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a cura di Patrizia Gentilini

2. Cambiamenti climatici, agricoltura, salute

a cura di Patrizia Gentilini, Giunta Esecutiva Nazionale ISDE

I cambiamenti climatici rappresentano indubbiamente la sfida più grave e importante che siamo chiamati ad affrontare, sfida cui nessun paese, nessuna comunità, nessun cittadino può illudersi di sfuggire. A causa delle attività antropiche la temperatura globale media sta aumentando in maniera significativa dagli anni ’50, mostrando una accelerazione particolarmente preoccupante negli ultimi decenni. Le condizioni climatiche del Pianeta si riflettono su tutti i fattori che condizionano i vari ecosistemi e la nostra stessa possibilità di vita in quanto incidono sulla fertilità dei suoli, sulla disponibilità e salubrità di cibo, acqua, aria, sui fenomeni migratori e anche sulla diffusione di malattie infettive, potendo i vettori trovare habitat più favorevoli per svilupparsi.

I cambiamenti climatici tuttavia hanno pesanti ricadute sulla salute umana anche attraverso altre modalità e si è stimato che per ogni aumento di 1°C della temperatura terrestre si abbia la perdita annua di 5 milioni di anni di vita in buona salute (DALY) e un incremento del 3% della mortalità. Riflettere sulle cause di tutto questo e sulle possibili mitigazioni è pertanto di stringente attualità.

In questo capitolo si affronterà il ruolo dell’agricoltura in questo complesso contesto, come fattore causale del riscaldamento globale, ma anche come concreto fattore di soluzione del problema. Non tutto è perduto e dobbiamo divenire consapevoli che anche con le nostre scelte alimentari possiamo salvaguardare non solo la nostra salute, ma contribuire a quella dell’intero Pianeta.

Cambiamenti climatici nell’Antropocene

Già nella conferenza di Parigi del 2015 si era riconosciuto che il cambiamento climatico, conseguenza del riscaldamento terrestre, è il più preoccupante e urgente problema per l’umanità e si era individuata una soluzione nella transizione dai combustibili fossili alle energie rinnovabili entro il 2050. Sull’aggettivo “rinnovabili” c’è in realtà molto da dire perché purtroppo fra le energie così considerate molte sono tutt’altro che rinnovabili; ad esempio l’energia da combustione di legname in centrali a biomasse*, grande business incentivato con fondi pubblici, è un “pericoloso mito” che sta portando alla distruzione di boschi e foreste, essenziali, se mantenute nella loro integrità, per la vita sul Pianeta e per contrastare il suo riscaldamento. Purtroppo ben poco, per non dire quasi nulla, è stato fatto per invertire la rotta, anzi molto spesso già a livello europeo, si è andati in direzione contraria a quanto anche il semplice buon senso imponeva. Si è infat-

* www.ytali.com/2019/03/21/biomassa-un-mito-pericoloso

ti incentivata, oltre che la combustione di biomasse, anche la produzione di biogas da digestione anaerobica di rifiuti organici, piuttosto che favorirne il trattamento tramite compostaggio e così pure si sono considerate sostenibili e rinnovabili coltivazioni “energetiche”, ovvero coltivazioni non finalizzate all’alimentazione umana o animale, ma a filiere per combustibili “verdi”, sottraendo suolo agricolo alla produzione di cibo che – fino a prova contraria – è il primo “combustibile” di cui abbiamo bisogno!

La situazione sembra ormai fuori controllo e già nella conferenza del dicembre 2018 a Katowice il segretario dell’ONU Guterres ha dichiarato che “il mondo è fuori rotta” e gli scienziati dell’IPCC hanno lanciato “un’ultima chiamata”* per salvare il Pianeta.

Ma perché la temperatura del nostro Pianeta sta aumentando?

Già a partire dagli anni ’30 del secolo scorso si iniziò a registrare un aumento delle temperature, divenuto poi sempre più crescente e preoccupante nel corso degli ultimi decenni. L’aumento della temperatura è dovuto alla progressiva liberazione, a seguito delle attività umane, di gas conosciuti come “gas serra” o “climalteranti”. Questi gas, una volta rilasciati in atmosfera riescono a trattenere, in maniera consistente, una parte considerevole della radiazione solare, “intrappolandola” e realizzando una si-

* www.ipcc.ch/sr15

tuazione simile a quella che si realizza in una serra e di qui il nome di “gas serra”. Fra i più importanti e dannosi di questi gas ci sono l’anidride carbonica (CO2), il biossido di azoto (N2O) il metano (CH4), esafluoruro di zolfo (SF6), idrofluorocarburi (HFC) e i perfluorocarburi.

Si tratta di gas generati per la massima parte dalle attività antropiche, in primo luogo dai processi di combustione, ma anche, come vedremo, dall’agricoltura industriale, dagli allevamenti intensivi e in modo meno significativo da altre attività. Addirittura abbiamo modificato la composizione stessa dell’atmosfera; basti pensare che a marzo 2020 l’Osservatorio di Mauna Loa, nelle isole Hawaii, ha registrato una concentrazione media di di CO2 pari a 414.5 ppm, quando in epoca pre industriale era pari a 280 ppm.

Tutto questo ha fatto definire l’era in cui stiamo vivendo “antropocene” proprio per sottolineare come sia l’Homo sapiens ad aver assunto un ruolo tale da alterare gli equilibri naturali, spingendosi oltre i limiti di sicurezza necessari al mantenimento del suo stesso benessere sociale e psico-fisico.

Clima e salute

Gli effetti attesi sulla salute umana per l’incremento delle temperature destano grandi preoccupazioni nella comunità scientifica e derivano non solo dalla ridotta disponibilità di cibo e acqua salubri, ma anche dall’incremento di vettori di malattie infettive legati alla tropicalizzazione del clima nei Paesi occi-

dentali, da relazioni ben definite tra temperatura atmosferica, morbilità e mortalità e dall’insorgenza di patologie (principalmente cardiovascolari e respiratorie, ma anche del periodo perinatale, metaboliche e cronico-degenerative) secondarie agli inquinanti generati dagli stessi processi di combustione responsabili dei cambiamenti climatici1,4 . A tutto questo vanno poi aggiunte le conseguenze degli eventi metereologici estremi come uragani e tifoni che sono sempre più frequenti, di intensità maggiore e sempre più si registrano anche alle nostre latitudini.

Tutto ciò comporta conseguenze a livello globale con aumento di tensioni, conflitti, guerre causati dalla scarsità delle risorse primarie – cibo e acqua – necessarie alla stessa sopravvivenza e conseguente incremento dei fenomeni migratori.

La responsabilità dei drammatici scenari sopra illustrati è purtroppo totalmente ascrivibile alle attività umane perché sia il nostro presente che il recente passato - da circa un secolo - sono stati dominati da una devastazione ambientale incontrollata e insostenibile delle risorse disponibili. L’uomo sta esercitando influenze sempre più negative sulla biosfera a causa di attività quali l’utilizzo di fonti fossili, la combustione di biomasse e di rifiuti, la deforestazione, le colture e gli allevamenti intensivi, l’estrazione di metalli e altri elementi dalle loro naturali riserve, nonché attraverso la sintesi e l’immissione nell’ambiente di enormi quantità di composti chimici in grado di interferire sull’omeostasi degli or-

ganismi superiori. La situazione del riscaldamento climatico è particolarmente critica per il nostro Paese e un recente rapporto dell’OMS prevede, in caso di uno scenario caratterizzato dalla persistenza di emissioni elevate, un incremento della temperatura annuale media pari a circa 5.1 °C tra il 1990 e il 2100. Se, invece, le emissioni globali si riducessero rapidamente, l’incremento della temperatura sarebbe contenuto entro circa 1.6 °C, con effetti meno marcati, ma tuttavia presenti, sugli ecosistemi e sulla salute umana.

In questo complesso scenario, al primo posto per responsabilità nell’emissione di gas climalteranti è la produzione di energia da processi di combustione - compreso biomasse- che continua a essere ampiamente incentivata co n soldi pubblici, ma subito dopo, al secondo posto quindi, vi è l’attuale modello agricolo industriale.

Agricoltura industriale

Per agricoltura industriale intendiamo quel modello di agricoltura che si è imposto in Europa, e anche nel nostro paese, dopo la seconda guerra mondiale e che affonda le sue radici nell’idea che anche il settore agricolo - fino ad allora autonomo sia in termine economici che culturali e pressochè invariato da secoli - potesse essere radicalmente trasformato e “reinventato” sulla base di meri criteri economici e di produttività. Con l’agricoltura industriale infatti si è assistito a un massiccio ingresso nelle campagne di tecnologie meccaniche, genetiche e soprat-

tutto chimiche, e all’impiego sempre più elevato di fertilizzanti e pesticidi senza che venissero tenuti in alcun conto i danni all’ambiente e alla salute conseguenti al loro utilizzo. La stessa “industrializzazione” è avvenuta anche per quanto riguarda l’allevamento degli animali che, non più commisurato alle necessità del nucleo contadino, ha dato origine ad allevamenti intensivi con centinaia di migliaia di capi stipati e reclusi in condizioni igieniche talmente precarie da richiedere uso massiccio di disinfestanti e antibiotici e da creare enormi problemi per quanto riguarda lo smaltimento dei liquami. In definitiva l’azienda agricola da entità autonoma a ciclo chiuso si è aperta al mercato, da cui è diventata sempre più dipendente, le colture sono diventate sempre più “monocolture”, settoriali e specializzate, e anche il cibo, sempre più uniforme e carente dal punto di vista nutrizionale, è diventato una “commodity”, ovvero un bene “comodamente” ottenibile, facilmente immagazzinabile e conservabile nel tempo, al pari di ogni altro tipo di merce presente sul mercato.

Così anche il prezzo di alimenti essenziali per il sostentamento delle popolazioni non solo è determinato sulla base della legge della domanda e dell’offerta, ma è anche oggetto di vere e proprie speculazioni finanziarie. È innegabile che tutto questo abbia portato, in un primo tempo, a un aumento consistente delle rese: dai primi del Novecento fino alla metà degli anni ’80 queste sono aumentate di 3-4 volte, ma nello stesso tempo l’energia necessaria è aumentata a dismisura e l’in-

tero sistema è oggi in perdita5. L’agricoltura industriale ha rappresentato la rottura di un rapporto millenario fra l’Uomo e la Terra, le attività agricole si sono disconnesse dai cicli naturali e così tutto quel “sapere” che faceva parte di una secolare cultura contadina è svanito.

Sempre più inoltre emergono i limiti di questo modello, tanto che oggi possiamo parlare di un suo vero e proprio fallimento e i motivi sono presto detti: • l’obiettivo di sfamare l’intera popolazione mondiale non è stato raggiunto, visto che oltre 800 milioni di persone soffrono ancora la fame; • paradossalmente aumentano obesità, diabete e altre patologie metaboliche per diete incongrue e cibo malsano; • 1/3 di quanto prodotto viene sprecato e lo smaltimento del surplus rappresenta un problema; • l’input energetico richiesto per le produzioni agricole è molto più alto dell’energia che si ricava dalle stesse, quindi il sistema è in perdita; • la produzione mondiale di grano è aumentata del 250%, ma nello stesso periodo si è avuto un incremento di fertilizzanti, pesticidi, combustibili fossili, questi ultimi cresciuti del 5000%; • per l’uso massiccio di fertilizzanti e pesticidi aumentano la desertificazione, l’inquinamento delle acque, la perdita di biodiversità e di insetti impollinatori; • ben il 40% delle terre del Pianeta è minacciato da desertificazione, ogni anno vanno persi 12 milioni di ettari di terra fertile alla base della produzione alimentare mondiale e il 40% dei conflitti mon-

diali origina per appropriarsi di risorse essenziali a cominciare dall’acqua; • il cibo è sempre più uniforme, carente dal punto di vista nutrizionale e con sempre più residui di pesticidi.

Infine l’intero settore agricolo è sotto il controllo di un ristretto numero di multinazionali, concentrate nei paesi più ricchi e industrializzati che dettano legge stabilendo cosa e come deve essere coltivato, detengono brevetti di sementi e prodotti chimici per la loro coltivazione. Inoltre questo tipo di agricoltura, basato su poche colture che richiedono grandi investimenti in termini di risorse energetiche, contribuisce in maniera significativa ai cambiamenti climatici, minaccia la biodiversità e il benessere di agricoltori e consumatori.

L’insostenibilità dell’attuale modello agricolo è stata riconosciuta dalla FAO già da oltre 10 anni,* e nel febbraio del 2019 la stessa Agenzia ha pubblicato un circostanziato Rapporto** sullo stato della biodiversità a livello mondiale, denunciando che la progressiva scomparsa della biodiversità sta mettendo a rischio il futuro della nostra alimentazione, dei mezzi di sussistenza, della salute umana e dell’ambiente. Il rapporto denuncia una riduzione della diversità delle coltivazioni, un numero crescente di animali a rischio d’estinzione e l’au-

* www.fao.org/news/story/it/item/10030/icode ** www.fao.org/3/CA3129EN/CA3129EN.pdf

mento della percentuale di stock ittici sovra-sfruttati. Ancora una volta le cause sono da rintracciare nell’uso sconsiderato e nel sovra-sfruttamento delle risorse, nell’inquinamento, nella gestione della terra e dell’acqua, nei cambiamenti climatici e nella crescita della popolazione e conseguente urbanizzazione.

Un’altra importante conferma della insostenibilità dell’attuale modello agricolo è giunto da un corposo lavoro della Lancet Commission6 in cui si dichiara: “L’attuale produzione di cibo rappresenta un rischio globale per le persone e il Pianeta ed è la più grande pressione causata dagli esseri umani sulla Terra, minaccia gli ecosistemi e la stabilità del sistema terrestre…Le attuali diete, combinate alla crescita della popolazione (10 miliardi entro il 2050), esacerberanno rischi per le persone e il Pianeta. Il peso globale delle malattie non trasmissibili peggiorerà e gli effetti della produzione di cibo sulle emissioni di gas serra, sull’inquinamento da azoto e fosforo, sulla perdita di biodiversità e sull’uso di acqua e terra ridurranno la stabilità del Pianeta”. Allo stesso tempo però si afferma che l’agricoltura, da causa di questi problemi, può divenirne anche la soluzione e si propone entro il 2050 di ridurre almeno del 75% i divari di rendimento, ridistribuendo l’uso di fertilizzanti azotati e fosforo e adottando pratiche che spostano l’agricoltura da una fonte di produzione di carbonio alla sua riduzione.

Come vedremo tutto questo non è solo auspicabile ma concretamente realizzabile!

Agricoltura, allevamenti e clima

L’attuale modello agricolo riveste un ruolo importante nel riscaldamento globale ed è responsabile, unitamente agli allevamenti intensivi, per circa 1/3 delle emissioni complessive di gas climalteranti. Le emissioni di gas a effetto serra derivanti dagli allevamenti dipendono da processi biologici molto variabili, diversificati e complessi e a essi è imputato quasi un quinto delle emissioni globali di gas climalteranti. Si tratta soprattutto di metano (CH4), la cui produzione è dovuta a questi principali fattori: a) i processi digestivi dovuti alle caratteristiche intestinali degli animali allevati b) la gestione del letame c) la quantità e qualità del mangime somministrato. Il metano è un gas che sebbene persista per un breve periodo nell’atmosfera, è oltre 20 volte più potente dell’anidride carbonica come determinante dell’effetto serra e si stima che il settore zootecnico da solo contribuisca per il 35-40% delle emissioni globali di metano (FAO) e per il 6% alle emissioni antropogeniche di gas serra. All’interno dell’intero settore zootecnico, l’allevamento dei bovini rappresenta l’83% delle emissioni di metano, suddiviso in 63,3% per la produzione di carne e 19,3% per la produzione di latte e derivati (a fronte di un contributo dello 0,6% del settore avicolo, 5,1% del settore suino e 11,7% ovino). Basti pensare che una singola mucca può produrre dai 100 ai 500 litri di metano al giorno a causa della popolazione microbica nel rumine. I cambiamenti degli stili alimentari di paesi in rapido sviluppo, spo-

statisi verso un incremento dei consumi di carne, e il crescere della popolazione hanno portato all’aumento del 10% delle emissioni dopo il 2008, aumento avvenuto quasi totalmente in Asia, America Latina e Africa. È quindi fondamentale operare anche per un cambiamento delle diete e Lancet auspica la riduzione di oltre il 50% del consumo di cibi malsani, come carne rossa e zucchero, e viceversa l’aumento di oltre il 100% di consumo di cibi sani, come noci, frutta, verdura e legumi.

Sempre secondo la Lancet Commission, “con diete sane sarebbero evitabili 10.8-11.6 milioni di morti all’anno (meno19 - 23.6%). Si tratta di un obiettivo universale per tutti gli esseri umani e raggiungibile, a patto che ci siano cambiamenti sostanziali verso abitudini alimentari sane, forti riduzioni nelle perdite e sprechi di cibo e importanti miglioramenti nelle pratiche di produzione alimentare”.

Pesticidi e salute

L’agricoltura industriale si basa sull’uso massiccio della chimica di sintesi: e ad esempio, ogni anno mediamente sui suoli italiano vengono distribuiti quasi 100 kg/ettaro fra fertilizzanti e pesticidi; complessivamente utilizziamo ogni anno circa 130.000 tonnellate di pesticidi che poi ritroviamo nel 33.5% delle acque profonde, nel 67% delle acque superficiali, con un massimo di 55 diversi pesticidi in un unico campione di acqua7, ma che anche ritroviamo nel 64% della frutta, nel 35% della verdura con un massimo rispettivamente di 9 e 25 diversi pestici-

di in un campione di fragole italiane e in un peperone cinese8 .

I pesticidi sono molecole progettate per alterare forme di vita che riteniamo dannose per le colture (insetti, batteri, funghi, virus, erbe infestanti ecc.), ma che sono nocive per tutte le forme di vita dal momento che i “bersagli” verso cui queste molecole sono indirizzate (trasmissione nervosa, comunicazione ormonale, respirazione, produzione di energia ecc.) sono comuni a tutti i viventi, compreso l’uomo. Tutto ciò sta minando non solo la biodiversità, la qualità delle acque superficiali e profonde, la fertilità dei suoli in cui abbiamo ucciso praticamente ogni forma di vita e che sempre più sono in stato di desertificazione, ma anche la nostra stessa salute.

Sono ormai assodati sono gli effetti sulla salute umana dell’esposizione a pesticidi, non solo e non tanto per esposizione “acuta” quanto per esposizione “cronica” ovvero quella che si realizza per esposizione a dosi piccole e ripetute nel tempo, che inizia già dalla vita intrauterina e si attua perché queste molecole, molto spesso stabili e persistenti, entrano nei nostri corpi attraverso la pelle, il cibo, l’acqua e l’aria che respiriamo, possono alterare le cellule germinali, specie se si tratta di “interferenti endocrini”, e soprattutto passare dalla madre al feto durante la vita intrauterina, il periodo più cruciale dell’intera esistenza e in cui si gioca il nostro futuro di salute9 .

I primi studi sulla pericolosità dell’esposizione a pesticidi sono stati condotti su agricoltori e loro famiglie, basti pensare all’enorme mole di indagi-

ni provenienti dalla grande coorte degli agricoltori americani (AHS). Attualmente sono ormai molto numerosi anche gli studi condotti su popolazioni esposte per via residenziale, ovvero in quanto residenti in aree intensamente coltivate10. L’esposizione a pesticidi comporta alterazioni di svariati organi e sistemi dell’organismo umano quali quello nervoso, endocrino, immunitario, riproduttivo, renale, cardiovascolare e respiratorio.

Sono documentati incrementi statisticamente significativi del rischio per molteplici patologie quali: tumori (in particolare leucemie, linfomi e mielomi), diabete, patologie respiratorie, malattie neurodegenerative, cardiovascolari, disturbi della sfera riproduttiva maschile e femminile, malformazioni, esiti sfavorevoli della gravidanza, disfunzioni metaboliche e ormonali (specie della tiroide)11 .

I pesticidi rappresentano quindi uno dei più importanti fattori di rischio per le patologie cronico-degenerative che oggi ci affliggono e tutto ciò comporta importanti e negative ricadute sulla salute pubblica con conseguenti costi anche economici per l’intera società. I rischi inoltre sono ancor più elevati se l’esposizione avviene nelle fasi più precoci della vita, a cominciare dal periodo embrio-fetale.

Di particolare rilevo sono gli effetti di tali sostanze sul cervello in via di sviluppo specie per esposizioni in utero: una mole ormai ragguardevole di studi correla infatti l’esposizione a pesticidi a danni alla sfera cognitiva, comportamentale, sensoriale, motoria nonché a riduzione del Quoziente di Intelligenza.

L’esposizione residenziale si è dimostrata importante fattore di rischio per l’insorgenza di autismo: un ampio studio caso-controllo condotto in California nel periodo 1998-2010 ha indagato 2961 casi di autismo e 29.610 controlli sani e calcolato l’esposizione prenatale a 11 pesticidi valutando la quantità dei singoli pesticidi utilizzati mensilmente entro 2 km dalla residenza materna.

Sono emersi rischi statisticamente significativi di autismo variabili dal +10% al +16% per esposizione a: glifosate clorpirifos, diazionon, malathion, avermectin e permetrina. In 445 casi di autismo associati a disabilità intellettuale i rischi sono risultati nettamente superiori: dal +27% al +46%12 .

Pesticidi e microbiota

Sempre più inoltre emerge come l’esposizione a pesticidi, anche a dosi minimali, alteri profondamente il nostro microbiota, il “filo rosso” che ci unisce all’ambiente e che rappresenta il primo bersaglio dell’inquinamento. Sempre più la comunità scientifica riconosce che è proprio nella ricchezza, varietà e diversità del microbiota la radice della nostra salute e specifiche “disbiosi”, ovvero alterazioni nell’equilibro fra le diverse specie microbiche, sono alla base delle principali patologie cronico degenerative, quali obesità, cancro, diabete, patologie cardiovascolari, malattie immunomediate, ma anche autismo, Alzheimer, Parkinson e depressione13. Ad esempio sono ben noti gli effetti che a dosi minimali provoca l’insetticida clorpirifos o l’erbicida glifosate.

Il glifosate fu ritenuto innocuo per l’uomo perché inibisce una catena enzimatica (enzima 5-enolpyruvylshikimate-3-phosphate synthase) coinvolta nella sintesi di amminoacidi aromatici e presente in tutte le specie a eccezione dei mammiferi, ma non fu considerato che il glifosate altera gravemente il microbiota comportando una disbiosi con aumento di clostridi dotati di azione neurotossica e l’incremento del rischio di autismo si aggiunge agli altri numerosi altri effetti tossici dell’erbicida14 .

Così pure il clorpirifos altera la permebilità della barriera intestinale liberando lipopolisaccaridi in grado di innescare processi flogistici che aprono la strada a obesità e diabete15. La nostra salute e la nostra stessa vita sono imprescindibilmente legate alla salubrità e biodiversità del nostro microbiota e quindi anche di quello di tutti gli altri ecosistemi; fino a che non capiremo questo basilare concetto, continuando a ritenerci avulsi dal contesto che ci circonda, non saremo in grado di fare quel radicale cambio di paradigma che solo potrà permettere al genere umano di sopravvivere.

Agroecologia: chiave di volta del cambiamento

L’agricoltura, uno dei settori maggiormente responsabili del riscaldamento globale, può viceversa diventare strumento essenziale per la soluzione del problema, ma solo a patto di un cambio radicale di paradigma, nell’ottica di una disciplina che oggi va sotto il nome di “agroecologia”.

L’agroecologia, che si pone in alternativa alla agricoltura industriale, è al contempo una disciplina scientifica, un insieme di pratiche ecocompatibili di gestione agricola, una aggregazione di movimenti della società che promuovono azioni per la sostenibilità, la conservazione dell’ambiente, la salute umana e la sovranità alimentare16 .

Come scienza, l’agroecologia studia le interazioni ecologiche tra diversi organismi al fine di disegnare sistemi produttivi agricoli che si autoregolino e che prevedano il minimo ricorso possibile a input esterni (concimi, prodotti fitosanitari, medicinali veterinari ecc.).

Come pratica, l’agroecologia promuove sistemi agricoli diversificati basati su un uso consapevole della biodiversità e sui servizi ecosistemici a essa associati (ad es. il controllo biologico dei parassiti).

Come movimento, l’agroecologia sostiene l’agricoltura familiare, le filiere corte, l’uso delle risorse locali, lo scambio di conoscenze tra operatori, cittadini e scienziati, una giusta remunerazione per gli agricoltori e gli allevatori e la riconnessione tra città e campagna.

Per quante riguarda il clima, pratiche agroecologiche che promuovano la fertilità del suolo sono in grado di sequestrare di carbonio dalla CO2 dell’atmosfera in modo tale da contrastare efficacemente il riscaldamento globale.

Numerose sono le segnalazioni in questo senso anche da parte di agenzie internazionali come la FAO. Secondo Theodor Friedrich, funzionario FAO

per lo sviluppo sostenibile*, “in teoria l’uso di tecniche di agricoltura conservativa in tutti i 5 miliardi di ettari di terra coltivata nel mondo potrebbe portare al sequestro di 3 miliardi di tonnellate di carbonio dall’atmosfera ogni anno per 30 anni, che è più o meno l’attuale tasso di crescita dell’anidride carbonica prodotta dall’uomo”: l’adozione di pratiche di agricoltura biologica e agroecologiche, che preservano la fertilità dei suoli, la risorsa acqua, la possibilità di accesso al cibo, può essere davvero definito uno strumento di pace.

Cibo buono per la salute e per l’ambiente

L’agricoltura condotta secondo i dettami dell’agroecologia, porta alla produzione di un cibo che non solo è “buono” per chi lo coltiva e lo consuma, ma per l’intero Pianeta in quanto tutela la biodiversità, aumenta la fertilità del suolo, utilizza in modo più appropriato risorse preziose come l’acqua e contribuisce a creare, attraverso l’abbandono delle monocolture e la valorizzazione di cultivar diversificate, contesti agricoli più resilienti e quindi più in grado di affrontare anche la sfida del cambiamento climatico. Inoltre il cibo così prodotto, senza l’ausilio della chimica e che per comodità definisco “biologico”, non solo è esente da pesticidi, ma ha anche migliori profili nutrizionali rispetto a quelli convenzionali e OGM presentando maggiori livelli di polifenoli, antiossidanti e di omega3 in carne e latte.

* www.fao.org/3/a-i4737o.pdf

Un’ampia revisione condotta su 343 studi che hanno confrontato alimenti biologici e convenzionali ha concluso che negli alimenti biologici sono presenti maggiori livelli di polifenoli (dal 19 al 51%) e antiossidanti, minori residui di pesticidi e minori livelli di metalli pesanti, in particolare cadmio17 .

È ormai documentato che una alimentazione biologica, specie in gravidanza, è estremamente utile in quanto riduce il rischio di malattie allergiche e obesità, protegge lo sviluppo cerebrale, riduce l’assunzione di metalli (in particolare cadmio) e il rischio di antibiotico-resistenza18 .

Da una recente revisione sistematica sull’argomento è emerso che un aumentato consumo di alimenti biologici è associato a ridotta incidenza di infertilità, malformazioni, allergie, otite media, pre-eclampsia, sindrome metabolica, elevato indice di massa corporea, tumori, in particolare linfomi Non Hodgkin19. Particolarmente importante è la riduzione dell’esposizione a insetticidi organofosforici, estremamente dannosi per il cervello in via di sviluppo anche a dosi minimali.

A questo fine sono importanti non solo le scelte personali, ma quelle politiche perché, quando grazie a politiche lungimiranti, pericolose sostanze vengono messe al bando, rapidamente si riscontrano benefici.

Ad esempio tra il 2012 e il 2014, diciotto principi attivi (specie organofosforici) sono stati limitati o vietati in Israele per uso agricolo e ciò ha fatto diminuire i livelli di alcuni loro metaboliti di oltre il 36%

nel periodo 2012 - 2016 nelle urine di 273 gravide e in quelle di 107 nati20 .

Conclusioni

Appare chiaro che le sfide che abbiamo davanti ci impongono di agire su più fronti: sia come consumatori cambiando le nostre abitudini alimentari, riducendo il consumo di carne, abbandonando definitivamente quella proveniente da allevamenti intensivi e aumentando viceversa il consumo di legumi, vegetali, semi oleosi da coltivazioni biologiche, sia a livello sociale e politico. Le politiche agricole comunitarie, se volessero essere coerenti con quanto affermato dalla Royal Society (“Aumentare la percentuale di agricoltura che utilizza metodi biologici e sostenibili non è una scelta, è una necessità. Non possiamo semplicemente continuare a produrre cibo senza prenderci cura del nostro suolo, dell’acqua e della biodiversità”) dovrebbero essere radicalmente riviste, premiando il ruolo che i contadini rivestono nella tutela dell’ambiente e non solo quello di produttori di cibo.

Dobbiamo essere consapevoli che l’agricoltura industriale, stravolgendo il rapporto con la Terra e quelle pratiche agricole che per millenni ci hanno dato con fatica e sudore nutrimento e vita, è oggi portatrice di morte per l’uomo e per l’ambiente e se non vogliamo rimanere vittime di questo assurdo modello di produzione e consumo del cibo dobbiamo avere il coraggio di cambiare.

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