratori, che spesso inseguendo utopie, viaggiano per riempire i numerosi vuoti che ancora si affacciano sulle carte. La zona centrale e centromeridionale dell’Africa, in special modo, ha moltissimi punti oscuri: le impenetrabili foreste, i fiumi giganteschi e infestati di coccodrilli, le malattie, la presenza di numerose tribù autoctone poco consenzienti rispetto al turismo coloniale rendono quest’area vastissima, e oggi compresa tra Congo, Tanzania, Mozambico, Zimbabwe, Zambia e Angola un paesaggio misterioso. Ciò che muove gli esploratori, ancorché utopico, è legato a concreti agganci: c’è chi è animato da motivazioni politiche, chi economiche, chi religiose. L’attività delle molte società missionarie inglesi è determinante nel completare le mappe, che vengono ridisegnate a colpi di battesimi agli indigeni. E nella fila delle società missionarie molto attivi sono gli scozzesi. Di Blantyre, villaggio delle Lowlands scozzesi, era nativo David Livingstone, forse il primo “esploratore mediatico” della storia. Il suo interesse per l’Africa si sviluppa molto presto, e si concentra sulla massima diffusione del cristianesimo nel continente. Poiché per rappresentare bene il Signore ci vuole anche una direzione geografica, Livingstone si fa tentare dall’impresa di raggiungere il cuore dell’Africa da sud e da est: o aprirò una via verso l’interno o morirò, afferma risoluto. Compie due primi viaggi, nel corso dei quali scopre le monumentali Cascate Vittoria. La seconda spedizione, lungo il difficile corso del fiume Zambesi, si rivela però un disastro con numerose vittime tra i portatori, la rinuncia progressiva di tutti gli occidentali e, infine, la morte della moglie di Livingstone, Mary, vinta dalla malaria cerebrale. È il 1862, ma Livingstone non ha alcuna intenzione, pur essendo già stanco e malato, di rinunciare al suo sogno. Torna in patria dove, nonostante la diffidenza suscitata dal fallimento dell’ultimo viaggio, riesce a raggranellare i fondi necessari a partire di nuovo, nel 1866.


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Scopo principale è quello di identificare correttamente le sorgenti del grande Nilo, che già altri esploratori avevano ravvisato nei laghi Alberto e Vittoria, ma senza provarlo con sicurezza. Livingstone entra nel continente da est, da Zanzibar, e si inoltra verso ovest. Troppo verso ovest: arriva fino al fiume Lualaba, ovvero alle sorgenti di un altro grande corso d’acqua africano, il Congo. Ripiega così verso est, tra mille inenarrabili difficoltà, fino ad arrestarsi sulle sponde del Lago Tanganica. Qui si ammala a lungo. A Zanzibar non si hanno più notizie di lui, e molti, incoraggiati da voci riportate da transfughi della spedizione, lo danno per morto. Qui entra in gioco Henry Morton Stanley, gallese. Una vita assolutamente da narrare per quanto è movimentata, non meno di quella di Livingstone. Nasce John Rowlands, anche se il padre poteva essere chiunque e non l’alcolizzato signor Rowlands. Presto finisce in una casa di correzione, o casa lavoro, dove si commette ogni sorta di abuso. A diciassette anni fugge, e si imbarca per l’America, raggiungendo New Orleans. Storia e leggenda qui divergono: non si capisce se venga o meno adottato da un facoltoso negoziante di cotone, Henry Stanley. Ne assume in ogni caso il nome, cui aggiungerà più tardi quello di Morton. Nel 1861 eccolo protagonista della Guerra Civile come parte dell’Esercito Confederato. Catturato dagli unionisti in Arkansas, sfrutta l’indulto che è concesso a chi cambia bandiera per uscire dal campo di prigionia, ma il suo servizio è breve: viene riformato dopo meno di venti giorni per motivi di salute. Continua a servire l’Unione in marina, imbarcandosi sul Minnesota. Inabile ai servizi attivi trascorre il tempo come archivista, e il tenere la penna in mano lo porta a scrivere dei resoconti che comincia a vendere ai giornali. Abbandonata la nave, entrò a far parte del New York Herald, uno dei giornali più in vista dell’epoca, edito dalla dinastia dei Gordon Bennett. Fu proprio James Gordon Bennett jr., in qualità di grande appassionato di esplorazioni, a dare l’incarico a Stanley di trovare Livingstone. La faccenda si trasformò ben presto in un poderoso affare mediatico. Trovate Livingstone ad ogni costo è l’ordine imperativo.


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Stanley organizza l’impegnativa spedizione. Giunge in Africa attraverso l’India, e il 6 gennaio 1871 arriva a Zanzibar dove stabilisce un primo campo base. Parte il 21 marzo dalla città di Bagamoyo, nell’odierna Tanzania, con sei tonnellate di approvvigionamenti e non meno di duecento uomini al suo servizio. Percorre oltre milleseicento chilometri, senza il beneficio di una mappa o di una indicazione per la gran parte del tragitto. La malaria e altre malattie colpiscono duramente la spedizione, e i fiumi sono ingrossati dalle piogge torrenziali. Non solo, danno anche abitazione e rifugio a numerosi coccodrilli, che prendono la spedizione di Stanley come una comoda dispensa azzannando ora un asino, ora un portatore, ora attentando alla vita dello stesso Stanley. Le notizie di Livingstone sono poche, frammentarie e contraddittorie. Tutto porta verso le sponde del lago Tanganica. Passano così otto mesi, fin quando si infittiscono le dicerie che nella zona di Ugigi viva un uomo bianco molto anziano.

Livingstone intanto continua a curarsi nella sua abitazione sul lago. I segni delle malattie sono sempre più evidenti ma l’esploratore non ha dimenticato il suo sogno di rendere l’Africa un continente percorribile. Ormai vive una quotidiana routine, lontana dal pensiero dell’Occidente. Finché un giorno di novembre del 1871 uno dei suoi servitori irrompe in casa al grido di Mzungu anakuja! Mzungu anakuja!, ovvero in swahili Sta arrivando un uomo bianco!. L’uomo bianco è Henry Morton Stanley, che entra in città dopo essersi accuratamente ripulito, e aver indossato gli abiti migliori. Il casco viene dotato di una nuova fascia, e gli stivali ingrassati e lucidati a dovere. Si fa largo nella cittadina e, sotto un mango tra i nativi, scorge un altro uomo bianco come lui, anzi molto più bianco perché sul suo volto c’è il pallore della cattiva salute. Stanley si toglie il cappello e pronuncia la famosa frase Doctor Livingstone, I


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presume, seguita da un cenno di assenso. Come fossero al club davanti a uno sherry, l’incontro tra due uomini fondamentalmente estranei, ma che per mesi hanno avuto uno strano tipo di legame si svolge secondo i più tradizionali dettami dell’etichetta vittoriana. Livingstone è trovato, e la notizia fa il giro del mondo, ovviamente ai ritmi possibili per un luogo distante mesi di cammino dalla civilità. Per l’Herald è un grandissimo scoop, uno dei più grandi colpi del nascente giornalismo d’azione. Stanley rimarrà con Livingstone diversi mesi, compiendo con lui anche una spedizione che fornì la prova praticamente inconfutabile dell’assenza di collegamento tra il lago Tanganica e il Nilo. Ripartì nel mese di marzo del 1872, lasciando Livingstone a Ugigi, disilluso ma ancora non rassegnato a trovare quelle che secondo lui erano le vere sorgenti del Nilo. L’ultima spedizione di David Livingstone ebbe inizio verso la fine dell’estate del 1872, e puntò verso lo Zambia. La salute dell’esploratore si fece sempre più precaria e il primo maggio del 1873 i compagni di spedizione lo trovarono morto. Il suo cuore fu inumato sulle sponde del lago Bangweulu, nel cuore dell’Africa nera, dove il suo pulsare si era arrestato. Le spoglie furono invece traslate sulla costa, duemila chilometri più a est, e rimpatriate in Inghilterra dove furono tumulate nell’abbazia di “Livingstone si fa tentare Westminster. dall’impresa di raggiungere il

cuore dell’Africa da sud e da est:

Henry Morton Stanley narrò l’appassionante vicenda “o aprirò una via verso l’interno o in un tomo di grande successo, How I found Livingstone. morirò”, afferma risoluto” Tornò in Africa per un’altra spedizione, nel corso della quale fece importanti scoperte navigando l’intero corso del fiume Congo. L’ultima visita di Stanley in Africa fu per una missione umanitaria di soccorso a Equatoria, provincia del Sudan trovatasi isolata durante la rivolta del Mahdi, che era sfociata nella clamorosa e dolorosa sconfitta inglese di Khartum. Mandato per soccorrere il governatore Emin Pascià, si trovò lui stesso in difficoltà e dovette ripiegare sulla costa, in compagnia tra l’altro del geografo italiano Gaetano Casati. Nel corso del viaggio non mancheranno altre scoperte, come la catena montuosa del Ruwenzori e il lago Eduardo. Stanley morirà nel 1904, e la sua fine coinciderà anche con quella dell’età delle esplorazioni. Alla fine dell’Ottocento le zone oscure del continente si sono ridotte quasi a zero e quel processo, iniziato dagli antichi egizi e proseguito da Bartolomeo Diaz che doppiando il Capo di Buona Speranza dimostrò all’era moderna che l’Africa poteva essere circumnavigata, si era compiuto. L’era coloniale è all’apogeo del fulgore vittoriano, ma mostra già le prime crepe di una disgregazione che diverrà irreversibile dopo la Seconda Guerra Mondiale. Nondimeno, l’incontro tra Livingston e Stanley diverrà proverbiale di come un vero inglese, anche se è gallese o scozzese, non dimentichi mai come ci si comporta in società, nemmeno quando è molto lontano da casa.


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Costruttori di comunità Batignani & Faloppa, Munari e la salvezza mano a mano

di Matteo Brighenti

FOTO SIMONE CINELLI

Batignani & Faloppa in Costruire è facile?

L’

incontro è fare per e ritrovarsi con gli altri. “Le diversità sono una ricchezza – afferma Simone Faloppa – il grande salto nel mondo è andare verso l’altro. Se uno spettacolo non è un’esperienza di conoscenza io non so a cosa serva”. Pratica della partecipazione attiva e consapevole è Costruire è facile?, il secondo lavoro condiviso con David Batignani e presentato in prima assoluta (20-22 luglio) a Kilowatt Festival 2017 di Sansepolcro per 20 cittadini alla volta, spettatori/assistenti di un atto scenico costruttivo a partire da uno spazio vuoto. “Non siamo più abituati ad avere un rapporto con le nostre mani – continua Faloppa – costruire ci costringe a combattere con le nostre lacune e mancanze”. La scena si fa dal vivo insieme al cammino di comunità attuato dal pubblico, in un tempo naturale come comporre in un tavolo i pezzi di cartone attorno a cui siamo seduti. “Se non agiamo con un tempo non preordinato, com’è di solito in palcoscenico, lo spettatore – riflette David Batignani – non passa attraverso né percepisce la complessità del lavoro artigianale”. La costruzione finale è la meraviglia dell’ingegno manuale applicato a un materiale povero: l’essenza stessa dell’artigianato. “Puntiamo alla bellezza funzionale, non allo splendore dell’immagine – spiega Batignani – conver-


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tiamo un prodotto per impacchettare in un oggetto per riunirsi: la trasformazione è la strada della magia”. E Faloppa con lui: “Il nostro è un mestiere, che poi ha un contenuto artistico. Il palcoscenico non può essere soltanto una serie di effetti che producono affetti. Altrimenti, dove sta l’umano?”. È su questo terreno di ricerca che i due si sono osservati, conosciuti e scelti nell’aprile 2012 per unirsi nella ‘compagnia di complesso’ Batignani & Faloppa: un’orchestra di due artisti che suonano tutti gli strumenti, da autori dei propri spettacoli quali erano. David Batignani, scenografo-costruttore e performer, è storico collaboratore della Compagnia Piccoli Principi: “Il desiderio di lavorare insieme è nato dal vedere l’uno i lavori dell’altro. Di Fantastico Italiano, la lezione-spettacolo sul racconto fantastico di Simone, mi colpì il rigore nei confronti del linguaggio teatrale, cioè luci, costumi, presenza, testo”. Simone Faloppa, attore e drammaturgo, è regista assistente di Gabriele Lavia da L’uomo dal fiore in bocca: “In Assolutamente solo di David mi interessò moltissimo la necessità intima di specchiarsi nel futuro e quindi nel padre, che è la nostra immagine rovesciata. Il rapporto con l’età è uno dei nodi psichici e tematici di chi fa teatro”. Tu, eri me è il primo spettacolo della ‘ditta’ (all’epoca “Le diversità sono una ricchezza, anche con Paola Tintinelli) da un’indagine nelle tre Case il grande salto nel mondo è andare di Riposo per Artisti in Italia: cosa accade quando una verso l’altro. Se uno spettacolo non vita votata all’intrattenimento non regala la luce della è un’esperienza di conoscenza io popolarità? Cala un buio di attenzioni e rispetto, lo stes- non so a cosa serva” so che avvolge gli artigiani, investigati per due anni da Batignani & Faloppa prima di arrivare a Costruire è facile?. “Uno dei problemi più gravi che abbiamo trovato – ricorda Batignani – è stata la solitudine. Ti mostrano le opere che tuttora sono capaci di fare e tuttavia non riescono a vendere, non sapendo più come confrontarsi con l’oggi”. “Perché il cliente – interviene Faloppa – non è in grado di riconoscere la singolarità di un oggetto. Ormai cerchiamo articoli riprodotti in massa e basta: è il mercato”. Costruire è facile era il titolo e la tesi del programma Rai inaugurato nel 1956 da Bruno Munari. Agli albori della televisione il grande designer insegnava la manualità ai bambini e la imparava a sua volta. Oggigiorno, invece, viviamo la parola e la materia ‘costruire’ alla stregua di un ostacolo, un’utopia o uno sghignazzo. Allora, l’esperienza diretta intorno al tavolo di Batignani & Faloppa è l’occasione di riscoprire che si agisce innanzitutto con le mani. Sul loro banchino-bottega in giro per le piazze italiane, artigiani tra gli artigiani, c’era scritto: “Osiamo riparare: manufatti, sentimenti, persone”. A patto di accettare la difficoltà di cominciare da sé. “La realizzazione di se stessi – concludono entrambi – è la costruzione del proprio corpo nel mondo. Soltanto così possiamo aspirare a una qualche forma di ‘salvezza’ nell’aldiquà”.


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Nel respiro vitale del momento Giselda Ranieri, T.I.N.A. e l’ansia danzata con ironia

L’

incontro è uno spazio di libertà in cui scoprire e sperimentare qualcosa in più di sé e del proprio lavoro. “Per me è fondamentale a 360 gradi – afferma Giselda Ranieri – altrimenti credo non ci sarebbe motivo di stare sulla scena”. Ha debuttato recentemente a Carrozzerie | n.o.t di Roma con la sua seconda creazione da solista, T.I.N.A., in cui danza il e sul tema dell’ansia, “ma anche se è un solo ho sentito la necessità del confronto, nel lungo processo di gestazione ho incontrato la Compagnia Frosini/Timpano, Daniele Villa dei Sotterraneo, fino a Sandro Mabellini che firma la collaborazione artistica”. I passi di Ranieri sono un dialogo costante tra interiorità ed esteriorità, per vivere contemporaneamente dentro e fuori la partitura e la ricerca coreografica in genere. “La difficoltà e al tempo stesso il piacere – ammette – è riuscire a essere sinceri in quello che si fa, cioè esserci pienamente, e, insieme, non chiudersi nel disegno che ci si è dati. Solo così il lavoro respira, vive realmente”. La sua risorsa e vena creativa è l’ironia, inestimabile e anche abbastanza anomala nel mondo della danza. “Molto seriamente non mi prendo sul serio – sorride – sono una persona solare, curiosa, ironica e autoironica. Quando ero adolescente l’autoironia era insicurezza pura, con il tempo si è e l’ho trasformata nel mio punto di forza”. Una filosofia di vita che l’aiuta a prendere tutto nella giusta misura, ovvero “cercare sempre quello scarto che arricchisce il mio punto di vista”. Poco più che trentenne, Giselda Ranieri inizia a studiare danza classica in una piccola scuola della sua città, Genova. A 15 anni conosce Aline Nari (coreografa, danzatrice, studiosa) con cui lavora tuttora nella Compagnia UBIdanza: per la prima volta viene a sapere che esiste la danza contemporanea e, in particolare, un campo di ricerca che si chiama ‘teatrodanza’. Laureata in Discipline dello Spettacolo dal vivo e specializzata in Danza al DAMS di Bologna con la storica dell’arte coreutica Eugenia Casini Ropa, dal 2010 collabora con la Compagnia ALDES/Roberto Castello (è artista associata dal 2014). “Nasco – spiega Ranieri – come danzatrice muta, asettica e inespressiva. Però, grazie ad Aline prima e a Roberto poi, mi sono accorta che era un blocco, non rispondeva a una mia verità personale”.


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L’incanto dell’unione perfetta tra corpo, musica e parole lo raggiunge attraverso la sperimentazione davvero in profondità della composizione istantanea, che dal 2008 arriva fino ai Blind Date del 2017 a Trasparenze Festival di Modena e agli Uffizi Live, due esempi di concertazioni visive e sonore ‘all’improvviso’, senza preconcetti né predefinizioni. Ranieri riesce a danzare sull’energia del momento anche soltanto con la mimica facciale, bocca, guance, occhi. Giselda Ranieri in “Penso e spero di non essere ammiccante – interviene – cerco una dimensione i...i...io?! Give me a di mezzo: entrare in contatto empatico con il pubblico senza però ‘giocare’ in moment maniera facile”. Nel 2012 le viene offerta una residenza artistica alla Triennale Bovisa di Milano insieme al percussionista Elia Moretti. Quell’esperienza pone le basi per una collaborazione duratura che culmina nel ‘duo’ i...i... io?!/Give me a moment, la prima creazione di Giselda Ranieri, premio come miglior regia all’ACT Festival 2016 di Bilbao.

FOTO MARCO PEZZATI

La ragazza protagonista allora di una riflessione su “Prendere le distanze da sé inadeguatezza, indecisione, frustrazione, la ritroviamo in è l’unico modo per avere una T.I.N.A. alle prese con un bombardamento ansiogeno di visione generale della realtà informazioni che la portano alla paralisi e quindi all’im- e tornare a respirare” possibilità di agire. “T.I.N.A. è l’acronimo di There Is No Alternative, slogan usato spesso dalla Thatcher – chiarisce – il mio personaggio ha tratti piuttosto schizofrenici, si sdopppia, si triplica, parla pure con la sua ombra. Ma ciò che vede non è che un riflesso, la causa della sua ansia è lei stessa”. Dammi solo un minuto / un soffio di fiato / un attimo ancora canta Giselda Ranieri in i...i... io?!. L’alternativa all’iperconnessione è l’attimo in più per essere diversi restando se stessi. “Prendere le distanze da sé – conclude – è l’unico modo per avere una visione generale della realtà e tornare a respirare”. (M.B.)


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S P E C I A L E W O R K C E N T E R

T homas Richards

In che modo l’incontro con Grotowski ha cambiato la sua vita?

Sono arrivato a lavorare con Grotowski in un momento particolare della mia vita. Ero uno studente di Yale e cominciavo a sentire che qualcosa mi turbava perché era come se la mia esistenza fosse vicina al cambiamento… In quest’epoca ho la“Il lavoro creativo attuale del Workcenter è sempre, vorato con Ryszard Cieślak, l’attore come in passato, collegato alla crescita dell’attore e principale del teatro di Grotowski, e ad un concetto di pedagogia continua” attraverso di lui ho preso coscienza che la vita interiore dell’attore, e più in generale dell’essere umano, si può accendere attraverso il corpo. Ricordo che era come se un vulcano pieno di vita cominciasse a circolare fra gli studenti e io, per esempio, in quel periodo facevo dei sogni molto forti: una volta ho sognato che l’aula dove

un vulcano pieno di vita


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ci trovavamo prendeva fuoco e dovevamo saltare attraverso le finestre per salvarci; iniziavo così a correre e a correre in mezzo alla neve, con una gioia incredibile… Pensavo: “Devo trovare il modo di lavorare con Grotowski!”, e Grotowski in effetti arrivò per fare una conferenza. Divenni così uno dei partecipanti al suo programma dell’Università della California. Grotowski non stava facendo più teatro: era uno dei maggiori registi teatrali ed era passato a fare ricerca pratica su certe tradizioni e sugli strumenti performativi che sono in esse. L’atto performativo non è rivolto allo spettatore, piuttosto all’impatto su colui che lo compie. Il canto tradizionale, per esempio, può accendere un processo interiore e toccare certi luoghi normalmente nascosti nella vita quotidiana. Grotowski parlava della corazza: si tratta della maschera che noi ci mettiamo addosso tutti i giorni e che non ci togliamo quasi mai. Più invecchiamo e la corazza che indossiamo può diventare una cosa che ci soffoca; in questo senso, lavorando con Grotowski, ho scoperto che gli strumenti tradizionali performativi, come i canti, possono servirci per oltrepassare queste difese. Attraverso il lavoro sul canto possiamo riuscire a toccare alcuni tratti di noi stessi che hanno proprio bisogno di circolare all’esterno e anche dentro di noi. L’arte performativa diventa un luogo protetto nel quale l’essere umano può vivere certi intimi processi che sono spesso impossibili da attivare nella quotidianità. È così che il lavoro di Grotowski ha cominciato a trasformare la mia esistenza perché ha dato una risposta reale a questa agitazione interiore che cominciavo a sentire…

Il suo lavoro oggi quanto conserva dell’eredità di Grotowski e qual è invece la via che ha intrapreso partendo dai suoi insegnamenti?

Nel 1985 il Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale propose a Jerzy Grotowski di creare in Toscana un istituto dove condurre un’attività di ricerca sistematica. Il Centro di Lavoro di Jerzy Grotowski (dal 1996 Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards) è nato nel 1986 a Pontedera su iniziativa del CSRT e della University of California, Irvine, in collaborazione con Peter Brook-Centre International de Créations Théatrales. Dalla morte di Grotowski nel 1999, Thomas Richards, Direttore Artistico del Workcenter, e Mario Biagini, Direttore Associato, hanno continuato ad approfondire la ricerca del Workcenter sulle arti performative. Dal 2007 il Workcenter ospita due gruppi di lavoro: il Focused Research Team in Art as Vehicle diretto da Thomas Richards e Open Program diretto da Mario Biagini.

È una domanda che mi viene posta spesso e proviene dal nostro modo di concepire in Occidente termini come progresso e novità. Nell’arte abbiamo sempre bisogno di distinguerci e spesso di dichiarare “il nuovo”. Il mio concetto di essere umano e di artista non coincide con questa tesi: io cerco piuttosto una continuità viva. Già dall’inizio della mia collaborazione con Grotowski, quando lavoravamo insieme sui canti afrocaraibici – la famiglia di mio padre è dei Caraibi – sentivo che questo tipo di percorso mi aiutava a scoprire quello che doveva essere il mio lavoro futuro. Essendo un ragazzo cresciuto a New York in un ambiente completamente diverso da quello delle mie radici, questo processo era il modo di ricollegarmi in un certo senso alla mia tradizione. Lavorando in maniera diretta per tredici anni con Grotowski è successo che la libertà di avere un tipo di approccio al teatro assolutamente non commerciale, che attinge fortemente al lavoro di Stanislavskij e a tradizioni molto antiche, è diventato il mio compito, da sviluppare oggi nella nostra realtà. Oggi il mio dovere è quello di cercare il modo in cui il lavoro sull’essere umano nell’atto performativo possa svilupparsi, confrontandoci anche con il mondo attuale: noi non siamo una religione, siamo degli artisti, e sperimentiamo come il nostro lavoro possa incontrare il pubblico, oggi. Il lavoro creativo attuale del Workcenter è sempre, come in passato, collegato alla crescita dell’attore e ad un A sinistra: concetto di pedagogia continua. foto di Dani Coen


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Jane Fonda Robert Redford

Come la prima volta “Quando ci è capitato di incontrarci, lavorare insieme è stato facile. Non c’è mai stata la necessità né di discutere né di spiegarci niente, così è stato e così è ancora oggi”

scintillante: è lei a muoversi sempre in avanti e a prendere l’iniziativa, mentre il personaggio interpretato da Robert Redford rimane sempre un po’ più indietro… E questo è un aspetto molto divertente perché anche in A piedi nudi nel parco ero sempre io a stimolare e spronare JANE FONDA: Le nostre anime lui, chiamandolo continuamente in di notte è un film che ha coronato causa. Sono felice che siano proprio il nostro lavoro. La cosa che amo è questi due film a delimitare la mia che questo film lega le nostre carrie- carriera. Mi sono sempre innamore: abbiamo girato A piedi nudi nel rata di Robert Redford sul set: perparco, tanti anni fa, dove eravamo dendoti nei suoi occhi blu potevi due giovani amanti appena sposati anche dimenticarti le battute… In e adesso interpretiamo due inna- A piedi nudi nel parco avevo delmorati nella fase più matura della le fantasie su di lui, mi innamorai loro vita. Sono due film totalmente davvero anche se non gliel’ho mai differenti, ma la dinamica tra noi detto: eravamo entrambi impegnadue è simile; ne Le nostre anime di ti… Sono i nostri personaggi nei notte il mio personaggio, Addie, è vari film ad essere sempre stati atDopo storici film come A piedi nudi nel parco, Il cavaliere elettrico e La caccia, siete ritornati a lavorare insieme nel film Le nostre anime di notte prodotto da Netflix; qual è stata la molla che vi ha spinto a questo nuovo incontro?


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tratti l’uno dall’altro, nella vita alla fine ha prevalso la nostra amicizia e la reciproca stima. Comunque ho baciato Redford a vent’anni e lo bacio ora, che ne ho quasi ottanta. Ha sempre baciato benissimo!

insieme è stato facile. Non c’è mai stata la necessità né di discutere né di spiegarci niente, così è stato e così è ancora oggi. E questa è una cosa Jane Fonda e Robert che amo: stare accanto ad un’altra Redford in A piedi nudi persona, semplicemente appunto nel parco, film del 1967 stando, senza artifici o formalità… diretto da Gene Saks, ROBERT REDFORD: Io e Jane Alla fine quello che c’è da dire sul tratto dall’omonima commedia teatrale siamo sempre rimasti vicini, pronti nostro lavoro è che ha molto a che di Neil Simon come amici ad aiutarci l’un l’altro. fare con la vita.

“Questa è una cosa che amo: stare accanto ad un’altra persona, semplicemente appunto ‘stando’, senza artifici o formalità… Alla fine quello che c’è da dire sul nostro lavoro è che ha molto a che fare con la vita”

Dall’epoca de La Caccia, era il 1965, e fino ad oggi con Jane è sempre andato professionalmente tutto benissimo. C’è amore, connessione e contatto tra noi. Fin dall’inizio delle nostre carriere è stato tutto naturale, non abbiamo mai avuto bisogno di parlare troppo. Passo dopo passo, quando ci è capitato di incontrarci, lavorare

Perché avete scelto proprio questo film, Le nostre anime di notte? Che cosa vi ha convinto ad intraprendere questo progetto?

ROBERT REDFORD: Ho prodotto il film partendo dal libro. Mi piaceva l’idea di fare un film che avrebbe parlato ai giovani – il tema fondamentale è l’amore – ma non solo. L’idea era di reagire all’industria cinematografica di oggi, che pensa solo ai giovani e meno ai più adulti. Secondo me le storie d’amore avranno sempre una vita sullo schermo, anche se la ve-


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rità è che volevo fare un altro film con Jane: desideravo che tornassimo ad innamorarci ancora un’ultima volta prima di morire! Ho pensato che fosse divertente ora riflettere sulla nostra vera età partendo dai sentimenti. Per dirigerci ho scelto il regista indiano Ritesh Batra che viene dal laboratorio del Sundance Film Festival, il Festival di cinema indipendente che ho creato e di cui mi occupo da anni. Nella mia vita ho deciso di dedicarmi al cinema indipendente, termine che negli USA assume un grande valore perché dà un’opportunità di esprimersi al di là della logica degli Studios. Quello che è sempre mancato nel circuito cinematografico americano è la creazione di un meccanismo che riesca a dar voce a quei registi che non hanno una chance per emergere. Con questo Festival i registi possono guardare reciprocamente i propri film e scambiarsi delle idee, mentre il pubblico ha l’opportunità di vedere film alternativi ed indipendenti. Ad un certo punto della

mia carriera avevo una scelta da compiere: potevo crogiolarmi nel successo o usarlo per creare delle opportunità per le altre persone. Così ho scelto un posto sulle montagne dove creare un

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

luogo che servisse per aiutare a sviluppare le proprie abilità creative. Il Sundance nasce quindi per accogliere attori, registi e sceneggiatori emergenti o indipendenti che non riescono ad andare avanti.


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JANE FONDA: Dopo 47 anni, con questo film volevo innamorarmi ancora di Robert! Fin dal principio ammiravo, e ancora ammiro, il suo modo di recitare. Dopo quello che allora fu il nostro ultimo film insieme, lui si cimentò nella creazione del Sundance cambiando in profondità il cinema americano. Il suo contributo è stato fondamentale; lo ammiro come uomo, attore e

puoi riuscire a diventare tutto quello che vuoi o che volevi essere.

JANE FONDA: Se l’amore romantico cambia con l’età? No, solamente

produttore e così volevo ancora trascorrere del tempo con lui per vedere che cosa oggi è diventato. Ho accettato con gioia di fare un film con Robert che parla di speranza e che ci dice che non è mai troppo tardi, per ciascuno di noi. Se hai coraggio e ti assumi dei rischi, c’è sempre una possibilità e una speranza, quella di amare e di poter cambiare. Allora

si sviluppa e anzi credo che in realtà migliori perché anche se si ha la pelle meno soda, si diventa più coraggiosi.… Si impara a conoscere il proprio corpo perché si è più esperti, le abilità sessuali sono raffinate. Non si ha più paura di chiedere quello di cui si ha bisogno… Oggi so cosa il mio corpo richiede meglio di prima. È comunque meraviglioso desiderare una vita

Le nostre anime di notte parla dell’amore tra due vicini di casa, vedovi, che non si erano mai troppo interessati l’uno all’altro prima... L’amore cambia invecchiando?

IMMAGINE CLARA BIANUCCI


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sessuale e stare profondamente insieme, a qualsiasi età. Finalmente, negli ultimi tempi, si sta dando un nuovo volto culturale agli amori nelle donne non più giovani. Nella serie TV Grace and Frankie, per esempio, ho già avuto tre amanti!

Il vostro primo ricordo insieme. ROBERT REDFORD: Il primo ricordo che ho di Jane è proprio la naturalità – come dicevo prima – con cui abbiamo da subito lavorato insieme. È Jane Fonda e Robert come se fosse già tutto scritto, al di là Redford sul red carpet delle nostre scelte o volontà. della 74esima Mostra del Cinema di Venezia ROBERT REDFORD: Quando JANE FONDA: Eravamo negli uffi- dove sono stati premiati sei giovane non pensi mai alla vec- ci della Paramount per A piedi nudi entrambi con il Leone chiaia, adori le possibilità che ti ven- nel parco e tutte le segretarie si af- d’Oro alla carriera

gono offerte e cerchi di sfruttarle fino in fondo. Io ero molto atletico, poi improvvisamente è accaduto che dovevo stare attento a come muovermi e tutto è diventato più rallentato. È qualcosa di molto difficile da gestire. Per fortuna il sentimento non viene scalfito dalla vecchiaia: l’amore romantico cresce, non cambia con il passare del tempo.

facciavano alle “Mi sono sempre innamorata porte e dicevano: di Robert sul set: perdendoti “Guarda, è lui!”. nei suoi occhi blu potevi anche Si sentiva nell’a- dimenticarti le battute…” ria l’elettricità e si intuiva che sarebbe diventato un divo. Mi dissi: “Quest’uomo sarà una vera stella”, e posso confermare che in tutti questi anni questa sensazione non è mai cambiata.


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Mika

Il cuore delle cose “Le melodie sono spesso il frutto degli echi della mia anima, esprimono il mio temperamento libanese che attinge al Sud del mondo”

Perché un cantante sceglie di fare anche la TV?

A destra: foto di Riccardo Ambrosio

Io cerco di prendere le decisioni sui progetti ponendomi sempre la stessa domanda: “Perché lo sto facendo?”, anzi se non mi chiedo niente significa che sto facendo qualcosa di troppo normale! Cerco di mettermi sempre in una situazione scomoda, imparando così qualcosa di nuovo, qualcosa che non avrei mai fatto normalmente, e questo è un aspetto molto importante per me. Per esempio, quando in Italia mi è stato offerto di fare X Factor io non parlavo neanche tre parole di italiano: potevo cantare le arie antiche di autori come Scarlatti e Donizetti ma non ero in grado di ordinare un caffè al bar… È la sfida insita in questa proposta che mi ha divertito e convinto ad accettare, nonostante avessi già rifiutato programmi analoghi in altri Paesi come la Francia.

I talent sono importanti perché non ci sono tante opportunità per un artista di esprimersi oggi: è difficile trovare uno spazio adatto a coniugare la tua storia, la tua maniera di fare musica, con un presenza pubblica e popolare. Terminata l’esperienza con quel tipo di format, tra la preparazione di un album e l’altro, mi è stata data una grandissima possibilità; la Rai mi ha chiesto: “Se avessi il permesso di fare qualsiasi cosa, che programma faresti?”, e io allora non ho risposto subito. Sono tornato a casa e il progetto Stasera casa Mika è nato nella mia cucina a Roma. Ho pensato a quando ero piccolo e con le mie zie, in pigiama seduti sul letto, guardavamo gli special di Elvis, di Cher, oppure i film dei Beatles e dei Monkees che avevano degli impianti vicini al varietà… È questo stesso spirito che ho tentato di ricostruire con il mio


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programma. L’Italia è il Paese ideale per riallacciarsi a questa tradizione perché ha una sua cultura televisiva legata a questo genere: penso a degli show storici come Studio Uno, ai varietà di Mina, Celentano… La Rai ha veramente contribuito a realizzare la mitologia popolare degli italiani proprio attraverso questi show che sono stati strumentali e rappresentativi per questo percorso. Stasera casa Mika, oltre a ricordare il meglio della televisione italiana di varietà, ha anche una sua anima più contemporanea e con alcuni rimandi cinematografici; che ruolo assume nel programma lo storytelling, il fatto di raccontare ogni volta una nuova storia?

Uno degli autori più importanti del programma è lo sceneggiatore e scrittore Ivan Cotroneo, una persona quindi che è abituata per mestiere a raccontare storie. L’uso dello storytelling all’interno del varietà è tutto: senza lo storytelling questo show non avrebbe cuore. All’interno di ogni pun“Le parole ci danno la possibilità tata ci sono tanti diversi, di esprimerci e quando non pezzi abbiamo le parole usiamo i gesti personaggi vari, e i movimenti, nel mio caso che identificano accompagnati dalla musica” l’inizio di molteplici storie: sia nelle riprese in studio che in esterno si assiste sempre ad un racconto. L’obiettivo è quello di creare uno spazio per esprimersi, svelando i vari colori delle persone, dagli ospiti più conosciuti alla gente comune che si incontra quotidianamente per strada. Storie di gente normale che ha la possibilità, in modo creativo e divertente, di raccontarsi e di essere

rappresentata in TV. In trasmissione, per esempio, io guido un taxi per le vie delle città: le persone, spesso non riconoscendomi, mi raccontano durante il tragitto la loro storia… Anche i personaggi famosi sono liberi di proporre delle cose, certi sketch, che normalmente non farebbero mai: in genere a casa – nella fattispecie la mia casa televisiva – si può essere liberi di essere se stessi: casa è sbagliarsi; casa è osare indossando, nel mio caso, vestiti originali e luccicanti perché sono una manifestazione dell’anima, senza pensare alle conseguenze. C’è stato qualche evento particolare nella sua vita che ha influenzato il suo modo di scrivere canzoni?

Le parole ci danno la possibilità di esprimerci e quando non abbiamo le parole usiamo i gesti e i movimenti, nel mio caso accompagnati dalla musica. Mi viene in mente un film degli anni Sessanta, A piedi nudi nel parco. In questo film la moglie, Jane Fonda, sta criticando il marito dicendogli che è noioso e che al mondo esistono due tipi di persone: quelle che fanno oppure quelle che guardano e basta, come lui… E io mi sono sempre sentito come quell’uomo lì, come il marito interpretato da Robert Redford: uno che guarda… A scuola era come se fossi invisibile, anche perché la mia famiglia si è trasferita continuamente ed era difficile mettere radici: sono nato a Beirut, poi sono andato a Parigi e dopo a Londra, così ho cambiato più volte scuola e anche università. La mia frustrazione era enorme e dovevo, in qualche modo, esprimere le mie osservazioni più


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personali, così ho scelto di mettere tutti i miei sentimenti nelle canzoni. Mi sono reso conto che tramite le canzoni, anche utilizzando le più popolari, potevo rendere quello che dicevo potente e accessibile a tutti. La melodia conferiva potere al messaggio e una voce come la mia, spesso ignorata, finalmente veniva ascoltata. Non è un caso, dunque, se molti autori di musica pop sono stati dei bambini che avevano pochi amici a scuola…

sti cittadini… Forse per me è più facile trovare ispirazione a Napoli perché mi emoziono quando vedo questa città: mi fa pensare a tutto quello che non ho potuto vivere nel Paese dei miei genitori. Sia Napoli che Beirut sono presentate prevalentemente nell’immaginario collettivo nella loro versione terribile IMMAGINE CLARA BIANUCCI

Le sue canzoni si ispirano, tra l’altro, a figure come Grace Kelly o Freddie Mercury… In che modo si riesce a scrivere una canzone o un programma televisivo attingendo ai più svariati riferimenti iconografici e culturali?

Già il mio primo album conservava, per esempio, un interesse estetico verso i poster giapponesi: il mio stile è frutto di una ricerca personale e si focalizza su tutti quegli elementi che ci circondano o che ci hanno preceduto; lo stesso percorso è avvenuto per lo show televisivo e la regola è la medesima: bisogna cercare di interpolare i vari elementi e non copiare. Piuttosto l’obiettivo è quello di prendere un’idea, anche attingendo al passato, e continuarne il discorso nel presente. Perché l’ispirazione arrivi dobbiamo guardare indietro, alle cose che sono state fatte prima, per sapere così come andare avanti. Attualmente una delle mie fonti di ispirazione è sicuramente la città di Napoli che io trovo sia una sorgente di vita e di idee. Mi ricorda Beirut, la mia città d’origine: c’è lo stesso incontro tra mare e montagna, gli stessi contra-

perché è più facile vendere alla gente questo tipo di immagini piuttosto che soffermarsi anche sulla bellezza di questi luoghi. Qualche anno fa è uscito un film diretto da Nadine Labaki, una giovane regista ed attrice libanese. Il film si intitola Caramel e descrive la vita di un gruppo di amiche che lavorano in un istituto di bellezza a Beirut. Caramel è stato il


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Un momento dello show Stasera casa Mika

debutto cinematografico di Nadine È una persona che ha viaggiato Labaki e ha costituito una grandissitanto e che ha vissuto in diversi ma sfida, anche perché è stato girato Paesi; in che modo le varie culture in un clima piuttosto teso: le riprese che ha incontrato influiscono sul di Caramel sono finite appena nove suo processo creativo? giorni prima che scoppiasse la guerTantissimo! Spesso se mi capita ra con Israele, ma il film racconta di avere una settimana libera volo, con sensibilità ed ironia la vita di per esempio, a Miami solamente per

“Mi sono reso conto che tramite le canzoni, anche utilizzando le più popolari, potevo rendere quello che dicevo potente e accessibile a tutti. La melodia conferiva potere al messaggio e una voce come la mia, spesso ignorata, finalmente veniva ascoltata”

persone comuni alle prese con i problemi di tutti i giorni. Ho trovato tutto questo molto romantico e vero, ecco perché anche a me un giorno piacerebbe fare una serie televisiva o girare un film con collaboratori che vivono a Beirut, proprio per riuscire a svelare un’altra versione della città.

chiudermi nel mio studio a scrivere. Certo, è un viaggio abbastanza lungo ma credo che sia fondamentale mantenere una vasta irradiazione geografica: lo scambio con altre culture mi ispira e trasforma anche il mio modo di comunicare. Non si tratta semplicemente di inserire una chitarra tradizionale araba in una canzone pop: le melodie sono spesso il frutto degli echi della mia anima, esprimono il mio temperamento libanese che attinge al Sud del mondo.


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Racconti d’incontri

Epifanico moMento Lino Guanciale

Come ha incontrato il teatro? A 14 anni sono andato a vedere uno spettacolo del mio allenatore di rugby che è anche un attore di una Compagnia della mia città, Avezzano in Abruzzo. Non ero mai entrato in un teatro prima: fui rapito dai particolari, come il rumore dei passi sul palco e il calore delle luci… Il teatro mi aveva smosso qualcosa dentro, ma feci finta di niente: ne ero spaventato. Mi sembrava troppo rischioso, si trattava di una strada complicata… Finalmente a 19 anni, quando già avevo deciso di occuparmi di tutt’altro, decisi di provare almeno una volta: stavo sopra il palcoscenico e sentivo, in qualche modo, che era casa mia… È stata un’epifania. L’incontro più deludente e quello più importante che ha avuto.

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Teatralmente l’incontro più importante è stato quello con Claudio Longhi. Ho lavorato anche con molti altri registi, però con Claudio si è sviluppata da subito un’affinità in virtù della quale abbiamo cominciato a progettare il teatro che ci sarebbe piaciuto fare. Mi fece un provino appena uscito dall’Accademia e abbiamo creato insieme quella via maestra sulla quale poi si è coagulata l’esperienza dei Carissimi padri… L’incontro peggiore è stato con Woody Allen sul set di To Rome with love. Era evidente che il Maestro fosse come in vacanza: non ho visto un regista vocato al progetto, ho visto piuttosto un uomo desideroso di godersi Roma… Avevo nei suoi confronti un’aspettativa colossale: ne vedevo l’eccezionalità artistica, quando lavoravamo era divertentissimo e davvero stimolante, però spesso si eclissava per andare a mangiare una cacio e pepe e tutto si ridimensionava! C’è un incontro che sta ancora aspettando o invece è già arrivato?

Io sono già stato fortunato perché posso dirti che ho avuto degli incontri professionali importanti, però credo che l’ottica giusta sia quella di cercare sempre un nuovo incontro. Altrimenti lavori su quello che conosci già. E ti fermi.


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SPECIALEDIETROLEQUINTE

Vittorio Storaro

...E luce fu!

Fare un film è il frutto di una grande opera collettiva e il cinematographer è uno dei protagonisti che sta dietro le quinte…

Il cinema è un linguaggio di immagini e ogni immagine può esse“Il cinema deve essere un equilibrio tra le arti re vista solo se viene illuminata. In e lo spettatore, grazie al contributo di tre colonne origine gli autori protagonisti del cifondamentali – immagine, musica e parola – nema sono i Fratelli Lumière e loro riceve un’emozione” potevano veramente essere chiamati autori perché si occupavano in prima persona di tutto. Pian piano il cinema ha assunto un’espressione molto più ampia, equilibrandosi con le altre arti: prima si è intrecciato con la musica, poi con la parola. Oggi in modo particolare, soprattutto nelle opere che si esprimono nel piccolo schermo, si tendono a realizzare delle immagi-


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ni che si appoggiano sul linguaggio verbale e non più sulla visione. Un grande poeta italiano, Attilio Bertolucci – che non a caso è il padre di Bernardo Bertolucci, uno dei Maestri del cinema – sottolineava il fatto che da quando il cinema aveva incontrato la parola aveva perso la sua poesia. E questo perché le storie diventano allora il racconto di ogni singolo attore senza il contributo della ricerca dell’immagine per realizzare una certa atmosfera oppure senza attingere più al contributo della musica. Il cinema deve essere un equilibrio tra le arti e lo spettatore, grazie al contributo di tre colonne fondamentali – immagine, musica e parola – riceve un’emozione. Basta pensare, per esempio, a film come Apocalypse now di Francis Ford Coppola, per il quale sono stato premiato con l’Oscar: lo stile figurativo è dato dall’immagine e dalla luce. Un personaggio come Marlon Brando che interpreta una scena come quella finale di Apocalypse now non è qualcosa di scontato: avrebbe potuto rifiutarsi, tanti attori spesso si sono lamentati se non avevano un primo piano o se non venivano illuminati frontalmente… Brando intuì che il suo personaggio doveva diventare un simbolo, non poteva essere visualizzato normalmente e così Coppola accettò la mia proposta. Io ho fatto una prova su delle prime inquadrature, Coppola ha chiamato Brando e gliele ha fatte vedere: lui ha capito ed è stato d’accordo di non mostrare completamente il suo viso in alcune scene. L’ho oscurato con una bandiera nera, da un certo punto del film in poi Brando rivela se stesso solo utilizzando una piccola fetta di luce, come se fosse un puzzle; pian piano viene svelata una parte del corpo: la nuca, il naso, la

guancia, fino ad arrivare a mostrare interamente il viso e ad esprimere dunque con efficacia tutto l’orrore della guerra raccontato nel film. Lei si batte da anni per non essere chiamato direttore della fotografia: la dicitura corretta è cinematographer ovvero “colui che scrive con la luce”…

Solo dopo l’Oscar mi sono accorto dell’errore presente nella legge sul cinema mondiale del 1941. Il legislatore aveva indicato – a parte naturalmente avvalorare e sottolineare il ruolo del regista, vero deus ex machina di un film – come coautori dell’opera cinematografica lo sceneggiatore e il compositore, ma “Ero come il bambino di “Nuovo senza dare un Cinema Paradiso”: seguivo mio riconoscimento padre che faceva il proiezionista, al valore delle ho amato ogni movimento delle immagini. Inve- immagini che vedevo in sala” ce se io spengo le luci il cinema non esiste. È per questo che mi sento, tramite il linguaggio della luce, uno dei coautori di un film. E non sono da solo: oltre a me ci sono lo scenografo e il costumista… Il regista e anche gli attori rimangono gli autori più centrali dell’opera, ma tutto contribuisce a creare la bellezza e la magia di un film. Dal 1980 sto combattendo per ottenere questo tipo di riconoscimento. Quando mi dicevano che dovevo firmarmi La scorsa estate Vittorio come direttore della fotografia non Storaro è stato insignito del Premio Fiesole ai mi piaceva perché il regista accettava Maestri del Cinema 2017. in genere le mie idee in campo figuPer l’occasione è stato rativo: il regista è come un direttore pubblicato il libro Piani di d’orchestra, coordina tutti, ma l’esito luce. La cinematografia finale del prodotto artistico è collet- di Vittorio Storaro, tivo. Il termine fotografia significa a cura di Giovanni M. ‘grafia della luce, scrittura di luce’, Rossi e Marco Vanelli, ma riferendosi ad una singola imma- ETS, Pisa 2017


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Vittorio Storaro e Woody Allen sul set del film Café Society

gine; cinematoghapher sta ad indicare che alla luce si aggiunge il movimento. Da più di quindici anni ormai noi non siamo più direttori della fotografia ma siamo denominati autori della fotografia cinematografica, sono riuscito anche a far cambiare il titolo come premio in questa categoria ai David di Donatello…

Come ha iniziato il mestiere?

Dopo aver studiato per cinque anni Fotografia all’Istituto Tecnico, ho frequentato il Centro Sperimentale di Cinematografia. Da piccolo ero come il bambino di Nuovo cinema Paradiso: seguivo mio padre che faceva il proiezionista, ho amato ogni movimento delle immagini che vedevo in sala. Mio padre non poteva mantenermi agli studi, quindi dagli 11 anni e fino a quando sono diventato maggiorenne il pomeriggio dopo la scuola andavo a lavorare in uno studio fotografico: pulivo, lavavo le

bacinelle e i pavimenti, però ho avuto l’opportunità di imparare a stampare e ritoccare le foto. Facevo pratica e teoria insieme, mi sentivo crescere sempre più in questo ambito. È stato allora che ho capito quanto la luce e i colori siano essenziali per caratterizzare il linguaggio del cinema. Nessuna arte è un’arte in sé, anzi ogni fatto

artistico è sempre il frutto di un’interpretazione. Arte significa abilità e dunque tutto può essere arte: esiste l’abilità di scrivere, di illuminare, di pulire un pavimento, di ideare un teatro, di fare un buon piatto, e così via… Noi facciamo delle cose per cercare di capire chi siamo, per dare delle risposte alle nostre stesse domande. Scrivere con la luce vuol dire lavorare sui particolari, sulla potenzialità espressiva di un volto o di uno spazio. L’uso della luce costituisce una metafora ed è specchio di una narrazione che si fa via via sempre più profonda.


Tutta la vita fin qui percorsa rivista in un istante. Un istante lunghissimo indimenticabile, incancellabile. La bellezza si spalanca davanti agli occhi; sei tu ma non sei piÚ tu. La benedizione è scesa sulla testa; ha attraversato tutto il corpo e nel centro della pancia ha incontrato la sua dimora e messo radici. Sei stata scelta. Profumi di un tempo lontano inebriano questi giorni. Rimani in silenzio, Lascia che sia, e ascolta questo cuore nuovo che batte.

A.


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La Storia racconta...

Il crocicchio di rue du Château

di Adela Gjata

D

i ritorno a Parigi dal servizio militare il ventiduenne Jacques Prévert riprende contatto con Simone, la ragazza che avrebbe sposato qualche anno dopo, con il bretone Yves Tanguy, conosciuto al 37° reggimento di Fanteria di Lunéville, e con Marcel Duhamel, ex caporale, con il quale aveva condiviso un’amicizia fraterna durante il periodo di leva a Instanbul. Jacques e Simone, Yves e la fidanzata Jeannette decidono di affittare insieme a Marcel – l’unico ad avere un lavoro – un appartamento trasandato al 54 di rue du Château, nei dintorni di Montparnasse, cuore pulsante della Parigi degli Anni Folli. In quell’abitazione la ‘banda Prévert’ muove i primi passi nell’ambito dell’espressione artistica. Tanguy dimostra un talento innato per la decorazione e la pittura, raggiungendo già nel 1927 uno stile maturo tanto da permettergli di tenere, in quello stesso anno, la sua prima personale alla Galerie Surréaliste; Jacques svela invece una propensione al découpage e al collage.

La convivenza al rue du Château era scandita dalle visite alla Casa degli amici del libro, una bizzarra libreria al numero 7 di rue de l’Odéon gestita da una giovane estrosa, Adrien Monnier, e frequentata da lettori di primo piano tra cui Paul Fort, Léon-Paul Fargue, Paul Claudel e André Gide. Nel palazzo incantato di Adrien lo spensierato Jacques entra irrevocabilCollage di Jacques Prévert, mente nel mondo della cultura, che per lui fino a quel momento si limitava a 1935 circa qualche frammento tratto, secondo il capriccio degli incontri, da un libro, da un film o rappresentazione teatrale, da un quadro al Musée du Luxemburg, piuttosto che da una melodia sentita per strada o suonata dal violoncello di Simone. Le serate erano invece movimentate dagli incontri al Sélect, alla Rotonde o al Dôme, caffè alla moda animati da donne eccentriche, turisti america-


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ni, studenti delle Belle Arti, scrittori e pittori della caratura di Gertrude Stein, Hemingway e Picasso. Fu tra quei tavoli che si parlò per la prima volta di un piccolo movimento dal nome volutamente infantile, nato a Zurigo ma rapidamente diffuso in Germania, New York e a Barcellona: il dada. Gli stessi tavoli dove si davano appuntamento i padri fondatori di un’altra onda iconoclastica, chiamata surrealismo. Louis Aragon, André Breton, Philippe Soupault, Paul Eluard, Pierre Reverdy e Man Ray condividevano con il dadaismo la negazione di tutti i valori borghesi, la guerra naturalmente, ma anche la morale, la società, l’arte, il linguaggio, il futuro. La prima apparizione pubblica dei surrealisti nel 1924 con il pamphlet Un cadavre – parodia del premio Nobel Anatole France nel giorno del suo funerale – se scosse profondamente l’opinione pubblica per la violenza degli insulti, scatenò una folle ilarità nella casa di rue du Château, e particolarmente nell’anticonformista Prévert, che, per sua natura, aveva fatto propria la ‘dottrina’ surrealista ancor prima di averne sentito parlare: nelle idee provocatorie e strampalate, innestatrici di scrosci di risate inestinguibili, nella verve virulente e traboccante di allegria, nello stile di vita comunitario dove la povertà era un bene condiviso e le parole d’ordine libertà e buonumore. Il falansterio di rue du Château divenne presto focolaio delle riunioni surrealiste e Prévert una sorta di ispiratore del movimento. “Aveva un lato ‘canagliesco’ che in seguito ha un po’ perduto”, dirà di lui Michel Leiris, scrittore alleato dei surrealisti. “Quell’atteggiamento era del tutto nuovo nel surrealismo Un ritratto dove, nonostante le scappatelle e gli scandali, si era comunque dei bonaccioni. di Jacques Prévert Lui invece era l’uomo della strada… Era particolarissimo, addirittura singolare, e solitario all’interno di quel movimento surrealista che correva il grosso rischio di cadere nel preziosismo e nell’affettazione.” Grazie alla fantasia e al senso innato del comico, Prévert esercitò il proprio ascendente, fin dai primi incontri, su André Breton, il ‘Papa’ dei surrealisti, lui che non aveva pubblicato niente, che non aveva niente da mostrare, non il minimo racconto, la minima poesia, la minima esperienza di ‘scrittura automatica’. Rue du Château entrava così nella storia letteraria, nonostante la facciata scheggiata e il cancello desolante. “Mai il surrealismo mostrò una simile unità organica e conobbe maggior effervescenza che nel periodo in cui le nostre riunioni, la sera, il più delle volte avevano come cornice la vecchia casa”, ricorderà Breton. “Lì fu il vero alambicco dell’umorismo, in senso surrealista.” Prévert, ancora estraneo alle tentazioni artistiche, fu il catalizzatore naturale di quella ingegnosa alchimia. Negli anni d’oro di rue du Château, tra il 1924 e il 1928, Jacques concludeva gli ‘studi’ iniziati per strada e proseguiti alla Casa degli amici del libro di Adrien Monnier. Era già Jacques Prévert, nonostante non avesse ancora scritto un verso.


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Dai racconti di una giovane scrittrice...

GOCCE DI PIOGGIA

E

ro arrivata tardi a lavoro per il traffico e dovevo ancora cambiarmi. Mi scrollai di dosso la pioggia ed entrai. di - Uh scusami. Orsola Lejeune - Che fai? Arrivo e mi prendi a calci? -Ahah scusami, non ti avevo visto. Federica si stava sfilando le scarpe con un po’ troppo entusiasmo e non mi aveva visto arrivare. E dire che era piccola, ma con quel caschetto biondo e quel corpo flessuoso era piena di energie. Si affacciò Francesca: - Ah, sei arrivata! Piove fuori? - Sì, sembro un pulcino malmesso. Mi sono bagnata tutti i capelli. -Almeno non ti si gonfiano come i miei. Francesca stava costringendo la sua voluminosa criniera nera in un elastico, fissandomi con i suoi occhi scuri a cerbiatto. - Quando capirai che i tuoi capelli sono bellissimi? Mi girai attirata da un lamento dietro un armadietto. - Lo sapevo, sono ingrassata! Mi sono comprata i pantaloni nuovi e non mi stanno. - Isabella ma cosa dici? Lo vedi che sei perfetta! Isabella era piccola, con degli occhi enormi e un viso minuscolo. Un sorriso triste e una dolcezza immensa le appartenevano. Una risata fragorosa risuonò nello spogliatoio. - Lasciala perdere! Dice sempre così… inutile combattere, perché non ha mai visto le persone davvero grasse! Eccola Anita. Invase la stanza con la sua allegria sfrenata e coinvolgente. I denti bianchi risplendevano su quel bel viso solare. - Ma via! Ora basta! Non voglio più sentire queste cose! Intervenne Chiara con il suo fare marziale e un’eleganza parigina innata. Con il mento in alto mise fine a quella discussione. Mi avvicinai e le tirai un ricciolo, ridendo. - Eccoti anche tu! -Se lo rifai, ti ammazzo. Scoppiammo entrambe a ridere e continuammo a becchettarci fino a che non entrò Bianca ridendo: -Cosa state facendo? Era arrivata anche lei. L’alone di tranquillità che la circondava e il dolce sorriso ci quietò entrambe. Tornai al mio armadietto e iniziai a tirare fuori la divisa.


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Iniziai lentamente a indossare i pantaloni, poi la giacca mentre venivo sommersa dalle chiacchiere delle mie amiche, dalle loro risate e i loro racconti. Bianca, Isabella e Anita si erano assiepate davanti allo specchio per truccarsi, Francesca, come ogni sera, si impegnava a lucidare con la cera le sue scarpe nere, fino a farle risplendere. - Guarda che alla fine le buchi a forza di sfregare. - A me le scarpe piacciono splendenti. Guardai le mie scarpe opache. - Me la metti anche a me un po’ di cera? - Prima critichi e poi mi invidi. Sorrise mentre si prestava a lucidare anche le mie scarpe. Sentii un profumo di vaniglia e mi girai: era Chiara che si stava mettendo il suo profumo… nella mia mente sarebbe rimasto per sempre legato a lei. Sentii ridere e mi affacciai in bagno. Vidi le mie amiche spintonarsi davanti allo specchio con rossetti, mascara e matite alla mano, ridacchiando.

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

Passai vicino a Bianca e le scoccai un’occhiata affettuosa, ricevendo uno dei suoi sorrisi dolci. Indossai le scarpe e mi fermai sulla soglia, prima di uscire per dirigermi in sala. Guardai tutte loro e sorrisi fra me. Erano superbe, ognuna con la sua bellezza unica e originale, diversa da tutte le altre. Erano favolose nei loro caratteri screziati, una compensava l’altra. Erano le mie amiche e nell’andamento imprevedibile della mia vita, loro sarebbero sempre state lì, in quelle risate e quei momenti. Questo era il mio incontro: uno fra i più belli. - Io vado. Vi aspetto su che fra poco entra il pubblico. Guardai l’orologio e mi avviai. Il sorriso aleggiava ancora sul mio viso.


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S P E C I A L E C U C I N A

Bruno Barbieri

Quando arte e sapore si incontrano

Lei è uno chef stellato e contemporaneamente un celebre personaggio televisivo…

Il mondo della cucina è cambiato negli ultimi anni: non avrei mai pensato di entrare nell’immaginario popolare occupandomi di cucina… In Italia il mondo gastronomico non era come negli altri Paesi, per esempio la Francia, dove quest’attività ha sempre “Gli chef sono le nuove rockstar, conservato una sua dignità e divenma non sarei diventato quello che sono senza le tare chef significava fare un mestiere lezioni di mia nonna. La memoria è tutto: importante. Fare il cuoco in Italia è così che si realizza l’arte in cucina” era sinonimo, invece, di uno che non voleva studiare… Ad un certo punto è cambiato tutto, anche grazie alla televisione. Avevo già fatto un po’ di TV anni addietro, ma è la popolarità di MasterChef ad avermi cambiato la vita. Gli chef sono le nuove rockstar.


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plicato, proprio psicologicamente. Entri in una fase in cui vai a rinvanMasterChef non è semplicemente gare tutto il tuo lavoro, tenti di capiun programma che tratta di chef: è re dove hai sbagliato... L’importante una trasmissione fatta da persone che è non mollare mai, non rimuginarci tutti i giorni nella vita si occupano di sopra e anzi continuare a crederci altro, anche se è vero che hanno un sempre. Oggi io nel mio mestiere rasogno nel cassetto, quello di diventa- giono esattamente come trent’anni fa, re non solo una star della TV ma an- quando ho iniziato e stavo rinchiuso che uno chef. Noi chef in studio inte- nei sotterranei delle cucine: ho anragiamo sempre con degli individui cora fame di provare nuove cose e di che raccontano una storia, del resto mettermi alla prova. questa è una parte che ho sempre sviCom’è avvenuto il suo incontro luppato nel mio lavoro: quando uno con l’arte della cucina? chef organizza la sua linea in cucina, Ho cominciato in giro per il soprattutto costruisce uno staff fatto di figure che comunque descrivo- mondo: ero ancora un ragazzino e no le sue scelte e quella che è la sua lavoravo sulle navi da crociera. Già impostazione artistica. Le persone allora era meraviglioso per me cucicon cui collabori raccontano la tua nare, ma mi mancava l’Italia: quando storia e si assumono dei ruoli: a volte si parla di cibo e di materie prima si sono anche molto importanti per la pensa subito al nostro Paese. Credo tua riuscita come chef, determinano che gastronomicamente le storie nala fortuna del tuo brand culinario e scano proprio qui: gli alimenti più buoni sono di origine italiana, baqualificano il tuo lavoro. sta pensare all’aceto balsamico, al tartufo bianco, al basilico… L’idea MasterChef è un talent, dunque è comunque di contaminare i nostri il vostro giudizio nei confronti dei concorrenti a creare il programma. sapori con le altre culture può essere un’operazione straordinaria: far preMa anche ogni cuoco in cucina è dominare il gusto, questa è l’unica soggetto al giudizio altrui… Sì, è vero. Giudicare non è mai regola. facile, e lo dico da conduttore di un Il primo ricordo legato al cibo. programma come MasterChef e anIo devo molto del mio successo che come personaggio. Io, come chef, sono giudicato da tutti: il parere del a mia nonna. Non era una cuoca di pubblico che assaggia e ordina i tuoi professione, ma ricordo il suo caratpiatti naturalmente è quello più im- tere duro e le lezioni in cucina che mi portante, poi ci sono i giudizi che impartiva. Mi interrogava: “Perché il appaiono nelle guide gastronomiche basilico non è solo verde, ma esiste che raccontano comunque lo stile di anche quello rosso? Perché i fiori deluno chef. Nella mia carriera ho preso la zucchina devono essere raccolti al sette stelle Michelin e non mi sono mattino?” Non sarei diventato quello mai più state tolte; quando ti tolgono che sono senza le lezioni di mia nondelle stelle ripartire per ricostruirsi na. La memoria è tutto: è così che si un’identità è qualcosa di molto com- realizza l’arte in cucina. Qual è la particolarità di MasterChef secondo Lei?


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Pierfrancesco Favino

A

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Com’è nata la Scuola dell’Oltrarno?

Io sono il Direttore Artistico della Scuola dell’Oltrarno, ma l’idea iniziale è stata di Marco Giorgetti, Direttore Generale della Fondazione Teatro della Toscana. Quando abbiamo parlato della realizzazione di questa Scuola, il mio primo pensiero è stato di non considerarmi all’altezza come insegnante: io stesso, in prima persona, non credo che smetterò mai di studiare e di continuare ad avere bisogno di insegnanti… Io e Marco “Attraverso questa Scuola vogliamo dare la condividiamo, innanzitutto, un’espepossibilità ai giovani di affermare la propria rienza formativa. Il Maestro Orazio esistenza, in modo che grazie a certi strumenti e Costa ci ha unito, e non solo per il con delle tecniche possano arrivare a trovare qual fatto di aver studiato il suo Metodo è il loro linguaggio e la loro verità” Mimico: abbiamo appreso il medesimo atteggiamento, all’insegna della disciplina e dell’approfondimento.

Attori si nasce e si diventa


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Questi aspetti mi interessano molto dal punto di vista teorico e nel nostro Paese forse manca un approccio più sistematico per il mestiere dell’attore: un’occupazione che non sia legata soltanto al talento e alla creatività, ad una predisposizione naturale per la recitazione, ma che si debba fondare su sistemi pedagogici. La mia sensazione è che i giovani pensino che il teatro sia qualcosa che non esiste più: tra il teatro di ricerca e il teatro del grande attore ottocentesco, in mezzo sembra non esserci nulla. L’immagine che hanno di se stessi mentre recitano è un’imitazione volontaria di quello che loro considerano essere il teatro. Questa è una violenza perché i ragazzi hanno il diritto di pensare che la loro voce abbia uno spazio nel mondo di oggi. Ed è quello che attraverso questa Scuola vogliamo perseguire: dare la possibilità ai giovani di affermare la propria esistenza, in modo che grazie a certi strumenti e con delle tecniche possano arrivare a trovare qual è il loro linguaggio e la loro verità. E questo indipendentemente dal mezzo con cui poi dovranno avere a che fare: teatro, cinema o TV. Questa è una Scuola italiana, ma che si apre ad un orizzonte internazionale?

Per me è fondamentale che gli attori parlino più lingue, a partire dall’inglese. L’apertura mentale creativa dipende anche da questo scambio comunicativo che nel resto del mondo è attivo da tanto tempo… Non voglio che gli attori dell’Oltrarno diventino attori inglesi o americani, ma l’intento è di riuscire ad esportare quella tradizione unica – l’italianità – che solo noi abbiamo dal punto

di vista culturale. Per ottenere questo risultato è importante comprendere i codici degli altri Paesi, anche perché ti muovi all’interno di un mercato internazionale, proprio da un punto di vista narrativo. Il pubblico del futuro è quello che oggi si forma guardando le serie televisive su Internet e il nostro storytelling è differente, anche per un fatto di eredità culturale: l’eroe del cinema americano è quello che salva il mondo, mentre l’eroe della tragedia greca di cui noi siamo figli è abituato a subire le conseguenze delle catastrofi che gli si avventano contro.

FOTO DANIELE BARRACO

Un attore non smette mai di imparare?

Lo scopo principale di un attore è quello di scomparire. Questo compito richiede assolutamente un grande sforzo: bisogna arrivare a dare, senza mai aspettarsi qualcosa indietro. E questo non è un procedimento naturale perché il tuo corpo, il viso, il sangue e il cuore sono sempre presenti: difficile sparire completamente. Però è questo che vuoi: imparare ad essere un semplice strumento per dire le parole di qualcun altro. E bisogna essere mossi da queste parole, per riuscire così a tua volta a smuovere lo spettatore e a fare in modo che la storia che viene raccontata sia chiara. Gli attori sono il pianoforte, non il pianista: devono essere accordati.

L’Oltrarno, Scuola di formazione del mestiere dell’attore, nasce all’interno della Fondazione Teatro della Toscana. Sotto la direzione artistica di Pierfrancesco Favino e con il coinvolgimento di insegnanti di caratura internazionale, la Scuola è stata aperta nel 2015 e concluderà il primo triennio di studi nel 2018


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I diplomati della Scuola

L’incontro


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per attori “Orazio Costa”

del teatro

La Scuola per attori “Orazio Costa” della Fondazione Teatro della Toscana è una scuola di formazione professionale per il mestiere di attore, che ha come base didattica il Metodo Mimico di Orazio Costa


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MADDALENA AMORINI Il mio incontro con il teatro è stato piuttosto improvviso. Frequentavo la Facoltà di Lettere con il professor Villoresi e lui mi ha trasmesso la sua grande passione per il teatro. Poi, anche grazie ad un esame di letteratura medioevale, è avvenuto il mio incontro con il “Per far capire cosa significa per lavoro di Dario me il teatro devo citare Fo, per me una Luca Ronconi quando diceva che vera folgorazione. il teatro lo aveva salvato…” All’inizio non mi vedevo assolutamente su un palcoscenico, ma pian piano ho iniziato a frequentare il Teatro della Pergola come spettatrice e andavo anche a vedere al cinema le produzioni del National Theatre rimanendone letteralmente affascinata. Io sono una persona molto chiusa, timidissima, e nel teatro ho trovato quella completezza che non avevo mai sperimentato nella mia formazione precedente. È difficile da spiegare, ma per far capire cosa significa per me il teatro devo citare Luca Ronconi quando diceva che il teatro lo aveva salvato… Ecco, io non saprei dire bene da cosa mi ha salvato il teatro, ma è stato sicuramente uno strumento che mi ha aiutato a “Stare in scena è come trovarsi manifestarmi. Il in un universo parallelo perché teatro ti permetcambia tutta la mia visione te di esprimere la e mi sembra di percepire tua singola voce il mondo attorno a me in ma all’interno di maniera più profonda” una vera dimensione corale: è un atto che ti mette in una posizione di servizio e di grande comunicazione Nella pagina accanto, con gli altri. Se sei una persona tidall’alto a sinistra: mida nella vita, il gioco del teatro ti Maddalena Amorini, Francesco Argirò, consente di acquisire una disponibiDavide Diamanti, lità verso il prossimo che va ben al di Beatrice Ceccherini là del giudizio che puoi ricevere. Oc-

corre molto lavoro sulla tecnica ed un allenamento su se stessi. Il momento in cui si deve entrare in scena è come un passaggio nel vuoto, è come se fossi in cima ad un grattacielo e tutto ad un tratto sento che non ho più la terra sotto i piedi e che mi sto buttando… Anche grazie al Metodo Costa, l’ansia del palcoscenico è adesso un’eccitazione positiva, come una carica in più da portare con me in scena. Si tratta di un equilibrio sottile e se riesci a cavalcare quest’onda emotiva, la recitazione è in grado di darti tanto. FRANCESCO ARGIRÒ Ho incontrato il teatro verso i 15 anni, vedendo a Siracusa le tragedie greche. Era la mia prima volta in un teatro e mi prese subito l’anima. Ancora oggi, dopo aver vissuto il passaggio da spettatore ad attore, l’emozione è fortissima: quando il direttore di scena chiama il quarto d’ora all’inizio dello spettacolo mi agito moltissimo, devo sforzarmi tanto per trovare la concentrazione. Ma una volta entrato in scena è come trovarsi in un universo parallelo perché cambia tutta la mia visione e mi sembra di percepire il mondo attorno a me in maniera più profonda. Il Metodo Costa l’ho incontrato attraverso la Scuola ed è stato un percorso formativo estremamente importante, sia dal punto di vista recitativo che sotto il profilo tecnico, vocale e fisico. Mi sarebbe piaciuto conoscere personalmente il Maestro Orazio Costa: tutti gli insegnanti ci hanno parlato di lui, con tanto amore, e si vede che è stato per loro un padre, umanamente e artisticamente. La prima volta che ho affrontato il Metodo Costa è stato grazie a Marisa Crussi, una delle


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nostre insegnanti che mi ha chiesto di diventare, tramite il mio corpo, un albero. È difficile comprendere immediatamente tutta la filosofia e l’aspetto pedagogico che sta dietro a questo metodo, ma penso che il modo migliore per arricchirsi facendolo sia quello di darsi totalmente e di affidarsi fiduciosi nelle mani dell’insegnante. Ricordo che quella volta provai un po’ di smarrimento, ma poi ho focalizzato dentro di me l’immagine di un arancio nel mio giardino in Calabria e mi sono sentito subito a casa! BEATRICE CECCHERINI Io volevo studiare Psichiatria, una materia che in un certo senso può avere un nesso con il teatro, ma un giorno ho accompagnato una mia amica ad una lezione dell’Accademia Teatrale di Firenze diretta da Pietro Bartolini e a quel punto ho provato anch’io: rimasi affascinata perché non avevo mai pensato a porre l’attenzione su alcune cose di me che quei primi esercizi teatrali riuscivano a tirare fuori: per esempio, la sensazione di stare a coppie e ripetere come davanti ad uno specchio seguendo l’uno i movimenti dell’altro. Ho voluto fare anche la seconda lezione e da lì non ho più lasciato il teatro… Vorrei che il mestiere di attrice diventasse il mio lavoro a tutti gli effetti e anche se le difficoltà pratiche mi spaventano, sento che forse è l’unica cosa che davvero potrei fare. Non ne posso fare a meno: qualunque cosa faccia, c’è sempre un pensiero costante rivolto al teatro. E il Metodo Costa aiuta a comprendere la recitazione, anche a livello spaziale: per esempio, il coro mimico che abbiamo studiato insieme a Marcello Prayer è tutto basato sull’ascolto e sul-

la percezione, ti insegna a considerare gli altri come un punto di riferimento e a seguirne gli impulsi. DAVIDE DIAMANTI L’incontro con il teatro per me è stato davvero un terno al lotto. Ho cominciato al liceo a Savona a frequentare i corsi pomeridiani di teatro “Vorrei che il mestiere di attrice e lì sopra al pal- diventasse il mio lavoro a tutti coscenico tutto gli effetti e anche se le difficoltà era bellissimo, le pratiche mi spaventano, sento pre o c c up a z io - che forse è l’unica cosa che ni che magari davvero potrei fare” mi assillavano a scuola per lo studio sparivano. Ricordo che tornavo a casa il pomeriggio e mi mettevo in camera a rifare da solo le scene dei film di Pieraccioni, Ceccherini, Panariello… Io sono cresciuto con i film comici, si guardavano solo quelli a casa mia. I miei genitori mi hanno supportato fin da subito, mio padre mi ha accompagnato ai provini per entrare allo Stabile a Torino e poi a Firenze, alla Scuola per attori “Orazio Costa”. Ho sempre pensato che fare i provini fosse come nei film: arrivi, reciti un pezzo e ti dicono: “Grazie, le faremo sapere…” Invece la realtà è molto più complessa: stai in mezzo a tanti altri ragazzi “Mi piace vedere riempirsi lo e aspetti e aspet- spazio del teatro, che all’inizio è ti… Credo che vuoto, con le parole, la luce, la gli insegnanti musica e il corpo degli attori” della Scuola siano riusciti a vedere in me quella parte più spontanea che in genere rimane nascosta, forse è questo che li ha con- Nella pagina accanto, vinti a prendermi. Allora non sapevo dall’alto a sinistra: che cosa fosse il Metodo Costa, avevo Filippo Lai, letto solo qualche notizia su Internet, Francesco Grossi, ma mi accorsi subito che era qualcosa Athos Leonardi, di molto fisico. La prima volta che mi Ghennadi Gidari


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è stato detto di diventare una nuvola, mi sono guardato intorno e ho pensato: “Ma facciamo teatro serio o siamo dei bambini?”, invece poi ho scoperto che per fare teatro bisogna tornare ad essere dei bambini. Pensavo che più si andasse avanti e più si dovesse crescere e dimenticarsi della nostra parte infantile, mentre Scuola “Io vedo il mestiere dell’attore questa come un arte allo stato puro mi ha insegnato e il teatro come il massimo mezzo a crescere manperò di comunicazione: tenendo il teatro è quella forma d’arte sempre intatto il che più di tutte le altre bambino dentro riesce a fare interagire di me. Uno dei emotivamente le persone” miei sogni è riuscire a fare il teatro-canzone, alla Gaber per intendersi; mi piace vedere riempirsi lo spazio del teatro, che all’inizio è vuoto, con le parole, la luce, la musica e il corpo degli attori. FILIPPO LAI Al liceo, a 16 anni, ho seguito un corso di Metodo Mimico condotto da Marco Giorgetti, è stato lui a farmi scoprire questo Metodo la prima volta. Mi era sem“Il Metodo Costa l’ho imparato brato un modo cercando di capire la mimica strano di espridelle parole, dando importanza mersi: la prima al gesto e alla parola, al corpo impressione era che porta la parola” che non fosse nemmeno teatro… Non si parlava, ma tutto era corporeo: bisognava riuscire a diventare degli elementi naturali come l’acqua o il fuoco, ma non dovevano essere delle figure imitate, si dovevano recuperare da quella potenza emotiva che sta all’interno di ognuno di noi. Io vedo il mestiere dell’attore come un’arte allo stato puro e il teatro come il massimo mezzo di comunicazione:

il teatro è quella forma d’arte che più di tutte le altre riesce a fare interagire emotivamente le persone. Sul palcoscenico si vive un senso di eccitazione unico, è come se fossi proprio su un altro piano: in questa forma di alterazione sento di essere come fuori di me ma allo stesso tempo devo anche assolutamente esserci, la concentrazione è totale. Le qualità che occorrono per fare l’attore sono determinazione e anche un po’ di sana ambizione, il desiderio di lavorare duro, di volere riuscire a tutti i costi cercando di superare ogni possibile ostacolo, anche di fronte a chi ti dice che non ce la puoi fare… FRANCESCO GROSSI Il mio amore per il teatro è nato a 6 anni: in una recita parrocchiale interpretavo Adamo… Da piccolo già mi vedevo sul palcoscenico! E questo anche se la paura prima di entrare in scena non passa mai: forse è cambiato il fatto che prima non mangiavo per giorni e invece con Romeo e Giulietta, l’ultimo spettacolo che abbiamo preparato, almeno sono riuscito a mangiare fino al giorno prima del debutto… Una volta in scena mi calmo: sai di essere lì non solo per te stesso, ma anche per gli spettatori e dunque il mestiere dell’attore è un po’ come donarsi agli altri. Essere attori non è qualcosa di uguale per tutti, ma comunque credo che abbia molto a che fare con il desiderio di apparire: sai che per fare questo mestiere c’è bisogno di un pubblico, altrimenti è impossibile da realizzare. Il Metodo Costa l’ho imparato cercando di capire la mimica delle parole, dando importanza al gesto e alla parola, al corpo che porta la parola. A me piace anche scrivere i testi – in passato


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ho scritto un monologo sui campi di concentramento della Corea del Nord – e nel futuro vorrei continuare ad approfondire questa direzione. GHENNADI GIDARI Il mio primo approccio con il teatro è stato dettato da puri motivi di vergogna: volevo superare i miei limiti perché ero parecchio introverso. Infatti nella mia vita ho fatto un solo provino, quello per entrare nella Scuola: non mi sentivo all’altezza… Il provino credo che sia una delle cose più difficili: non sai mai cosa cercano le persone che ti trovi davanti e tu sei sempre lì che le prendi da tutti, anche da te stesso in quel momento perché il pericolo è quello di bloccarsi. Uno degli aspetti principali che mi hanno catturato del fare teatrale è stata la capacità, indossando un costume, di poter diventare qualsiasi cosa. Penso che per costruire un ruolo molto faccia il giusto costume: è come se ti mettessi addosso uno scudo, ti senti protetto perché qualunque cosa tu faccia non sei tu ma è il personaggio ad agire… Per quanto riguarda il Metodo Costa in una lezione si doveva fare un albero, in un’altra lezione il vento oppure la pioggia: è un metodo difficile all’inizio, ma poi ti aiuta molto fisicamente e ti rende cosciente del modo in cui si possono dire le frasi. La parola insieme al movimento ti consente di trovare molti più colori per esprimere un concetto: quando riesci ad entrare nel meccanismo lo puoi applicare su qualsiasi testo, prendi un copione e inizi a trasformare le parole in movimenti, è il corpo a suggerirti come dirle. Non si smette mai di studiare un testo e infatti uno dei miei sogni è quello di diventare un regista teatrale: partire dalle parole di un autore e im-

maginarle da più punti di vista, anche utilizzando la visione dei registi che ci hanno preceduto, per riuscire a creare uno spettacolo nuovo. ATHOS LEONARDI Mia madre è sempre stata una grandissima appassionata di film e fin da piccolo ho visto un gran “Uno degli aspetti principali che numero di film mi hanno catturato del ‘fare americani e ita- teatrale’ è stata la capacità, liani… La figura indossando un costume, di poter dell’attore mi ha diventare qualsiasi cosa” affascinato e incuriosito da sempre. Però io ero molto timido e infatti dentro di me dicevo: “Non potrei mai fare l’attore e mettermi in mostra su un palcoscenico dove tutti mi vedono e mi giudicano…”, invece pian piano ho cominciato a frequentare delle lezioni di teatro e alla fine sono arrivato alla Scuola per attori “Orazio Costa”. All’inizio provavo un po’ di diffidenza verso il Metodo Costa, ma un giorno è successo che mi sono lasciato andare durante un’esercitazione: ricordo che dovevo mimare con il corpo delle radici e mi sono accorto che qualcosa era suc- “ In scena il pubblico che ti sta cesso, la mia voce davanti può impaurire perché era cambiata in hai il suo sguardo addosso, ma un modo che ad un certo punto la sensazione prima non avevo cambia e avverti che il pubblico mai sperimenta- ti dà man forte e ti accompagna” to e anche il mio fisico si era trasformato con coerenza in quello che volevo diventare ed essere in quel momento. Alessandra Niccolini, la mia insegnante, mi ha detto che con quell’esercizio avevo toccato il corpo-voce ovvero ero riuscito a trovare la qualità di una parola o di un elemento attraverso l’uso del corpo e della voce. Da quel momento mi sono


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buttato completamente nel Metodo e durante le esercitazioni non mi sono più tirato indietro, neanche quando sbagliavo o non capivo. Quando sono arrivato nella Scuola ogni volta che aprivo bocca davanti agli altri la mia voce tremava e non riuscivo ad esprimermi “Io voglio fare l’attrice, oggi bene, poi i giorcome quando avevo 4 anni e già ni passavano e dicevo, forse in maniera un po’ mi sono libepresuntuosa, che avrei fatto la rato di questo ‘grande attrice di teatro’…” imbarazzo che mi impediva di esternare le mie emozioni. In scena il pubblico che ti sta davanti può impaurire perché hai il suo sguardo addosso, ma ad un certo punto la sensazione cambia e avverti che il pubblico ti dà man forte e ti accompagna: non si tratta di esibizionismo o narcisismo, piuttosto è un passaggio di vibrazioni fatto di un ascolto attivo reciproco. CLAUDIA LUDOVICA MARINO Mia madre mi racconta sempre che ho imparato a camminare sulle tavole del palcoscenico, lei lavorava in un teatro storico di Catanzaro ormai chiuso e mi portava sempre con sé. Io voglio fare l’attrice, oggi come quando “Il senso del teatro risiede nella avevo 4 anni e capacità di riuscire a legare già dicevo, forse il più possibile tante piccole in maniera un umanità diverse” po’ presuntuosa, che avrei fatto la ‘grande attrice di teatro’… Uno dei miei sogni, sarebbe quello di recitare nelle tragedie greche a Siracusa, Nella pagina accanto, anche perché mi sento più portadall’alto a sinistra: ta verso il drammatico rispetto al Claudia Ludovica Marino, Laura Pinato, comico. Sul palcoscenico è come Nadia Saragoni, essere a casa ed è qualcosa di meraLuca Pedron viglioso la differenza esistente tra il

fuoriscena – fatto anche di ansia e preoccupazione – e l’inscena, dove tutto si risolve. Tramite il Metodo Costa abbiamo imparato ad interiorizzare tutte le parole, perfino le congiunzioni, per farle uscire e trovare il loro senso. È l’idea dell’attore visto come uno strumento per trasmettere un messaggio: quello voluto dagli autori dei testi che siamo chiamati ad interpretare. La parte più difficile legata a questo mestiere credo che sia riuscire a non farsi scoraggiare dai tanti ‘no’ che sicuramente nella vita riceveremo. LUCA PEDRON Io ho avuto un lungo periodo di rifiuto nei confronti del teatro: frequentavo un corso a Trento, la mia città, e non riuscivo ad accettare il teatro come meccanismo di comunicazione con gli altri. Mi sembrava qualcosa di artificioso, come se si volessero forzare le persone a un legame che però non era necessario. E poi invece mi sono riscoperto ad amare totalmente il teatro proprio per questo, per il fatto che il senso del teatro risiede nella capacità di riuscire a legare il più possibile tante piccole umanità diverse. Il Maestro Orazio Costa e il suo metodo per me significano una purezza di linguaggio: Costa ai suoi allievi ha cercato di insegnare una parola che si facesse totalmente sincera, a disposizione e a servizio di un pubblico. Un attore non smette mai di mettersi alla prova, anche facendo dei provini, e secondo me per riuscire a superarli bisogna ricercare la totale spontaneità e naturalezza, intesa proprio come l’espressione della natura in sé di una determinata persona. Spesso invece si tende


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ad esagerare alcune caratteristiche che ci appartengono e questo può svilire l’attore agli occhi del regista che deve scegliere: io stesso, in certi provini, mi sono presentato magari con la presunzione di essere bravo e invece la Scuola mi ha insegnato proprio a spogliarmi di ogni possibile presunzione che potevo avere in precedenza per mettermi al servizio del teatro, un servizio che deve essere umano e vero. Da questo punto di vista l’attore è un servitore, nel senso che per possibilità, educazione ed esperienza riesce a svelare agli altri la propria visione di un testo rendendolo accessibile a tutti tramite il meccanismo dell’empatia. In ogni interpretazione gli spettatori ritrovano nel personaggio degli aspetti che gli appartengono e che li tengono inchiodati alla poltrona. LAURA PINATO L’incontro con la Pergola e con la Scuola per attori “Orazio Costa” è stato il più importante della mia vita. Fin da piccola frequentavo il teatro: recito, se così si può dire, fin da quando avevo 11 anni. Vengo da Padova, dove mio padre mi portava a vedere le commedie in veneto, ma l’incontro con questa Scuola e con la Pergola, dove si avverte ancora la presenza quasi fisica del Maestro Costa, ha segnato un cambiamento epocale per me. Si è trasformato proprio il mio modo di vedere il teatro: prima era qualcosa che vedevo da fuori, invece ho sentito che doveva uscire dalla mia interiorità, da ciò che avevo dentro di me e che non sapevo di possedere perché nessuno mi aveva dato gli strumenti, il tempo e l’occasione per manifestarlo. All’inizio ciò che mi affascinava del teatro era riuscire ad essere qualcosa

di diverso da me, mentre adesso sono attratta dal contrario, ovvero dal fatto di diventare quello che non pensavo di essere. Il Metodo Costa non ti insegna la semplice imitazione, ma la sfida è proprio quella di essere, nel profondo, ogni volta qualcosa di “Non so se essere attrice diverso. Alla fine è veramente l’unica cosa in scena sono io che posso fare, ma sicuramente in ogni ruolo, ma è la più bella…” allo stesso tempo non sono io… Questo è il gioco affascinante del teatro, e io spero di poterlo fare per tutta la vita. NADIA SARAGONI All’inizio il teatro ti appare come una bomba di energia: tra gli attori in scena l’energia gira, arriva al pubblico e poi ritorna indietro, dalla platea al palcoscenico… È questo aspetto che mi ha portato a farmi innamorare perdutamente del teatro: l’energia continua, che sempre si cerca… Orazio Costa l’ho scoperto in questa Scuola e quello che più mi colpisce è il lavoro sul testo che è richiesto: soffermarsi su ogni parola, cercare di viverla fisicamente per far uscire una voce che deve rispec- “All’inizio ciò che mi affascinava chiare quello che del teatro era riuscire stai sentendo e ad essere qualcosa di diverso che il corpo sta da me, mentre adesso sono rappresentando attratta dal contrario ovvero in quel momen- dal fatto di diventare quello che to. La parola non pensavo di essere” attrice per me significa essere al servizio del testo, rappresentando belle storie per un Nella pagina accanto, pubblico. Quando si fa questo me- dall’alto a sinistra: stiere la fortuna è che il lavoro co- Sebastiano Spada, stituisce anche la tua passione: tutti Filippo Stefani, ti dicono all’inizio di lasciar stare e Erica Trinchera, di abbandonare questo tuo desiderio, Lorenzo Volpe


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ma senti che è l’unica cosa che puoi fare… E io non so se essere attrice è veramente l’unica che posso fare, ma sicuramente è la più bella. SEBASTIANO SPADA La prima cosa che ricordo del teatro è che ero molto piccolo, avrò avuto 3 anni, ed ero insieme a mio padre ad un fe“Mi sento vivo quando sono stival di teatro in scena, è lì che riesco a toccare classico che si quell’infinitesimale millesimo svolge tutti gli di secondo in cui l’emozione anni nel mio si amplifica” paese, in un angolo della Sicilia. Mi ha colpito che ci fosse molta gente tutta insieme che guardava nello stesso punto: ho proprio la visione di tanti occhi indirizzati verso lo spettacolo. Crescendo mi sono avvicinato al teatro in maniera più diretta, anche con alcune esperienze di recitazione, ma è quando mi sono trasferito a Firenze e ho avuto l’opportunità di seguire un corso di Metodo Mimico con Marco Giorgetti, ancora prima di entrare nella Scuola per attori “Orazio Costa”, che tutto è cambiato. Mi è piaciuto subito il modo in cui il docente accompagnava noi allievi per farci entrare in questo “Quando sto sul palcoscenico processo: non quello che provo è il risultato c’era alcun giudi un miscuglio di sensazioni, dizio, era un avcosì diverse e rapide nel vicinamento fatpassaggio che difficilmente posso to umanamente descriverle: non posso dire se ho e che si allineapiù pura, ansia o esaltazione, va all’indole di tutto si fonde insieme” un ragazzo che non capiva dove si andasse a parare… Quindi ricordo la sua disponibilità ed umanità, anche il suo infonderci coraggio: piano piano ci riusciva a convince-

re che quello che stavamo facendo effettivamente faceva accadere delle cose in noi. E così è stato, anche quando più tardi ho affrontato il Metodo nella Scuola… Quando sto sul palcoscenico quello che provo è il risultato di un miscuglio di sensazioni, così diverse e rapide nel passaggio che difficilmente posso descriverle: non so dire se ho più paura, ansia o esaltazione, tutto si fonde insieme. E questo calderone di sentimenti differenti, di stati d’animo che si smuovono dentro prima di entrare in scena, durante la rappresentazione si trasformano in un’energia che passa tra l’attore e il pubblico. FILIPPO STEFANI Il mio incontro con il teatro è avvenuto dopo un viaggio in Nepal che ho fatto da solo. In quel periodo ho cominciato a fare teatro con la Compagnia di Monica Bucciantini a Prato, nella mia città, e mai prima avrei pensato di stare su un palcoscenico. Dopo il viaggio è scattato qualcosa, c’è stata una vera rivoluzione: mi sono licenziato dal vecchio lavoro – avevo un contratto a tempo indeterminato come tecnico di laboratorio per un’industria chimica – ed ho intrapreso questa strada. Il mestiere dell’attore mi spaventa molto perché so che ci sono tante persone brave e io, per ora, non mi reputo un bravo attore: sono un neodiplomato che cerca di arrancare in questo difficile mondo teatrale. Come in tutte le cose della vita, nel teatro non si smette mai di imparare: il Metodo Costa è un ottimo modo – non mi piace chiamarlo metodo – per riuscire a scoprire determinate sfaccettature insite in


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un testo e che ti permette una grande libertà fisica. Secondo me il talento è qualcosa che hai ma devi coltivare: in questo mestiere, che parla dell’essere umano, non bisogna mai smettere di studiare e per arrivare ad alti livelli occorre disciplina. Il mio sogno sarebbe riuscire a fare sia cinema che teatro; io mi sento vivo quando sono in scena, è lì che riesco a toccare quell’infinitesimale millesimo di secondo in cui l’emozione si amplifica. ERICA TRINCHERA Entrare nella Scuola è stata la cosa migliore che potessi fare perché ho trovato una casa: con il Metodo Costa si formano, prima di tutto, persone e poi attori. Veramente in questa Scuola mi hanno aiutato a tirare fuori la mia personalità; è un Metodo che si basa sullo studio della natura: si deve diventare qualcosa, non imitare… Grazie ad un’immedesimazione con l’elemento naturale – per esempio, l’acqua o un albero – si riescono a dare nuove sfumature nella recitazione. Io sono sempre stata attratta dai ruoli drammatici, anche se in realtà riesco meglio nel comico; nel futuro mi vedo recitare in ruoli da antagonista, non nelle parti principali perché credo che i ruoli secondari mantengano quell’aspetto di ambiguità interessante da interpretare. Per me il teatro significa essere quello che solitamente non siamo: sul palcoscenico posso tirare fuori dei lati del mio carattere che normalmente non svelerei mai. LORENZO VOLPE Mi sarebbe piaciuto incontrare davvero il Maestro Orazio Costa, ci sono un sacco di racconti su di lui e ho visto qualche video… Dalle im-

magini si comprende che lui capiva gli attori: nel momento in cui dava un’indicazione la sua voce trasmetteva quella che era l’intenzione che lui voleva ricevere dall’attore. La prima volta ai provini per la Scuola mi è stato chiesto di fare una palla che si gonfiava, poi venivo punto da un ago e mi dovevo sgonfiare… Con il tempo, andando più a fondo “Entrare nella Scuola per attori con il Metodo, “Orazio Costa” è stata la cosa ho capito che migliore che potessi fare perché non bisognava ho trovato una casa: con il ra p p r e s e n t a r e Metodo Costa si formano, quello che si prima di tutto, persone era chiamati a e poi attori” fare, piuttosto si doveva essere quello che si stava facendo. E questo processo è uno dei fondamenti del teatro e della recitazione. Anche se ho un volto adatto a ruoli da cattivo perché ho i lineamenti abbastanza marcati e duri, nei miei primi passi nel teatro sono sempre stato quello che faceva ridere, ed ero fortemente attratto dal comico. Il mio sogno sarebbe riuscire a lavorare principalmente in teatro – vorrei avere la possibilità di mettere su un collettivo e iniziare a fare spettacoli, sperimentando e provando nuovi testi – ma non “Quella dell’attore è una escludo neanche condizione a tempo pieno, ci di poter lavorare pensi sempre, in ogni momento. un giorno per il Il collegamento vita/teatro cinema o per la e teatro/vita per me è totale televisione. Il e non finisce mai” mestiere dell’attore è molto faticoso perché ti impegna anima e corpo: quella dell’attore è una condizione a tempo pieno, ci pensi sempre, in ogni momento. Il collegamento vita/teatro e teatro/ vita per me è totale e non finisce mai.


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incontri per costruire il futuro di Pier Paolo Pacini e Iacopo Braca

IMMAGINE DALILA CHESSA

Pier Paolo Pacini è direttore del Centro di Avviamento all’Espressione e della Scuola per attori “Orazio Costa”. Iacopo Braca si occupa dei progetti di formazione dell’Accademia dell’Uomo

L’

Accademia dell’Uomo è un centro di formazione nato all’interno del Centro di Avviamento all’Espressione, il Centro di didattica espressiva e teatrale che Orazio Costa aprì nel 1979 presso il Teatro della Pergola, e che oggi è il luogo della attività formativa della Fondazione Teatro della Toscana. L’Accademia svolge una serie di corsi che possono essere propedeutici all’attività teatrale, ma soprattutto allena le competenze trasversali e comunicative dell’essere umano, quali l’intelligenza emotiva, l’ascolto attivo, la creatività, l’intelligenza sociale, la comunicazione in pubblico. Questo progetto, è il risultato di un incontro tra due mondi solo in apparenza differenti e distanti: quello tra il metodo mimico di Orazio Costa e il Coaching. Un incontro che a tre anni dalla nascita dell’Accademia si sta rivelando sempre più efficace e funzionale per almeno tre ragioni. La prima ragione è legata al fatto che sia il Metodo Mimico che il Coaching hanno come principale campo di lavoro il mondo delle competenze umane legate alla creatività, alla comunicazione e allo sviluppo di una consapevolezza di sé grazie ad un ascolto attivo interiore. La seconda ragione è che il Metodo Mimico nasce nell’ambito teatrale ma è stato da sempre applicato anche in ambiti diversi, quali l’educazione giovanile e lo sviluppo delle capacità espressive degli adulti, e ha avuto anche numerose applicazioni in ambiti relativi alla comunicazione. La terza ragione è che il Coaching è sì una strategia di formazione che lavora principalmente sulla relazione, aiutando a raggiungere obiettivi desiderati in costante equilibrio psicofisico, ma considera anche il tema dell’uso delle proprie capacità espressive e della consapevolezza della comunicazione corporea come tema assolutamente centrale. Su questi tre aspetti si è attivato l’incontro tra Metodo Mimico e Coaching, uniti in quello che è l’obiettivo generale dell’Accademia dell’Uomo, il recupero e lo sviluppo di un naturale istinto espressivo, sia comunicativo che emotivo, e di allenare le competenze trasversali per favorire un processo di crescita professionale e personale. Il percorso dell’Accademia vuole riscoprire il valore profondo del mondo classico per metterlo in rela-


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zione con competenze ed esperienze contemporanee. Un dialogo costante per comprendere meglio le nostre radici e poter immaginare il nostro futuro in maniera consapevole. Diversi sono stati i temi che sono stati affrontati in questi anni. Il tema del primo corso è stato L’intelligenza emotiva attraverso i personaggi delle opere di Shakespeare. Un percorso nato dall’incontro tra l’opera shakespeariana e il mondo contemporaneo per sviluppare l’intelligenza emotiva, per riconoscere le proprie emozioni e quelle degli altri in modo da avere un approccio funzionale ed efficace nelle relazioni interpersonali. La stessa tipologia di incontro tra il contemporaneo e temi classici, in questo caso ottocenteschi, ha offerto lo spunto per il tema del secondo corso Il desiderio, la scelta e il cambiamento attraverso il Faust di Goethe, dove sono stati affrontati i meccanismi di comunicazione base, la voce, l’utilizzo del corpo, e in generale il tema della conoscenza di sé attraverso tutti i canali comunicativi. Quest’anno l’Accademia presenta un percorso più strutturato e complesso, La città dei miti, che parte dal presupposto che non esista cultura o civiltà sul nostro pianeta, che non abbia sviluppato un proprio originale complesso mitologico, che queste figure mitiche e leggende hanno dato vita alle relazioni profonde di ogni civiltà e che il linguaggio del mito permette oggi di riscoprire le nostre radici e poter leggere il presente così da immaginare il futuro. Il tema quindi è quello dell’incontro del presente con un passato non più soltanto reale, ma anche leggendario o addirittura archetipico. È il tema dell’espressività e della comunicazione attraverso le figure dei miti antichi e contemporanei. La città non diventa solo spazio di attraversamento e di servizio, ma luogo di crescita umana ed espressiva per lo sviluppo della società. Per rimanere sul tema dell’incontro tra il presente ed il passato, c’è già un’idea di quello che potrebbe essere il nuovo tema del prossimo anno, La via degli eroi, in cui un gruppo di “eroi” moderni vivono l’avventura di scoprire, attraverso delle prove, la loro forza creativa capace di trasformare le difficoltà quotidiane in possibilità di crescita per migliorare le città costruite intorno a loro.

IMMAGINE DALILA CHESSA


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I LT E AT RO D E LL ATOSC A N A

Marco Giorgetti

TRE ANNI DI TEATRO

“Il Teatro è il più alto strumento di incontro degli uomini sui temi essenziali dell’esistenza. Un incontro che obbliga ad essere presenti, lì, insieme, in uno stesso luogo e momento, per condividere un interrogativo, per riflettere su qualcosa di molto o poco importante, per ricordarci dei nostri valori e per guardarci in uno specchio di verità”

La Fondazione Teatro della Toscana è giunta al termine dei suoi primi tre anni di vita; quali sono i principi sui quali ha fondato la propria attività?

L’idea di partenza di questa bellissima avventura è stata quella del Teatro d’arte, nell’accezione che Copeau e Costa hanno dato del termine, sperimentando la combinazione tra tradizione e innovazione con una forte base formativa e mantenendo una speciale finalità e attenzione nei confronti della Lingua italiana. Un’azione costantemente rivolta al pubblico perché sostenuta dalla collettività in cui la Fondazione agisce, con l’obiettivo primario di “coltivare la nostra umanità”. Il nostro intento è stato quello di costruire un teatro in grado


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di ‘fare sistema’, con la gestione diretta o indiretta di più sale collegate in un programma interdisciplinare e, al tempo stesso, attraverso un rapporto organico con il territorio di appartenenza. Un teatro policentrico, sia a livello artistico che fisico. Il Teatro della Toscana è riuscito a diventare uno dei sette teatri nazionali del Paese realizzando il processo di integrazione e armonizzazione delle due ‘anime’ da cui è nato: quella più storica del Teatro della Pergola di Firenze e quella sperimentale del Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale di Pontedera. Si tratta di un modello di impresa che ha generato un processo di crescita gestionale ed artistica come luogo di valorizzazione e realizzazione degli individui. Oltre ad aver maturato una grande esperienza in campo artistico, in passato Lei è stato Direttore Generale dell’Ente Teatrale Italiano (ETI), del Teatro della Pergola durante il periodo della gestione ETI, del progetto Les Italiens a Parigi e della Fondazione Teatro della Pergola nei suoi primi anni di vita. Come si è evoluto il ruolo di Direttore nel corso del tempo e quali nuove sfide ha portato con sé la nomina di Teatro Nazionale?

Il mio è oggi un ruolo di coordinamento, di amministrazione e di programmazione che sovrintende ad una molteplicità di processi artistici ideati e condotti da personalità artistiche diverse, ognuna incaricata di portare avanti una specifica progettualità e contemporaneamente di interagire con le altre. Il mio compito, al di là dei nomi e dei ruoli, è soprattutto quello di creare e man-

tenere le condizioni perché il Teatro della Toscana non sia semplicemente il teatro di, ma piuttosto un teatro per, dunque aperto e partecipato, una struttura dinamica che crea lavoro e che produce restando aperta al cambiamento, per dare risposte all’altezza di una realtà sociale mutevole con uno strumento, il Teatro, che deve anch’esso restare mutevole e dentro le cose. In questi tre anni di attività il numero delle giornate “Si può parlare della ‘costruzione lavorative e dei di una comunità’ raccolta lavoratori im- attorno all’edificio, o meglio piegati ha visto agli edifici, del Teatro della una forte cresci- Toscana. Intendiamo sviluppare ta iniziale con un discorso sulla società come un conseguente ‘fattore attivo’ del teatro e, nello consolidamento. stesso tempo, sul teatro come L’apertura con- strumento di partecipazione ai tinuativa delle fatti della società, un momento sale – per più d’incontro e non solo di mera di 300 giornate erogazione di spettacolo” prodotte e innumerevoli ospitate per oltre 150.000 presenze ogni anno – ha permesso nel solo 2015 di raggiungere oltre i 60.000 spettatori per gli spettacoli di produzione in tutta Italia, sia nei teatri gestiti che in tournée; nel 2016 gli spettatori per gli spettacoli di produzione sono stati oltre 80.000, dato ancora in crescita sul 2017. In questi anni si è anche rivolta una maggiore attenzione ai progetti europei. L’obiettivo di questo ultimo anno conferma la continuità dell’investimento sulla qualità professionale degli artisti e dei tecnici impiegati, negli spazi gestiti e nelle produzioni e coproduzioni, sempre mantenendo un corretto rapporto fra costi fissi Marco Giorgetti è strutturali e costi di attività (40/60%) Direttore Generale della e un livello di ricavi pari al 30% del Fondazione Teatro complesso delle entrate. della Toscana


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La qualifica di Teatro Nazionale ha implicato un forte cambiamento: il passaggio da teatro di ospitalità a teatro di produzione. Da questo punto di vista quali sono stati i traguardi più importanti?

Le produzioni e le coproduzioni del Teatro della Toscana ricercano la qualità artistica, sia attraverso i nomi di artisti riconosciuti a livello nazionale, sia nella presenza di attori, registi e drammaturghi giovani che abbiano già ottenuto premi e riconoscimenti o che si trovino alle prime esperienze. La grande drammaturgia clas“L’idea di partenza di questa sica è curata da bellissima avventura è stata Gabriele Lavia, quella del Teatro d’arte, di cui è obbligo nell’accezione che Copeau e citare spettacoli Costa hanno dato del termine, come il visiosperimentando la combinazione nario Sei persotra tradizione e innovazione naggi in cerca con una forte base formativa e d’autore fino mantenendo una speciale finalità a l l ’ i mponente e attenzione nei confronti della messinscena di Lingua italiana” Vita di Galileo, passando per le letture integrali dell’Amleto e di Leopardi. Per quanto riguarda le attività di innovazione, la programmazione è stata portata avanti tra Pontedera e Firenze con il contributo di Roberto Bacci e Luca Dini attraverso il Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale, con una speciale attenzione per i gruppi emergenti. Rilevante il lavoro del settore formazione e specializzazione, da sempre alla base dell’idea di Teatro d’arte e dei fondamenti costitutivi della struttura, con il lavoro del Cae/Scuola Costa diretto da Pier Paolo Pacini, del Workcenter Grotowski diretto da Thomas Richards

e Mario Biagini, dell’Oltrarno diretto da Pierfrancesco Favino, del Laboratorio d’Arte coordinato da Elena Bianchini. E fin dall’inizio della vita della Fondazione è stato fondamentale l’apporto di Maurizio Scaparro soprattutto sul fronte internazionale con progetti che hanno toccato tematiche storiche e sociali e che oggi confluiscono nel progetto sul Mediterraneo svolto nel corso del 2017. La Fondazione Teatro della Toscana vive inoltre dei fecondi rapporti con le più importanti Compagnie e teatri italiani: abbiamo realizzato numerose coproduzioni con il Teatro Franco Parenti di Milano, con la Compagnia Gli Ipocriti, con la Compagnia Mauri/Sturno, con il Teatro Stabile di Torino, con la Fondazione Emilia Romagna Teatro, con il Teatro di Roma e il Teatro Eliseo, con Parmaconcerti e la Compagnia Nuovo Teatro. Ci tengo anche a ricordare le coproduzioni nate dalla collaborazione con CanGo, il Centro di produzione sui linguaggi del corpo e della danza diretto da Virgilio Sieni e con i lavori di nuovi drammaturghi italiani quali Michele Santeramo, Simone Perinelli, Gabriele Di Luca ed Enrico Ballardini. Oltre alle molteplici attività sul territorio nazionale, la Fondazione Teatro della Toscana si distingue anche per una spiccata vocazione internazionale…

Il lavoro del Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, la nostra realtà internazionale per eccellenza, è sempre più proiettato a una dimensione che trae forza dal territorio locale per poi girare tutti


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i cinque continenti toccando luoghi diversissimi, come anche aree disagiate e difficili del pianeta, ai margini del vivere sociale. Fondamentali anche, ed estremamente proficui, i rapporti che il Centro per la sperimentazione e la ricerca teatrale di Pontedera coltiva da anni, specialmente con l’Est Europeo. E ancora: la Fondazione è membro di Perspectiv (Association of Historic Theatres in Europe), la rete che incoraggia, promuove e sostiene la conser va zione e il restauro dei teatri storici europei. Infine, siamo partner come Laboratorio di Costumi e Scene del Teatro della Pergola di T.H.E . A .T.E .R . – Technics Handicraft Exchange Around The European Regions –, il progetto finalizzato a sviluppare e condividere la formazione per l’acquisizione di competenze tecnico-specialistiche a livello europeo nell’ambito dei mestieri del teatro, in particolare di costumista e scenografo.

In che modo il Teatro della Toscana incontra il pubblico?

In questi anni la volontà è stata sicuramente quella di ricercare un nuovo patto con il pubblico. L’impe-

FOTO FILIPPO MANZINI

gno fondamentale è sempre stato ed è tutt’ora nei confronti degli spettatori abituali e degli abbonati, alcuni dei quali considerano, per esempio, il Teatro della Pergola quasi come una


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seconda casa. E numericamente gli abbonati della Pergola sono cresciuti: oltre 1000 abbonamenti in più nel corso di questi tre anni. Importante anche il risultato di Pontedera, dove si è passati dai 6000 spettatori iniziali ai 7500 dell’ultimo anno. Il nostro desiderio, però, è anche quello di riuscire a superare quella diffidenza diffusa nei confronti del luogo teatrale da parte delle nuove generazioni e da tutti coloro che non frequentano

so sulla società come “fattore attivo” del teatro e, nello stesso tempo, sul teatro come strumento di partecipazione ai fatti della società, un momento d’incontro e non solo di mera erogazione di spettacolo. E come si riesce ad avvicinare i giovani al teatro?

Facendo conoscere ai giovani il teatro e la sua vita, ancora prima degli spettacoli. Per esempio, grazie

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

“Il vero Teatro divide, fa discutere, crea disordine. Quello che ci resta dentro dopo uno spettacolo è sempre una nuova domanda, una nuova possibilità o un punto di vista inatteso”

abit ua l mente il teatro. Si può parlare quindi della “costruzione di una comunità” raccolta attorno all’edificio, o meglio agli edifici, del Teatro della Toscana. Intendiamo sviluppare sempre più fortemente un discor-

a percorsi come quelli di alternanza scuola-lavoro accogliamo ogni anno centinaia di studenti provenienti dai più diversi istituti scolastici della provincia di Firenze. Offriamo ai giovani una variegata offerta formativa che permette loro di approfondire conoscenze tecniche sul teatro, fornendogli strumenti e competenze utili per il futuro. Il Teatro della


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Toscana agisce inoltre costantemente per la partecipazione dei giovani alle stagioni di prosa: organizziamo stabilmente incontri d’approfondimento con registi, attori e drammaturghi nelle scuole e con le scuole, visione di spettacoli in matinée e in replica serale e progetti formativi Teatro/Scuola dedicati ai ragazzi. In particolare, per la stagione 2017/18 è allo studio un progetto speciale di coinvolgimento dei giovani realizzato con un metodo partecipativo, che permette di avvicinare i ragazzi al teatro rendendoli gradualmente protagonisti. L’obiettivo è riuscire, ancor prima della loro trasformazione in futuri spettatori, a trasmettere il valore del teatro stesso come strumento espressivo. Il rapporto con le nuove generazioni di spettatori è costante per noi: infatti al Teatro della Pergola portiamo avanti una formula di abbonamento dedicato agli under26 che è erede dell’ETI21, creato dallo storico Direttore Alfonso Spadoni. Abbiamo inoltre collaborazioni attive con l’Università degli Studi di Firenze e l’Università di Pisa con le quali di anno in anno elaboriamo progetti condivisi, come cicli di incontri e approfondimenti critici riguardanti la drammaturgia e la regia contemporanee. Non bisogna dimenticare mai che i giovani di oggi saranno gli spettatori di domani.

che due individui si incontrano e condividono un’esperienza. Chi sta sul palcoscenico cerca di portare il pubblico in un altro mondo, in un’altra dimensione, e di farlo entrare dentro una storia. Questo è ciò che fin dalle origini è stato il racconto: e il teatro nasce così, come luogo del racconto, del mito. Ma oggi, soprattutto, il Teatro è il più alto strumento di incontro degli uomini sui temi essenziali dell’esistenza. Un incontro che obbliga ad essere presen- “Il mio compito, al di là dei nomi ti, lì, insieme, in e dei ruoli, è soprattutto quello di uno stesso luo- creare e mantenere le condizioni go e momento, perché il Teatro della Toscana per condividere non sia semplicemente il ‘teatro un interrogati- di’, ma piuttosto un ‘teatro per’, vo, per riflettere dunque aperto e partecipato, su qualcosa di una struttura dinamica che crea molto o poco lavoro e che produce restando importante, per aperta al cambiamento, per ricordarci dei dare risposte all’altezza di una nostri valori e realtà sociale mutevole con uno per guardarci strumento, il Teatro, che deve in uno specchio anch’esso restare mutevole e di verità. Non è dentro le cose” detto che questo porti a delle risposte o a delle soluzioni: il vero Teatro divide, fa discutere, crea disordine. Quello che ci resta dentro dopo uno spettacolo è sempre una nuova domanda, una nuova possibilità, una nuova visione o un punto di vista inatteso. Nella civiltà del non essere, dell’essere virtuale, del demandare tutto ad altro Che significato assume per Lei, e ad altri, questa è già una grande ancora oggi, la parola teatro? cosa: quasi una rivoluzione oserei Mi occupo quotidianamente di dire. Comunque un miracolo che si tutti quegli aspetti manageriali ed rinnova ogni giorno grazie all’imorganizzativi che il mio lavoro com- pegno di una comunità di uomini e porta, ma per me il teatro non è solo donne appassionati che costituisce questo. Il teatro è vita, e il teatro, la magnifica squadra della Fondacome la vita, si realizza ogni volta zione Teatro della Toscana.


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Quaderni della Pergola | L’incontro

Materiale raccolto da Angela Consagra, Alice Nidito, Chiara Zilioli, Filippo Manzini, Matteo Brighenti, Riccardo Ventrella, Orsola Lejeune, Clara Bianucci, Dalila Chessa, Marta Bianchera, Adela Gjata, Stefania Avila, Gabriele Guagni

Via della Pergola 12/32 - 50121 Firenze Centralino 055.22641 www.teatrodellapergola.com www.teatrodellatoscana.it Info e contatti quaderni@teatrodellapergola.com

Progetto Grafico Walter Sardonini/Social Design Impaginazione ed elaborazione grafica Chiara Zilioli Interviste Angela Consagra La poesia a pag. 49 e l’editoriale in quarta di copertina sono di Alice Nidito La fotografia di copertina, la fotografia in seconda di copertina, la fotografia del Teatro della Pergola a pag. 74 e la fotografia della lavagna di Eduardo De Filippo sono di Filippo Manzini

Fondazione Teatro della Toscana Presidente Dario Nardella Consiglio di Amministrazione Antonio Chelli, Barbara Felleca, Antonia Ida Fontana, Giovanni Fossi, Maurizio Frittelli, Duccio Maria Traina Collegio Revisore dei Conti Roberto Giacinti Presidente, Roberto Lari, Adriano Moracci, Giuseppe Urso Direttore Generale Marco Giorgetti

Per la sezione dedicata ai diplomati della Scuola per attori “Orazio Costa”, L’incontro del teatro: ideazione Chiara Zilioli, testi Angela Consagra, fotografie Filippo Manzini I disegni del sommario sono di Clara Bianucci Le interviste a Jane Fonda e Robert Redford sono frutto dell’incontro per la stampa tenutosi alla 74esima Mostra del Cinema di Venezia; l’intervista a Mika e quella a Bruno Barbieri sono state ispirate dagli incontri organizzati dal Giffoni Film Festival e dal Wired Next Fest; l’intervista a Vittorio Storaro è tratta dall’incontro del Premio Fiesole ai Maestri del Cinema

© 2017 FONDAZIONE TEATRO DELLA TOSCANA © 2017 EDIZIONI POLISTAMPA

Via Livorno, 8/32 - 50142 Firenze Tel. 055 7378711 (15 linee) info@polistampa.com www.polistampa.com

CHIUSO IN TIPOGRAFIA IL 31 OTTOBRE 2017


La lavagna con la scritta EDUARDO viene conservata nei locali del teatro e fa riferimento al corso di drammaturgia che Eduardo De Filippo realizzò nei primi anni Ottanta al Teatro della Pergola. Questa citazione ha ispirato la nascita dei Quaderni della Pergola come elemento figurativo delle prime copertine. E ancora continua ad essere un simbolo del nostro modo di concepire il teatro.


La Vita è fatta d’incontri. A volte accadono inconsapevolmente e altre volte sono cercati, e ancor prima desiderati intensamente. Ci sono incontri d’amore e d’arte; incontri folli, casuali, passionali o intimi e silenziosi. Ci sono incontri eternamente attesi e attimi epifanici dove tutto acquista un senso e la propria vita prende una virata decisiva e sorprendente. Luoghi e persone, parole e azioni, sogni e condivisioni, bellezza e tragicità. Il Teatro racconta tutto questo: palcoscenico di corpi che incontrano la propria anima, in una fusione totale tra chi sta davanti e chi seduto in platea osserva e ascolta. Attimi d’incanto magici, unici, irripetibili.


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