Quaderni della Pergola n.6

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Il numero 6 dei Quaderni della Pergola è ispirato al Tempo. Tempo: non è facile da definire né da raccontare. E così siamo partiti da ciò che ci è più vicino: il teatro. Peter Brook con le sue parole dedicate al tempo ci insegna che in teatro è sempre possibile ricominciare tutto da capo. L’esistenza si allunga; tutto ciò che appartiene al passato diventa presente e più vite in un’unica vita sono possibili. La sua riflessione coincide con i pensieri di ogni attore o regista, musicista o danzatore, fotografo o scrittore incontrato. Il filo conduttore di ognuno di loro è il punto d’unione tra passato, presente e futuro. La ciclicità della vita che si rinnova ad ogni passo. Svelando che esiste il tempo della preparazione e delle prove, il tempo dell’impegno e del sudore, dell’attesa del debutto ed il tempo della scena e dell’applauso. Ma esiste anche il tempo delle stagioni che passano e quello atmosferico. Il tempo di una canzone e quello di un ricordo. Il tempo della bellezza, dell’amore e della scoperta ma anche quello della responsabilità. Con la certezza e rassicurazione che, al di là di tutto, anche questa sera, come ogni sera, il sipario si alzerà…

5. Pierfrancesco Favino 9. Giuseppe Battiston 11. Vittoria Puccini 13. Elio De Capitani 17. Pietro Babina 18. Arturo Cirillo 19. Seguendo Gabriele Lavia 20. Marco Baliani 23. Il tempo cambia

molte cose nella vita

32. Fabi Silvestri Gazzè 36. La parola al pubblico 37. Dai camerini della Pergola 41. La Storia racconta… 43. Gabriele Salvatores 47. Wim Wenders 49. Carla Fracci 51. Roberto Bolle 53. Eleonora Abbagnato 55. Amit Sood 58. Giacomo Costa


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Il tempo del teatro di Peter Brook

I

l teatro ha una caratteristica particolare: si può sempre ricominciare da capo. Nella vita questo è un mito; noi non possiamo tornare su niente del passato. Le foglie crescono sempre nuove, non si possono far tornare indietro le lancette dell’orologio, non possiamo avere una seconda opportunità. In teatro la lavagna torna ogni volta pulita.

Una rappresentazione è l’occasione di ri-presentare qualcosa del passato, che era e ora è, e che è di nuovo mostrato. La rappresentazione, infatti, non è un’imitazione o una descrizione di un evento passato. Una rappresentazione nega il tempo, abolisce la differenza tra ieri e oggi. Prende l’azione di ieri, la fa rivivere in tutti i suoi aspetti senza perdere l’immediatezza. In altre parole una rappresentazione è esattamente ciò che dichiara: rendere presente. (1968) IMMAGINE CLARA BIANUCCI


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Pierfrancesco Favino VOLEVO FARE L’ATTORE di Angela Consagra

Quanto è importante il tempo nella preparazione di un ruolo? Dovrebbe essere sempre fondamentale, ma in realtà il tempo che ormai conta nell’allestimento di uno spettacolo è quello della produzione economica. E non sempre questo coincide con il tempo della produzione artistica, che varia da ruolo a ruolo, soprattutto se si tenta di affrontare il lavoro sperimentando nuove strade. In Servo per due, per esempio, insieme

“Avere del tempo è una cosa preziosa: prima che la recitazione possa immedesimarsi con il corpo dell’attore e che tu possa scordarti la parte, in modo che il ruolo viaggi da sé, occorrono tante e tante repliche” al Gruppo Danny Rose ci siamo presi volutamente un tempo molto lungo per la preparazione, anche rinunciando ad essere pagati: prima di tutto abbiamo imparato a lavorare insieme come gruppo, poi ci siamo scontrati con quello che ancora non sapevamo fare in scena che ci ha condotto a fare formazione, a vivere un lungo periodo laboratoriale. In genere i tempi dell’attore sono sempre di più legati all’economia di un progetto, piuttosto che alla reale preparazione di un ruolo. Invece avere del tempo è una cosa preziosa: prima

che la recitazione possa immedesimarsi con il corpo dell’attore e che tu possa scordarti la parte, in modo che il ruolo viaggi da sé, occorrono tante e tante repliche. Spesso gli attori capiscono veramente fino in fondo quello che fanno solo a lavoro terminato, e grazie al tempo che gli hanno dedicato. Però il tempo può anche diventare un alibi: magari arrivi a non affrontare mai il palcoscenico perché non ti senti pronto. La verità è che non sarai mai pronto fino in fondo.

E che valore assume il tempo al cinema o in TV? A volte, per entrare nella parte, l’attore si trasforma proprio fisicamente… Ci sono ruoli in cui l’adesione è molto più immediata del previsto e ruoli in cui occorre lentezza. Non esiste un tempo predeterminato: dipende dalla sceneggiatura, da come riesci a lavorare. In questo senso il teatro dà una maggiore possibilità di prova, invece al cinema è come se si volesse creare una sensazione di immediatezza recitativa che io non trovo vera. L’evento casualmente spontaneo può diventare espressivo, ma non deve essere una regola. Ogni storia richiede comunque il suo tempo di preparazione; quello che io ho potuto dedicare per l’interpretazione di Bartali nella fiction è stato particolarmente intenso: dovevo capire, pedalando davvero per ore e ore, cosa volesse dire stare su una bicicletta, avvicinarmi al momento di crisi e di fatica che vive uno sportivo… Sono cose che non si possono apprendere con la testa: l’attore deve assimilare le sensazioni con il corpo. Anche per il film Senza pietà, per esempio, sono dovuto ingrassare venti chili e mi sono concesso quattro mesi per farlo: è fondamentale decidere la modalità di pre-


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parazione. C’è stato un periodo in cui ho girato un film dietro l’altro, ma non ero a mio agio: ci vuole un tempo di decompressione per riuscire ad entrare in un altro mondo, quello della storia e del personaggio successivi.

L’uso del corpo come strumento di consapevolezza per l’attore è un insegnamento che proviene dal suo Maestro Orazio Costa? Sì, proviene da Orazio Costa e an-

“Nei geni degli italiani credo che risieda un senso della poesia: non temiamo il vuoto, mentre l’impostazione americana ha bisogno di colmare ogni possibile incertezza ”

poca fiducia nel corpo. Dall’altra parte del mondo invece l’apprendimento è quasi tutto corporeo, soltanto così si arriva alla comprensione, mentre noi abbiamo la tendenza a voler capire le cose prima di farle.

Quindi l’attore, sul palcoscenico, deve prima di tutto ‘fare’? Attore significa agire e in inglese recitare si traduce con giocare: non si può prescindere da un’attività fisica. L’attore recita i verbi e le parole, il resto dei movimenti non è recitabile. Si deve quindi creare un sentimento in chi ti sta di fronte: il pubblico e i tuoi compagni di scena devono risponderti, in qualche modo. È la base del principio drammaturgico, altrimenti il mestiere dell’attore sarebbe solo un monologo costante con se stessi.

FOTO FILIPPO MANZINI

Il concetto del tempo è importante anche sul palcoscenico? Soprattutto pensando alla comicità…

che dall’esperienza. Nella vita io sono una persona decisamente elucubrativa, nel senso che tendo a riflettere a lungo sulle cose, quindi non è stato così immediato per me affidarmi alla spontaneità del corpo. E poi è anche un fatto culturale: noi occidentali abbiamo

Credo che proprio l’uso del tempo giusto crei la comicità. E questo vale anche in un evento tragico: nella drammaticità, se al suo interno si presenta improvviso un tempo comico, si può anche ridere. È una verità matematica, con un suo senso musicale, difficile da spiegare. Il tempo comico è qualcosa che ti appartiene, risiede nella tua capacità di sapere ribaltare la verità per presentarla in un’altra forma.


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FOTO FILIPPO MANZINI

In fondo i tempi della comicità sono universali: Charlot, Totò, Buster Keaton, tutti ti divertono, anche se appartengono a mondi e culture differenti.

Lei ha partecipato ad alcune grandi produzioni hollywoodiane; la preparazione attoriale in America segue priorità diverse rispetto al modello italiano? Nei geni degli italiani credo che risieda un senso della poesia: non temiamo il vuoto, mentre la preparazione americana ha bisogno di colmare ogni possibile incertezza. Un attore italiano ha meno paura di fare qualcosa che non abbia per forza un’origine causa-effetto e invece nelle pedagogie americane si intravede sempre un desiderio di comprensione meccanica. Un attore latino, rispetto anche al Nord Europa, si lancia con più facilità verso il canto. Noi caso mai abbiamo un altro tipo di problema:

“Lo spettatore deve poter mantenere la sua libertà d’immaginazione. Come attore io posso soltanto cercare di non tradire il pubblico, senza imporgli nessuna verità” siamo abituati a rappresentare la verità, piuttosto che aderire totalmente alla realtà scenica. Anche dal punto di vista sociale è così: negli altri Paesi basta andare a dichiarare chi sei perché ciò sia vero; al contrario in Italia, dove è stata privilegiata la furbizia, occorrono prove e testimoni.

L’attore vive tante identità, quelle di tutti gli esseri umani rappresentati sulla scena… Quando, per esempio, leggi Amleto tu, lettore, in quel momento ti fai un’idea di quella figura e la tua non


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sarà mai un’idea esclusiva. Ci sono più Amleto, tanti quanti aprono le pagine del libro e decidono di leggerlo. Spesso rimaniamo delusi quando un romanzo diventa un film perché ci sentiamo traditi nella nostra immaginazione. E lo spettatore deve poter mantenere la sua libertà d’immaginazione. Come attore io posso soltanto cercare di non tradire il pubblico, senza imporgli nessuna verità. È impossibile imporre la verità sulla poesia perché si entra nella sfera dell’inconoscibile. L’attore deve sapere che quello che va ad affrontare con il suo mestiere è un tentativo fallibile di rappresentazione della realtà. Se fosse infallibile, allora lo spettatore non avrebbe la necessità di esistere.

Quindi l’attore è conscio della sua fallibilità… Deve esserlo. La cosa più complicata per un attore è riuscire a trovare in questa infallibilità la gioia, il suo modo di essere. L’attore deve essere in grado di creare come ‘un involucro di se stes-

so’, all’interno del quale possano risuonare le note di qualcun altro. E questo anche se l’attore non potrà mai essere all’altezza di un’astrazione. L’unico elemento che completa questo passaggio è l’anima di chi guarda e ascolta.

Essere famosi: che cosa comporta? Non ho pensato di iniziare questo mestiere perché volevo diventare popolare. Io volevo fare l’attore. La popolarità può crearti dei fastidi nella quotidianità, però nessuno mi ha messo una pistola alla tempia quando ho deciso di entrare nelle case degli italiani con la TV. Quando appari sullo schermo in salotto, sei tu che scegli di essere presente nella vita degli spettatori. Non puoi lamentarti quando quelle persone per strada ti salutano con una pacca sulla spalla: sei entrato nell’intimità delle loro case, diventandone inevitabilmente un amico. Non vedo perché dovrebbero trattarti in maniera diversa da quando si sintonizzano con il telecomando!


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Giuseppe Battiston UN TEATRO ETICO

vive anch’esso, in un certo senso, di una sua dualità: la gioia e insieme la responsabilità di incontrare il pubblico. Sono e sarò sempre convinto che chi compie e porta avanti un’attività, di qualsiasi tipo, deve credere in quello che fa. Altrimenti non sarà mai brillante nel suo lavoro. E a maggior ragione ciò è valido in teatro, dove occorre un’adesione profonda, una grande umanità, insieme ad un forte desiderio di conoscere gli altri. Non bisogna mai smettere di desiderare l’incontro con il pubblico, occorre mantenere vivo il rapporto attore-spettatore. Se tu, attore, non sei sorretto dall’entusiasmo, da una visione del mondo di questo tipo, allora il mestiere si manifesta in tutta la sua stanchezza e pericolosità. Il rischio è che si crei una sorta di ‘calcare professionale’, una ruggine durissima da rimuovere. Non si tratta soltanto di ripetitività: è proprio la mancanza di punti di contatto con il mondo esterno a renderti distante. Quando ti trovi di fronte a questa forma di sclerotizzazione del mestiere, te ne accorgi.

Quando l’attore incontra il pubblico è sempre con emotività?

FOTO FABRIZIO CESTARI

Nello spettacolo Falstaff due mondi si confrontano: il tempo del piacere e dell’allegria – rappresentato da Falstaff appunto – e il tempo della responsabilità, incarnato da re Enrico IV. Il mestiere dell’attore

Io fatico a sentire l’ansia del palcoscenico. Il passo che mi conduce verso il tempo della rappresentazione lo vivo con gioia ed emozione perché è il momento in cui ritrovo il pubblico. Non ho paura. Mi diverto troppo, così cerco di vivermi sempre fino in fondo questa esperienza unica. Senza il pubblico non si può assolutamente fare il teatro. Infatti, nella mia opinione, il pubblico è parte integrante di quell’atto politico che si esercita nel preciso momento in cui si decide di fare teatro.


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L’attore racchiude in sé molteplici esistenze, quelle di tutti i personaggi che incarna sulla scena. Sì, noi viviamo più vite. L’importante è riuscire ad interpretare sempre personaggi diversi tra loro. Per quanto mi riguarda, cerco di mettermi nelle condizioni di rivivere quel percorso che conduce all’interpretazione ogni sera come fosse la prima, oppure l’ultima: con una profonda intensità. È però molto difficile, non sempre ci si riesce. Te ne

“Per quanto mi riguarda, cerco di mettermi nelle condizioni di rivivere quel percorso che conduce all’interpretazione ogni sera come fosse la prima, oppure l’ultima: con una profonda intensità” accorgi quando accadono degli imprevisti e qualcosa non va come dovrebbe: allora si crea un livello di attenzione e di allerta nell’attore che è purissimo. È questa energia, splendida, che dovrebbe ripetersi ogni sera. So bene che non è sempre possibile raggiungere questo risultato perché non siamo delle macchine, ma almeno non bisogna mai perderne di vista la ricerca.

E per quanto riguarda il cinema? Lei è uno dei volti più rappresentativi del cinema italiano. Fra il teatro e il cinema c’è la stessa differenza che esiste, per esempio, tra la pittura e la danza. Professionalmente sono due forme di espressione differenti, anche se con vari punti in comune. Per quanto riguarda l’attore – che è lo strumento che collega i due mondi – è

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

importante considerare che con il suo mestiere mette in moto attitudini estremamente diverse: il teatro è un mezzo prevalentemente fisico, mentre nel cinema può essere sufficiente anche solo uno sguardo. Il lavoro sul corpo è sempre predominante, ma è molto più contenuto: è un lavoro che avviene all’interno dell’attore, altrimenti il rischio è che la comunicazione diventi eccessiva. Quello che serve è capire come trasportare la carica, tutta l’energia che sta in palcoscenico, nell’ambito di un set. Un’inquadratura, un primo piano: il compito è cercare di scoprire che cosa può permetterti di esprimere uno stato d’animo. Così il mestiere dell’attore diventa veramente affascinante.

Cosa non dovrebbe mai mancare nella sua valigia di attore? La mia scatola di sigari!


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Vittoria Puccini UN FLUSSO CONTINUO DI ENERGIA La gatta sul tetto che scotta, uno dei testi più famosi e importanti di Tennessee Williams, segna il suo debutto teatrale. È stato difficile descrivere e rendere sulla scena il personaggio di Maggie ‘la gatta’, una figura femminile così inquieta e sensibile? È la mia prima esperienza in teatro, quindi è stato un lavoro molto complesso, diverso da quello fatto fino ad oggi. Ma allo stesso tempo, proprio per questo motivo, è stato anche un periodo particolarmente entusiasmante. Tuffarmi in una nuova esperienza: è questa la sfida, e sono sicura che il teatro mi influenzerà anche nei succes-

“Grazie alla somma di tutti i ruoli che si interpretano, l’esistenza di un’attrice si allunga ma tutti gli attori mantengono un filo diretto con la loro parte più infantile” sivi lavori cinematografici. Essere ‘una donna-gatta’ significa riuscire a descrivere la grande determinazione femminile. Margareth è una donna che vive una condizione difficile perché ingabbiata in una relazione sentimentale con un marito che in realtà non la desidera più. Non ha con lui nessun

tipo di rapporto, se non formale e di superficie, e la sua femminilità non ce la fa ad accettare questo stato di cose. Margareth si sente profondamente viva, quindi lotta per affermare il suo diritto alla felicità e all’amore. Lei vuole vivere le emozioni, desidera assecondare le sue passioni, perché non riesce a stare nei limiti di questa gabbia in cui il marito e la famiglia del marito l’hanno rinchiusa. Rappresentare la femminilità di una ‘gatta’, in questo caso, vuol dire trasmettere la vita che pulsa, inseguendola con determinazione. Andando anche contro tutti e scontrandosi con le difficoltà, per riuscire ad ottenere quello che si vuole.

C’è un filo che lega i diversi personaggi che ha scelto di interpretare fino ad oggi? Sono stata molto fortunata perché i miei personaggi sono uno più bello dell’altro: penso, per esempio, ad Anna Karenina che ho interpretato ultimamente e a tutte quelle figure femminili forti e complesse, assolutamente non banali, che mi sono state proposte. Donne molto diverse, spesso in contraddizione le une con le altre, e dunque non stereotipate: anzi, sempre profondamente vere. Il criterio secondo il quale scelgo un personaggio, quando leggo un copione, è che deve riuscire a comunicarmi qualcosa, indipendentemente che sia più o meno simile a me: al contrario, direi che più lontano è, più divertente sarà l’interpretazione. Devo arrivare a comprenderlo: proprio psicologicamente, anche se si tratta di un personaggio con comportamenti che io non adotterei mai nella vita vera. Se ce la faccio, se ne capisco i movimenti e le scelte, allora significa che il ruolo è arrivato e che mi ha comunicato qualcosa.


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Grazie al mestiere di attrice si ha l’opportunità di vivere tante esistenze e di viaggiare nella storia. Sì, è come se fossero tante vite che si aggiungono alla mia. Ogni ruolo è una realtà a parte: c’è un inizio, uno svolgimento e poi la storia finisce. La vita del personaggio è proprio la vita del set, anche perché si creano dei rapporti veri con le persone con cui stai lavorando. Del resto il nostro è un me-

“Il criterio secondo il quale scelgo un personaggio è che deve riuscire a comunicarmi qualcosa, indipendentemente che sia più o meno simile a me“

sione, le difficoltà sempre nuove che ti danno adrenalina: questi sono gli aspetti più affascinanti del mestiere di attrice.

Quindi l’attrice vive un tempo della vita diverso da tutti gli altri, che dura di più… Da una parte, grazie alla somma di tutti i ruoli che si interpretano, l’esistenza di un’attrice si allunga, però è vero che tutti gli attori mantengono, per forza di cose, un filo diretto con la loro parte più infantile. Il tempo si allunga, ma è come rimanere sempre ad uno stato fanciullesco dell’esistenza e ti sembra di non invecchiare. Nella vita ci confrontiamo con i problemi reali, però nel lavoro il senso del gioco, dato dalla recitazione, non ti abbandona mai.

FOTO FILIPPO MANZINI

stiere che ha un’implicazione emotiva forte: l’esperienza condivisa di un film ti coinvolge tanto e, alla fine, ti lascia inevitabilmente qualcosa. La spinta a ricominciare da capo, il dovere ogni volta di ricostruire una storia diversa ed esplorare nuovi territori d’espres-

La popolarità: aspetti positivi e negativi. È difficile gestire il successo? Noi lavoriamo perché il pubblico ci guardi, quindi la popolarità fa sì che in tanti ti seguano e questo ci riempie di gioia. Quando mi fanno un


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complimento, tutto quello che cerco di trasmettere attraverso un ruolo - le emozioni che tento di dare agli spettatori - è come se mi tornasse indietro, in qualche modo. Mi si riempie il cuore perché lo scambio con il pubblico è una cosa bellissima, una sensazione meravigliosa. L’unico aspetto negativo è che la popolarità riduce la possibilità di avere una vita privata, e questo spesso può essere davvero faticoso. Non tanto per quello che riguarda me, ma per il fatto che coinvolge anche le persone che mi stanno accanto. Mi dispiace che i miei famigliari, attraverso me, siano coinvolti in questo ciclone. Faccio di tutto per preservarli e tutelare la loro privacy, però a volte è difficile.

in sala durante la proiezione di un tuo film, un conto sia recitare con il pubblico davanti a te. In teatro lo scambio di energia è ancora più magico perché più forte. Nessuno dei due – attore e spettatore – può prescindere dall’altro, il rapporto è molto stretto: un ciclo di energia che passa e che ritorna senza fine.

Sotto: Vittoria Puccini e Vinicio Marchioni, protagonisti de La gatta sul tetto che scotta, regia Arturo Cirillo

Il fatto di essere seguita, per esempio, in una fiction da milioni di persone, implica una responsabilità? Io avverto la responsabilità nei confronti del pubblico, ma non mi spaventa: fin da ragazzina, anche nella vita, ho sempre perseguito il senso della responsabilità. Bisogna essere consapevoli che quando compiamo un’azione, non possiamo pensare esclusivamente a noi stessi: dobbiamo guardare fuori dalla porta, curarci di ciò che è intorno. L’importante, nei confronti del pubblico, è di non risparmiarsi mai. Non sempre un ruolo viene alla perfezione, però devi cercare di fare sempre del tuo meglio.

Il pubblico teatrale: una scoperta e un nuovo incontro del mestiere di attrice. Per me il pubblico significa scambio di energia. Io cerco di fare arrivare una storia agli spettatori e loro mi restituiscono qualcosa. Credo che un conto sia vedere la reazione degli spettatori

FOTO FABIO LOVINO

“Nessuno dei due - attore e spettatore può prescindere dall’altro, il rapporto è molto stretto: un ciclo di energia che passa e che ritorna senza fine”


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Elio De Capitani UN TEATRO IN TRASFORMAZIONE Dal punto di vista della regia, come si affronta il tempo della rappresentazione? Tutta la letteratura teatrale è un lascito, depositaria di strati antropologici diversi: quando mettiamo in scena un testo, partiamo dall’epoca lontana dell’autore e arriviamo a noi, al tempo della nostra attualità. È come un fiume carsico di significati sommersi, in cui quello che conta sono le relazioni più profonde e interne al testo. Quella società del passato e la nostra epoca si confrontano, così come noi che facciamo teatro ci specchiamo con il pubblico. Ed il pubblico è il fondamento

“Fino a quando riusciremo a trasferire alla platea la nostra passione, allora noi dell’Elfo costituiremo un ponte verso il futuro. E saremo vivi” del teatro. Io e Ferdinando Bruni dirigiamo il Teatro dell’Elfo a Milano da oltre quarant’anni e abbiamo costruito il nostro teatro cercando sempre di entrare in relazione con il pubblico. Anche quando giriamo in tournée con i nostri spettacoli diventa fondamentale lo scambio umano, il fatto di misurarsi – sia da attori che da registi – con differenti tipologie di spettatori.

Com’è cambiato, nel corso del tempo, il Teatro dell’Elfo? Ogni dieci anni l’Elfo ha subito una trasformazione. Accade così anche nella vita: se si vuole mantenere per forza la stessa immagine, come quando si era giovani, il risultato è paradossale. Bisogna assecondare il tempo e accettare il cambiamento, quella sfida che ogni anno comporta e che ti chiede di diventare sempre un’altra cosa. Il Teatro dell’Elfo ha cambiato forma, sotto ogni profilo: societario, artistico, umano. Con una costante: negare un unico stile, che è la morte. Quindi ogni volta che interroghi un nuovo autore, alla fine è lui che interroga te, cambiandoti e sconvolgendoti profondamente con il suo linguaggio. Il viaggio dell’Elfo è un viaggio che è partito da molto lontano, anche dalla nostra immaturità perché non siamo figli di grandi tradizioni, anzi siamo degli autodidatti. Quello che ci ha contraddistinto è l’incessante esperienza laboratoriale frutto del nostro lavoro collettivo. Abbiamo imparato tanto dagli autori messi in scena, così come abbiamo insegnato tanto ai giovani attori che hanno lavorato con noi. Siamo una delle scuole italiane teatrali più solide, che ha fatto tesoro del proprio passato ed è in continuo dialogo con il presente. Fino a quando riusciremo a trasferire alla platea la nostra passione, facendo in modo che il viaggio compiuto alla scoperta di un autore sia lo stesso anche per gli spettatori, allora noi dell’Elfo costituiremo un ponte verso il futuro. E saremo vivi.

In quale forma attualmente si identifica il Teatro dell’Elfo? In questo momento l’Elfo è attento alla drammaturgia contemporanea e abbiamo abbandonato per questo moti-


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vo, per esempio, lo studio di Shakespeare. Ci dispiace, perché si tratta di un autore a noi congeniale, ma adesso siamo troppo concentrati su quello che accade alla drammaturgia giorno per giorno. La nostra è una ricerca continua di testi, perché ci rendiamo conto che sono gli attori a fare la differenza in teatro, un po’ come avveniva negli Stati Uniti negli anni Cinquanta. In Italia forse abbiamo sofferto di un’enfatizzazione della

leto, si può dire che sia il padre della psicoanalisi. Invece il nostro lavoro su Fassbinder ci ha fatto passare da una fase

“Il teatro rimane il luogo dell’umano, della riflessione su noi stessi, ed è anche una patria. Sono un teatrante e dunque ho tanti parenti teatranti in tutto il mondo” FOTO FILIPPO MANZINI

regia, mentre è la relazione tra le varie figure - l’attore in rapporto con la scrittura scenica e la regia – a determinare la grandezza del teatro. Alla fine il regista è il responsabile di una relazione, non deve diventare il Deus ex machina dell’azione teatrale.

Le tre sale dell’Elfo sono dedicate a Shakespeare, Fassbinder e Pina Bausch… Sì, sono i nostri modelli. Shakespeare è la materia più incandescente che abbiamo trattato con i nostri spettacoli negli anni: nessuno gli aveva mai dedicato una sala e mi sembrava assurdo. A mio parere Shakespeare ha inventato il montaggio della narrazione prima del cinema e, attraverso il soliloquio di Am-

forse più adolescenziale, in cui riflettevamo molto su noi stessi – noi la chiamiamo fase impressionista o di automitografia generazionale – all’età adulta. Fassbinder è stato fondamentale perché grazie a questo autore abbiamo cambiato forma di teatro, riscoprendo un’apertura non minimalista ma di nuovo etica, legata al melò e al sociale. Infine è Pina Bausch che ci ha insegnato l’attenzione per il repertorio: vedevamo che i ballerini cambiavano ma i suoi spettacoli vivevano per più stagioni. Secondo noi gli spettacoli devono essere ripresi, e questo anche se sono sempre il risultato di una importante costruzione d’insieme. È difficile sostituire nel tempo gli attori: certi testi fino a che non trovi la persona giusta non puoi riprenderli.


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Ed il pubblico è pronto per accogliere questa scelta di spettacoli che formano il repertorio? Credo di sì. Bisogna riuscire a mettere una lente sugli spettacoli più piccoli e sconosciuti, che sono invece dei gioielli, con attori giovanissimi. Negli anni è stato fatto tanto lavoro sul pubblico, in particolare a Milano, dove la dimen-

E partendo dalla drammaturgia contemporanea, come guarda al futuro? Il futuro purtroppo dipende da giochi politici e da mutazioni antropologiche. Non abbiamo capito, per esempio, le religioni e quello che potevano produrre in tutto il Medio Oriente. Così come abbiamo sottovalutato la trasformazione dell’economia mondiale, che

FOTO FILIPPO MANZINI

“Quello che ci ha contraddistinto è l’incessante esperienza laboratoriale frutto del nostro lavoro collettivo” sione di sfida possibile con gli spettatori è continua. Ma abbiamo raccolto anche delle vittorie a livello nazionale. Per tanto tempo non siamo riusciti a girare in tournée con testi di nuovi autori: potevamo proporre solo i classici. Adesso invece la drammaturgia contemporanea vince. È un nuovo modo di stabilire il patto con lo spettatore: un patto su un teatro che non si perpetua come un modello lirico da museo, ma che è invece qualcosa che parla dell’oggi, alla nostra realtà.

non è soltanto una questione astratta perché ha reso virtuale l’ esistenza, azzerando i nostri valori in modo incredibile. Come si pone il teatro in confronto a tutto questo? Rimane il luogo dell’umano, della riflessione su noi stessi, ed è anche una patria. Sono un teatrante e dunque ho tanti parenti teatranti in tutto il mondo: in qualunque città posso incontrare gente con cui parlare di teatro. Ho la speranza che in futuro i teatranti diventino una religione, intesa come legame. Il teatro dovrà unire le idee, ma non con un pensiero di massa. Piuttosto sarà un momento di riflessione critica, un luogo di sacrificio e di militanza artistica, non di esibizione di sfarzo. Ci vuole un’etica nuova.


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Pietro Babina

che le problematiche che appartengono a scrittori come Dostoevskji o Shakespeare sono anche le nostre. Tutti i grandi autori hanno delle dinamiche che sono senza tempo. Non è possibile fare arte senza portare avanti un discorso che, guardando al futuro, mantenga al suo interno un’attenzione al passato. Lo spettacolo è un unico flusso nel tempo. Attraverso la drammaturgia si affrontano tematiche apparentemente lontane Lei è in genere riconosciuto come nel tempo e poi lentamente scopriamo il regista di Teatrino Clandestino. Secondo la sua concezione teatrale invece che si tratta di un percorso vicino a noi. Nonostante l’esperienza e la conoogni personaggio per definizione è scenza delle cose, continuiamo a ripetere inattuale. Per me il personaggio è sempre i nostri sbagli e a provare costantemenqualcosa di spettrale, che dialoga con te gli stessi sentimenti. Siamo indissoun’unità di tempo diversa dall’attualità, lubilmente legati alle nostre tradizioni un tempo legato alla memoria e con- culturali e letterarie, non c’è niente da temporaneamente anche al futuro. Non fare, anche se in nome di una cosiddetta si tratta soltanto della trasformazione modernità non sempre ci ricordiamo di dell’attore e quindi della vita reale che entrare in dialogo con il passato.

LA MODERNITÀ DEL PASSATO

“Tutti i grandi autori hanno delle dinamiche che sono senza tempo” irrompe sulla scena: intendo il personaggio come un oggetto che ci trasporta in un tempo parallelo a quello in cui viviamo. Il personaggio è inattuale perché, pur trovandosi in uno spazio preciso temporalmente – il palcoscenico – vive una sua autonoma realtà, al di là della contingenza della rappresentazione. In questa sua essenza di personaggio, grazie alla sua esistenza che si svolge in palcoscenico, io percepisco un’inattualità, un’assenza di tempo anche in un luogo preciso temporalmente.

Le tematiche degli autori che vengono rappresentati sulla scena spesso appaiono senza tempo perché arrivano, con forza, alla nostra contemporaneità. Gli errori si ripetono e ci accorgiamo

IMMAGINE CLARA BIANUCCI


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Arturo Cirillo ORCHESTRANDO GLI ATTORI

to ciò che apprendiamo lo apprendiamo attraverso il corpo. Il corpo dell’attore è il suo limite e anche il suo strumento.

Pensando anche alle sue regie liriche, come ci si pone, da registi, di fronte ad un testo legato comunque alla musica?

Dipende; nel teatro d’opera la musica è tutto, dovrebbe dettare lei la regia, come detta ai cantanti la postura e il Lei come vive il rapporto con i sentimento. Nel teatro fatto partendo da personaggi da rappresentare? A me il teatro ha salvato la vita, e in un testo dipende molto dal testo, a volte fondo continua a farlo, con la differenza può avere una sua natura musicale e a che prima pensavo che la vita si salvas- volte va trovata, soprattutto quando è se con il teatro, ora penso che la vita e tradotto. Si recita avendo un rapporto il teatro siano due cose totalmente dif- con il ritmo. Un altro compito della regia ferenti, ma reali entrambe. È come l’in- penso debba essere quello di far suonare conscio, c’è, poi bisogna vedere se uno ha insieme gli attori di uno spettacolo. voglia di averci a che fare o no.

Per anni Lei ha collaborato con Carlo Cecchi; che cosa continua a portarsi dietro di quell’esperienza?

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

L’importanza fondamentale del lavoro con gli attori: se non vi è quello non vi è nulla, e non accadrà nulla.

“A me il teatro ha salvato la vita, e in fondo continua a farlo. Penso che la vita e il teatro siano due cose totalmente differenti, ma reali entrambe” È vero che si è avvicinato al teatro tramite la danza? Ho iniziato a studiare danza per motivi di salute, avevo la scoliosi e dovevo fare attività fisica. Le prime volte che sono salito su un palcoscenico l’ho fatto per danzare. Credo che la parola sia fisica, e non solo concettuale; la mente è un organo. Penso che il corpo sia tutto, tut-

Il passaggio da attore a capocomico e regista, com’è avvenuto? E come lavora adesso con gli attori: che tipo di regista è? Il passaggio è avvenuto piuttosto naturalmente. Sono stato, come ha ricordato Lei, molti anni nella compagnia di Cecchi, ultimo grande capocomico del nostro teatro, e pensare la regia come un altro aspetto del recitare è stato per me immediato e appunto naturale. Cerco di avere sempre presente il mio essere attore quando lavoro con gli altri, per poter meglio comprendere di che cosa hanno bisogno in quel momento, cosa gli può servire e cosa no, cosa gli potrà essere utile e cosa al contrario li svierà nel loro lavoro d’invenzione di un personaggio.


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Dal diario di bordo di un giovane attore...

Seguendo Gabriele Lavia di Filippo Lai

Sotto: Lucia Lavia nei Sei personaggi in cerca d’autore

FOTO FILIPPO MANZINI

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hi una mela, chi un caffè, tanta acqua, un paio di pause da un quarto d’ ora e Pirandello per 7/8 ore ogni giorno. Questo è stato il costante ed impegnativo ritmo delle prove della messinscena di questa epica commedia. Un lavoro intenso e preciso, dove nulla è lasciato al caso arrivando addirittura a ripetere la stessa battuta sino a venti volte nell’ ottica del categorico rispetto dei personaggi pirandelliani. Grazie ai miei precedenti studi con Marco Giorgetti ho potuto notare come la regia di Gabriele Lavia riveli la sua passata esperienza formativa con il Maestro Orazio Costa: “L’attore, in quanto attante, non pensa e non interpreta, lascia solo che attraverso di lui il pubblico possa vivere le emozioni del testo”. E così la compagnia ha potuto dimostrare la sua incredibile qualità nel rappresentare la più piccola sfaccettatura dei personaggi della commedia. Grazie a questo lavoro così minuzioso sono potuto entrare nella complessità di quest’ opera definita dallo stesso meritevole regista “L’opera più importante dell’ umanità”: l’essenza sovrannaturale e precaria dei personaggi rispetto a quella presuntuosa degli attori della compagnia, l’indole vendicativa della figlia dalla giovinezza rapita, la presenza isolata e cantilenica del figlio, la poliedrica figura del padre, metonimia del tipico capofamiglia siciliano che, proclamando il suo desiderio di “solida sanità morale” nella famiglia, detta legge e raccoglie solo ragioni, ma in realtà è l’araldo del peccato in quest’opera, e quindi si fa portatore di un dramma che alla fine è “causa del suo mal”. Ho apprezzato moltissimo questa esperienza perché mi ha davvero avvicinato alla realtà del mestiere dell’ attore e alla messinscena di uno spettacolo. È stato interessantissimo osservare la preparazione del movimento delle luci che ho trovato determinante in quest’opera, e la costruzione di tutta la scenografia e la sequenza scenica. Sicuramente ho potuto osservare elementi faticosi di questa professione come provare anche otto ore in un solo giorno o ripetere quaranta volte la stessa battuta, ma rimango fermamente convinto che tutto lo sforzo sia pienamente ripagato dalla meraviglia che ho provato e che proverei ogni volta nel sentire aprire il sipario alle 21 a suon di quella musica tante volte riascoltata, con l’esatto gioco di luci visto e studiato anche il giorno prima, e poter dire di stare per dar vita alla magia del Teatro. P.S. Ammetto di aver provato una latente ma positiva invidia verso la giovanissima figlia d’arte Lucia Lavia, che mi ha fatto più volte pensare: tra qualche anno potrei esserci mica io?


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Ricordando Lucilla Morlacchi

ANCORA QUI CON ME di Marco Baliani

FOTO FILIPPO MANZINI

Sopra: Marco Baliani e Stefano Accorsi durante la presentazione dello spettacolo Decamerone vizi, virtù, passioni

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ualche giorno prima che uscisse di scena le avevo telefonato per invitarla alla mia regia lirica al Piccolo. Con la sua voce sempre venata di ironia mi disse che proprio non poteva per via di certe analisi che doveva fare, niente di cui preoccuparsi, aggiunse subito, e, come altre volte, ci siamo lasciati con la promessa di un pranzo dei suoi, un bel risotto alla milanese che cucinava per me ogni volta che riuscivamo a vederci. Sì, è uscita di scena con la modestia di sempre, che appartiene solo alle persone grandi, quelle persone che, come Lucilla, hanno un centro nel loro cuore, una centralità del sentire che non abbisogna di altro. Per questo aveva in odio ogni tipo di mediocrità, specie quella che si fa passare per tracotanza, non potendosi fondare sulla qualità. Con Lucilla trascorrevo tempo a sentirla narrare della sua vita, della sua infanzia nella casa di ringhiera milanese, della povertà dignitosa, dell’esordio teatrale perseguito con caparbietà, della esperienza nel Gattopardo di Visconti, e così via, e ogni volta aggiungeva digressioni, altri racconti, narrazioni guidate dal suo sguardo sempre penetrante, ironico e a volte de l i zios a mente spietato. Amava la scena teatrale di un amore erotico, e ne sentiva, come gli amanti veri, la mancanza. Si illuminava quando poteva leggermi qualcosa, un copione che le avevano proposto, e allora nei suoi occhi, tornati giovinetti, si poteva scorgere tutto il precipitare di una vita vissuta simbioticamente alle tavole della scena. Per lei la parola era un mistero da sviscerare attraverso la voce e il corpo. Per questa sua passione intatta è in me la sua presenza e lo resterà sempre.


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“Per capire il tempo, per capirne il significato più profondo, invece di interpretarlo, bisognerebbe spogliarsi. Spogliarsi dell’io prima di ogni altra cosa. Io voglio, io faccio, io sono. Spogliarsi e attendere. Attendere e ascoltare. Così, piano piano ci accorgeremmo che questo tempo, questo tempo che ci dà affanno, questo tempo che stipiamo di cose da fare e da dire, è in realtà un tempo non molto diverso dalla corsa di una formica, leggero, breve, piccolo. Il tempo vero sta da un’altra parte. E’ il tempo del mistero e della trascendenza. E’ il tempo in cui verrà svelato ad ogni seme il suo progetto. Un tempo che ci avvolge e che ci sovrasta. Un tempo senza tempo, senza albe e senza tramonti, senza compleanni né funerali. E’ un tempo che ci precede e che ci segue ma è anche un tempo che ci accompagna nei giorni, anzi che irrompe nei giorni salvandoci dalla deriva. E’ il tempo dell’umiltà, della discesa nelle radici. Il tempo dell’ascolto, dell’ascolto che si trasforma in dialogo. E’ il tempo dell’accoglimento e della riconoscenza. E’ il tempo del seme che diventa germoglio e del germoglio che diventa pianta. E’ il tempo della pianta che trasforma l’energia della crescita nell’inutile bellezza del fiore e che, un istante prima di appassire e lasciar cadere i semi, si accorge con stupore che ciò che fino a quell’istante aveva chiamato Luce, in realtà era Amore.”

© Susanna Tamaro 2000 Susanna Tamaro, Ogni parola è un seme © 2013/2015 Bompiani - RCS Libri S.p.A.


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IL TEMPO CAMBIA MOLTE COSE NELLA VITA Sulla maniera nella quale il tempo atmosferico influenza le arti performative.


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Per un inverno del nostro scontento Le stagioni a teatro di Riccardo Ventrella

Sopra: William Shakespeare La Tempesta

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he a definire lo scontento fosse designato l’inverno non ci voleva, forse, tutto il genio di William Shakespeare per immaginarlo, come a pensare che sotto il sole di York splendesse una gloriosa estate. Il tempo metereologico a teatro corre rigidamente parallelo agli umori dell’azione: il Giardino dei ciliegi inizia di primavera, si inoltra mosso nell’estate e poi via via, fino alla rovina. E quando Lopachin dovrebbe dichiararsi a Varja, si perde nei discorsi sul tempo e poi esce in tutta fretta, chiamato da uno dei lavoratori impegnati a preparare la partenza della famiglia dalla proprietà: e tutto scorre inesorabile fino alla fine, lentamente trasportato dal suono meccanico delle stagioni. Questo sentimento del passaggio Cechov lo conferma anche in una poesia di icastica tristezza: il tempo dapprincipio fu bello/calmo, ma poi nel bosco si fece buio/e soffiò da oriente/un vento freddo e penetrante: e allora si sentì l’odore dell’inverno. L’estate è il tempo dell’agitazione e del rumore anche per Goldoni, che vi raffigura i propri signori intenti a far penetrare la loro ambizione nelle foreste, come


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recita l’inizio della Trilogia della Villeggiatura, mentre “i villeggianti portano seco loro in campagna la pompa ed il tumulto delle Città, ed hanno avvelenato il piacere dei villici e dei pastori”. C’è quasi sempre brutto tempo su Elsinore, e notte e nebbia dominano la vicenda del Principe Amleto; mentre è dedicato al tempo che passa più che a quello atmosferico il Racconto d’inverno, sempre di William Shakespeare, in allusione ai racconti che si fanno davanti al fuoco quando la stagione fuori è brutta. In sulla mezza estate invece si sogna, si va per boschi, si inscenano commedie e si combinano pasticci, in nome degli scambi tra coppie con successive ricomposizioni. Perché l’estate, già lo dicemmo, è il tempo dell’agitazione e anche quello del paganesimo. E l’autunno del Bardo ? Quella stagione in me tu puoi vedere quando foglie ingiallite, nessuna, o poche, pendono/appese ai rami tremanti contro il freddo/ spogli cori in rovina dove dolci cantavano gli uccelli, dice nel sonetto 73: questo tu percepisci che rafforza il tuo amore/per meglio amare ciò che presto dovrai abbandonare, è la conclusione dolceamara di Shakespeare. E non è scaldato e gelato anche lui dall’estate e dall’inverno come un cristiano, si chiede Shylock riferendosi “Il tempo metereologico a alla propria condizione di ebreo.

teatro corre rigidamente parallelo agli umori dell’azione: il Giardino dei ciliegi inizia di primavera,si inoltra mosso nell’estate e poi via via, fino alla rovina”

Aleggia un caldo sapore d’estate, invece, in molti romanzi e drammi della letteratura americana del Novecento, che hanno sempre ambientazioni bucoliche, mentre la città è il regno del freddo e del maltempo. Talora l’incedere delle stagioni è il marchio del peccato, come in Improvvisamente l’estate scorsa: che nell’originale americano guadagna una virgola tra improvvisamente e estate a separare il modo dal tempo, e a definire per questi due elementi un ruolo preciso. Lo spazio della colpa sta là, en plein soleil, in una dimensione segnata dal passato e dalla rimozione.

E poi, anche se non c’entra molto col teatro, c’è una notte d’inverno e un viaggiatore, magari come quelli descritti da Pirandello nell’Uomo dal fiore in bocca. C’è una notte d’inverno, un viaggiatore e un libro che non vuole farsi leggere perché c’è un errore d’impaginazione che costringe chi lo vuole leggere a ripetere sempre le stesse pagine. E che poi trasporta il potenziale lettore nei pressi di un osservatorio metereologico scarno, con pochi strumenti che rilevano solo determinati dati. E c’è quel senso di eterna sospensione che solo la parola “inverno” riesce a dare: Se una notte d’inverno un viaggiatore, fuori dell’abitato di Malbork, sporgendosi dalla costa scoscesa senza temere il vento e la vertigine, guarda in basso dove l’ombra s’addensa in una rete di linee che s’allacciano, in una rete di linee che s’intersecano sul tappeto di foglie illuminato dalla luna intorno a una fossa vuota – Quale storia attende laggiù la fine ?


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Il servitore di un solo padrone I minuti e i giorni di un Direttore di scena di Matteo Brighenti

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’è un tempo, prima e dopo il tempo dello spettacolo, che è un gioco di equilibri in corsa. L’apertura del sipario è misura del lavoro di macchinisti, elettricisti, fonici, attrezzisti e sarte, lancette di un grande e perfetto meccanismo a orologeria che ha nel direttore di scena la molla motrice e il timer, l’origine e la cadenza, il passo e il rispetto della direzione, che comincia e finisce con un palcoscenico. “Ho l’orologio, certo, io controllo il tempo fisico”, afferma Giancarlo Centola. Il padre è stato nei trasporti teatrali e anche Centola comincia così, facendo il facchino, ma è mettendo piede in palcoscenico da macchinista, addetto al montaggio e allo smontaggio della scenografia, che capisce che il teatro è il suo lavoro e la sua vita. Direttore di scena lo diventa con gli anni, su cinquanta di età ne ha compiuti quasi venti con il Teatro dell’Elfo di Milano. “Mi occupo di gestire tutta la parte tecnica di un allestimento in tournée – prosegue – redigo l’ordine del giorno, stabilisco orari e turni di lavoro, sovrintendo insomma a tutte le questioni non artistiche e che non competono l’amministrazione.”

Una sorta di regista della giornata lavorativa che per dare tempi al tempo deve prima esserne stato un ingranaggio. “Direi che mi avvicino di più a un maggiordomo di scena – interviene – un gestore dello spazio di casa che controlla che tutto sia pronto e funzioni.” Il servitore di un solo padrone, lo spettacolo: il direttore di scena è la massima autorità “L’apertura del sipario è misura del di una compagnia, arriva a decidere lavoro di macchinisti, elettricisti, anche sull’adattamento stesso di una piéce (per esempio, in caso di un fonici, attrezzisti e sarte, lancette di palcoscenico troppo piccolo per ospitare un grande e perfetto meccanismo tutta la scenografia, sceglie quali elementi utilizzare e quali scartare). In a orologeria che ha nel direttore di caso di replica unica, di debutto secco su scena la molla motrice e il timer” piazza, le ore di lavoro possono essere anche 16 o 17. Niente può succedere ‘improvvisamente’, come nel titolo e nello spettacolo Improvvisamente, l’estate scorsa di Tennessee Williams, che l’Elfo presenta in stagione alla Pergola, regia di Elio De Capitani. Anzi, l’imprevisto deve essere gestito, controllato, arginato il più scientificamente possibile.


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“Convoco gli attori due ore prima dello spettacolo così hanno tutto il tempo di prendere familiarità con il nuovo spazio – continua Centola – do la mezz’ora 35 minuti prima, il quarto d’ora 25 minuti prima. I 5 minuti, invece, sono reali e li comunico non appena ricevo il via libera dal direttore del teatro che il pubblico è in sala. Chi è di scena, quindi, va a prendere posizione sul palco.” Le comunicazioni sono un telefono senza fili in cui la voce è sempre la sua. “I teatri hanno un sistema di interfono centralizzato per arrivare contemporaneamente in tutti i camerini – precisa – di solito, però, alla mezz’ora mi piace passare personalmente camerino per camerino, a cominciare da quello del primo attore.” Ognuno ha un approccio diverso all’alzarsi del sipario, l’esperienza, certo, aiuta ad IMMAGINE DALILA CHESSA

alleggerire la tensione, ma anche dopo anni resta quell’apprensione curiosa di vedere cosa ne sarà del proprio lavoro: il teatro nasce nel momento esatto in cui si incontra (con) un pubblico, prima è solo prove e speranza. “Ci sono direttori di scena che seguono il copione battuta per battuta – spiega – e chiamano gli attori 2 minuti prima della loro scena per prepararli a entrare. Fondamentalmente io mi fido della compagnia con cui lavoro, ma sto attento lo stesso, qualcosa può sempre succedere.” Perché la corsa sfrenata del tempo la puoi misurare, ma non la puoi prevedere. Nemmeno se sei un direttore di scena.


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L’unione fa teatro La Gioventù nel fango di Genova e della Pergola

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lluvione è un ossimoro, è cielo e terra insieme, è acqua che non porta la vita, ma la distruzione. Non esistono ripari, zone franche, si prende la scena fin dove arriva la sua furia e il suo teatro il 4 novembre ’66 fu la Pergola, nella notte tra il 9 e il 10 ottobre 2014 è stato il Teatro della Gioventù di Genova. “Un blackout e siamo rimasti al buio – ricorda Eleonora d’Urso – l’acqua è entrata al piano terra, nel foyer, con una forza e una potenza incredibile, in 45 minuti ha raggiunto quasi 1 metro e 20 di altezza. Eravamo in scena al piano di sopra, che non è stato raggiunto dall’acqua: ho fatto evacuare il pubblico, circa 200 spettatori, vestita da signora Clackett di Rumori fuori scena di Michael Frayn.”

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

Lo spazio artistico di via Cesarea è un’avventura iniziata nel gennaio 2012, unico teatro privato italiano di sola produzione, repertorio soprattutto comico, casa della The Kitchen Company, compagnia teatrale composta da giovani attori, organizzatori e tecnici, quasi tutti under 30, guidati da Eleonora d’Urso e Massimo Chiesa, che codirigono anche il Teatro della Gioventù. “C’era l’archivio di Chiesa là sotto, venticinque anni da produttore teatrale – prosegue d’Urso – dipinti di Luzzati, foto e oggetti di scena di spettacoli di Dario Fo, Paolo Villaggio, Enrico Montesano: l’acqua si è mangiata tanto, proprio sotto i nostri occhi, è un’immagine che non eliminerò mai dalla memoria.”


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Una guerra combattuta dallo “spettro di un gigante” fu l’alluvione alla Pergola. “Fra le colonne del foyer c’era una piccola laguna – racconta Paolo Emilio Poesio, critico de “la Nazione” – e il pavimento dell’atrio era sventrato: i locali a terreno parevano essere stati sconvolti da una mano mostruosa e feroce.” La tragedia non era più solo in palcoscenico, era scesa in sala, tra i palchi, per strada. Veniva spazzata via ogni distinzione tra attore e personaggio e, parallelamente, tra spettatore e attore: un cortocircuito che avvicinò scena e platea in un unico dramma. “Un dramma, questa nostra alluvione, che ha anche risvolti positivi – precisa d’Urso – abbiamo recuperato in modo prodigioso 1800 copioni stando dieci giorni ad asciugarli con il phon e a “Il fango ha portato via cose di valore, stirarli, ragazzi ma anche i dubbi che avevamo sulla necessità di ventidue anni hanno sradicato del nostro progetto culturale” a mani nude il parquet con il sorriso sulle labbra, dicendo: questo luogo è mio e lo voglio salvare. Il disastro ha fatto capire ai giovani quanto le parole ‘teatro’ e ‘attore’ siano profonde.” Un’alluvione è fonte di nuovi equilibri, un altro ossimoro, come peraltro un pubblico formato da spettatori attivi. “I nostri abbonati ci hanno aiutato a spalare il fango – continua – un’esperienza di solidarietà che non avevo mai vissuto prima. Il fango ha portato via cose di valore, ma anche i dubbi che avevamo sulla necessità del nostro progetto culturale: i genovesi vogliono che esistiamo.” È nel momento della perdita che capisci quanto è importante ciò che hai perso, come con le persone care. “Allora, come mai forse prima, – scrive Poesio – conoscemmo di quale amore fisico amavamo la Pergola. Per mesi e mesi dentro il teatro si aggirarono insoliti registi e aiutoregisti, gli architetti e i capimastri: e insoliti attori, gli operai instancabili.” Il teatro è “Il teatro è molto più di uno spettacolo molto più di uno di esseri umani che cercano di portare indietro spettacolo di esseri umani che dei fantasmi, è esso stesso un essere vivente” cercano di portare indietro dei fantasmi, è esso stesso un essere vivente. “C’è una moltitudine di persone che sta tenendo in vita il Teatro della Gioventù – conclude d’Urso – e farà di tutto per riportarlo al suo splendore, nonostante le difficoltà infinite, i danni economici giganteschi, la burocrazia e la politica. Il nostro è un teatro del popolo e per il popolo.” Che il sipario sia tornato ad alzarsi anche in via Cesarea è quindi “un segno di fortezza”, come disse Primo Levi a proposito della riapertura della Pergola, “di quel virile e non retorico amore per il proprio Paese che in Italia è così raro”. M.B.


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E ritorna il sereno Meteo e stagioni nella musica leggera italiana

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na delle tre canzoni italiane più conosciute e vendute nel mondo è, non senza una ragione, Estate di Bruno Martino. Non senza una ragione perché elementi meteorologici e fluire delle stagioni sono tra i topoi più praticati dalla musica leggera italiana (e dalla musica popolare in generale, verrebbe da dire). Estate più di altri brani consimili ribalta il cliché che vede la bella stagione come un momento di felicità, evocando i postumi di un amore finito e auspicando l’arrivo dell’inverno (per quello della primavera occorrerà attendere anni dopo Cocciante e poi ancora Marina Rei). Malinconica dunque come il suo autore, il già citato Bruno Martino, crooner di levatura internazionale troppo presto dimenticato dai crudeli meccanismi della musica leggera. Odio l’estate, che fa il paio con la coperta è gelata/e l’estate è finita di degregoriana memoria, o l’estate sta finendo dei mitici Righeira. Un vagheggiamento simile a quello memorabile di Gino Paoli, che nel tempo e nei giorni che passano pigri rimane da solo nella sabbia e nel sole, icastica memoria del trascorrere della gioventù. Poi verrà l’autunno, cantava Mina, non senza che sia passato il settembre di vendittiana memoria (Settembre poi ci prenderà/ coi suoi venti di pioggia vincerà); o che fretta c’era, maledetta primavera, come sentenziava Loretta Goggi compulsando il tomo dell’amore che non può essere arrestato.

Oltre all’estate, ha uno straordinario successo tra i parolieri la pioggia, forse perché come asseriva Woody Allen lava via le memorie dai marciapiedi della vita. In realtà son proprio le precipitazioni acquose che ci permettono di ricordare Michele Testa, in arte Armando Gill, partenopeo di nascita, locato nella fama all’inizio del Novecento e una“Elementi metereologici e il fruire delle stagioni nimemente consono tra i topoi più praticati della musica leggera siderato il primo cantautore italiaitaliana. Estate più di altri ribalta il cliché che vede no tanto da prela bella stagione come un momento di felicità” sentare le proprie esibizioni come “versi di Armando, musica di Gill, cantati da sé medesimo”. Sua è la mitica Come pioveva del 1918, una pietra miliare per quotidianità di linguaggio, anche influenzato da certe liriche di Gozzano nei toni, e vivacità di racconto in presa diretta, spanne sopra alle canzonette di allora: Come stai ?” le chiesi a un tratto/Bene, grazie, - disse - e tu ?/Non c’è male e poi, distratto: Guarda che acqua viene giù!. Piove piove sul nostro amor, dunque, come ebbe a ripetere Mimmo Modugno spronato dai mille violini suonati dal vento; e ritorna il sereno, rispondono i Rokes scrutando l’inquieta situazione sociale della


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seconda metà dei Sessanta. Il povero Gianni Morandi di notte sta nella strada al freddo a rimuginare su un amore che non va mentre scende la pioggia; potrebbe forse incontrarsi con Al Bano, sempre in una notte con le ore più lunghe che non passano mai, ma il cantante pugliese andrebbe in una direzione opposta, ovvero nel sole. Oggi giorno di pioggia, sentenzia De Gregori convinto anche che pioggia e sole cambiano la faccia alle persone, per tacere del mitico Cesare perduto nella pioggia di Alice. E poi c’è l’inverno, quello freddissimo di De Andrè (Sale la nebbia sui prati bianchi/ come un cipresso nei camposanti) che alla cattiva stagione assegna anche il ruolo di momento migliore per passare all’altro mondo - chiedere al povero Piero - o quello più romantico di Ruggeri nel Mare d’inverno o in quella straordinaria falsa rima che è quando ci sorprenderà l’inverno/non sarò più portiere in questo albergo. Battisti ha molta familiarità con i nembi (Io e te vento nel vento/io e te nodo nell’anima) e coscienza del fatto che quando si alza il vento dove si va non lo si sa. Ma che freddo fa, si chiede Nada mentre il suo sodale di gioventù Ron cammina sotto le nuvole (alza la testa e guarda quante nuvole sono in volo/non l’abbassare, puoi volare insieme a loro). C’è nell’aria qualcosa di freddo che inverno non è: lo sentiva Sergio Endrigo in Lontano dagli occhi, o nella bellissima Aria di neve

Ora, è d’uopo che si termini col sole: o sole mio, all’ombra dell’ultimo sole, e c’era il sole e avevi gli occhi belli, sole spento, lo vedi il treno che portava al sole, quando calienta el sol, il sole esiste per tutti, il sole è uno straniero, le buone trecce e gli occhi azzurri e poi, come il sole all’improvviso, nel sole nel vento nel sorriso e nel pianto, piove e c’è il sole, Sara nel sole, alle porte del sole, benvenuto raggio di sole. Per rammentarsi che anche quando piove da qualche parte è sereno : oggi è un giorno di sole. R.V.

Sotto: Bruno Martino


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Fabi Silvestri Gazzè I PADRONI DELLA FESTA Come è nata la collaborazione per questo vostro album Il padrone della festa, scritto e prodotto da voi tre? Silvestri: In realtà è un’idea che ci portiamo praticamente nel DNA. Abbiamo iniziato questo mestiere insieme, all’inizio come un gioco. Stavamo insieme proprio fisicamente, frequentando gli stessi luoghi e vivendo una vicinanza reale, sotto tanti punti di vista: per età,

FOTO MARCO BORRELLI

luoghi geografici, aspirazioni, ambizioni, gusti. Questa intesa ci ha portato negli anni a incontrarci più volte: ci siamo ritrovati spesso a collaborare, anche se in maniera sporadica e mai tutti e tre in-

sieme fino ad oggi. Con l’album Il padrone della festa abbiamo pensato di unirci in un progetto musicale vero e importante, sotto il profilo dell’impegno. Abbiamo aspettato del tempo per provarci, probabilmente perché avevamo bisogno di sentirci prima sufficientemente maturi, forti e sicuri, senza aver paura di confrontarci l’uno con l’altro, di mischiarci. Abbiamo lavorato insieme gomito a gomito per quasi un anno intero, per arrivare a raccontare le nostre storie.

La vostra collaborazione è stata paragonata a quella fra De André e De Gregori; come vivete questo genere di attenzione e aspettativa? Fabi: Credo che sia naturale volere mettere sempre ogni cosa in relazione a qualcos’altro, forse perché così riusciamo a capirla meglio: ci tranquillizza il fatto che non si tratti di una novità. In realtà il punto in comune di ogni collaborazione è la voglia di migliorare. In genere il cantautore tende a mettere sempre se stesso sotto la lente di ingrandimento, anche perché cerca di andare a fondo nei sentimenti e di scoprire certi aspetti intimi che altri magari non hanno il coraggio di raccontare. Il rischio può essere quello di un egoriferimento continuo, invece collaborare è sinonimo di umiltà, voglia di imparare e progredire. L’avevano già fatto De André e De Gregori, Dalla, Tozzi e Morandi, che sono in verità i nostri riferimenti. Il principio


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della collaborazione è un valore antico.

All’interno dell’album ci sono dei richiami alle sonorità delle vostre canzoni passate? Gazzè: Abbiamo scritto tante canzoni, durante un tempo lunghissimo. Alla fine il disco è un scelta, un risultato parziale di tutte queste idee. Credo che sia naturale arrivare a mescolare i suoni e arrangiarli. Anche se il modo di dire una cosa o di suonare lo strumento fa parte della nostra individualità. Silvestri: In realtà forse siamo stati affascinati dal meccanismo opposto, dal fatto che ognuno di noi imparasse una cosa diversa nel confronto con l’altro. Ogni volta ci siamo dovuti adattare ad un diverso modo di porgere una strofa, di passare da un accordo all’altro con nuove intenzioni, accostandosi agli altri… Per persone come noi, che fanno lo stesso mestiere da vent’anni e che sono abituate alle proprie sicurezze, non è stato un procedimento semplice. È anche il motivo per cui ci abbiamo messo tanto a ideare questo album: il nostro è stato un lento processo di crescita.

tori che come uomini e amici. E cittadini di questo pianeta.

“Il principio della collaborazione è un valore antico”

Parafrasando il titolo dell’album, chi è “il padrone della festa”? Silvestri/Fabi: Il padrone della festa è il pianeta. La canzone che porta questo titolo dice una frase precisa: “il sasso su cui poggia il nostro culo è il padrone della festa”… È un modo per sottolineare che siamo tutti ospiti in questo luogo, in cui è meraviglioso festeggiare e vivere. L’importante è ricordarsi che il mondo non è nostro, che va consegnato ad altri ospiti futuri, così di generazione in generazione. Questo è il modo con cui, più in generale, abbiamo interpretato il disco, il concetto che serpeggia tra le varie canzoni. Dal confronto tra di noi abbiamo cercato di diventare più piccoli, sia come cantau-

FOTO MARCO BORRELLI

Spigolo tondo: è il titolo di una delle vostre canzoni. Una cosa impossibile da realizzare. Silvestri: È vero, non si trovano spigoli tondi in natura. Ma è bello cercarli.


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Pensare che ogni giorno si possa far diventare tonda una cosa che invece è quadrata, e viceversa. La storia dell’arte, la letteratura, si fondano su questa ricerca continua dell’impossibile e ci insegnano che, grazie all’immaginazione, si ottiene bellezza. E questo accade oltre l’arte, anche nella vita di tutti i giorni.

“Nei secoli l’arte ha sempre tentato di spiegare l’inspiegabile: ecco perché ci sono le canzoni d’amore, proprio perché è impossibile confutare l’esistenza dell’amore”

FOTO MARCO BORRELLI

“L’amore non esiste”: recita una vostra canzone. Fabi: Le canzoni non cercano mai di arrivare a delle conclusioni, di mettere una parola definitiva o di esaurire una questione. Anzi: è il contrario. Le canzoni pungolano la nostra curiosità e affrontano i temi in maniera provocatoria, proprio per solleticare il ragionamento. Non volevamo affermare né l’esistenza né l’assenza dell’amore: l’obiettivo era di arrivare a dibatterne. Siamo tutti sem-

pre alle prese con quest’argomento; le canzoni ci aiutano semplicemente a vedere un aspetto in più, un accento nuovo, delle dinamiche amorose. Assolutamente non avevamo l’intenzione di mettere un punto alla questione: è scientificamente impossibile rispondere a questo tipo di domanda. Nei secoli l’arte ha sempre tentato di spiegare l’inspiegabile: ecco perché ci sono le canzoni d’amore, proprio perché è impossibile confutare l’esistenza dell’amore… Silvestri: Il significato di questa canzone sta nell’intuizione, avuta da Niccolò Fabi, di accostare la frase “L’amore non esiste” con le parole “ma esistiamo io e te”. Il senso più profondo si riassume tutto in questa scissione. Gazzè: L’amore è qualcosa che va oltre ogni tipo di definizione e collocazione, al di là di ogni nostra esperienza o cultura. Pensiamo, per esempio, all’energia primordiale che fa nascere la pianta dal terreno: è un tipo di amore, che appartiene alla natura. L’amore esiste? È una di quelle domande a cui non si può dare una risposta. Possiamo soltanto cercare di indagare insieme l’amore: i poeti ne hanno scritto, gli artisti hanno tentato di esprimere la condizione amorosa attraverso meravigliose opere d’arte… L’amore cambia con il tempo. E del resto, secondo me, il tempo non esiste. Il tempo è il luogo in cui avviene il cambiamento: non è il tempo in sé a modificarsi, piuttosto sono le cose che si trasformano nel tempo.


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La parola al pubblico ..Qui e Ora.. La Vita accade il Tempo, Suo alleato, cammina accanto a Lei: Silenziosa Rumorosa Pungente Fresca Colorata Triste Ombrosa.. Lui inesorabile corre via.. non si cura di velocità o lentezza e così.. Tutto passa Tutto si trasforma Presente Passato Futuro Tutto in un unico istante Perfetto Irripetibile Inafferrabile ..e nel Respiro Lo sento scorrere in Me Maestro di Vita Maestro d’Amore

di Alice Nidito

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Dai camerini della Pergola

Lo spazio dell’attore

I

l camerino: un luogo di passaggio, carico di memoria, dove gli attori si trasformano e rincorrono la concentrazione. Dal tempo della realtà al tempo della rappresentazione. C’è chi fa gli esercizi di preparazione o pratica lo yoga, chi si impegna in preghiere buddiste o sistema gli amuleti, chi controlla i propri piccoli oggetti-ricordo appuntando le matite del trucco, chi beve il tè, chi si guarda allo specchio e si rasserena inseguendo il silenzio.

Un pensiero a chi non c’è più, a persone care lontane: attimi per meditare, per cercare protezione, dove si sentono gli echi del passato, di chi è già stato prima in teatro. Il camerino quindi come una sorta di ‘cuccia’; sicuramente, secondo Strehler, luogo di “grande appuntamento”, vissuto come un laboratorio che fa accedere a qualcosa di diverso, dove l’attore esce dalla vita di tutti i giorni per entrare in una dinamica che è pur sempre vita, ma una vita raccontata. IMMAGINE CLARA BIANUCCI


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La Storia racconta...

Nel camerino entra una persona ed esce un re

“N

di Adela Gjata

el camerino teatrale entra una persona ed esce un re” diceva Bertolt Brecht sintetizzando magistralmente il processo di trasposizione dei ruoli che fa scattare la magia del teatro. La trasformazione dell’attore in personaggio, questa sorta di mutazione ontologica della persona, inizia nell’hinterland del fuori scena chiamato camerino per compiersi definitivamente nell’incontro con il pubblico. È in quel retroterra solitario e un po’ misterioso che in concentrata solitudine si diventa Shylock o Lear, Mirandolina e Ilse, a prescindere da metodi o sistemi recitativi; ed è là dove l’interprete trova la forza necessaria per compiere il piccolo ma immane passo che separa le quinte dal palcoscenico. L’idea oggi diffusa di camerino coincide con l’immagine consegnataci dal teatro borghese: una sorta di salotto personale dell’attore i cui elementi ricorrenti sono lo specchio illuminato da una fila di lampadine e il banco del trucco – scrigno delle meraviglie – dove tra ceroni, ciprie, pennelli e qualche oggetto scaramantico l’attore assume un’identità fittizia, una nuova maschera (persona, in latino). Il camerino è innanzitutto il tempio di costruzione dell’immagine quindi, della trasformazione della personalità. Ma oggi è anche la sede della celebrazione dell’attore dove trattenersi alla fine della rappresentazione per scambiare osservazioni e doni.

Tale immagine del camerino che perdura e si consolida nel corso del XX secolo è molto lontana dalla realtà di tanta pratica teatrale dei secoli precedenti. Ancora nel Sette e Ottocento gli attori delle compagnie girovaghe preparavano la parte in fienili e baracche malmesse, rifugi temporanei dove la ricerca di concentrazione e ispirazione doveva fare i conti con il rumore di sottofondo dei membri della compagnia affaccendati in attività pratiche di vario genere.

Sopra: Eleonora Duse durante le prove di Rosmersholm di Ibsen a Firenze nel 1905, È solo nell’epoca del Grande Attore – quando ancora si dedicava scarsa Ciro Galvani attenzione alle prove collettive – che il camerino viene vissuto pienamente e

reso oggetto ricorrente dell’immaginario teatrale. La figura dell’attore che prova


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la sua parte privatamente è tipica dell’iconografia teatrale sette e ottocentesca. La satira pungente dei disegnatori prende di mira in particolare l’enfasi declamatoria e l’eccentricità dei divi del tempo, immersi in una dimensione fantastica estranea alla realtà quotidiana. Una corrosiva parodia del mito romantico dell’attore ispirato è un’incisione del 1825 di Theodore Lane, dove un attore che sta provando la sua parte a letto è talmente trasportato dall’irruenza del sentimento da non accorgersi che la stanza sta andando a fuoco. Nell’Ottocento – il secolo del “menteur et comédien” secondo Stendhal – si diffonde l’immagine idealizzata dell’attore che s’immedesima totalmente nel personaggio. Il camerino diventa uno spazio-tempo dove il grande attore, dio proteiforme capace di generare miti e fantasmi, ricrea se stesso e la propria persona. Tommaso Salvini vi faceva “la toilette dell’anima” per dirla con le parole di Stanislavskij, che così definiva la pratica del suo prediletto interprete di passare ore intere nel camerino prima di calcare la scena. Per Eleonora Duse invece il camerino divenne un elemento di costruzione della fama e immagine pubblica, una sorta di mitopoiesi della propria divinità. Per la rappresentazione di Rosmersholm al Teatro della Pergola l’attrice volle costruire un camerino vicinissimo al palcoscenico per non perdere il contatto con la scena, spaziale e temporale, e conservare intatto il sofferto conflitto interiore con cui caratterizzò l’interpretazione del personaggio di Rebecca West. Era il 5 dicembre 1906. La messa in scena di Rosmersholm è un fiore all’occhiello della Sopra: storia del teatro non solo per la straordinaria collaborazione di tre geni dell’arte The Flaming Actor, teatrale – le scene del capolavoro di Ibsen furono curate da un giovane e anticonTheodore Lane formista Edward Gordon Craig –, ma anche per una serie di aneddoti affioratogli 1825 attorno che rivestirono l’episodio di un’aura quasi mitica. Si narra che la Duse raggiungesse il palco della Pergola dal camerino per mezzo di un tunnel di tulle in modo da fuggire a occhi indiscreti e apparire sulle scene travolgente e solenne nel suo abito bianco, “come una profetessa che annunciasse grandi avvenimenti”. Il camerino della Duse o il ‘Primo camerino’ del Teatro della Pergola è ancora lì e ospita i più grandi attori, ballerini, musicisti e artisti del secolo nuovo. Una targa ricorda la genesi di questo luogo speciale, dove il passato si raccorda con il futuro.


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I mestieri del cinema il Regista della fuga

Gabriele Salvatores

ORIZZONTALE, VERTICALE Prima di diventare regista di cinema, Lei ha iniziato facendo teatro e fondando il Teatro dell’Elfo. Il suo primo film, Sogno di una notte di mezza estate, è un film-teatro. Una delle caratteristiche del Teatro dell’Elfo di allora era una sorta di crossmedialità, nel senso che incrociavamo generi diversi: la musica era la nostra passione, così come il teatro e il cinema. Abbiamo deciso così di fare

“Il Teatro dell’Elfo prima, così come il gruppo di attori che dal teatro ha continuato a lavorare con me anche nel cinema, costituisce una vera e propria piccola tribù” Sogno di una notte di mezza estate in forma musicale, dove gli elfi e gli spiriti della notte erano veramente dei punk. Eravamo nel ’77, nel pieno del movimento punk, l’ultima vera rivoluzione culturale. È passato del tempo, forse è il caso di farne una nuova e credo che la rete, in questo senso, prometta bene. Sogno di una notte di mezza estate ebbe un grande successo: tre anni di repliche, che mi hanno permesso di realizzare in seguito il mio primo film.

Quali sono i ricordi legati al primo film? Abbiamo girato sempre di notte e mi ricordo la prima sera una grande emozione. Non padroneggiavo per niente il mezzo cinematografico e quando sono arrivato ho visto le comparse, i camion, le gru alte con le luci, i truccatori: tutta un’altra dimensione rispetto al teatro; sinceramente il primo impulso è stato quello di correre via dal set per chiudermi nel camper destinato al regista!

Gli artisti con cui collaborava a quel tempo, un gruppo che era quasi una famiglia, sono diventati tutti attori conosciuti e di grande peso. Oggi riunire insieme in un unico progetto quel gruppo di attori sarebbe complesso e costerebbe molto: Claudio Bisio, Paolo Rossi, Silvio Orlando, Renato Sarti, tutti nomi allora sconosciuti che provenivano dalle varie tournée teatrali. L’aspetto del gruppo è stato importante, lo è tutt’ora: io non ho costruito una famiglia mia, però ho un gruppo di amici molto forte che sostituisce bene questa dimensione famigliare. Il Teatro dell’Elfo prima, così come il gruppo di attori che dal teatro ha continuato a lavorare con me anche nel cinema, costituisce una vera e propria piccola tribù. Ricordo, per esempio, una delle nostre prime tournée nel Sud Italia: capitammo in un paesino della Basilicata con un camioncino di quelli telati per le scenografie, i capelli lunghi e gli occhiali neri, tutti mezzi addormentati perché avevamo fatto


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tardi la sera prima in teatro. Sembrava una scena western: la gente si sporgeva dalle finestre, ci guardava e poi richiudeva subito le persiane. Sarebbe bello raccontare quegli anni in un film attraverso la storia di una compagnia teatrale. Ci vuole pazienza, ma è un progetto che davvero mi piacerebbe fare. FOTO FILIPPO MANZINI

tanto all’interno della compagnia, ma si legava anche al teatro di quartiere di allora: molte volte discutevamo il copione con gli abitanti del quartiere, facendo crescere insieme lo spettacolo. Il coinvolgimento era forte e questo aspetto un po’ mi è rimasto: oggi con la rete ci si può confrontare e chiedere il contributo degli altri, avendo la possibilità di far crescere un progetto cinematografico per aprirlo alla discussione con il pubblico. È l’applicazione moderna di quei contatti di quartiere di molti anni fa.

I suoi film Marrakesch Express, Turné e Mediterraneo, con cui ha vinto l’Oscar – compongono la cosiddetta “trilogia della fuga”…

I testi dei vostri spettacoli erano collettivi? Sui manifesti c’era scritto creazione collettiva e i nomi di tutti in ordine alfabetico. In un secondo momento abbiamo accettato che potessero anche esserci dei ruoli e delle responsabilità diverse. Il testo era collettivo non sol-

Non è la fuga intesa come evasione dalla realtà. Le istanze sono sempre quelle del Sogno di una notte di mezza estate: da Milano i protagonisti partono e vanno in un deserto, nel caso di Marrakesch Express, oppure in un’isola nel film Mediterraneo. Viaggiano in un mondo sconosciuto da cui vengono, in qualche modo, stravolti, e poi tornano indietro alla loro vita normale. Anche in Shakespeare i personaggi si perdono spesso in un’isola, un bosco o una landa deserta: si ritrovano a fare i conti con loro stessi, in una dimensione parallela. Quando le utopie, i sogni e le energie della gioventù svaniscono si cerca un altrove, un’altra linea dell’orizzonte in cui stare. Nei fumetti di Corto Maltese il mare è una linea di china su una pagina bianca: il desiderio è di andare a vedere cosa c’è dietro a quella linea, che è la stessa smania dei personaggi di quei film.

Con il progetto Italy in a day lo stesso tempo – la giornata del 26 ottobre 2013 – viene filmato da


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più persone. Queste immagini sono riuscite a raccontare il nostro Paese? Sono molto contento di questo esperimento, una bellissima idea presa da Ridley Scott che noi abbiamo fatto nostra. Abbiamo chiesto agli italiani di filmare in quel giorno particolare, il 26 ottobre, dei momenti che riguardassero le loro esistenze: qualcosa di importante che era successo oppure cosa amavano, quello di cui avevano paura… I filmati sono stati caricati su Internet, così abbiamo montato questi pezzi di vita in un unico grande film e, al di là del risultato, trovo che sia stata un’operazione davvero interessante. Una volta, per descrivere la cultura, se ne parlava come di un “pozzo di saggezza”, quindi la sua dimensione era verticale. Adesso la conoscenza proviene dalla rete che per definizione è orizzontale. La realtà virtuale dà la possibilità di sviluppare i limiti ed andare oltre: è la nuova cultura partecipativa nata su Internet, una potente cultura di condivisione. Allora la forza verticale si mette in contatto con quella orizzontale e addirittura questo sguardo, se organizzato, può diventare un modo di fare cinema.

Nel cinema è spesso difficile stabilire un limite tra l’immagine documentaristica e le esigenze della narrazione cinematografica; in questo senso Italy in a day è un documentario? Abbiamo avuto molto rispetto per tutti i video che abbiamo ricevuto, davvero tanti. Eliminando le autoreferenzialità abbiamo scelto dei temi legati alle ore del giorno che passavano e ai sentimenti: l’amore, la morte, il futuro. In questo senso abbiamo rispettato le proporzioni: se su 45.000

video ce n’erano 10.000 che raffiguravano, per esempio, dei cani, almeno il video di un cane l’abbiamo mantenuto. Italy in a day non è solo un documentario, proprio per le scelte che siamo stati costretti a fare.

Quali sono le differenze nel lavoro registico tra teatro e cinema? La differenza sulla regia è enorme. Fino ai primi del Novecento il teatro si è fatto senza regia, senza testi e costumi: mai senza attori. Il teatro è la casa dell’attore. In uno spettacolo dal vivo percepisci gli spettatori vicino a te, vedi la luce in sala: capisci che si tratta di finzione e l’accetti. È il bello del teatro: con la tua immaginazione un fazzoletto, per esempio, può diventare il mare… Il cinema è la casa del regista

“Quando le utopie, i sogni e le energie della gioventù svaniscono si cerca un altrove, un’altra linea dell’orizzonte in cui stare” che ha una responsabilità morale: è lui a scegliere per il pubblico l’inquadratura, soffermandosi sui particolari che vuole raccontare. Se dovessi paragonare il teatro e il cinema all’amore, direi che il teatro è un matrimonio che va rinnovato sera per sera, mentre il cinema forse è più una passione che devi bruciarti in quel momento lì, in quell’ora, non più ripetibile.

Da dove partono le idee per i suoi progetti? Quando stai in una compagnia come il Teatro dell’Elfo, nata dalla volontà di un gruppo di amici che si incontravano in una cantina, i soggetti e le idee nascono in una dimensione di condivisione. Quando


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fai cinema sei più solo e come regista non sempre l’ispirazione viene a te: a volte sono le storie che ti vengono a

“Quello che ci ha contraddistinto è l’incessante esperienza laboratoriale frutto del nostro lavoro collettivo”

realtà”, e io sono d’accordo con lui. Nei miei film la cosiddetta “fuga” non significa rifiuto delle responsabilità, piuttosto la fuga è verso la libertà ed avviene con lo spostamento in una dimensione diversa. Credo che le dimensioni parallele coesistano, infatti la fantascienza mi è sempre piaciuta. Ognuno di noi ha la sua anima e io, in particolare, ho paura della quotidianità, sono più portato

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

cercare, anche rispetto al momento sociale e personale che stai vivendo. Un regista di cinema corre il rischio di confondere il mondo del suo film con la realtà. Ma lo diceva anche Gramsci: “Non basta la ragione a spiegare la

ad affrontare l’altra dimensione. La potenza del cinema è di riuscire a rievocare qualcosa che hai già dentro di te: magicamente una sera, in una sala buia, quei tuoi fantasmi interiori li ritrovi proiettati su uno schermo.


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I mestieri del cinema il Regista del tempo

WIM WENDERS LA VERITÀ DELLA FOTOGRAFIA Il suo modo di fare cinema è strettamente legato alla fotografia. Anzi, forse è proprio l’amore per la fotografia ad averla avvicinata al cinema. Più invecchio e meno capisco il significato della fotografia, anche perché tutto è reso sempre più complesso dalla tecnologia. Però c’è un fenomeno che continua ad intrigarmi: ogni fotografia è come se presentasse sempre, al suo interno, come una sorta di controcampo incorporato. È un effetto invisibile ma possiamo riuscire a percepirlo. Anche quando ho scoperto il lavoro di uno straordinario fotografo come

“Per me il rapporto tra la fotografia e il tempo rimane un mistero. Ed è anche per questo che non smetterò mai di scattare fotografie” Salgado, la cosa che più mi ha colpito è stato ‘l’effetto di controcampo’. Nelle sue immagini si leggono la conoscenza del senso della pittura, ma anche amore e rispetto nei confronti del proprio mestiere.

Nel film Il sale della terra, ispirato e realizzato con le fotografie di Salgado, il viaggio e la fotografia costituiscono due esperienze fondamentali per la conoscenza e l’interpretazione della realtà. La percezione del tempo è stata fondamentale per questa avventura che abbiamo intrapreso. Inizialmente avevo ipotizzato due settimane per la realizzazione del film, invece mi sono reso conto che l’opera di Salgado si basa su un senso del tempo completamente diverso: la profondità del suo lavoro non mi ha consentito di girare il film in tempi rapidi. Il segreto di Salgado è legato proprio al tempo che viene dedicato ad ogni tema: lui viaggia tanto, sparisce addirittura per dei mesi rimanendo a lungo sui luoghi interessati. L’obiettivo è di catturare l’essenza del racconto per raffigurare la bellezza. Verità e bellezza vanno sempre di pari passo, anche se si tratta di concetti soggettivi.

Le immagini di Salgado utilizzate per Il sale della terra mantengono, proprio grazie alla loro verità, un forte richiamo cinematografico. La prima volta che ho visto le foto che ritraggono gli uomini della miniera d’oro del Brasile descritta nel film, ho subito avuto l’impressione di trovarmi di fronte ad un enorme set cinematografico. Invece si trattava di verità, non di finzione. Salgado, attraverso la fotografia, racconta una storia nel modo in cui farebbe un regista: con inquadrature diverse, campi lunghi, primi piani, riprese dall’alto o dal basso. E in ogni fotografia vediamo un frammento di tempo. L’insieme di questi istanti catturati si avvi-


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cina, in maniera impressionante, al racconto di un film. Sia per chi vuole fare cinema, sia per chi desidera esprimersi con la fotografia, è importante riuscire a penetrare veramente ciò che si sta fissando in quell’attimo.

“L’obiettivo è di catturare l’essenza del racconto per raffigurare la bellezza. Verità e bellezza vanno sempre di pari passo”

IMMAGINE DALILA CHESSA

L’umanità di Salgado è dunque colta in un preciso momento, ma per l’eternità? È difficile spiegare l’assenza del tempo che esprime una fotografia. Ogni immagine nasce in un secondo, per istinto, e definisce un suo tempo. La sopravvivenza delle foto va al di là dei soggetti che ritraggono e dell’autore

stesso, ma naturalmente nessuna foto è eterna. Il rapporto tra la nostra vita e queste immagini è particolare, proprio perché rappresentano un momento, un istante di spontaneità: gli scatti ci mostrano chiaramente l’intenzione del fotografo e il suo vissuto. Comunque per me il rapporto tra la fotografia e il tempo rimane un mistero. Ed è anche per questo che non smetterò mai di fare fotografie.

La narrazione nella sua poetica cinematografica procede per immagini che tornano spesso indietro nel tempo. Io non ho nessuna velleità nostalgica, il mio interesse va solo verso il futuro. Il regista e il fotografo devono vivere il presente, pur rendendosi conto che questi mestieri derivano da una lunga storia: non sono il primo ad alzare una macchina da presa o una macchina fotografica per realizzare un’inquadratura. Noi siamo il risultato della storia della fotografia, del cinema e della pittura. Il passato influenza il nostro operato, però io cerco sempre di guardare al futuro. In particolare questo film, Il sale della terra, riflette su quale può essere il futuro dell’umanità. È importante non dimenticare mai che, per esprimere il futuro, bisogna conoscere il passato.


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Speciale Danza

Carla Fracci

NATA PER BALLARE

“Il successo, che fatica! Noi qui, alle otto, siamo tutti in piedi”: sono parole sue.

Sì, è vero, anche se non bisogna calcare troppo la mano su questo discorso del sacrificio. Sono scelte, e del resto è una fortuna riuscire a fare una professione che ci fa sognare. Allora alzarsi al mattino e andare alla sbarra non deve Lei ha affermato che la danza ha essere una sofferenza, ma un fatto natuun linguaggio più penetrante rispetto alle altre forme artistiche. rale che è parte della quotidianità. Se mi La danza è simile all’uso della paro- volto indietro, gli aspetti più difficili del la teatrale: esiste una tecnica, ma per approfondire i ruoli bisogna esprimere il sentimento. Nella mia carriera ho fatto esperienze anche di cinema e di televisione, ma sono due forme artistiche completamente diverse dal teatro. Sullo schermo la gestualità va gestita, non bisogna essere troppo caricaturali: anzi, devi essere amata dalla telecamera. Inoltre, se qualcosa non funziona si ha sempre l’opportunità di ripetere il movimento. A teatro invece no. Il personaggio lo costruisci con la tecnica, però alla fine i movimenti hanno un volo al di là della preparazione. Il risultato dipende da più fattori, legati FOTO ALICE NIDITO

“La gestualità della ballerina esprime delle sensazioni, ma sostituisce anche il pensiero e la parola”

mio mestiere di danzatrice sono stati la sensazione di dovere dimostrare sempre quello che sai fare e forse anche i primi viaggi da sola all’estero, cercando di inserirmi nelle diverse compagnie. Ma ho passato la vita in palcoscenico, calandoall’istante in cui ti trovi: la musica che mi in ruoli sempre diversi, e ogni volta ti ispira sensazioni estremamente di- con un’espressione e una passione in più. verse in ogni momento, il tuo partner che ti comunica qualcosa e tu risponI gesti leggeri delle ballerine di… È un dare ed avere il teatro, e per di danza classica richiamano questo è magico. alla mente i movimenti delle


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farfalle o delle libellule. Quanto è importante conoscere la tecnica per riuscire a trasmettere un’emozione? L’insegnamento è importante per imparare a muoversi con gesti lievi e delicati. Lo dico sempre ai giovani: bisogna capire che cos’è il fatto stilistico, conoscere la tradizione di quello che è stato tramandato. Io stessa in passato l’ho imparato, grazie agli incontri fondamentali che mi hanno segnato profondamente. IMMAGINE DALILA CHESSA

Una volta ci prendevamo il tempo per soffermarci sulle emozioni, invece la vita oggi significa essenzialmente fretta e stress. Tutto cambia, però certe espressioni e sensazioni che appartengono al nostro mondo etereo vanno rispettate. Non è facile il nostro ambiente, non è tutto rose e fiori, ci sono anche le spine. In palcoscenico bisogna tirare fuori il carattere, la forza: tante ballerine bravissime in sala ballo, dalla tecnica straordinaria, subiscono il crac da palcoscenico. Nessuno è sicuro nell’affrontare nuovi ruoli, sei sempre sotto esame e devi metterti continuamente in discussione.

Lei, emblema della danza classica, nella sua carriera non ha rinunciato ad avere un figlio, azione all’epoca assolutamente bandita da quel mondo così etereo.

“La danza è simile all’uso della parola teatrale: esiste una tecnica, ma per approfondire i ruoli bisogna esprimere il sentimento” Ogni persona però ha una sua specificità, un temperamento naturale che non si può insegnare: certi movimenti, anche se li spieghi, non si imparano. La gestualità della ballerina esprime delle sensazioni, ma sostituisce anche il pensiero e la parola: non è soltanto un fatto meccanico della danzatrice che sgambetta leggera. A parte la tecnica, nei movimenti io rispetto molto anche il fatto stilistico e l’interpretazione, mentre non tutti gli insegnanti si dedicano a questo aspetto.

Noi danzatrici siamo nate per ballare, forse ballavamo già quando eravamo nel ventre di nostra madre… Però siamo anche donne, con le nostre passioni e i nostri sentimenti che dalla vita poi arrivano anche sul palcoscenico. Fin da piccolo mio figlio ha viaggiato con me in tutto il mondo: da New York all’Australia, passavamo le feste in albergo e ricordo grandi pentoloni per cucinare gli spaghetti, coinvolgendo tutta la compagnia. Questi sono stati i nostri anni, trascorsi nei vari Paesi e cercando comunque di creare la nostra vita, con grande felicità.

Come vede il futuro della danza? La danza dovrebbe avere più spazio d’espressione e più mezzi, una maggiore credibilità. In fondo il pubblico segue il balletto. I giovani non hanno solo modelli rock, ma ‘sentono’ anche il fatto culturale: ascoltano la musica leggera e contemporaneamente non disdegnano la musica classica. Le composizioni di Mozart aprono il cuore.


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Speciale Danza

Roberto Bolle

LA BELLEZZA DI ESSERE UN DANZATORE

Si dice che alcune forme d’arte come il circo o il balletto siano ormai in via d’estinzione. Come vede la situazione della danza in Italia in questo momento? Non credo che ciò sia vero; per me la danza in Italia ha il suo seguito, anche abbastanza ampio. Nel nostro Paese ci sono tantissime scuole di ballo, molti ragazzi praticano la danza perché iniziano fin da piccoli, per passione; noi ab-

biamo una tradizione e una storia, una cultura del balletto. È una cosa che non dobbiamo dimenticare mai.

Per riuscire ad emergere e arrivare al successo basta impegnarsi o è necessaria anche una buona dose di fortuna? Una parte del successo è dovuta sicuramente al caso, agli eventi più o meno fortunati in cui incappi, però se manca l’impegno non si riesce ad andare avanti. Ci vogliono delle qualità, un talento di base, perché la danza è comunque un’arte faticosa. Negli ultimi anni si è così sviluppata a livello di posizioni corporee, tanto da richiedere a chi la pratica doti di elasticità e apertura, una perfetta potenza fisica e un senso dell’equilibrio. È una professione difficile, che richiede tutto il tuo tempo e molti sacrifici, ma il bello è che l’ambizione alla fine viene ripagata. La preparazione fisica, il lavoro quotidiano: più si ha voglia di impegnarsi e più si ottengono dei risultati. Al contrario di altre professioni, quella del ballerino è una carriera molto trasparente: non esistono le raccomandazioni, gli interessi o le spinte che arrivano ‘dall’alto’: solo chi è bravo alla fine va avanti. Sul palcoscenico devi cercare di dimostrare quanto vali, quando ti invitano le diverse compagnie a danzare con loro non ti puoi nascondere. Per forza devi essere bravo, altrimenti sei stroncato dal pubblico e dalla critica.

Lei è abituato a rappresentare l’idea della danza in tutto il mondo: come gestisce questa enorme popolarità?


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Dover essere sempre all’altezza delle aspettative: questo è uno svantaggio! È difficile far capire a chi ti guarda che, per qualsiasi motivo, puoi sbagliare e questo anche se sei ‘il numero 1’… Siamo degli esseri umani e non delle macchine.

dare. Fin dai primi applausi, dal modo in cui risponde la platea, senti l’attesa degli spettatori: più sei conosciuto, appari sui giornali, e più la gente compra il biglietto, desidera venire a vedere te, più che il balletto.

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

“È proprio questa la finalità del danzatore: aspirare ad esprimere tutte le varie emozioni dell’esistenza con la gestualità. Il bello è che si può riuscire, attraverso il corpo, a comunicare con tutti” Quando si superano gli ottanta spettacoli all’anno, tanti aspetti possono concorrere a non farti essere al meglio. Devi essere molto concentrato e consapevole, non è facile dimostrarsi sempre all’altezza delle aspettative. L’esperienza aiuta, e in fondo il pubblico vede sempre la parte migliore di quello che sei in grado di

Secondo Marta Graham la danza è espressione della vita attraverso il movimento. È una bellissima espressione: significa che tutte le sensazioni, le diverse stagioni della vita, si percepiscono attraverso il movimento. È proprio questa la finalità del danzatore: aspirare ad esprimere tutte le varie emozioni dell’esistenza con la gestualità. Il bello è che si può riuscire, attraverso il corpo, a comunicare con tutti. Il linguaggio della danza, come quello della musica, è universale e riesce a rivolgersi ad un pubblico internazionale. Le suggestioni arrivano tramite un canale diretto e nessuno ne è escluso.


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Speciale Danza

Eleonora Abbagnato UNA SCELTA QUOTIDIANA Di solito il mondo della danza classica appare rigidamente chiuso nel suo settore. Invece la sua carriera si è aperta anche a progetti diversi: uno spettacolo con Massimo Ranieri, il Festival di Sanremo, l’esperienza di un videoclip con Vasco Rossi… Una carriera è fatta anche di scelte. All’Opéra avevo già danzato tutti i ruoli del repertorio classico, incontrando i più grandi coreografi del mondo. Una volta Pina Bausch mi ha fatto lavorare

la sua coreografia è stato uno dei più forti e importanti vissuti sulle scene di Parigi. Il teatro francese era molto chiuso e severo, ma lavorare con lei ha significato per me un’apertura su tutto. Mi ha fatto capire che, anche fuori da un luogo teatrale, poteva esprimersi la mia personalità e libertà sul palcoscenico. Ho preso un anno sabbatico dall’Opéra e all’inizio mi sentivo un po’ persa. Poi ho incontrato Massimo Ranieri che mi ha proposto una tournée teatrale, Ficarra e Picone mi hanno chiesto di fare una commedia al cinema. L’Opéra era lontana, vivevo il mondo della prosa o sul set di un film, ma non ho mai smesso di allenarmi: tutte le mattine alla sbarra, pilates e movimento. In effetti queste scelte mi hanno avvicinato a nuovi spettatori ed è questo, secondo me, che oggi bisogna continuare a sperimentare: trasmettere la nostra passione, comunicare la danza, a tutti.

FOTO ALICE NIDITO

Oltre all’incontro con i grandi Maestri, Lei ha detto che per diventare una vera danzatrice bisogna avere anche carattere e forza; com’è nata la sua passione per la danza?

quasi per trenta ore in sala, per provare il movimento di un mignolo… Il mio ruolo nella Sagra della primavera con

Marisa è stata la mia prima insegnante, in una piccolissima scuola a Palermo. È stata la casualità: i miei genitori avevano un negozio di abbigliamento e non sapevano dove lasciarmi, così passavo il tempo da questa loro amica che aveva una sala di danza. Stavo lì per ore e ore a guardare le ballerine… Alle otto quando mia mamma chiudeva il negozio e veniva a prendermi, non volevo più andare via. Rimanevo fino alle dieci, quando chiudeva la scuola, e guardavo


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danzare le più grandi, le più brave che facevano lezione. È stata Marisa a spingermi a lasciare la Sicilia: cominciavo già a vincere i primi concorsi e ad avere degli incontri importanti come quello con Roland Petit, che mi aveva scelto per La bella addormentata… Mi ha detto: “È ora di andare via perché non posso darti più nulla”.

“Il sacrificio legato alla danza non è facile da capire: giorno dopo giorno, per anni, ti ritrovi ore ed ore in prova alla sbarra” IMMAGINE DALILA CHESSA

Ed è cominciato il suo tempo all’Opéra di Parigi. Ho dovuto studiare tanto: i movimenti sul collo del piede, lavorare sul fisico… Il sacrificio ti ripaga sempre nella vita e quello legato alla danza non è facile da capire per chi non condivide la

stessa scelta di vita: giorno dopo giorno, per anni, ti ritrovi ore ed ore in prova alla sbarra. È la nostra pillola del mattino. Questo è il tempo – un tempo ripetitivo ed infinito – della danza. Non smetti mai di lavorare, di scoprire nuove cose sul tuo corpo.


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Firenze contemporanea Google Cultural Institute

Amit Sood

LA CULTURA DEL FUTURO

Un luogo senza tempo come il teatro può essere inserito nel Google Cultural Institute, un progetto che guarda sempre verso il futuro?

L’umanità guarda al futuro ma prendendo ispirazione dal passaCan something Il Teatro della Pergola di timeless as the Firenze è il primo teatro italiano to. Ecco perché il ad aderire al Google Cultural nostro progetto – theatre be linked Institute, la piattaforma rendere la cultura to something sviluppata da Google per fruibile in rete – è as The Google rendere accessibile in rete il fondamentale anCultural Institute that is constantly patrimonio delle più importanti che per il teatro e istituzioni culturali del l’opera, per tutte looking forward? mondo. Visita il Teatro della le arti dello spetI think we look Pergola su www.google.com/ tacolo. In generaforward but we culturalinstitute/collection/ le è difficile per get inspiration teatro-della-pergola lo spettacolo dal from the past. Which is why it is really important vivo riuscire a creare la magia su Interfor theatres, for performing arts, for net, è davvero complicato, perché tutto operas, whatever they might be. For si basa sull’esperienza diretta dell’indiPerforming arts is very difficult to viduo. L’aspetto più importante è che create magic on the Internet, very dif- la cultura e l’informazione su Internet ficult, because it is all about the expe- esistano come mezzo educativo e d’ispirience that you’re having. So for me I razione. Non si deve ‘ricreare’ esattathink the most important thing is that mente la sensazione di come ci si sente they exist as an educational media, ad essere fisicamente in un teatro, non as an inspirational media. They don’t è questo lo scopo; la sfida è di riuscire a have to convey exact what it feels like coinvolgere le persone, ad affascinarle. to be at theatre, that’s not their purpose, but to interest and excite. Quindi non pensa che l’elemento

So you think that multimedia cannot coexist with the show? I think it depends on the artistic director of every play, you cannot force technology into something if it is not working. I’ve recently seen some very interesting plays in London, where they are experimenting with technol-

multimediale possa essere inserito in uno spettacolo? Penso che dipenda dal regista dello spettacolo. Non puoi forzare l’elemento multimediale, altrimenti il risultato non funziona. Recentemente ho visto degli spettacoli molto interessanti a Londra dove stanno sperimentando la tecnologia sul palcoscenico: lo stage


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ogy on stage. I think it works but you don’t have to do it just for the sake of doing it, it needs to be part of the artistic curatorial process. Recently a friend of mine at Google did a project with the Shakespeare Theatre Company in London. It was the first digital IMMAGINE CLARA BIANUCCI

design e il visual layout. Penso che questo tipo di ricerca multimediale debba essere parte del processo artistico. Recentemente un mio collega di Google ha collaborato ad un progetto con la Shakespeare Theatre Company di Londra: è stata la prima rappresentazione digitale online del Sogno di una notte di mezza estate. Un’idea folle. Tutti su Internet sono diventati dei personaggi della commedia e hanno caricato i video su Youtube: c’era chi faceva Puck, chi un altro personaggio, e alla fine il regista ha raccolto tutto e ne ha fatto una storia. Questo esperimento si chiama The Midsummer Night’s Dream Google Project. È uno dei modi più giusti per collegare la tecnologia al teatro.

Non pensa che la tecnologia sia qualcosa che possa aiutare l’arte e la cultura, ma nello stesso tempo renderla meno umana?

online play performance of Midsummer night’s dream, a crazy idea but everybody on the Internet became a character and they uploaded videos on Youtube: so there was a guy who was Puck, there was someone else performing another role and then the director sticked it together and made a story about it. It’ called The Midsummer Night’s Dream Google Project. That was a very interesting way of how technology is recreating that experience.

Ho cominciato questo progetto circa tre, quattro anni fa. E mi piace ancora vedere i dipinti dal vivo, quindi se io stesso non mi sono convertito totalmente alla tecnologia, non credo che molti altri lo faranno. La cosa peggiore è quando sei tu a decidere cosa vogliono gli altri. Perché molti credono che la gente non voglia vedere i dipinti online, però io ho conosciuto persone anziane che in passato andavano nei musei per vedere i quadri dal vivo, ma adesso non gli piace più: trovano che ci sia così tanta gente e non riescono a stare davanti ad un dipinto per più di cinquanta secondi. Quindi per loro, vedere le opere d’arte online, anche se le avevano già ammirate di persona, è stata una nuova esperienza. Credo che l’aspetto virtuale della cultura sia vissuto in maniera diversa da ciascuno di noi: le persone che non hanno un accesso ai luoghi culturali trovano su Internet un’opportunità,


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Technology helps enjoying art and make it reachable for everyone; don’t you think there might be the risk to get it less human? I started the project three, four years ago. I still like to see the paintings in person. If I can’t get converted that I don’t think many other people can. The worst thing is when you decide what other people want. Because for lot of people is like “people don’t want to see this painting online”. But I also met some very old people who told me that they used to go to the museum long time ago to see the paintings but now they don’t like it because there is so much people that they don’t even get to stand in front of the paintings for more than fifty seconds. So for them, watching it online even though they have seen it on person is another experience. So I think for everybody is different, for people who do not have access is an opportunity, for people who have access it’s an experience to remember.

per gli altri invece è un modo di ricordare quello che hanno visto.

Quale potrebbe essere il prossimo passo per la cultura? Non sono la persona giusta a cui fare questa domanda perché mi occupo di tecnologia. Non ho idea di come sarà il futuro, spero solo che sempre più per-

“Non ho idea di come sarà il futuro, spero che sempre più persone non abbiano paura di entrare in un teatro: la cultura non è un fatto di élite”

What could be the next step for culture? I am not the right person to ask the question because I am a technologist. I have no idea what is the future; I just wish more people started not getting scared entering in a theatre. People don’t must think it is only for élite, only for rich people. There is something for everyone and I just hope culture can break the mental barriers that it is only for a certain section of society.

FOTO FILIPPO MANZINI

sone non abbiano paura di entrare in un teatro, che non pensino alla cultura solo come ad un fatto di élite, riservato a pochi ricchi. La cultura è di tutti, non è destinata soltanto ad un certa parte della società. Spero che in futuro si possano rompere queste barriere mentali.

Una sua definizione di tecnologia. What’s your defintion of technology? Technology is something that help us create a better life. Helps us improve have a more fulfilling life.

La tecnologia ci aiuta a creare una vita migliore. È quello che ci aiuta a perfezionare la nostra esistenza, rendendo il nostro tempo più soddisfacente.


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Firenze contemporanea L’artista visivo

Giacomo Costa

INCOSTANTE EQUILIBRIO Un libro dedicato ai suoi lavori si intitola The Chronicles of Time; come si collegano le sue opere d’arte alla concezione del tempo? Da sempre la mia ricerca aspira ad utilizzare la città in termini metaforici: uso la città ma per arrivare a parlare di altro. Cerco di rappresentare il rapporto tra l’uomo e la natura come una metafora che raduna non soltanto i problemi urbanistico architettonici, ma assume significati più ampi. Un piccolo paese nella giungla rispetto ad una megalopoli asiatica: le guardi e percepisci l’impatto dell’uomo sull’ambiente, il diverso valore che si dà alla natura. Nella mia con-

“Il bene e il male si inseguono costantemente. In questa ciclicità le cose ritornano sempre, esattamente come il meccanismo di un orologio: finisce un giro e ne inizia un altro” cezione il tempo diventa fondamentale perché io percepisco questo rapporto tra uomo e natura come qualcosa di ciclico: l’uomo costruisce, ma la natura si ribella. Il bene e il male - il fatto di mantenere un comportamento rispettoso oppure no si inseguono costantemente. In questa ciclicità le cose ritornano sempre, esat-

tamente come il meccanismo di un orologio: finisce un giro e ne comincia un altro. L’uomo ha sempre vissuto la sua relazione con l’ambiente in questa direzione, soltanto che con la tecnologia l’impatto è nettamente più catastrofico. Si sovvertono gli ordini naturali, anche in maniera drammatica, e la storia si ripete. C’è una scansione delle culture, una rotazione nei comportamenti: ti spingi fino ad un certo punto, poi cadi in disgrazia e dopo risorgi. Il bilanciamento tra bene e male si replica nel tempo. Qual è il punto giusto, come si trova l’esatto equilibrio? Non è dato saperlo. La linea sale e scende senza fine.

L’uomo arriverà mai a raggiungere una sua armonia? Purtroppo penso che il problema sia collettivo. Ho una grande fiducia nell’individuo: singolarmente sai quando sbagli, te ne accorgi; invece è il sistema, e di conseguenza la politica, che ti conduce a perpetrare nell’errore. In un articolo scritto per l’Università di Architettura di Roma, Un minuto dopo la mezzanotte, mi riferisco ad un aspetto fondamentale per l’umanità. Noi tutti stiamo vivendo un passaggio epocale. Fino al ’45, prima della bomba atomica, si facevano guerre sanguinose, ma non era minacciata la sopravvivenza della specie. Invece da quel momento il mondo cambia: gli scienziati dell’Università di Chicago, non a caso, a partire da questa data hanno inventato l’Orologio dell’Apocalisse. Un orologio allegorico, che simboleggia la fine del mondo. Al momento della sua creazione, durante la guerra fredda, l’oro-


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logio fu impostato a sette minuti dalla Questo tipo di riflessione si avvicina mezzanotte. L’orologio viene spostato molto alla poetica di Leopardi e alla avanti e indietro, a seconda dello stato sua visione della natura? delle politiche internazionali. Prima Io ho avuto un percorso scolastico a l’unico problema era l’atomica, invece ritroso: il mio approccio culturale è nato l’Orologio dell’Apocalisse si è aggior- di recente. Sono partito dal cinema come nato: il momento più distante dalla fascinazione, per arrivare alla fotografia mezzanotte, quindi il periodo di mag- e poi alla pittura, ad artisti come Giotto e giore benessere, è stato con la caduta Leopardi. La natura mi ha sempre coindel muro di Berlino, il periodo di pace volto: non a caso, infatti, prima facevo per l’Occidente e di boom economico. l’alpinista. La mia è una lettura leoparParadossalmente questo benessere sta diana: vedo la natura come qualcosa di diventando la causa della fine del mon- forte e potente, indomabile e comunque do attuale. L’Orologio dell’Apocalisse crudele. Quando scali una montagna e adesso gira anche in base al Protocol- viene giù una valanga, alla natura non GROUND 1 GIACOMO COSTA

lo di Kyoto. La minaccia nucleare non è l’unico problema del mondo, lo stile di vita è diventato la vera minaccia. È l’uomo con i suoi comportamenti ad autodistruggersi.

importa nulla dell’uomo. La natura ha dei suoi meccanismi lentissimi di adattamento, e l’essere umano non ne fa parte. Se la stuzzica, l’uomo ne subisce le conseguenze. Un paesaggio al tramonto e un


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alluvione: sono due aspetti della natura, entrambi bellissimi. L’alluvione è semplicemente un altro fenomeno naturale: il problema risiede nell’essere umano, che fa di tutto per trovarsi nel mezzo ai cataclismi: costruisce le case sui fiumi o sulle pendici di un vulcano… Si parla di profezie che si avverano, ma è la realtà che si manifesta in un sistema fatto di scelte non ecosostenibili: prima o poi ci sarà l’eruzione del Vesuvio e accadrà qualcosa a Venezia, dove navi enormi vengono fatte transitare in un ecosistema fragilissimo… In particolare Venezia è una città di riferimento per me: nelle mie opere i palazzi stanno in mezzo all’acqua, le città sono allagate. La commistione, anche un po’ surreale, tra acqua e terra, come l’acqua alta che continua ad invadere la laguna: Venezia è il simbolo del rapporto di un luogo geografico con la sua ciclicità.

dipingo in qualità fotografica. Essendo un europeo sono legato alle vecchie tecniche artistiche: quello che faccio è un misto tra fotografia e pittura. In realtà le mie immagini sono fotografie a tutti gli effetti. Le mie città affondate, per esempio, nascono dall’osservazione della realtà. È questo il ruolo dell’artista: con la sua sensibilità capta quello che ha intorno e lo riproduce, facendone delle icone.

Le sue immagini comunicano una vaga sensazione di atemporalità… I miei interrogativi sono eterni. Mi interrogo sul dolore e la sofferenza: ci sono cose, come la morte stessa, che ci angosciano, però mantengono allo stesso tempo un loro fascino. Sono interrogativi fondamentali e infatti, per esempio, nel teatro la tragedia greca racconta l’arte e la vita delle persone. La tragedia

PLANT 2 GIACOMO COSTA

Dal punto di vista tecnico, come si può descrivere la sua poetica? Tecnicamente lavoro con dei software, quelli che si usano nel cinema per gli effetti speciali. Costruisco degli scenari in CG, ovvero in computer graphics artist:

è terribile però affascinante. Se vedi un palazzo crollato non rimani indifferente perché, in qualche modo, ti trovi davanti ad una rappresentazione della morte e della sofferenza. L’arte è segnata da questa dicotomia, dall’attrazione e dal


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rifiuto del dolore: pensiamo alle tante immagini di Cristi crocifissi che costellano la storia dell’arte. E nelle mie opere la rappresentazione della catastrofe avviene sempre in chiave lirica perché emerge l’ineluttabilità del racconto. Il mio personale rapporto col tempo è pessimo perché non sopporto il cambiamento. È

come le maschere tribali o le calligrafie giapponesi a noi appaiono lontane… Siamo culture diverse, ma esistono anche argomenti globali. In fondo, per esempio, Shakespeare è universale: le sue tematiche appartengono a tutto il mondo. Anche il problema dell’inquinamento della natura è unico, quindi AQUA 6 GIACOMO COSTA

inevitabile che con il tempo le cose siano diverse ma io ho paura dello scorrere del tempo. Fondamentalmente temo la morte e quindi non voglio che le cose passino. Nelle mie immagini c’è anche questo: lo scorrere del tempo non porta a niente di buono. Ecco perché il tempo sembra sempre come sospeso in un fermo immagine: tutto si blocca ed appare rarefatto in quel dato momento. Alla fine è il sogno della fotografia, quello di riuscire a congelare il tempo.

Lei espone in tutto il mondo: dall’America all’Europa, il Centre Pompidou di Parigi possiede delle sue opere… Il linguaggio dell’arte è dunque universale? Durante l’ultima mostra collettiva di artisti italiani fatta a Singapore ho riflettuto molto su questo argomento. Gran parte dell’arte italiana a loro risultava incomprensibile, esattamente

“La mia è una lettura leopardiana: vedo la natura come qualcosa di forte e potente, indomabile e comunque crudele” il mio linguaggio artistico risulta sempre contemporaneo, da questo punto di vista.

Una sua definizione di arte. Secondo me è la capacità di tradurre in icone il senso del tempo. Un’opera d’arte deve trasmettere il racconto del suo tempo, facendoti arrivare i valori che appartengono a quell’epoca. Tramite l’arte puoi compiere un viaggio temporale: ammiro il Colosseo e mi sento dentro al tempo degli antichi romani, questo è il senso. L’opera d’arte è una sorta di navicella spazio-temporale che mi permette di andare in luoghi e tempi diversi.


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Quaderni della Pergola La parte redazionale è a cura di Angela Consagra, Alice Nidito, Chiara Zilioli, Filippo Manzini La parte monografica Il tempo cambia molte cose nella vita è a cura di Matteo Brighenti e Riccardo Ventrella

Via della Pergola 12/32 - 50121 Firenze Centralino 055.22641 www.teatrodellapergola.com

Le interviste sono di Angela Consagra Progetto Grafico Walter Sardonini/Social Design

Info e contatti quaderni@teatrodellapergola.com

Impaginazione ed elaborazione grafica Chiara Zilioli La fotografia della copertina; le fotografia dell’editoriale; l’album fotografico della rubrica Dai camerini della Pergola e la fotografia della lavagna di Eduardo De Filippo sono di Filippo Manzini Per la presenza della lavagna in copertina si ringrazia per la gentile concessione Alessia Cespuglio e tutta la Compagnia TodoModo Music All dello spettacolo Spring Awakening Hanno collaborato a questo numero: Clara Bianucci, Dalila Chessa, Elisabetta De Fazio, Adela Gjata, Gabriele Guagni, Orsola Lejeune, Simona Mammoli La traduzione dell’intervista ad Amit Sood è a cura di Raffaello Gaggio Si ringrazia Francesca Della Valle della PRG per l’amichevole collaborazione Errata Corrige: la foto a pag. 9 dei Quaderni 5 relativa l’intervista ad Ottavia Piccolo è di Dalila Chessa La parte dedicata a Fabi Silvestri Gazzè prende spunto dall’ incontro con i musicisti organizzato da RED la Feltrinelli di Firenze in occasione della presentazione dell’album Il padrone della festa

Teatro della Pergola Fondazione

La fotografia a pag. 37 di Marco Borrelli è stata scattata durante il concerto di Fabi Silvestri Gazzè al Nelson Mandela Forum di Firenze

Presidente Dario Nardella Consiglio di Amministrazione Raffaello Napoleone, Duccio Traina, Stefania Ippoliti, Maurizio Frittelli Collegio Revisore dei Conti Giuseppe Urso Presidente, Adriano Moracci, Roberto Lari Direttore Generale Marco Giorgetti

L’intervista a Gabriele Salvatores è frutto dell’incontro con il regista avvenuto presso l’Università degli Studi di Milano a cura del Prof. Alberto Bentoglio ed il critico del Corriere della Sera Maurizio Porro Le interviste a Carla Fracci e ad Eleonora Abbagnato sono state ispirate dall’incontro del Festival delle Generazioni di Firenze a cura di Francesca Chialà L’intervista a Wim Wenders prende spunto dall’incontro con il regista organizzato da Mario Sesti per il Festival del Cinema di Roma 2014


La lavagna con la scritta EDUARDO viene conservata nei locali del teatro e fa riferimento al corso di drammaturgia che Eduardo De Filippo realizzò nei primi anni Ottanta al Teatro della Pergola. Questa citazione ispira le copertine dei Quaderni della Pergola.


Io dico che c’era un tempo sognato che bisognava sognare Ivano Fossati


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