REGOLAMENTO Art.1 – La coop. soc. Se.Po.Fa’ onlus, con sede a Napoli, indìce la I edizione del Concorso Letterario Nazionale per racconti inediti “Radici Emergenti”. Il Concorso si propone di incentivare la diffusione dell’Arte della scrittura e del racconto, favorendo gli autori meritevoli che non hanno ancora conosciuto la notorietà presso il grande pubblico. Il Concorso è aperto a tutti e a tutte le età (anche i minorenni possono partecipare, in caso di qualificazione come finalista è necessario la presenza di uno dei genitori per il ritiro del premio). L’iscrizione al concorso è gratuita. L’iniziativa ha lo scopo di promuovere e stimolare la scoperta di nuovi talenti, invitandoli ad affrontare la tematica delle radici, del loro essere ben piantate nel terreno, da cui prendono il sostentamento quotidiano, ma allo stesso tempo il loro spingere verso l’alto, della difesa del territorio e dell’ambiente, tematiche di cui si fa promotrice la coop. soc. Se.Po.Fà. Art.2 - Il concorso prevede la sola sezione di “Racconti” e si fa riferimento al seguente regolamento: Il Tema: le radici, lo slancio verso l’alto, la cura del territorio. Ogni singolo racconto non dovrà superare la lunghezza massima di 6000 battute, spazi bianchi compresi. La formattazione è libera. Il tema è: “Radici Emergenti”, nel senso specificato nell’art.1. Art.3 – L’opera e la scheda di partecipazione dovranno essere spediti per mezzo posta elettronica, in un unico messaggio, all’indirizzo e-mail coop.sepofa@gmail.com entro e non oltre le ore 24 del 15 maggio 2016 (farà fede l’ora di ricezione della e-mail). Art.4 - Le opere che partecipano al Concorso devono essere inedite, pena l’esclusione. Per inedite s’intende mai pubblicate sia in forma cartacea sia in forma digitale (ebook o su Internet) fino alla data dell’annuncio dei finalisti. Art.5 – I finalisti (min. 10 max. 20), saranno selezionati da una giuria di qualità composta da personalità del mondo della letteratura e dell’informazione di settore e cioè: Pino Imperatore – Presidente di Giuria, scrittore Iris Corberi – Direttrice BioEcoGeo, giornalista Pietro Dommarco - Direttore “Terre di Frontiera”, giornalista e scrittore Giuliano Pavone – scrittore Pino Sassano – scrittore
I premi saranno così distribuiti: Tutti i finalisti scelti (min. 10 max. 20) vedranno la propria opera pubblicata nella raccolta “Radici Emergenti”, con uscita ottobre 2016, sia in formato cartaceo che elettronico (e-book) edita dalla casa editrice Infinito Edizioni, partner della coop. soc. Se.Po. Fà. L’ente promotore del concorso provvederà, poi, alla promozione del libro su territorio nazionale. I Premi 1° Classificato: pubblicazione dell’opera sulla rivista di settore “Bio Eco Geo”, partner della coop. soc. Se.Po.Fà, 5 copie del libro “Radici Emergenti” e una targa premio del concorso; 2° Classificato: 4 copie del libro “Radici Emergenti” e una targa premio del concorso 3 Classificato: 3 copie del libro “Radici Emergenti” e una targa premio del concorso 4° Classificato: 2 copie del libro “Radici Emergenti” 5° Classificato: 1 copia del libro “Radici Emergenti” Premio Menzione Speciale “Terre di frontiera”, per l’opera che meglio rappresenta i valori e lo spirito del progetto editoriale “Terre di frontiera”, partner della coop. soc. Se.Po.Fà, con pubblicazione dell’opera scelta sulla rivista on-line “Terre di frontiera”, e targa premio. Art.6 - I finalisti saranno informati della decisione della giuria almeno venti giorni prima della Serata di Gala di premiazione “Radici Emergenti”, in programma nel mese di ottobre 2016, in concomitanza dell’uscita del libro. In caso di rinuncia o di altri impedimenti, anche per cause non imputabili agli stessi finalisti, è prevista l’esclusione. Art.7 - Il materiale inviato non verrà restituito. Art.8 - La casa Editrice Infinito Edizioni, partner della Coop.Soc. Se.Po.Fà, provvederà alla pubblicazione delle opere premiate in formato cartaceo ed elettronico (ebook). Art.9 – I partecipanti al concorso cederanno i diritti d’autore per l’antologia a titolo gratuito alla coop. soc. Se.Po.Fà, che si farà carico delle spese di edizione con il marchio Infinito Edizioni.
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l’editoriale di Pietro Dommarco
La prima uscita di Terre di Frontiera è stata sfogliata da
oltre 5000 lettori. Per la precisione 5676 dal 3 marzo ad oggi.
Lo consideriamo un ottimo risultato. Che va ben oltre le nostre aspettative iniziali e che ci ripaga, in parte, del lavoro svolto. Ringraziamo tutti.
Gela profonda - la prima inchiesta sviluppata - ha assunto un
valore doppiamente importante, perché il 10 marzo la Procura ha chiuso le indagini sul petrolchimico riguardanti un periodo di quasi dieci anni. Si parla di attività di bonifica mai realizzate e conseguente disastro ambientale. Gli indagati sono ventidue. Noi abbiamo anticipato storie e questioni ambientali.
Siamo ritornati a Gela per continuare a documentare i fatti. Nelle ultime ore, mentre chiudevamo questo secondo numero, un nuovo terremoto giudiziario ha investito un’altra terra di
frontiera, la Basilicata. Dopo due anni di indagine sul Centro
olio Eni di Viggiano e sul progetto Tempa Rossa della Total ci sono i primi effetti di una maxinchiesta coordinata dalla
Direzione distrettuale antimafia e dalla Procura di Poten-
za, che ha portato alle dimissioni del ministro allo Sviluppo
economico, Federica Guidi. Sessanta indagati, sette arresti, un divieto di dimora, impianti petroliferi e di smaltimento rifiuti
sequestrati, sospesa la produzione di idrocarburi. Sono questi i numeri e gli avvenimenti. Sono questi i numeri di un’inchiesta che vi racconteremo nel dettaglio sul prossimo numero. In questo leggerete solo alcune anticipazioni. Il petrolio sporca.
“
“
Con le parole si è sconvolta la terra Alfred De Musset
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in questo numero
34-52 Orizzonti perduti In copertina
18 28 62 64
Rifiuti connection
SAN SAGO, UN FIUME DI PERCOLATO Gela profonda
L’OMBRA DEL DISASTRO COLPOSO Multinazionali
LA FACCIA SPORCA DEL TTIP Multinazionali
L’IMPERO DEI PESTICIDI
8-14 54 59 70 72
Racconti fossili
Oilgate
Panorami
IL PARCO ASSEDIATO DALLE TRIVELLE Panorami
LA NATURA DEL SUD Orientamenti
DELITTI CONTRO L’AMBIENTE Orientamenti
L’ABRUZZO E LA DIRETTIVA SEVESO
Rubriche
76
Teatri di memoria
79
La foto del mese
77
Sud e cinema
25
È la stampa, online, bellezza!
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Conoscere per deliberare
Direttore responsabile Pietro Dommarco
mensile indipendente
numero 2 anno 1 / aprile 2016
Un progetto di Associazione Culturale Ossopensante Codice Fiscale 97870810583 Sede legale: Via Montello 30 - 00195 Roma www.ossopensante.org Terre di Frontiera Testata registrata il 23 dicembre 2015 al n.359 del registro della Stampa del Tribunale di Milano www.terredifrontiera.info
Hanno collaborato Emma Barbaro, Rosy Battaglia, Antonio Bavusi, Maurizio Bolognetti, Vincenzo Briuolo, Alessio Di Florio, Alessio Di Modica, Domenico D’Ambrosio, Domenico Lamboglia, Vito L’Erario, Francesco Panié, Andrea Polizzo, Gianmario Pugliese, Saverio Romanelli, Riccardo Saporiti, Daniela Spera, Franco Tassi Copertina e impaginazione Ossopensante Lab
Contatti redazione@terredifrontiera.info Twitter @terre_frontiera
Si ringrazia per la gentile concessione
Campagna ad inserzione gratuita
Oilgate
IL PETROLIO SPORCA
LA SPADA DI DAMOCLE DELL’ORO NERO
IL PETROLIO SPORCA DI PIETRO DOMMARCO / twitter@pietrodommarco
#raccontifossili #rifiuticonnection #basilicata #sbloccaitalia
Un terremoto quello che ha investito la Basilicata ed il più grande giacimento di greggio in terraferma d’Europa. Ipotesi disastro ambientale. Coinvolte Total ed Eni, le due principali multinazionali petrolifere che da anni operano in territorio lucano. Sequestrati alcuni impianti con conseguente blocco della produzione di idrocarburi.
Le risultanze delle indagini coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia e dalla Procura di Potenza hanno portato alle dimissioni del ministro allo Sviluppo economico, Federica Guidi, a seguito del coinvolgimento nell’inchiesta del suo compagno, Gianluca Gemelli, imprenditore e commissario di Confindustria Sicilia.
Sessanta indagati, sette arresti, un divieto di dimora, impianti petroliferi e di smaltimento rifiuti sequestrati, bloccata la produzione di idrocarburi. Sono questi i numeri e gli avvenimenti della maxinchiesta coordinata dalla Direzione nazionale antimafia e dalla Procura di Potenza che dal 31 marzo 2016 sta facendo
tremare multinazionali, imprenditori, amministratori locali, ministri e sottosegretari. Ad emettere i provvedimenti cautelari - eseguiti nelle province di Potenza, Roma, Caltanissetta, Genova, Chieti e Grosseto - è stato il gip del Tribunale di Potenza, Tiziana Petrocelli. L’inchiesta - partita nel febbraio del 2014 - è divisa
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Terre di Frontiera / anno 1 numero 2 - aprile 2016 / www.terredifrontiera.info
in due filoni. ”Siamo di fronte a una organizzazione criminale di stampo mafioso, organizzata su base imprenditoriale”. Queste la parole del Procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, a commento dell’inchiesta, che si sta espandendo a macchia d’olio. Emergono presunti coinvolgimenti del capo di Stato maggiore della Marina e collaboratori della Camera di Commercio. L’Eni, i rifiuti e le emissioni Il primo filone d’inchiesta riconduce al Centro olio Eni di Viggiano, in provincia di Potenza, localizzato nella valle dell’Agri. Dove attualmente la multinazionale di San Donato Milanese estrae una media giornaliera di 82 mila barili di greggio, ed ha già ottenuto le autorizzazioni necessarie all’aumento della produzione, fino ad un massimo di 104 mila barili di greggio al giorno. La concessione è denominata “Val d’Agri”. Le indagini, affidate al Nucleo operativo ecologico (Noe) dell’Arma dei carabinieri, riguardano il presunto smaltimento illecito di rifiuti industriali (comprese le acque di strato derivanti dalle attività produttive, non accuratamente trattate e re-iniettate nel pozzo Costa Molina 2) presso alcuni impianti, compresa l’azienda Tecnoparco di Pisticci scalo, in provincia di Matera. L’accusa è di aver gestito illecitamente questi rifiuti ‘pericolosi’ come ‘non pericolosi’ con il fine di ottenerne un vantaggio economico. “Condotte ed attività - si legge nell’ordinanza di applicazione della misura cautelare del 29 marzo 2016 - che in definitiva, attraverso sia il risparmio dei costi ottenuto grazie alla reiniezione dei reflui nel pozzo Costa Molina 2 che quello raggiunto smaltendo i rifiuti liquidi con un CER non corretto, permettevano all’azienda petrolifera di incamerare un profitto ingiusto di valore compreso tra i 44.282.0711 euro ed i 114.216.971 euro.” Inoltre, l’altra contestazione riguarda la falsificazione dei dati sulle emissioni in atmosfera prodotte dal Centro olio. In base a quanto accertato da parte dei Noe di Potenza, e dalla lettura delle intercettazioni, “i vertici del Centro olio […] decidevano deliberatamente ed in diverse occasioni di comunicare agli organi
pubblici di controllo l’avvenuto superamento dei parametri, usando una condotta fraudolenta consistente nel fornire una giustificazione tecnica non corrispondente al vero e diversa da quella (effettiva) utilizzata nelle precedenti comunicazioni. Tanto, al fine evidente di nascondere le reali cause del problema e celare le inefficienze dell’impianto.” Per questo filone d’inchiesta gli indagati sono 37, gli arresti 5 e un divieto di dimora nel capoluogo lucano per Salvatore Lambiase, dirigente dell’Ufficio compatibilità ambientale della Regione Basilicata. Al momento risultano sotto sequestro alcune parti del Centro olio di Viggiano ed il pozzo Costa Molina 2. Che di fatto bloccano la produzione del greggio lucano. La Total, gli appalti, il ministro Guidi e il decreto-legge “Sblocca Italia” Il secondo filone d’inchiesta riconduce, invece, all’altro giacimento lucano - quello di Tempa Rossa - localizzato nella valle del Sauro. Titolare della concessione - denominata “Gorgoglione” - è la Total (con Shell e Mitsui) che a Corleto Perticara, in provincia di Potenza, sta realizzando un nuovo Centro olio, per il trattamento di 50 mila barili di greggio da estrarre quotidianamente a partire dal 2017. Ed è proprio in conseguenza di questa inchiesta che, il 31 marzo 2016, il ministro allo Sviluppo economico, Federica Guidi, ha rassegnato le proprie dimissioni. Dalle intercettazioni emerge il coinvolgimento del suo compagno, l’imprenditore e commissario di Confindustria Sicilia, Gianluca Gemelli. Dall’ordinanza di applicazione della misura cautelare del 23 marzo 2016 emerge che Gianluca Gemelli avrebbe sfruttato la “convivenza che aveva con il ministro allo Sviluppo economico” al fine di ottenere Giuseppe Cobianchi - dirigente della Total - le qualifiche necessarie per entrare nella “bidder list delle società di ingegneria” della multinazionale francese, e “partecipare alle gare di progettazione ed esecuzione dei lavori per l’impianto estrattivo di Tempa Rossa.” Per questo filone d’inchiesta gli indagati sono 23, gli arresti 2, tra cui l’ex primo cittadino di Corleto Perticara, Rosaria Vicino.
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Secondo l’accusa gli amministratori locali coinvolti avrebbero chiesto ed ottenuto dalle aziende coinvolte nel progetto Tempa Rossa assunzioni varie. Clientele insomma. Ricordiamo che i vertici Total sono già stati al centro di un’inchiesta del 2008 - il famoso Totalgate, del pm Henry John Woodcook - che ha visto rinvii a giudizio, condanne, ricordi, sospensioni dei lavori per illeciti, blocco e ripresa degli espropri dei terreni per “pubblica utilità”. Tempa Rossa - secondo le stime fatte dal sito inglese della Mitsui, co-titolare del progetto - è un affare da 1,6 miliardi di euro. Già quasi completamente coperti grazie all’intervento del Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica), che con una deliberazione del marzo 2012 (n.18 del 23 marzo 2012) ha stilato un programma d’investimenti pari a 1,3 miliardi di euro. In quanto considerato “strategico”. Tempa Rossa non è solo Basilicata, però. Anche Puglia e soprattutto Taranto. Scelta come terminale del progetto. A Taranto, infatti, dovrebbe arrivare il greggio estratto in Basilicata, da stoccare e da inviare a diversi impianti di raffinazione. Proprio dal fronte pugliese, negli ultimi anni, si sono registrate le maggiori opposizioni alla Total che hanno provocato diversi ritardi nell’esecuzione dei lavori. Evidentemente da sbloccare, con l’aiuto del ministro allo Sviluppo economico. L’emendamento alla legge di Stabilità sul progetto Tempa Rossa Ad inguaiare il ministro allo Sviluppo economico, Federica Guidi, sono alcune intercettazioni aventi oggetto l’inserimento di un emendamento alla legge di Stabilità “che avrebbe agevolato l’iter autorizzativo necessario alla completa realizzazione del progetto Tempa Rossa.” A tal proposito, in una comunicazione intercettata con il suo compagno Gianluca Gemelli, il ministro Guidi riferiva che “[…] poi dovremmo riuscire a mettere dentro al Senato se è d’accordo anche Maria Elena (Boschi, ministro per le Riforme costituzionali, ndr) quell’emendamento che mi hanno fatto uscire quella notte, alle quattro di notte! Rimetterlo dentro alla legge con l’emendamento alla 10
legge di Stabilità e a questo punto se riusciamo a sbloccare anche Tempa Rossa […] dall’altra parte di muove tutto!” Appresa la notizia l’imprenditore Gianluca Gemelli comunicava il tutto all’ingegner Giuseppe Cobianchi, di Total, che “pare che oggi riescano ad inserirlo (l’emendamento, ndr) nuovamente al Senato […] ragion per cui se passa […] e pare che ci sia l’accordo con Boschi e compagni […] perché la Boschi ha accettato di inserirlo […] è tutto sbloccato!”. E Giuseppe Cobianchi chiede “lei mi sta parlando di Taranto? […] quella situazione di Taranto? […] ah, ah bene!” L’emendamento in questione è il 223-bis, riguardante la semplificazione della realizzazione di opere strumentali alle infrastrutture energetiche strategiche, tra le quali inserire anche le opere necessarie al trasporto, allo stoccaggio, al trasferimento degli idrocarburi in raffineria, alle opere accessorie, ai terminali costieri e alle infrastrutture portuali strumentali alo sfruttamento di titoli concessori esistenti, comprese quelle localizzate al di fuori del perimetro di concessioni di coltivazione […]” Tempa Rossa, versante Taranto, appunto. Si ha l’impressione che questa inchiesta sia destinata ad allargarsi a macchia d’olio. Nelle ultime ore - come riporta l’Ansa - i magistrati di Potenza ascoltaranno i ministri Guidi e Boschi. Chiamato in causa anche Giuseppe De Giorgi, il capo di Stato maggiore della Marina, “indagato con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al traffico di influenze e per concorso in abuso d’ufficio in un filone siciliano dell’inchiesta sul petrolio in Basilicata. La notizia ha trovato conferme in ambienti giudiziari. Secondo quanto si è appreso, De Giorgi è indagato nell’ambito di accertamenti sull’attività dell’Autorità portuale di Augusta insieme a Gianluca Gemelli, al dirigente Total, Giuseppe Cobianchi, all’ex sindaco di Corleto Perticara, Rosaria Vicino, all’imprenditore Pasquale Criscuolo, a Nicola Colicchi, collaboratore Camera di Commercio di Roma, e al presidente del Collegio dei Revisori dei conti della stessa Camera di Commercio, Valter Pastena.”
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LA SPADA DI DAMOCLE DELL’ORO NERO DI DANIELA SPERA / twitter @Spera_Daniela
Si chiama ‘Tempa Rossa’ ed è il nuovo affare oil&gas che coinvolge - sull’asse Basilicata-Puglia - le maggiori società petrolifere internazionali: Total, Mitsui, Shell. Nell’inchiesta della Procura di Potenza, che abbiamo chiamato Oilgate, spunta un emendamento alla legge di Stabilità inserito per sbloccare il progetto.
#oilgate #raccontifossili #stoptemparossa #puglia
Il Mar Grande di Taranto / Foto di Daniela Spera Terre di Frontiera / anno 1 numero 2 - aprile 2016 / www.terredifrontiera.info
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Tempa Rossa è un giacimento petrolifero situato nella valle del Sauro, in Basilicata, che coinvolge prevalentemente il territorio dei Comuni di Corleto Perticara, in provincia di Potenza, e Gorgoglione, in provincia di Matera. 420 milioni i barili di greggio che la Total, non appena ottenute tutte le autorizzazioni, comincerà ad estrarre da otto pozzi. Presumibilmente entro la fine del “impatti 2017. Il petrolio di Tempa ambientali Rossa è destinato alla notevoli raffineria Eni di Taranto e ricadute dove verrà stoccato e occupazionali successivamente dequasi nulle” stinato all’export. Via mare. Per la sua movimentazione è previsto il prolungamento del pontile Eni-Petroli di circa 350 metri, che attraversa un tratto del Mar Grande, nel Golfo di Taranto. Il pontile sarà funzionale all’attracco delle nuove petroliere che arriveranno nel porto portando ad un incremento del traffico marittimo di almeno novanta unità in più all’anno. Sulla terraferma, invece, il progetto prevede due nuovi serbatoi di stoccaggio di capacità complessiva pari 180 mila metri cubi; due aree di pompaggio per la spedizione al nuovo pontile del greggio di ‘Tempa Rossa’ e della “nel porto concessione di coltivadi Taranto zione ‘Val d’Agri’, lo storico giacimento lucano arriveranno gestito da Eni; una nuo90 petroliere va linea di trasferimento in più del greggio di ‘Tempa ogni anno” Rossa’ dai nuovi serbatoi al pontile; una linea di trasferimento del greggio della concessione di coltivazione ‘Val d’Agri’ dai serbatoi esistenti al nuovo pontile; un impianto di preraffreddamento del greggio di ‘Tempa Rossa’; due impianti di recupero vapori a integrazione dell’esistente; un impianto di pre-raffreddamento del greggio di ‘Tempa Rossa’. ‘Tempa Rossa’, fortemente sostenuto dal governo Renzi, con Delibera Cipe n.121 del 21 dicembre 2001 fu definito opera strategica a livello nazionale durante il governo Berlu12
Il parco serbatoi Eni / Foto di Daniela Spera
sconi. Total è l’operatore per lo sviluppo del giacimento, titolare del 50% della concessione di coltivazione ‘Gorgoglione’ insieme a Shell (25%) e Mitsui (25%). Il diktat dell’approvvigionamento energetico Secondo quanto si legge nella Sintesi non tecnica dello Studio di impatto ambientale presentato da Eni, il greggio di ‘Tempa Rossa’ “contribuirà ad aumentare in maniera significativa la produzione nazionale di petrolio, contribuendo così alla sicurezza degli approvvigionamenti energetici del Paese”. Nell’ambito di una politica energetica basata sul fossile, l’approvvigionamento energetico diventa senza dubbio un problema prioritario per quei Paesi che non dispongono di tale fonte nel proprio territorio, perché questo determina dipendenza energetica da altri Paesi senza alcuna garanzia di sicurezza dei rifornimenti a prezzi contenuti. Ed è questa la prima nota dolente di un progetto che in realtà sembra avere altri scopi. La raffinazione del petrolio di ‘Tempa Rossa’ - ben 2,7 milioni di tonnellate prodotti ogni anno – non avverrà a Taranto, ma raggiungerà altre raffinerie dotate di sistemi di trattamento di greggio troppo ricco di molibdeno. Ma quali raffinerie lo riceveranno? In realtà, l’acquirente finale non viene mai specificato. L’ipotesi più accreditata è che si tratti di raffinerie estere. L’intero progetto ha costi complessivi pari a 1,6 miliardi di euro di provenienza privata. Di questi, 300 milioni sono previsti per la realizzazione delle infrastrutture gestite dalla raffineria Eni.
Terre di Frontiera / anno 1 numero 2 - aprile 2016 / www.terredifrontiera.info
A fronte di un bilancio complessivo negativo in termini di ricadute occupazionali - quasi nulle a lungo termine - ed ambientali. Il nodo della sicurezza degli impianti Il progetto ‘Tempa Rossa’ presenta criticità non trascurabili legate alla sicurezza degli impianti. Aspetti in contrasto con quanto previsto dalla direttiva 2012/18/UE (Seveso III), recepita dall’Italia con Decreto legislativo n.105 del 26 giugno 2015. Quindi, a chi giova? La sensazione è che si tratti di un’operazione concordata tra le joint venture del petrolio, con il sostegno dello Stato, per fare rapidamente cassa. Ma il maggiore guadagno è destinato alle compagine petrolifere. Prima fra tutte la Total. La più agguerrita in questa vicenda. Nei territori cerca il dialogo, vuole entrare nel tessuto sociale con il preciso obiettivo di farsi accettare dalla comunità locale. Lo fa attraverso campagne informative sui quotidiani locali o patrocinando eventi popolari. Intenzione confermata in più occasioni ed
L’emendamento incriminato
emersa in maniera chiara proprio grazie all’incessante lavoro di denuncia ed informazione
dei comitati locali che sul territorio tarantino - attraverso la presentazione di osservazioni agli Enti competenti ed il coinvolgimento di cittadini sensibili - si battono ormai da tempo. Come il comitato Legamjonici ed il Movimento ‘Stop Tempa Rossa’. Che non a caso Total scelse di invitare in uno specifico convegno tenutosi il 16 ottobre del 2014, organizzato nel tentativo di aprire un dialogo con le comunità. Un invito con lo scopo di porre fine ad uno scontro che stava incidendo sulle scelte della politica locale, mettendo a rischio l’intero progetto. Il ministro Guidi, il compagno e l’emendamento alla legge di Stabilità A confermare tali intenzioni sono le recenti intercettazioni telefoniche che hanno coinvolto il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi e il suo compagno Gianluca Gemelli, imprenditore e commissario di Confindustria. Dalle intercettazioni emerge la volontà di assecondare le esigenze della multinazionale francese che necessitava di una corsia preferenziale. Nel dicembre del 2014, infatti, spunta un emendamento ad hoc alla legge di Stabilità 2015 (Legge n.190 del 23 dicembre 2014, ndr) che in sostanza sblocca anche tutti i progetti che riguardano le infrastrutture energetiche, dunque stoccaggio, trasporto e opere connesse alle attività petrolifere. Il riferimento al progetto Tempa Rossa è chiaro. Uno scandalo che il 31 marzo 2016 ha portato ministro Guidi alle immediate dimissioni. Il cerchio si stringe intorno all’Accordo Quadro Il copione è sempre lo stesso e ricalca quello già collaudato in Basilicata. Ma in terra lucana la Total si è spinta oltre. Con l’Accordo Quadro siglato con la Regione Basilicata si è
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impegnata a conferire - oltre al pagamento delle royalties previsto dalla legge - anche ad un “ulteriore contributo di 50 centesimi di euro per barile, a cedere gratuitamente tutto il gas metano alla Regione Basilicata, a contribuire a programmi in materia di sviluppo sostenibile - gestiti dalla Regione - per un valore progressivo che parte da 500.000 euro fino a 2.500.000 euro/anno a seconda del livello di produzione raggiunto, cui si aggiungono sponsorizzazioni e campagne di promozione dell’immagine della Basilicata per circa 250 mila euro l’anno’. Vero o no, questo è quanto si legge nella brochure di presentazione del progetto ‘Tempa Rossa’, confezionata dalla multinazionale francese. Dire no alle royalties A Taranto, però, è arrivato il ‘no’ alle royalties e ad ogni forma di dialogo con la Total da parte della comunità locale. Tanto da influenzare le recenti prese di posizione dell’amministrazione comunale. La strategia messa in campo dai francesi è di fatto fallita, nonostante l’apertura della categoria degli ingegneri tarantini. Infatti, lo scorso 4 marzo Total ha accettato l’invito da parte del presidente dell’Ordine degli ingegneri, Antonio Curri, a rendersi disponibile per presentare il progetto Tempa Rossa ed il settore oil&gas a tutti gli iscritti. Lo stesso presidente Curri ha dichiarato: “Grazie agli elementi raccolti ognuno può finalmente costruirsi una corretta opinione su un progetto così importante.” “Nell’ottica di favorire la massima trasparenza sulle attività svolte - con parti-
Il parco serbatoi Eni / Foto di Daniela Spera
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Il parco serbatoi Eni / Foto di Daniela Spera
colare riguardo agli elevati livelli tecnologici, alla sicurezza ed alla protezione ambientale della propria industria - ha aggiunto - Total E&P Italia ha da subito confermato la propria disponibilità.” Presenti all’incontro Roberto Pasolini, Direttore esecutivo affari “a Taranto istituzionali e relazioni è arrivato esterne, diversi ingeil no gneri e il presidente di alle royalties Confindustria Taranto, e ad ogni forma Vincenzo Cesareo. Nella relazione conclusiva di dialogo” fornita dall’Ordine degli ingegneri si legge che “i lavori si sono svolti in un clima di interesse e con la partecipazione attiva di un centinaio di ingegneri a riprova del fatto che il dialogo e la condivisione di informazioni sono sempre la via maestra per superare le contrapposizioni ideologiche.” Si tratta davvero di semplici contrapposizioni ideologiche? È davvero un progetto sicuro sotto il profilo ambientale e della sicurezza? A questi interrogativi cercheremo di dare risposta, fornendo anche un quadro ben preciso sul ruolo spesso contraddittorio svolto dalla politica locale. Spiegheremo anche nel dettaglio come la politica nazionale è intervenuta per favorire il progetto ‘Tempa Rossa’, anche alla luce del recente scandalo esploso in seguito alle intercettazioni telefoniche.
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Rifiuti connection
SAN SAGO, UN FIUME DI PERCOLATO
SAN SAGO, UN FIUME DI PERCOLATO DI ANDREA POLIZZO
Quando pensi a San Sago pensi ai faldoni delle inchieste. Secondo due procure, tra Calabria e Basilicata, un impianto di depurazione rifiuti liquidi minaccia la salute del fiume Noce, di sei aree Sic e delle popolazioni locali
#rifiuticonnection #calabria #basilicata
Questa di San Sago è una storia di inquinamento e di 35 mila tonnellate di percolato presumibilmente finite in mare. Ma è anche una storia di decine di posti di lavoro in terra di disoccupazione. È una storia finita nelle stanze delle procure e nelle aule di tribunale. È una di quelle storie che ti danno l’idea di quanto sia difficile in Italia accertare un reato ambientale e condannarne gli autori. È la storia di un impianto di depurazione di rifiuti liquidi speciali pericolosi, e non, situato a poche decine di metri dal fiume Noce e dal Mar Tirreno calabrese e lucano. È una storia iniziata quindici anni fa ed arrivata, di capitolo in capitolo, fino ad oggi. È la storia di chi lavora con la monnezza ma sostiene sempre di essere pulito, sotto ogni aspetto. Nel mezzo ci sono sequestri e società che cambiano
nome con disinvoltura. Eppure appaiono amministrate sempre dalle stesse facce. Ci sono comuni lucani e calabresi diventati avversari dopo essere stati clienti. Ci sono associazioni ambientaliste e anche attori di teatro e un santo. Ma andiamo con ordine.
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“la storia di chi lavora con la monnezza ma sostiene di essere pulito”
Se vinci nelle aule di tribunale è come se l’inquinamento svanisse Mentre mancano pochi giorni per la prima udienza del “processo San Sago” per reati ambientali, l’impianto vive una nuova fase. Vasche, pompe, collettori, nastropresse e
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L’impianto e la Valle del Noce / Foto di Andrea Polizzo
pozzetti di pescaggio sono pronti a tornare in funzione. Un nuovo slancio all’attività dopo più di due anni di stop forzato a causa di un sequestro preventivo dell’autorità giudiziaria e di un’ordinanza sindacale di chiusura. Oggi Ecologica 2008 srl - società che possiede e gestisce l’impianto - è chiara: “Abbiamo avuto ragione su ogni fronte giudiziario. Ora ripartiamo”. E lo ha fatto sapere all’indomani di una recente pronuncia del Tribunale amministrativo della Regione Calabria. Nella camera di consiglio del 18 dicembre 2015 presidente Guido Salemi, Emiliano Raganella e Raffaele Tuccillo a latere - il Tar ha accolto il ricorso presentato dal privato contro l’ordinanza di chiusura emessa dal sindaco di Tortora, Pasquale Lamboglia. Un atto, quello sindacale, assunto a marzo 2014 e motivato con la volontà di salvaguardare la salute dei cittadini e l’ambiente dal pericolo rappresentato dal depuratore. Un’ordinanza urgente che faceva seguito al sequestro dell’impianto
stesso avvenuto il 4 dicembre 2013 ad opera della brigata della guardia di finanza di Cetraro. Allora, le fiamme gialle, in qualità di polizia giudiziaria per conto della Procura della Repubblica di Paola, avevano apposto i sigilli al depuratore ipotizzando gravi reati ambientali. Il sequestro giungeva al termine di un’indagine complessa che ha coinvolto le procure di Paola e Lagonegro, la già citata guardia di finanza, l’aliquota di polizia giudiziaria sezione Ambiente della procura paolana e i carabinieri del nucleo operativo e radio mobile lagonegrese. Un’indagine talmente complessa da richiedere anni e che è comunque servita per ottenere il rinvio a giudizio di tre amministratori dell’impianto Il depuratore di San Sago nel frattempo era stato anche dissequestrato dallo stesso Gip nel marzo del 2015 e restituito agli aventi diritto. Forte di questi risultati (dissequestro
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e annullamento dell’ordinanza, ndr) Ecologica 2008 srl ha messo in campo una strategia distensiva e ha aperto un dialogo con i principali oppositori: amministrazioni comunali e sigle ambientaliste. È bene dunque ricordare chi, attualmente, si oppone all’impianto di San Sago. Innanzitutto i comuni lucani del Lagonegrese e della Valle del Noce e quelli calabresi dell’Alto Tirreno cosentino. Tutti centri costieri o collinari interessati dalla questione in maniera diretta o per prossimità. Questi, a partire dal 2011, si sono uniti all’interno del Comitato a difesa del fiume Noce (Cominoce) fondato con Libera del Lagonegrese e l’associazione Valledelnoce.it. Quest’ultima è l’associazione ambientalista locale ideata dal rivellese Ulderico Pesce, attore e regista teatrale noto per essere autore di spettacoli di denuncia sociale ed ambientale (Asso di monnezza, sul traffico illecito di
rifiuti, Storie di scorie sul pericolo nucleare e i depositi di Rotondella, Saluggia, Casaccia e sulle manifestazioni del 2003 contro l’ipotesi di un deposito a Scanzano Jonico). Valledelnoce.it, è poi uscita dal Cominoce in aperta polemica con buona parte dei suoi componenti ritenuti inermi di fronte all’altra presunta grande fonte di inquinamento del fiume: i depuratori comunali del Lagonegrese. “Il vero obbiettivo dovrebbe essere la salvaguardia del corso d’acqua e della vallata - ci ha detto in questi giorni Pesce - ma a noi ci è sembrato che buona parte del Cominoce puntasse piuttosto al Contratto di fiume (Csf) e al controllo delle risorse economiche comunitarie per la sua progettazione. Il Cdf - ha aggiunto - è una cosa buona, ma non bisogna confondere la lotta per l’ambiente con le mire di ingegneri ed architetti aspiranti progettisti.” Alla ripresa delle attività a San Sago si oppongono inoltre Comitato per la Bonifica dei
La foce e la riviera / Foto di Andrea Polizzo
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terreni, mari e fiumi della Calabria, Movimento ambientalista del Tirreno e la sezione locale di Italia nostra. Questi ultimi hanno rifiutato l’invito a incontrare i proprietari. “La nostra posizione - hanno fatto sapere - è che quell’impianto è incompatibile con l’area naturalistica in cui si trova e quindi, ad un eventuale incontro, non avremmo avuto nulla da dirci”. Gli incontri L’invito, invece, è stato accolto dal Cominoce. “Un incontro interlocutorio” secondo il responsabile di Libera del Lagonegrese, Gerardo Melchionda, quello in effetti avvenuto lo scorso 9 marzo a Lauria. In quella occasione la delegazione della proprietà era rappresentata da Carlo Caporizzi, nome mai associato in precedenza alla vicenda, che ha riferito di essere il proprietario degli impianti da molto tempo. Pare infatti che da circa 8 anni la società di cui è titolare (la Co.Gi.Fe. Ambiente srl, ndr) controllerebbe Ecologica 2008 srl che, come da atti d’indagine, risultava controllata e gestita dai Lonoce, imprenditori pugliesi, di base in provincia di Taranto, ma con interessi un po’ in tutta Italia nel settore dei rifiuti. Pasquale e Cosimo Lonoce sono tra l’altro imputati con altri 9 in un altro processo per reati ambientali compiuti nel depuratore e nel contiguo impianto di compostaggio. Caporizzi ha inoltre aggiunto (ma questa va consolidandosi negli anni come prassi dei gestori l’impianto) che l’intento è quello di creare uno spartiacque con il passato. Eppure anche nel caso della nuova società i fili parrebbero condurre nella medesima provincia tarantina. Eppure, Caporizzi, all’incontro era accompagnato da Debora Plastina, ovvero l’amministratore unico e rappresentante legale di Ecologica 2008 all’epoca del sequestro della guardia di finanza, indagata per reati ambientali e rinviata a giudizio nel processo San Sago. Il privato ha comunque chiesto al Cominoce di avanzare proposte per instaurare un buon rapporto e di considerare gli impianti come una risorsa e non come una minaccia. La risposta giungerà dopo Pasqua ma - sempre per bocca di Melchionda - è stato già precisato che “in quel sito il depuratore
non va bene”. Va però tenuto conto del fatto che - secondo indiscrezioni - all’interno del comitato ci sarebbero posizioni differenti tra i sindaci che vanno da quelle rigide e intransigenti ad altre, invece, più morbide. Quando le storie d’inquinamento vengono scritte su pagine fatte “ci troviamo di ambienti protetti poco distanti Comprendere la storia dalla costa e di San Sago non è cosa da sei Siti di semplice. Ma è utile interesse comprendere su quale comunitario” carta, metaforicamente parlando, questa storia viene scritta. Stiamo parlando di una vasta area su cui ricadono circa una dozzina di comuni, al confine tra Calabria e Basilicata. La valle è attraversata dal fiume Noce che percorre i suoi 45 chilometri di lunghezza sorgendo in Lucania, dalle falde settentrionali del massiccio del Sirino, e tuffandosi nel Mar Tirreno praticamente in Calabria. La parte finale del corso d’acqua segna il confine naturale e politico tra le due regioni. Scivolando verso Sud sfiora Lagonegro, Rivello, Lauria, Trecchina e alla foce si lascia a Nord, Maratea, la città del Cristo Redentore e, a Sud, i centri balneari della cosentina Riviera dei Cedri: Tortora, Praia a Mare, San Nicola Arcella, Scalea, Santa Maria del Cedro e così via. L’impianto è situato nel Comune di Tortora, nella frazione San Sago confinante con i comuni dell’area lucana. Prende il nome da San Saba di Collesanto, un monaco basiliano che dimorò nell’area del Mercurion durante il monachesimo basiliano dell’alto Medioevo. Ci troviamo a breve distanza dalla costa e, tutto intorno, ben 6 Sic (Sito di interesse comunitario): “Valle del Noce”, “Marina di Castrocucco”, “Isola di Santoianni e costa prospiciente”, “Acquafredda di Maratea”, “Isola di Dino”, “Fondali Isola di Dino - Capo Scalea”. Fare un’elencazione delle specie protette di flora e fauna presenti nell’area sarebbe un esercizio utile ma quanto meno impegnativo. Basti però citare il lupo (Canis Lupus), la puzzola (Mustela Putorius), il gatto selvatico europeo (Felis Silvestris),
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L’impianto visto dall’alto / Foto di Andrea Polizzo
il moscardino (Muscardinus Avellanarius), il cervone (Elaphe Quatuorlineata), la tartaruga greca (Testudo Graeca) e la lontra (Lutra Lutra), specie particolarmente protetta e definita prioritaria dalla direttiva europea. A pochi chilometri dalla foce, sui fondali dell’Isola di Dino di Praia a Mare, sorgono colonie di Gorgonie e praterie di Posidonia oceanica. Se invece si vuole badare ad aspetti più materiali, allora è impossibile non citare la vocazione turistica dell’intera area con l’asse costiero che è trainante con le sue località balneari, colte sì dalla crisi degli ultimi anni, ma che vantano una storia quasi cinquantennale nel contesto. Una storia di sequestri, ricorsi, processi, reati ambientali e pochi, pochissimi colpevoli. Quasi nessuno Dici San Sago e invece che al santo pensi ai faldoni delle inchieste. Sono diversi i procedimenti giudiziari che hanno interessato gli impianti di depurazione e di compostaggio 20
presenti a San Sago. A volte separatamente. A volte insieme. Come nel procedimento seguito agli accertamenti compiuti nel 2008 e nel 2009 dalla Procura di Paola. Allora, ipotizzarono gli inquirenti, gli imputati avevano costituito un’associazione a delinquere con struttura stabile per l’illecito “nel Noce smaltimento di ingenti sarebbero stati quantità di rifiuti solidi sversati liquami urbani provenienti da non depurati siti di stoccaggio della finiti nel Calabria, della Campania e della Basilicata. mar Tirreno” Questi sarebbero stati triturati e mescolati a segatura, terreno vegetale, percolato, plastica, risulte di costruzione, sangue animale ed altre sostanze nocive per essere successivamente depositati su terreni agricoli nei pressi del fiume Noce, grazie a proprietari compiacenti. Nel corso d’acqua sarebbero stati anche sversati liquami non depurati poi
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finiti nel Tirreno con conseguente danneggiamento e alterazione di aree naturali protette. Scopo del sodalizio, sarebbe stato incassare profitti illeciti derivanti dai risparmi sui costi di smaltimento pagati dalle società e dalle amministrazioni comunali che conferivano rifiuti alle ditte coinvolte. La struttura avrebbe anche utilizzato falsa certificazione di analisi del rifiuto e mancata emissione dei previsti formulari. Questo processo, partito nel 2010 con le udienze preliminari è ancora in corso, ma ha prodotto una condanna nel rito abbreviato dell’imputato Gaetano Lops. Reati simili sono contestati nel processo che partirà al tribunale di Paola il prossimo 8 aprile e nato dall’inchiesta coordinata dalle due procure del territorio, quella lucana di Lagonegro e quella calabrese di Paola, che ha condotto al sequestro dell’impianto, oggi dissequestrato. I finanzieri, nel periodo d’indagine, hanno seguito con apparecchiatura satellitare gli spostamenti delle auto-cisterne e dei camion che trasportavano i rifiuti nell’impianto tortorese. Hanno vagliato la documentazione prodotta dalla ditta a partire dal 2009 e fino al 2013. Dagli accertamenti è risultato che la ditta in diverse occasioni non ha rispettato il limite massimo giornaliero di rifiuti liquidi trattabili, fissato a 300 metri cubi. Ma le investigazioni hanno anche portato alla scoperta di criticità nel funzionamento dell’impianto. È stato accertato che i liquidi venivano deviati con “tubazioni volanti” verso il torrente, senza “distrastro passare dalle vasche colposo, di depurazione. In altri distruzione casi, inoltre, veniva sale deturpamento tato anche il passaggio di bellezze della denitrificazione naturali” con gravi conseguenze per i corsi d’acqua e per l’ambiente circostante. Con questi passaggi illeciti il management dell’impianto - ipotizza il Giudice per le indagini preliminari - ha maturato ulteriori guadagni derivanti dal risparmio sui trattamenti. A questo scopo si preoccupava di catalizzare nell’impianto di San Sago quanti più rifiuti
liquidi speciali possibili attraendoli, oltre che dalla Calabria, anche da impianti della Campania, della Basilicata e della Puglia. Gli inquirenti hanno inoltre sottolineato il grave danno ipotizzato per la salute e per l’ambiente tenendo conto che le acque del Noce vengono utilizzate anche per l’irrigazione di campi e l’abbeveramento di animali oltre a riversarsi nel mar Tirreno che bagna la Riviera dei Cedri, area a forte connotazione turistica balneare. Il Gup di Paola, Pier “Dal 2010 al 2013 Paolo Bortone, ha poi rinviato a giudizio Desversate nel bora Plastina, Raffaele mar Tirreno Cavaliere e Agostino 32 mila Gallo rispettivamente amministratore unico e tonnellate di rappresentante legale, percolato” collaboratore e direttore tecnico della Ecologica 2008 srl. Dovranno rispondere di disastro doloso, inosservanza di autorizzazione nella gestione di rifiuti non pericolosi, getto pericoloso di cose aggravato dal danneggiamento, distruzione e deturpamento di bellezze naturali compiuti. I componenti del Cominoce, il Consorzio turistico del Tirreno e alcuni imprenditori balneari a titolo individuale, il Parco marino Riviera dei Cedri e associazioni del territorio sono state ammesse quali parte civile. “Saremo pienamente soddisfatti - ha dichiarato il giorno del rinvio a giudizio il sindaco di Tortora, Pasquale Lamboglia - se attraverso questo procedimento si giungerà alla revoca dell’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) da parte della Regione Calabria e alla chiusura definitiva dell’impianto. Non siamo interessati alle condanne dei singoli.” Un procedimento che dovrà sentenziare. Le consulenze tecniche ed il disastro ambientale Nel frattempo è possibile farsi un’opinione seguendo le consulenze tecniche prodotte dalle due parti. Secondo la relazione tecnica sul depuratore di San Sago stilata per conto del Comune di Tortora dall’ingegnere chimico Raffaele Magnanimi, “sussistono - scrive
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nelle conclusioni - tutte le condizioni perché le attività effettuate dalla società Ecologica 2008 abbiano determinato un disastro ambientale, esistendo i presupposti costituiti da: ampiezza, straordinaria gravità e irreparabilità del danno”. L’analisi offre dati inquietanti soprattutto circa le quantità di rifiuti sversati senza essere depurati direttamente nel torrente Pizinno, affluente del fiume Noce, e da quest’ultimo direttamente nel Mar Tirreno. In 4 anni, dal 2010 al 2013, ben 35 mila tonnellate. Il 90 percento di esse, come risulta dai registri della società, è costituito da percolato: circa 32 mila tonnellate. Magnanimi ha dunque stimato che, sempre nello stesso periodo, sono circa 50 le tonnellate di metalli pesanti finite nell’ecosistema del Noce. La conclusione che propende per l’esistenza del disastro ambientale sarebbe determinata “dall’ele“nell’acqua vata pericolosità delle sostanze sostanze versate” in cancerogene maniera ripetuta in un e tossiche arco di tempo considerevole (4 anni) attraverper so mezzi di diffusione l’ambiente” (torrente, fiume e mare) che espongono a pericolo un elevato numero di cittadini oltre all’ambiente circostante. Un danno definito “irreparabile, non circoscritto ma diffuso nel suolo (per irrigazione), nelle acque del Noce (contaminazione fauna, contaminazione persone per i possibili usi diversi) e nel mare (balneazione e pesca)”. La relazione espone inoltre un dettaglio delle sostanze chimiche cancerogene e tossiche per l’ambiente versate nelle acque contenute nel percolato arrivato a San Sago tra cui arsenico, cadmio, cromo totale, mercurio solo per citarne alcune. Il calcolo - si legge ancora nel documento - è stato effettuato sulla base di un bilancio giornaliero tra quantità di rifiuti in arrivo, quantità lavorabile secondo i limiti imposti dall’Autorizzazione integrata ambientale in possesso della ditta e capacità di stoccaggio in vasche di accumulo. Per il privato, invece, quello di San Sago sarebbe un “Impianto modello”. È quanto viene da pen22
LE PRINCIPALI DATE DELLE INCHIESTE GIUDIZIARIE 2001 In località San Sago di Tortora viene realizzato un primo impianto per deposito, trattamento biologico e chimico di rifiuti. Lo gestisce la Wts srl che nel 2005 otterrà i codici per il trattamento di rifiuti speciali non pericolosi. 2005 Ecologica Sud srl di Castrovillari (Cs) subentra alla Wts srl. 2008 Subentra Ecologica 2008 srl, controllata da Co.Gi.Fe Ambiente srl di San Marzano di San Giuseppe (Ta). L’impianto è sequestrato da giugno a settembre. 2009 La società dell’epoca ottiene l’Aia rilasciata dalla Regione Calabria. L’impianto è sequestrato per la seconda volta da aprile a giugno. La procura chiude un’indagine di due anni. 11 indagati rinviati a giudizio per reati ambientali. 2013 Terzo sequestro per l’impianto, da dicembre e fino ad aprile dell’anno successivo. Il consiglio comunale chiede alla Regione Calabria di revocare l’Aia, ma ottiene solo una sospensione di 6 mesi.
2014 Marzo: Ordinanza urgente di chiusura dell’impianto emanata dal sindaco del Comune di Tortora. Aprile: Gip Paola autorizza dissequestro temporaneo per permettere al privato di eliminare criticità sotto il controllo della polizia giudiziaria. 2015 Marzo: dissequestro dell’impianto con sentenza del Riesame. Maggio: tre componenti del management di Ecologica 2008 rinviati a giudizio ancora per reati ambientali. 2016 Febbraio: il Tar Calabria dichiara illegittima l’ordinanza sindacale di chiusura dell’impianto.
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sare leggendo la consulenza tecnica di parte richiesta all’ingegnere ambientale Federico Vagliasindi. “Nel periodo 2010-2013 l’Ecologica 2008 srl che gestisce l’impianto di depurazione di San Sago ha sempre rispettato il limite annuo di conferimenti imposto dalle autorizzazioni”. Secondo lo studio, basato sui dati tecnici e gestionali dell’impianto, nel periodo oggetto delle indagini si avrebbero le prove di una corretta conduzione dei processi depurativi. E ciò - secondo Vagliasindi - sulla base della certificazione relativa ai reagenti utilizzati e dei fanghi prodotti e poi avviati in discarica che indicano quantità compatibili con quelle dei liquami trattati, in prevalenza percolato da discarica. Inoltre - si legge sempre nelle conclusioni - le “risultanze dei certificati di analisi sul refluo” in uscita “risultano tutte ampiamente conformi ai limiti di legge imposti”. L’analisi dell’ingegnere ambientale si sofferma soprattutto sulla capacità dell’impianto di ricevere e “immagazzinare” quantità di rifiuti superiori a quelle trattabili giornalmente secondo l’Autorizzazione integrata ambientale posseduta. “Le vasche di trattamento - conclude Vagliasindi - hanno
una volumetria complessiva di 1.900 metri cubi che in base alla portata media di progetto comportano un tempo medio di detenzione idraulica pari a oltre 6 giorni. Risulta quindi evidente - prosegue - che l’impianto è in grado di espletare i processi previsti anche in corrispondenza di significativi aumenti della portata”. Secondo lo studio di parte, inoltre, l’impianto di San Sago avrebbe anche “lavorato al di sotto della capacità di progetto ed autorizzata”. Il tutto nell’ambito della trasparenza avendo fornito i propri dati gestionali con regolarità agli organi di controllo. Alla Regione Calabria, che ha rilasciato nel 2009 l’autorizzazione e, dal maggio 2012, al Comune di Tortora. Infine, la consulenza Vagliasindi ribadisce alcuni concetti sempre espressi da Ecologica 2008. In nessuno dei 4 anni oggetto delle indagini è stata superata la soglia dei reflui trattabili di 110 mila metri cubi. Nello stesso periodo, l’impianto ha ricevuto numerose visite ispettive dagli organi di controllo, da forze dell’ordine, in alcuni casi anche come organi di polizia giudiziaria e nel corso delle quali il management ha sempre collaborato fornendo quanto richiesto.
Rifiuti connection nel numero precente marzo 2016
LA FABBRICA DI PERCOLATO
La discarica Campolescia di Castrovillari / pagina 8
I RIFIUTI DIMENTICATI
I rifiuti radioattivi di Statte / pagina 11
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CONFERMATO SEQUESTRO MUOS La Cassazione ha conferma il sequestro del Muos, il sistema americano di comunicazione satellitari militari ad alta frequenza. “La notizia più bella che potessi mai ricevere, finalmente la tutela della salute degli abitanti di Niscemi e la salvaguardia del nostro territorio vengono riconosciuti come un diritto inalienabile dalla Cassazione”. Ad affermarlo è Franco La Rosa, sindaco di Niscemi, in provincia di Caltanissetta. La Cassazione, nelle motivazioni di conferma del sequestro, ha evidenziato che “certamente sussistente quantomeno per la prosecuzione dei lavori in epoca successiva allíannullamento del provvedimento di revoca delle revoche” la consumazione a livello indiziario del reato di abuso edilizio nella realizzazione di infrastrutture militari. www.sudpress.it
RINNOVABILI E TRIVELLE Debutta l’associazione parlamentari per lo sviluppo sostenibile che vuole le trivelle offshore. Il nuovo sodalizio sottolinea che “dopo la Cop21 si aprono scenari radicalmente nuovi. L’Italia non può perdere questa grande opportunità e deve diventare protagonista tra i Paesi che opereranno per l’attuazione delle linee programmatiche ora richieste”. “Lavoreremo per accelerare l’emissione di tutti quei decreti opportuni per accompagnare la transizione verso questo nuovo modello di sostegno alle fonti pulite.” Ma, al di là della Cop21 aggiungono che “l’Associazione è nata per promuovere un ambientalismo realista. Non amiamo le posizioni massimaliste quindi non può essere esclusa per legge la possibilità di ricerca degli idrocarburi sulle coste italiane.”
DISASTRO AMBIENTALE IN TUNISIA Non solo Brasile, non solo Golfo del Messico e California. L’ennesimo disastro ambientale si sta consumando a due passi dalle nostre coste e sta passando ancora una volta sotto silenzio. Mentre in Italia ci si interroga ancora sulla necessità o meno di votare al referendum sulle trivellazioni in mare, la Tunisia sta facendo i conti con una nuova marea nera a 120 chilometri da Lampedusa. Una fuoriuscita di petrolio è stata confermata a largo delle isole Kerkennah, uno degli habitat della Tunisia più ricchi di fauna selvatica. Le Kerkenna sono un gruppo di isole situato al largo di Sfax, sulla costa orientale della Tunisia, nel Golfo di Gabes. La perdita ha avuto origine nelle condotte sottomarine appartenenti alle Thyna Petroleum Services (TPS). Parlando a MosaiqueFM, Ridha Ammar, amministratore delegato della New Society of Transport in Kerkennah ha confermato la fuoriuscita, dicendo che la spiaggia più colpita è quella di Sidi Fraj. A scoprire la marea nera sulla spiaggia qualche giorno fa sono stati gli stessi isolani, che hanno poi avvertito le alle autorità locali. www.greenme.it
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BRINDISI E L’INQUINAMENTO L’associazione Peacelink ha inviato una lettera alla Commissione Europea in merito alla questione inquinamento a Brindisi. Il destinatario è il commissario per l’Inquinamento, gli Affari marittimi e la Pesca, Karmenu Vella. Ad un anno dalla denuncia presentata alla Commissione Europea per l’Ambiente, Peacelink sollecita un intervento della Commissione per difendere il diritto alla salute e all’ambiente dei cittadini di Brindisi. Nella lettera si fa riferimento ad un peggioramento della situazione, accompagnato dalla inerzia delle Istituzioni che non hanno ad oggi ancora elaborato nessun piano per la riduzione delle emissioni, nessun atto finalizzato a proteggere la popolazione. www.brindisireport.it
PROTOCOLLO SULLA SALVAGUARDIA Agenas (Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali) e AssoArpa (Associazione delle Agenzie regionali e provinciali per la protezione ambientale) hanno firmato protocollo d’intesa su salvaguardia e sostenibilità. L’obiettivo dell’intesa sarà l’individuazione di iniziative a tutela della salute e a salvaguardia di una corretta allocazione delle risorse. L’alterazione ambientale dovuta a lavorazioni industriali o alla gestione dei rifiuti costituisce ormai un’emergenza per vaste porzioni di territorio. Alcune malattie oncologiche registrano un’incidenza maggiore in alcuni territori oggetto di rischi ambientali con pesanti ripercussioni sociali ed economiche. www.quotidianosanita.it
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IL PETROLIO PREVALE SULLA SALUTE A sostenerlo è il Tar Basilicata nella sentenza n.282 del 24 marzo 2016, relativa all’accoglimento del ricorso di Eni relativo alle autorizzazioni ambientali per i pozzi Caldarosa 2 e Caldarosa 3 e connessi oleodotti. Si attende ora che i ministeri dell’Ambiente e dei Beni Culturali, la Soprintendenza della Basilicata e l’Ente Parco nazionale dell’Appennino Lucano impugnino senza esitazione, innanzi al Consiglio di Stato, l’interpretazione del “bilanciamento dei principi Costituzionali” enunciata dal Tribunale amministrativo regionale. La sentenza potrebbe costituire un precedente pericolosissimo per l’interesse pubblico rappresentati dai beni tutelati delle aree protette, dei Siti Natura 2000 dell’Unione Europea, a vantaggio e nell’interesse privato delle compagnie petrolifere, investendo anche la legittimità delle funzioni svolte da Istituzioni di salvaguardia del territorio e dell’ambiente. Ribadire nella sentenza che i lavoratori del petrolio hanno prevalenza rispetto a quelli del parco - ovvero agli allevatori, agli agricoltori ed agli operatori turistici - è da considerare una classificazione degli ultimi da ‘serie B’, pur operando in ambito di aree protette.. www.olambientalista.it
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Gela profonda
L’OMBRA DEL DISASTRO COLPOSO
SU GELA L’OMBRA DEL DISASTRO AMBIENTALE DI PIETRO DOMMARCO / twitter @pietrodommarco
Dopo 11 anni di indagini la Procura della Repubblica di Gela ha chiuso le indagini sul petrolchimico Eni. I rinviati a giudizio sono ventidue, tra direttori e tecnici di Enimed e RaGe Raffineria di Gela. L’accusa è disastro colposo innominato. Informati i ministeri dell’Ambiente e della Salute Il 10 marzo scorso, a pochi giorni dall’uscita del nostro approfondimento “Gela profonda”, la procura della Repubblica di Gela ha chiuso un decennio di indagini a carico del petrolchimico Eni. Sotto la lente di ingrandimento del procuratore Lucia Lotti - che il Consiglio Superiore della Magistratura ha appena trasferito a Roma - sono finite le contaminazioni del suolo, dell’aria e delle falde acquifere. Come abbiamo avuto modo di raccontare sul primo numero. I rinviati a giudizio sono ventidue, tra direttori e tecnici dell’Enimed e della Raffineria di Gela. Rischiano dai 3 a i 12 anni di reclusione. L’accusa è di “disastro colposo innominato”, e si inserisce in un contesto d’indagine molto ampio tra omesse bonifiche, violazione dei codici ambientali, gravi ricadute
#gelaprofonda #raccontifossili #sicilia
dell’inquinamento sulle comunità e sulla catena alimentare. L’Eni - che sta lavorando alla riconversione ‘green’ delle attività di raffinazione - ha risposto confermando di aver sempre rispettato norme e prescrizioni imposte dagli organi competenti, sottolineando come i risultati delle indagini sulle matrici ambientali “confermano l’assenza di un inquinamento diffuso nell’area e soprattutto di rischi per la popolazione della città di Gela”. Per cercare di capire di più sulla vicenda Gela abbiamo intervistato, in esclusiva, il geologo Vincenzo Portoghese, consulente della Procura di Gela dall’ottobre 2012 a settembre 2015. In sostanza, è stato gli occhi della Procura per una specifica parte della inchiesta.
l’intervista Dott. Portoghese cominciamo dalla stretta attualità. Il 10 marzo abbiamo appreso che la Procura di Gela ha chiuso un decennio di indagini sul petrolchimico Eni. Vuole commentare la notizia? Va dato merito alla Procura di Gela - come ho avuto modo di constatare lavorando da consu28
lente per l’ultimo filone di inchiesta - di aver svolto un lavoro, nel tempo improbo, con la massima serietà e rigore su una delle questioni italiane più complesse e, al tempo stesso, poco note. Le inchieste hanno riguardato tutto il petrolchimico, comprese le attività estrattive con una produzione di dati enorme.
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Per tre anni, come ha ricordato, è stato consulente della Procura. Quale situazione ha trovato a Gela? Può spiegarci dal suo punto di vista il contesto ambientale? Innanzi tutto, premetto che il quadro emerso - al di là dei meri aspetti giudiziari - serve di sicuro a far capire cosa abbia rappresentato, non solo per Gela, la presenza di impianti industriali ad alto impatto ambientale, nonché l’estrazione di idrocarburi, con ricadute e conseguenze sotto ogni profilo: sociale, ambientale, occupazionale e sanitario. Gela è una città ricca di storia e, francamente, quando per la prima volta sono arrivato in quei luoghi, le impressioni sono state fortissime. Mi colpirono, arrivando di notte, i bagliori delle luci del complesso industriale, i pennacchi giallo-arancioni che fuoriuscivano dai camini. Ma più di ogni altra cosa ho avvertito, fin da subito, quell’odore forte, intenso e acre. Ho pensato che quell’odore e quelle sostanze aerodisperse i gelesi le annusavano 365 giorni l’anno. Per ogni anno della loro vita. Al contempo, ti aspetti di vivere in una città opulenta, invece noti lo stridìo tra quelle luminosità, e colori forti, con un contesto a tinte fosche. Gela si apre, di fatto, sul Mediterraneo. Una finestra su immagini contrastanti, non solo di carattere ambientale, ma di coscienza e consapevolezza, di involuzione dell’intero territorio. Come emerge dalla lettura di migliaia di documenti, analisi, e rapporti tecnico-scientifici. Lei, nello specifico di cosa si è occupato? Il mio ruolo ha riguardato un’indagine relativa allo stato di manutenzione di alcuni serbatoi, nonché l’efficacia delle opere di bonifica delle acque di falda. Come avete raccontato nella vostra inchiesta ‘Gela profonda’. In pratica sono stato ‘gli occhi’ della Procura. Ed attenendomi a questo delicato compito, li ho tenuti ben aperti in tutte le fasi previste. Le risultanze dell’inchiesta della Procura di Gela - che parla di disastro ambientale innominato - sono molto forti. Dall’Eni hanno fatto sapere di aver sempre rispettato “norme, disposizioni e prescrizioni impartite per la corretta gestione delle attività industriali e in particolare, in relazione al rispetto delle
norme in materia di emissioni in atmosfera, scarichi idrici e bonifiche”. È così. Può spiegarci come stanno le cose? Chiariamo subito. È dovuta intervenire la Procura per inquadrare la situazione e cercare di incanalare ed indirizzare l’attività industriale nella direzione del rispetto e dell’osservanza delle leggi e delle ‘famose prescrizioni tecniche’ relative all’ottenimento delle varie autorizzazioni, per ultima l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia). In sostanza ho avuto la netta sensazione che la Procura abbia assolto anche compiti non propriamente suoi, essendosi dovuta occupare di osservanza e vigilanza delle varie prescrizioni, delle normative tecniche e ambientali di “la Procura riferimento.
di Gela parla di disastro ambientale innominato”
La Procura, insomma, si è sostituita agli Enti preposti al controllo? Esattamente. Giova ricordare che c’è già stata un’inchiesta, con successivo processo concluso con l’assoluzione per intervenuta prescrizione dei reati. Ma, i fattori di contaminazione, e in parte le responsabilità, furono già allora acclarati. Per quanto mi riguarda, dagli studi ed atti pubblici visionati il quadro che ne viene fuori non è di certo così rassicurante. Lo strumento che permette di identificare la dimensione e l’entità delle conseguenze derivanti dalle contaminazioni è l’analisi di rischio. Da quel che mi risulta, anche in questo caso, è stata effettuata ma al momento non è ancora possibile anticiparne i contenuti. L’analisi di rischio è già un sentore… L’analisi di rischio si esegue secondo quanto contemplato nel Decreto legislativo n.152/2006, allorquando anche un solo analita risulta essere superiore alle Concentrazioni soglia di contaminazione (Csc). Devo specificare che nel procedimento che ho seguito sono state effettuate dal Collegio peritale anche nuove analisi geochimiche in contraddittorio. Inoltre, la Raffineria di Gela è tenuta ad effettuare dai primi anni duemila monitoraggi cadenzati ed
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analisi secondo protocolli stabiliti di concerto con le Autorità competenti. Tutto chiaro. Ora apriamo il capitolo bonifiche, che dal quadro probatorio sembrano non essere risolutive. Le opere di bonifica, secondo quanto prescritto e concordato nelle varie sedi tecnico-istituzionali, non sono risultate essere né del tutto efficaci, né risolutive. Lo stesso barrieramento idraulico è risultato avere forti criticità. (Conferenza dei servizi del 18 dicembre 2013, ndr). Se eseguo un‘opera atta al confinamento, al di fuori del complesso industriale non deve, non dovrebbe, fuoriuscire nulla. Se, invece, ritrovo anche minime tracce sia pur al di sotto dei limiti di legge, di elementi e composti riconducibili ad attività industriali esercite a monte, vuol dire che quell’opera probabilmente non è stata eseguita correttamente. Se poi ritrovo anche superamenti dei limiti di legge, credo che ogni commento sia superfluo. Queste criticità sono state più volte riscontrate ed evidenziate, in atti che sono pubblici, dagli stessi funzionari del ministero dell’Ambiente (Conferenza dei servizi del 18 dicembre 2013, ndr). In particolare, i funzionari scrivono che “sono risultate fino ad oggi infruttuose le richieste reiterate di dimostrare l’efficienza idraulica e l’efficacia idrochimica del sistema di barrieramento idraulico del sito multisocietario di Gela.” In sostanza ci troviamo di fronte ad una situazione complessa e compromessa. Realisticamente parlando, il professor De Vivo - autorevole scienziato di fama internazionale, da voi già intervistato (Il petrolchimico e le malformazioni. Intervista di Emma Barbaro su Terre di Frontiera n.1 - marzo 2016, ndr) ha indicato il da farsi in particolari contesti. Parlare di bonifica è spesso parlare di speculazione. Dal punto di vista tecnico ed economico sarebbe meglio pensare a messe in sicurezza permanenti, serie ed efficaci, con stringenti e costanti monitoraggi. Laddove insistono le estrazioni di idrocarburi, si parla di inserire gran parte della Piana di Gela ampliando il perimetro dell’attuale Sito d’interesse nazionale (Sin) per poi procedere alle attività di bonifica. Se, come sembra, la dimensione della compromissione di queste aree è molto vasta, cosa 30
va bonificato? E, semmai fossero raggiungibili, quanto tempo occorrerà per raggiungere le finalità stabilite? Lei crede in uno scaricabarile delle parti in causa sulle responsabilità? Credo ci sia stato un dialogo tra sordi. Se, ripetutamente, in ogni atto ufficiale vengono rimarcate e riproposte le stesse problematiche, mi aspetto non solo una stretta, attenta e rigorosa vigilanza, ma anche atti autorizzativi vincolanti. Non sembra che questo sia accaduto. E i relativi permessi sono stati rilasciati di volta in volta senza tenerne in debito conto, quasi come se non avessero mai contestato e/o rilevato alcunché. Come già evidenziato è dovuta intervenire la Procura. Esaminando quanto contenuto nell’Autorizzazione integrata ambientale del 2012 - aggiornata nel 2014 - è possibile “tra le parti rilevare criticità conchiamate cernenti la dispersione, la diffusione e la conin causa centrazione dei diversi c’è stato contaminanti. Mi preme un dialogo altresì puntualizzare un tra sordi” aspetto che riguarda alcuni composti come ad esempio i solventi clorurati (percloroetilene, tetracloroetilene, dicloroetilene, cloruro di vinile, ndr): la loro persistenza in termini spazio-temporali è paragonabile a quella di contaminazioni radioattive. Ovvero, le sorgenti possono migrare nel sottosuolo e rimanere attive anche per lunghi periodi, nell’ordine di un centinaio di anni. Ovviamente non lo dico io, ma studi scientifici e tecnici - anche di parte - che ho avuto modo di studiare. Ritorniamo al contesto e facciamo un riassunto. Nell’ultimo decennio è emersa un’immagine di Gela come di un territorio definitivamente compromesso. Con responsabilità addebitabili a più livelli, anche agli organi di controllo. Come lei ci ha confermato. Probabilmente si è giocata una partita sporca non molto diversa da altre aree del Paese. Cosa non ha funzionato?
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La mia opinione è che si è agito sempre in una sorta di regime di emergenze. Nel senso che, per lungo tempo e fino a quando la Magistratura non ha iniziato a far luce sui fatti, si è immaginato di vivere una realtà fantastica. E come ho detto, chi doveva vigilare e controllare lo ha fatto, quanto meno, con molta superficialità. I dati e i documenti prodotti esistevano da decenni, tanto che sono nati studi specifici per evidenziare il forte impatto socio-sanitario ed ambientale. Lo stesso ministero della Salute, con il braccio operativo dell’Istituto Superiore di Sanità, nel rapporto “Sentieri” pone con forza la problematica sanitaria rilevata in queste aree industrializzate. Lo stesso hanno fatto altre Istituzioni ed Istituti di ricerca. Il punto è che rimangono confinati a strette fasce di interesse, poco visibili, senza particolari rilievi e conseguenze. Mi aspetto che una volta evidenziate e documentate scientificamente le questioni, poi vi siano atti, non solo di indirizzo formale, ma azioni mirate e rigorose. Si sono creati organismi tecnici e di controllo nel corso degli anni forse più per sostegno a interessi, che a garanzia del rispetto delle normative e del buon senso. A tal proposito devo fare giusto qualche osservazione per capirci. Il Decreto legislativo n.152/2006 viene sistematicamente rivisto nelle sue parti - specie quelle relative agli analiti e ai valori limite di riferimento - non perché sia più stringente e severo come prevede in base a nuove e comprovate evidenze scientifiche, ma per garantire la prosecuzione di attività che sforano costantemente i parametri già molto permissivi. Come, quindi, non citare anche la questione legata al Metilterbutiletere (un composto che ha sostituito a partire dagli anni Novanta il piombo tetraetile nelle benzine, ndr) che non è normato. Eppure, anche per il Metilterbutiletere esistono studi scientifici sulla sua pericolosità. Tanto è vero che esistono delle sentenze (Sentenza del Consiglio di Stato n.2526/2014, ndr) che ne attestano la pericolosità ed i limiti di riferimento cui almeno attenersi. Ancora una volta è la Magistratura che deve sopperire a vuoti e negligenze di altri organismi istituzionali.
Emerge, ancora una volta, la delicata questione dei controlli. Dove sta la garanzia della terzietà? Il problema è che si lascia la possibilità ai soggetti privati di provvedere, in proprio, alla predisposizione ed attuazione di analisi e monitoraggi, con il solo obbligo poi di inviarle agli Enti di riferimento. Nel corso della mia attività professionale, non solo legata a questo procedimento, mi sono reso conto di anomalie nella produzione di dati alle quali, dagli Enti di controllo e verifica, non viene mosso in genere alcun rilievo. Si accettano così come vengono ricevuti. Solo per rispondere ad un mero compito formale. Addirittura, in alcuni casi, sono gli stessi Enti statali - preposti a garantire la terzietà - che vengono incaricati dagli stessi soggetti privati. Pertanto la commistione tra controllore e controllato diventa paradossalmente garantita per legge. La verifica e le analisi in contraddittorio con particolari e stringenti protocolli sono casi eccezionali e non, invece, una prassi consolidata. Oggi, per Gela, si parla di nuova fase occupazionale a seguito di una riconversione industriale. Cosa ne pensa? Non spetta a me indicare soluzioni di tipo imprenditoriale. Bisogna capire bene il significato di riconversione industriale. Ho sentito parlare di Green Refinery. Potrebbero essere delle proposte e scelte valide, ma le nuove attività dovrebbero essere attentamente valutate con estremo rigore, onde identificare prima tutte le possibili ricadute future. Non è che tutto ciò che si identifica con la parola magica “green” sia sostenibile per l’ambiente. Anzi, molte volte nasconde delle coperture. Inoltre le nuove attività non dovrebbero essere slegate e disgiunte dalle necessarie e prioritarie opere di messa in sicurezza e/o eliminazione delle situazioni di rischio per l’ambiente e la salute. Mi sembra di avere inteso, anche da precise e puntuali normative che giungono, quasi sempre in maniera tempestiva (articolo 36 della Legge n.134 del 7 agosto 2012) che le due questioni possano viaggiare separatamente e in qualche modo venendo meno al principio del “chi inquina paga“.
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Si ringrazia per la gentile concessione
Campagna ad inserzione gratuita
Orizzonti perduti Dal mare alla terraferma
VERSO IL REFERENDUM DEL 17 APRILE COME SIAMO ARRIVATI AL REFERENDUM IL SILOS GIALLO E LE PORTE GIREVOLI DRITTI AL CUORE NERO DELLA BASILICATA
TERRE DI FRONTIERA E CITTADINIREATTIVI
VERSO IL REFERENDUM DEL 17 APRILE DI ROSY BATTAGLIA / twitter @rosybattaglia
Il quesito: <<Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di Stabilità 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”?>>
#orizzontiperduti #raccontifossili #referendum17aprile
Il referendum del 17 aprile sulle trivellazioni riguarda le attività di ricerca ed estrazione di idrocarburi nel mare italiano entro le 12 miglia marine dalla costa. Il quesito interessa tutti i titoli abilitativi all’estrazione e alla ricerca di idrocarburi già rilasciati e interviene sulla loro data di scadenza. Secondo i dati forniti dal Ministero dello Sviluppo Economico, rielaborati da Legambiente e resi in mappa interattiva da Riccardo Saporiti per Cittadini Reattivi, sono 92 le piattaforme presenti entro il limite delle 12 miglia, che corrispondono a 35 concessioni e 43 quelle oltre il limite. In totale 135 piattaforme, di cui attive sono 79 a cui corrispondono 463 pozzi.
distribuite tra il mare Adriatico, il mar Ionio e il canale di Sicilia”. Queste piattaforme, soggette a referendum, oggi producono il 27% del totale del gas e il 9% del greggio estratti in Italia (il petrolio viene estratto nell’ambito di 4 concessioni dislocate tra Adriatico centrale - di fronte a Marche e Abruzzo - e nel Canale di Sicilia). La loro produzione nel 2015 è stata di 542.881 tonnellate di petrolio e 1,84 miliardi di metri cubi di gas. I consumi di petrolio in Italia nel 2014 sono stati di circa 57,3 milioni di tep (ovvero milioni di tonnellate). Secondo i calcoli di Legambiente, quindi l’incidenza della produzione delle piattaforme a mare entro le 12 miglia è stata di meno dell’1% rispetto al fabbisogno nazionale (0,95%).
I numeri Come ribadisce sempre Legambiente “nel nostro mare, entro le 12 miglia, ci sono ad oggi 35 concessioni di estrazione di idrocarburi (coltivazione). Tre di queste sono inattive, una è in sospeso fino alla fine del 2016 (è quella di Ombrina Mare, al largo delle coste abruzzesi), cinque erano non produttive nel 2015. Le altre 26 concessioni, che sono produttive, sono 34
I numeri confermano, pertanto, che la tanto agognata indipendenza energetica del nostro Paese è una soglia impossibile da raggiungere. A differenza di quanto, invece, sostengono i promotori del no al referendum e dell’astensionismo. Per il gas, i consumi nel 2014 sono stati di 50,7 milioni di tep corrispondenti a 62 miliardi di metri cubi; l’incidenza della pro-
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TERRE DI FRONTIERA E CITTADINIREATTIVI Trivellazioni a mare: la mappa interattiva delle concessioni e dei pozzi (Elaborazione Cittadini Reattivi su dati Mise e Legambiente - Viz: Riccardo Saporiti)
duzione di gas dalle piattaforme entro le 12 miglia è stata del 3% del fabbisogno nazionale. Secondo i dati forniti dall’Ufficio minerario per gli idrocarburi e le georisorse del ministero dello Sviluppo economico (Unmig) - e da Assomineraria - si stimano riserve certe sotto i fondali italiani sufficienti (nel caso dovessimo contare solo su di esse) a soddisfare il fabbisogno di petrolio per sole 7 settimane e quello di gas per appena 6 mesi. “È importante ricordare - sottolinea Rossella Muroni, presidente di Legambiente - che mettere una scadenza alle concessioni date a società private, che
svolgono la loro attività sfruttando beni appartenenti allo Stato, non è una fissazione delle associazioni ambientaliste o dei comitati, ma è una regola comunitaria. Non si capisce - prosegue Muroni - perché in questo caso, le compagnie petrolifere debbano godere di una normativa davvero speciale, che non vale per nessun’altra concessione, togliendo ogni scadenza temporale e lasciando la possibilità di appropriarsi di una risorsa pubblica a tempo indeterminato. E ci preoccupa molto - aggiunge la presidente di Legambiente - che il governo, invece di spiegare come intende portare
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l’Italia fuori dall’era dei fossili, in linea con gli impegni presi a Parigi alla Cop21, mandi segnali contrari quali togliere la scadenza alle attività estrattive in mare entro le 12 miglia”. Occorre ricordare che già nel 2014, ad un anno dal varo della discussa Strategia energetica nazionale (Sen) e della discussione degli articoli 36 e 38 del decreto-legge Sblocca Italia, in una lettera al premier Matteo Renzi, un pool di scienziati e ricercatori italiani capitanati da Vincenzo Balzani, professore emerito dell’Università di Bologna, coordinatore del Comitato Energia per l’Italia avevano ribadito che “le
energie rinnovabili non sono più una fonte marginale di energia, come molti vorrebbero far credere: oggi producono il 22% dell’energia elettrica su scala mondiale e il 40% in Italia, dove il fotovoltaico da solo genera energia pari a quella prodotta da due centrali nucleari. La proposta, proveniente quindi non solo dal mondo ambientalista ma anche da quello scientifico era ed è quella di “un cambio di passo, che guardi al risparmio e all’innovazione e non alla “fossilizzazione” del problema energetico”. Il vero tema in gioco con il quesito referendario del 17 aprile 2016.
COME SIAMO ARRIVATI AL REFERENDUM DI PIETRO DOMMARCO / twitter @pietrodommarco
Il 17 aprile 2016 voteremo il primo referendum abrogativo della Repubblica sulle trivellazioni petrolifere. Questo rappresenta già un successo Il referendum del 17 aprile - ed ancor prima il dibattito relativo al limite di interdizione delle 12 miglia marine - parte da lontano. Nell’aprile del 2010 esplode la piattaforma Deepwater Horizon della British Petroleum nel Golfo del Messico. Sull’onda di questo incidente il ministro all’Ambiente del governo Berlusconi allora in carica, Stefania Prestigiacomo, vieta tutte le attività petrolifere lungo la fascia costiera innalzando il limite di interdizione dalle 5 alle 12 miglia. Due anni più tardi - siamo nel 2012 - il ministro allo Sviluppo economico del governo Monti, Corrado Passera, vara il decreto “Sviluppo” che, con l’articolo 35, riabilita tutti i procedimenti bloccati dalla Prestigiacomo. È un anno cruciale perché - quasi contestual36
#orizzontiperduti #raccontifossili #referendum17aprile
mente - nasce la Strategia energetica nazionale (Sen), con la quale viene pianificato il futuro energetico del Paese fortemente sbilanciato verso il raddoppio della “il futuro produzione nazionale energetico di gas e di greggio. In del Paese è sostanza, le attività di sbilanciato ricerca ed estrazione di idrocarburi, nonché ancora verso quelle di stoccaggio le fossili” di gas, acquisiscono carattere strategico. Strategicità messa nero su bianco nel 2014 dal governo Renzi, con il decreto-legge “Sblocca Italia”. Con quello che
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Le Regioni impugnano il decreto-legge “Sblocca Italia” Agli inizi del 2015 le Regioni Abruzzo, Calabria, Campania, Lombardia, Marche, Puglia e Veneto impugnano lo “Sblocca Italia” dinanzi la Corte Costituzionale. A settembre, invece, Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna e Veneto depositano in Cassazione sei quesiti referendari con oggetto l’abrograzione di alcune parti dell’articolo 35 del decreto “Sviluppo” (governo Monti) e dell’articolo 38 dello “Sblocca Italia”, con l’obiettivo di acquisire nuovamente potere decisorio in materia di energia. Con alcuni dei sei quesiti referendari le Regioni hanno chiesto, da un lato, di abolire il Piano delle aree (articolo 38, comma 1-bis, del decreto-legge “Sblocca Italia”) inerente la razionalizzazione delle attività di ricerca ed estrazione di idrocarburi con decisione “esclusiva” da parte dello Stato e, dall’altro, la durata delle attività previste sulla base del nuovo titolo concessorio unico. Il tentativo di far saltare il referendum Il governo Renzi, per tutta risposta, approva un emendamento alla Legge di Stabilità modificando alcune norme oggetto dei sei quesiti referendari. La Cassazione ne prende atto ed accetta solo uno dei sei referendum. Quello che in data 19 gennaio la Corte Costituzionale ha ammesso a consultazione. Con la legge di Stabilità viene abolito il Piano delle aree e ripristinato il limite delle 12 miglia marine, oltre che cancellato il carattere strategico, di indifferibilità ed urgenza conferito alle attività petrolifere. Ma la querelle continua, perché a gennaio di quest’anno, Basilicata, Liguria, Marche, Puglia, Sardegna e Veneto hanno sollevato conflitto di attribuzione nei confronti del Parlamento cercando di riabilitare i referendum dichiarati inammissibili. Il 9 marzo i giudici costituzionali hanno bocciato i ricorsi per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, motivando la bocciatura per un vizio di
Piattaforma petrolifera / Foto di Andrew Schmidt
è stato considerato un vero colpo di mano da associazioni ed enti locali, il potere decisorio in materie energetica passa dalle Regioni allo Stato.
forma, in quanto la volontà di sollevarli non è stata espressa “da almeno cinque dei Consigli regionali che avevano richiesto il referendum”, ad eccezione della Regione Veneto. Perché è importante il voto del 17 aprile Il governo Renzi, con il braccio di ferro messo in atto con i territori - tra la stesura del decreto-legge “Sblocca Italia” e le successive modifiche sancite dalla legge di Stabilità - ha fatto di tutto per scongiurare il referendum democratico proposta da associazioni, comitati e cittadini sotto la sigla del Coordinamento nazionale No Triv e le Regioni. Lo ha fatto cercando di scongiurare il raggiungimento del quorum, rigettando l’ipotesi dell’Election Day (accorpamento del referendum con le amministrative di giugno) che avrebbe fatto risparmiare alle casse dello Stato dai 300 ai 400 milioni di euro. Al di là di quello che sarà il risultato elettorale siamo di fronte ad un’occasione storica per decidere quale debba essere il futuro energetico del nostro Paese, certamente non orientato allo sfruttamento delle fonti fossili. Un voto importante anche in previsione del possibile referendum costituzionale di ottobre con il quale si cercherà di modificare il Titolo V della Costituzione. Con il potere decisorio in materia energetica che passerebbe definitivamente nelle mani dello Stato e delle lobbies del fossile.
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UN PO’ DI NUMERI IN MARE 135 PIATTAFORME
92 PIATTAFORME ENTRO LE 12 MIGLIA 43 PIATTAFORME OLTRE LE 12 MIGLIA 79 PIATTAFORME ATTIVE
35 CONCESSIONI
ENTRO LE 12 MIGLIA 3 CONCESSIONI FERME
1 CONCESSIONE IN SOSPESO
5 CONCESSIONI NON PRODUTTIVE 26 CONCESSIONI PRODUTTIVE
PRODUZIONE
Le riserve certe sotto i fondali italiani equivalgono a 6 mesi di fabbisogno nazionale di gas
Sì
Se vince il ‘Sì’ le compagnie petrolifere dovranno fermare l’estrazione di idrocarburi alla scadenza delle concessioni, anche se le risorse non sono esaurite
27% DEL GAS ITALIANO
9% DEL GREGGIO ITALIANO
La produzione nel 2015 è stata di 542.881 tonnellate di petrolio e 1,84 miliardi di metri cubi di gas
Nel 2015 l’incidenza della produzione di gas delle piattaforme a mare entro le 12 miglia è stata dello 0,95% del fabbisogno nazionale. Nel 2014 il 3%
No
Se vince il ‘No’ il Governo potrebbe prorogare i progetti estrattivi delle compagnie petrolifere, e cambiare la norma che vieta le nuove attività entro le 12 miglia
Fonte: ministero Sviluppo economico / Legambiente
MEDICI PER L’AMBIENTE: LE TRIVELLE SONO UN RISCHIO PER LA SALUTE Il voto referendario del 17 aprile rappresenta l’occasione per una profonda riflessione circa l’inderogabile necessità ed urgenza di cambiare il modello di sviluppo ancor oggi basato sulla combustione dei fossili. Tale modello, oltre agli alti costi sanitari imposti all’uomo e a tutta la biosfera per via dell’inquinamenti delle varie matrici ambientali, appare sempre più fragile e insostenibile sul piano economico. Negli ultimi 18 mesi il prezzo del greggio è calato del 70 percento circa. Andare a cercare con accanimento e con tecniche sempre più costose e impattanti una risorsa che perde sempre più valore, può contribuire, oltre al danno alla salute e all’ambiente, a minare ulteriormente la tenuta economica del Paese. Poche gocce di petrolio di scarsa qualità, mettono in pericolo le nostre bellissime coste, culla della nostra storia e della nostra cultura e possibile fonte economica malamente sfruttata oltre che la fauna e la pesca sostenibile. La perforazione di un pozzo può avvenire sulla terraferma (onshore) o in mare (offshore). Gli impatti ambientali e sanitari, conseguentemente, saranno di diversa natura e graveranno in maniera differente in questi differenti contesti, ma è importante dire Sì oggi per avviare un processo di cambiamento che ci proietti verso fonti di energia alternative rinnovabili che ci permettano di rispettare l’ambiente e di tutelare la nostra salute. Quando parliamo di trivelle offshore, nessuno può escludere un incidente. E in un mare chiuso come il Mediterraneo, un disastro petrolifero causerebbe danni gravissimi e irreversibili. Comunque, anche in assenza di incidenti rilevanti, le estrazioni petrolifere comportano indiscutibilmente pesanti impatti ambientali - e quindi sulla salute umana, essendo l’ambiente un determinante fondamentale della salute - come dettagliatamente riportato nel testo di due studiosi italiani: “L’Impatto ambientale del petrolio, in mare e in terra” (Galaad Edizioni, Colella e Civita). Anche un recente rapporto di Greenpeace (Trivelle fuorilegge) - relativo alle attività estrattive in Adriatico esaminate dal 2012 al 2014 ha evidenziato che tra i composti che superano con maggiore frequenza i valori definiti dagli
standard di qualità ambientale, rilevati nei sedimenti prossimi alle piattaforme, si trovano metalli pesanti, quali cromo, nichel, piombo (e talvolta anche mercurio, cadmio e arsenico). Inoltre, sono risultati rilevabili anche idrocarburi policiclici aromatici (IPA), come fluorantene, benzo[b]fluorantene, benzo[k]fluorantene, benzo[a] pirene e altri, variamente associati. Tutte queste sostanze sono tossiche, spesso persistenti e bioaccumulabili ed alcune sono state già riconosciute cancerogene per l’uomo; esse possono risalire la catena alimentare attraverso la bio-magnificazione, raggiungendo così l’uomo in concentrazioni elevate e tali da causare seri danni all’organismo. In particolare per metalli pesanti quali piombo e soprattutto mercurio l’esposizione umana avviene attraverso pesce contaminato, specie se di grossa taglia, tanto che alle donne in gravidanza ne viene sconsigliato il consumo. Queste sostanze non solo si accumulano nei nostri corpi, ma passano anche dalla madre al feto durante la gravidanza ed interferiscono in particolare con lo sviluppo cerebrale del nascituro fino a comportare ritardo mentale e deficit del quoziente intellettivo. I metalli pesanti oltre a effetti di tipo cancerogeno e neurologico comportano anche effetti a livello cardiovascolare, renale ed osseo con maggior rischio di osteoporosi. Parimenti pericolose sono poi le miscele di IPA per le quali è stato dimostrato - per fenomeni di azione sinergica - un aumento di rischio di insorgenza di cancro, soprattutto in presenza di benzo(a)pirene. Non va infine dimenticato che come per alcuni IPA, anche per metalli quali l’arsenico, il cadmio, il nickel, classificati da decenni come cancerogeni per l’uomo, non esiste una soglia identificabile al di sotto della quale queste sostanze non comportino un rischio per la salute umana. www.isde.it
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TRIVELLE FUORILEGGE Il 17 aprile 2016 voteremo il primo referendum abrogativo della Repubblica sulle trivellazioni petrolifere. Questo rappresenta già un successo Quando si parla di trivellazioni offshore, meno dell’impatto che generano ogni giorno le piattaforme già presenti nei mari italiani. Sono inquinanti? Chi le controlla? Greenpeace ha richiesto al Ministero dell’Ambiente di prendere visione dei dati relativi ai monitoraggi ambientali effettuati in prossimità delle piattaforme offshore. Delle oltre 130 piattaforme operanti in Italia sono stati trasmessi solo i dati relativi ai piani di monitoraggio delle piattaforme attive in Adriatico che scaricano direttamente in mare o iniettano/re-iniettano in profondità, le acque di produzione. Si tratta di 34 impianti (33 nel 2012 e 2014) che estraggono gas, tutti di proprietà di Eni. I dati si riferiscono agli anni 2012, 2013 e 2014. I monitoraggi sono realizzati da Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale,) con la committenza di Eni. I monitoraggi prevedono analisi chimico-fisiche su campioni di acqua, sedimenti marini e mitili (le comuni cozze) che crescono nei pressi delle piattaforme. Dal lavoro di sintesi e analisi di questi dati svolto da Greenpeace emerge un quadro perlomeno preoccupante. A seconda degli anni considerati, il 76% (2012), il 73,5% (2013) e il 79% (2014) delle piattaforme presenta sedimenti con contaminazione oltre i limiti fissati dalle norme comunitarie per almeno una sostanza pericolosa. Questi parametri sono oltre i limiti per almeno due sostanze nel 67% degli impianti nei campioni analizzati nel 2012, nel 71% nel 2013 e nel 67% nel 2014. Tra i composti che superano con maggiore frequenza i valori definiti dagli Standard di Qualità Ambientale (o SQA, definiti nel DM 56/2009 40
#raccontifossili #trivellefuorilegge #greenpeace
e 260/2010) fanno parte alcuni metalli pesanti, principalmente cromo, nichel, piombo (e talvolta anche mercurio, cadmio e arsenico), e alcuni idrocarburi come fluorantene, benzo[b] fluorantene, benzo[k]fluorantene, benzo[a] pirene e la somma degli idrocarburi policiclici aromatici (IPA). Alcune tra queste sostanze sono cancerogene. La relazione tra l’impatto dell’attività delle piattaforme e la catena alimentare emerge più chiaramente dall’analisi dei tessuti dei mitili prelevati presso le piattaforme. mercurio, esaclorobenzene ed esaclorobutadiene Gli inquinanti monitorati in riferimento agli SQA identificati per questi organismi sono tre: mercurio, esaclorobenzene ed esaclorobutadiene. Di queste tre sostanze solo il mercurio viene abitualmente misurato nei mitili nel corso dei monitoraggi ambientali. I risultati mostrano che circa l’86% del totale dei campioni analizzati nel corso del triennio 20122014 superava il limite di concentrazione di mercurio identificato dagli SQA. Per quel che riguarda gli altri metalli misurati nei tessuti dei mitili non esistono limiti specifici di legge che consentano una valutazione immediata dei livelli di contaminazione. Per verificare il possibile impatto ambientale delle attività offshore sull’accumulo di questi inquinanti è stato perciò effettuato un confronto con dati presenti nella letteratura scientifica specializzata. In particolare, si sono confrontati i livelli di concentrazione di queste sostanze nei mitili impiegati per i monitoraggi delle piattaforme con i livelli di concentrazione rilevati in altre aree dell’Adriatico, estranee alle attività di estrazione di idrocarburi.
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Per avere certezza di non sovrastimare i risultati di tale raffronto, sono stati utilizzati come termine di paragone i valori medi stagionali di concentrazione più alti riportati in questi studi. I risultati mostrano che circa l’82% dei campioni di mitili raccolti nei pressi delle piattaforme presenta valori più alti di cadmio rispetto a quelli misurati nei campioni presenti in letteratura; altrettanto accade per il selenio (77% circa) e lo zinco (63% circa). Per bario, cromo e arsenico la percentuale di campioni con valori più alti era inferiore (37%, 27% e 18% rispettivamente). Molti metalli, presenti nei tessuti dei mitili, possono raggiungere l’uomo risalendo la catena alimentare. Alcuni di questi, come il cadmio e il mercurio, sono particolarmente tossici per gli organismi viventi e per l’uomo stesso. Il cadmio, ad esempio, è un metallo altamente tossico che può generare disfunzioni ai reni e all’apparato scheletrico; è stato inoltre inserito tra le sostanze il cui effetto cancerogeno sull’uomo è noto e dimostrato scientificamente (gruppo 1 dello IARC, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro delle Nazioni Unite).
mostrato valori più alti rispetto ai valori medi più elevati registrati in letteratura. Inoltre circa il 39% e il 17,5 % dei campioni presenta, rispettivamente, concentrazioni doppie e triple rispetto a quelle registrate in aree di risorgenza naturale di idrocarburi. Le conclusioni del rapporto “Trivelle fuorilegge” sono chiare. Laddove esistono limiti di legge per la concentrazione di inquinanti, questi sono spesso superati dai sedimenti circostanti le trivelle. Pur con qualche oscillazione nei risultati, questa situazione si mantiene sostanzialmente costante di anno in anno.
Un’analisi simile a quella prodotta per i metalli pesanti è stata realizzata anche per i livelli di concentrazione degli idrocarburi policiclici aromatici (IPA). Il confronto mostra che il 30% dei mitili oggetto di campionamento da parte di ISPRA ha valori di concentrazione più alti di quelli rinvenuti nei tessuti di mitili in aree estranee all’impatto delle attività estrattive. Di questo 30%, circa la metà mostra concentrazioni doppie rispetto a quelle massime registrate negli studi oggetti di raffronto. Il valore più alto (pari a 1016,5 ng/g) è stato registrato nei campioni raccolti presso la piattaforma Annabella nel corso del 2014. Un valore del genere, estremamente elevato, è tipico di aree fortemente impattate da attività antropiche, come alcune località lungo le coste della Galizia (Spagna), per molti anni influenzate dal tragico incidente della nave Prestige che nel novembre 2002 riversò in mare più di 77.000 tonnellate di greggio. Per quel che riguarda gli idrocarburi alifatici (C10-C40), circa l’89% dei campioni di mitili ha
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IL FRONTE DEL ‘NO’ Tra chi si oppone al referendum - oltre al Partito Democratico che sponsorizza l’astensione - c’è il comitato “Ottimisti e Razionali”. I dati divulgati, a sostegno del ‘No’ non presentano alcuna fonte in grado di verificarne la veridicità. In ogni caso, per gli “Ottimisti e razionali”, se dovesse essere limitata la durata delle concessioni ci sarebbero più pericoli per l’ambiente e la sicurezza dei mari; più petroliere in transito davanti alle nostre coste; nessun presidio dei giacimenti sfruttati solo in parte; le grandi aziende che competono su scala globale andrebbero a cercare lavoro altrove; le imprese dell’indotto oil&gas chiuderanno o si trasferiranno all’estero. A supporto di queste enunciazioni il fronte del no al referendum e, soprattutto, dell’astensione spiega perché conviene puntare sulla produzione nazionale. “Non puntare anche sulla produzione nazionale di idrocarburi nella composizione del mix delle fonti di approvvigionamento energetico italiano, significherebbe importare ulteriore quote di olio e gas all’estero”.
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Si ringrazia per la gentile concessione
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IL SILOS GIALLO E LE PORTE GIREVOLI DI EMMA BARBARO
La storia di Raffaele Pietropaolo e del ‘Principe dei Musici’ Carlo Gesualdo. Il primo ha scelto la terraferma sostenibile al mare delle piattaforme petrolifere. Il secondo vigila sul paesaggio e l’identità culturale di un piccolo paese irpino Gesualdo è un comune di circa 3700 anime nel cuore della provincia di Avellino, in Campania. Seguendo con le dita, su una cartina, il corso del torrente Fredane e quello ben più poderoso del fiume Calore - tra le valli del Fredane e dell’Ufita – il paese sorge arroccato a ridosso della dorsale. I forestieri che per la prima volta arrivano qui intravedono fin da lontano l’antico castello del ‘Principe dei Musici’ Carlo Gesualdo. Una formidabile fortezza in cui il riformatore del linguaggio musicale del suo tempo - annoverato tra i più importanti madrigalisti rinascimentali - si rintanò dopo il ‘delitto d’onore’: l’uccisione della prima moglie Maria d’Avalos per la sua relazione con il duca Fabrizio Carafa. Oggi il castello è il simbolo della rinascita di un borgo che sogna di traghettare la propria storia nel futuro. Certo, tutto è cambiato dai tempi del Principe Carlo. Ma non la tempra di comunità orgogliosa. Restano gli sfarzi di un antico splendore. Resta il borgo medievale, che appare dalle alture di un castello da poco restituito alla fruibilità collettiva. Restano le stradine del centro storico, in pietra liscia e bianca, che col sole quasi accecano. Resta il paesaggio a perdita d’occhio, le pale eoliche del comune di Rocca San Felice verso ovest, i colori vivi della vallata a sud, i boschi e la vegetazione più rigogliosa verso nord. Dal centro le stradine d’asfalto si inerpicano tortuose 44
#orizzontiperduti #raccontifossili #campania
fino a ricongiungersi con le frazioni di Piano della Croce e Torre dei Monaci, o conducono verso i paesi confinanti, tra le ultime abitazioni e campagne che toccano il comune più vicino, quello di Frigen“Gesualdo to. è un paese
di 3700 anime nel cuore della provincia di Avellino”
È lì che spicca sfiorito il vecchio impianto di frantumazione degli inerti. La cava con il silos giallo e arrugginito. La cava dal piazzale ricolmo di materiali fatiscenti e mezzi obsoleti. La cava abbandonata a sé stessa dal tempo e dall’incuria. Trascurata, lasciata lì come un monumento al fallimento e alla vergogna dell’imprenditoria del “la cava post sisma. Quel silos abbandonata giallo assisteva indiffea sé rente al proprio destino anche nel 2002. Ma alè come un lora a guardarlo c’erano monumento occhi diversi. A guaral fallimento” darlo c’era la Italmin Exploration, una piccola società a responsabilità limitata come se ne vedono tante in Italia, attiva nel settore dell’oil and gas. Nella ‘Città
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Il silos giallo / Foto di Emma Barbaro
del Principe dei Musici’ arrivano i cercatori di petrolio. Mi piace immaginarli in camicia bianca e occhiali scuri, con l’immancabile ventiquattrore. Hanno il passo sicuro e svelto di chi è convinto di avere partita facile. Sono decisi, puntano dritti verso la Casa comunale, a pochi passi dal centro storico. Devono requisire atti, incartamenti, documentazioni, cartografie: in ballo c’è la presentazione di un’istanza per la ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi al ministero dello Sviluppo Economico. Non c’è tempo di fermarsi ad ammirare il paesaggio gesualdino. Non c’è tempo per quella pietra troppo bianca. E il castello, relegato nella memoria storica, resta muto a guardare il corso di una nuova storia ancora tutta da scrivere. Il permesso di ricerca ‘Nusco’ nasce così Ammantato di un’aura di mistero che, nonostante gli anni, non è riuscito a scrollarsi di dosso. Circondato da una matassa di ipocrisia che non ha permesso alle comunità locali - almeno fino al 2010 - di conoscere quanto stava
accadendo nel proprio territorio. I sindaci, però, sapevano e sanno tutto. Nel corso delle tre Conferenze di servizi convocate dal Mise, molti di loro fanno scena muta. C’è chi dice no Solo il Comune di Luogosano, retto dall’allora sindaco Giovanni Ferrante, si tira indietro. E lo fa con regolare delibera. Il permesso ‘Nusco’, dai quattordici Comuni irpini originari passa a tredici. Gli altri, compreso Gesualdo, restano in silenzio. Un silenzio colpevole che si rileva fatale. Proprio il 21 ottobre 2010 il permesso ‘Nusco’ entra nella prima fase di vigenza. Sei anni, fino al 2016. La Italmin presenta alla Regione Campania un progetto di ricerca di idrocarburi che prevede la perforazione di un pozzo esplorativo denominato ‘Gesualdo 1’. Nello studio di impatto ambientale, datato 10 settembre 2012, si legge che “l’ubicazione prescelta, catastalmente individuata nel foglio di mappa n. 14 del Comune di Gesualdo (Av), risulta quella che meglio coniuga le caratteristi-
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che morfologiche territoriali e l’esplorazione del sottosuolo. Essa ricade, infatti, in un’area già utilizzata negli anni ’90 da un impianto di frantumazione di inerti che oggi, obsoleto, è in completo stato di abbandono. In tal modo, per la realizzazione della postazione ‘Gesualdo 1’ si utilizzerà l’ossatura del piazzale già esistente con conseguente mitigazione di qualsiasi impatto ambientale dovuto a movimenti di terra da realizzare ex novo”. È la cava dal silos giallo. La cava posizionata a meno di 200 metri dalla scuola e dalle prime abitazioni. La cava che ha di faccia una casa ristrutturata e abbandonata e, tutto intorno, terre coltivate o destinate al pascolo del bestiame. La cava arrugginita e accantonata, che lancia una sfida al castello del ‘Principe dei Musici. Ci avevano visto giusto i nostri imprenditori in camicia bianca e occhiali scuri. Quel silos giallo avrà un nuovo futuro, a Gesualdo arriverà il progresso e l’impatto ambientale - o queste almeno sono le promesse - sarà pari a zero. Ma cosa ne pensano i gesualdini? Frastornati, la reazione non è immediata. È il neonato Comitato ‘No Petrolio in Alta Irpinia’ a prendere in mano le redini della situazione. Organizzano campagne informative, preparano le prime osservazioni al progetto ‘Gesualdo 1’ su cui ora si affaccia una nuova società, non estranea alle join ventures con Italmin Exploration: entra in scena la Cogeid. Il geologo di riferimento, il dottor Piero Casero e parte dello staff societario sono i medesimi. Nulla cambia nelle finalità. I comitati invece crescono e diventano più forti. Si aggiungono il Movimento civico gesualdino ‘No Trivellazioni Petrolifere’ e, successivamente, il Coordinamento irpino ‘No Triv’. Insieme puntano tutto sulla sensibilizzazione. Organizzano assemblee pubbliche, costringono le amministrazioni a deliberare una contrarietà tardiva e ininfluente sulle sorti del permesso di ricerca, coordinano importanti manifestazioni, interloquiscono continuamente con gli attori politici locali e gli operatori economici del comparto enogastronomico. Gli anni passano e il permesso ‘Nusco’ - al netto di qualche sospensione del decorso tempora46
PERMESSO NUSCO: LA DATE PRINCIPALI 18/07/2002: Italmin Exploration srl presenta istanza al ministero dello Sviluppo economico per rilascio permesso di ricerca ‘Nusco’. 14/03/2003: Parere favorevole Cirm. 11/06/2004: Italmin invitata a presentare alla Regione Campania documentazione per ottenere intesa, previa Via regionale. 13/10/2008: Il Servizio Ambiente e Paesaggio della Regione esprime valutazione di compatibilità ambientale. 11/11/2009: Italmin prende impegno di non svolgere attività di ricerca sul territorio di Luogosano che si è opposto con Delibera. 09/7/2010: Giunta regionale (Delibera n.549) esprime intesa conferimento permesso. 21/10/2010: Mise decreta, per i primi sei anni, conferimento del permesso di ricerca. 28/3/2012: Italmin chiede trasferimento dell’80% titolarità del permesso alla Compagnia Generale Idrocarburi spa. Ok del Mise. 11/7/2013: Cogeid chiede variazione intestazione titolarità permessi di ricerca. Ok del Mise. 13/12/2013: Prima sospensione del decorso temporale, a partire dal 4 aprile. 11/12/2014: Seconda sospensione del decorso temporale, a partire dal 4 ottobre 2013. 28/9/2015: Terza sospensione del decorso temporale, a partire dal 4 aprile 2015. Dopo l’intervento della legge n. 164/2014 (meglio nota come Sblocca Italia) e il mancato pronunciamento della commissione tecnica regionale entro i termini fissati, le competenze passano al ministero dell’Ambiente che dovrà esprimere valutazione di compatibilità ambientale entro il 4 ottobre 2017. 05/11/2015: Italmin, co-titolare al 20% chiede rappresentanza legale permesso di ricerca. 23/10/2018: termine del primo periodo di vigenza del Permesso ‘Nusco’.
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In difesa del territorio / Foto di Emma Barbaro
le, che di fatto blocca la durata del permesso di ricerca allungandolo dei tempi relativi alla sospensione stessa - resta lì dov’è. Il primo periodo di vigenza scadrà nell’ottobre 2018. Non è ancora operativo, eppure produce già i primi effetti concreti. Oggi tutti a Gesualdo sanno del pozzo lì sulla vecchia cava abbandonata. E per uno strano gioco delle parti, o “il silos forse per il potere della sensibilizzazione, quel giallo benedetto ammasso di contende ferraglie arrugginite con il primato il silos giallo contenturistico de il primato turistico al castello” al castello. Il mercato immobiliare, invece, va piuttosto male. Molti degli accordi raggiunti tra le parti circa la compravendita di alcuni immobili ristrutturati sono stati di fatto bloccati. I compratori non
vogliono la casa vicino ad un possibile pozzo petrolifero. Poco importa se il pozzo ancora non c’è. Il progetto sì. L’interesse pure. Meglio cercare altrove. La storia di Pietropaolo C’è chi va via e chi, invece, coraggiosamente ritorna. Raffaele Pietropaolo appartiene alla seconda categoria. Da giovanissimo, subito dopo il diploma all’Istituto tecnico ‘G. Bruno’ di Ariano Irpino e la specializzazione - con tanto di abilitazione all’Albo dei Geometri - nel settore della costruzione, era stato tra quelli che avevano lasciato Gesualdo per cercare altrove nuovi orizzonti lavorativi. Muove i primi passi come assistente e supervisore tecnico di cantiere nella costruzione della Centrale di Cogenerazione elettrica ad Acerra. Il committente è Fiat Avio. Da lì in poi la Fiat gli commissionerà una serie di lavori nella ristrutturazione degli stabilimenti di Melfi, Avellino, Cassino, Pomigliano D’Arco. La carriera di Raffaele è in ascesa. Comincia a crescere
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professionalmente, a conseguire importanti certificazioni. Le commissioni fioccano. I committenti chiamano da Firenze, Cesena, Forlì, Ravenna. Non c’è più solo la Fiat. Nel 2010, mentre sul permesso ‘Nusco’ si gioca la prima importante partita, Raffaele viene nominato technical coordinator scaffonding per la Edc Construct di Timis (Romania), società che si occupa della costruzione di attrezzature e ponteggi da utilizzare per le perforazioni petrolifere onshore e offshore. Partecipa alla costruzione di piattaforme per Shell (Clipper Platform Living Quarters), Total (West Franklin e Elgin B), Conoco Philips (campo Jasmine, la cui produzione metanifera viene avviata da Eni nel 2013). Dal 2012 diviene business developer manager per la Sc Edc Construct srl di Timisoara (Romania). Le sue quotazioni nel settore crescono vorticosamente. Vola in Azerbaijan, lavora sulle piattaforme petrolifere in terraferma e in mare. “Dell’Azerbaijan - dice - il ricordo più vivo è quell’odore acre dell’idrogeno solforato, il puzzo di quegli oli raffinati. È un paese bellissimo, se non fosse per il tanfo insopportabile dei pozzi petroliferi su terra”. Nel 2013 è oil & gas division manager per la Condor group spa. Poi il colloquio con la Total per Tempa Rossa. È all’apice della sua carriera quando sceglie di mollare tutto. “Basta tubature, ponteggi, pozzi petroliferi. Basta con quella vita lì. Mi impegnava tantissimo, forse troppo. Non esisteva più il Natale, il Capodanno, non c’erano festività. Ero arrivato al punto “Raffaele in cui i sapori, gli odori, all’apice le tradizioni della mia della sua terra erano diventate carriera solo un vago ricordo. Voi non potete immaginare decide di cosa significhi vivere in mollare tutto” un contesto proiettato solo al profitto. Attorno a me c’erano solo ferro e ponteggi. Mare aperto, quando andava bene. Ma la verità è che lavoravo su piattaforme petrolifere offshore, e il mare neppure lo vedevo. Non riuscivo più a guardarlo davvero. Lavoro, lavoro, lavoro, e di colpo mi sono accorto che a 48
causa di un contesto alienante mi stavo perdendo la vita. Ecco perché ho scelto di tornare a Gesualdo. E i colori, i profumi della mia terra mi hanno aiutato a recuperare le mie energie. Quasi a rinascere a nuova vita”. Dalle piattaforme petrolifere al bed and breakfast E in effetti Raffaele una nuova vita l’ha cominciata davvero. In poco tempo ha ristrutturato e messo su un bed and breakfast - lo Zembalo - avviando contestualmente in alcuni uliveti di proprietà un percorso naturalistico e terapeutico. Una sorta di viaggio nella quiete della natura. È rinato attraverso l’accoglienza. “È uno scambio tra chi viene e chi va. Un flusso continuo di emozioni che mi arricchisce e mi consente di alimentare il bello che c’è tutt’intorno”. Ma il fato sembra farsi beffa di Raffaele, della sua storia, del suo ritorno alle origini. Fugge da ciò che trova. Sfugge a un destino fatto da buste paga pesanti e prebende bel elargite per investire nelle proprie origini, e si ritrova la trivella dietro casa. “Diciamo che le mie buste paga, in media, si aggiravano attorno ai 3 mila euro netti al mese, più le provvigioni. Le ho investite bene”. Apre una busta paga a caso, davanti ai miei occhi. Dopo due anni, la guarda per la prima volta. 4 mila 792 euro. Netti. Ne apre un’altra. Sorride, mi dice che quella non me la può mostrare. Ma è troppo tardi. Vedo un 8 lì in cima. “Il porto di Ravenna è una base logistica importante. Lì c’è la concentrazione della maggior parte dei lavoratori dell’oil&gas. “è una cazzata Ma è una cazzata dire dire che il che il turismo non ne turismo non risente. Semplicemenrisente delle te, al turista medio non attività viene offerta una percepetrolifere” zione reale della piattaforma a mare. Gli viene offerto il divertimento ad un prezzo accessibile e tanto basta. Ma pensiamo alle aree interne, quelle che andrebbero innanzitutto riqualificate. Ebbene, lì il divertimento non c’è. L’appetibilità turistica va creata. Se va in porto questa cosa del petrolio a Gesualdo, io chiur barracca e burattin, vendo
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Cattedrali abbandonate / Foto di Emma Barbaro
tutto, e me ne vado. Non ci sarebbe più alcun margine per restare e investire. A Roma non conoscono il territorio, non mi stupisce che abbiano avviato la concessione petrolifera per il mio paese. L’atteggiamento dei parlamentari locali sì, quello mi stupisce e mi fa rabbia. Dicono di lottare contro lo spopolamento, ma poi favoriscono attività distruttive che vi posso garantire, non hanno alcuna ricaduta occupazionale territoriale se non per compiti del tutto marginali o ininfluenti”. “In questo settore - spiega - le varie maestranze sono talmente tanto qualificate che arrivano persone da tutto il mondo. La maggior parte degli ingegneri sono rumeni o comunque provenienti dall’Est. In Azerbaijan, ad esempio, quando mi è capitato di dover assumere del personale preferivo un giovane rumeno neo laureato ad un ingegnere italiano con le medesime qualifiche. Non solo per la capacità di adattamento al lavoro, si intenda. Ma per la grossa formazione e la specializzazione di base sulla metalmeccanica. In Romania sono particolarmente
specializzati in particolari tipi di saldature direttamente connesse al mondo dell’oil&gas. Qui a Gesualdo, paradossalmente, un saldatore così qualificato non lo si trova. Nel caso di un eventuale pozzo anche la manodopera sarà affidata a ditte specializzate di settore che probabilmente rientrano già nell’ambito delle conoscenze della società proponente. Al di là di qualche semplice mansione di sorveglianza è ridicolo parlare di ricadute occupazionali locali”. Niente più trivelle Raffaele mi dice che solo qualche giorno fa gli è stato proposto un lavoro in Belgio, per sedici mesi. In ballo c’è la costruzione di una piattaforma offshore. Ha risposto picche, ma di fatto viene ancora considerato uno dei più esperti e qualificati del settore. Resta a Gesualdo, resta per giocarsi una partita ancora aperta. Raffaele è doppiamente ferito dal progetto ‘Gesualdo 1’. Innanzitutto, da gesualdino. Poi da uomo libero che ha scelto di rifarsi una vita lontano
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dall’idrogeno solforato. L’importanza del referendum No Triv Il referendum del 17 aprile per lui è un’opportunità importante. Lui che su quelle benedette piattaforme a mare ci ha lavorato sul serio, lui che le ha progettate e costruite, lui che era assieme ai capi quando si trattava di predisporre la messa in opera dei lavori, proprio lui ci spiega le ragioni del suo Sì. Non gli importa che questo referendum, compresso nella portata dopo l’approvazione della Legge di Stabilità, non parli di trivellazioni in terraferma. Lui a votare ci andrà lo stesso. “Guardo sui social i video postati “il potere dai miei ‘amici’ della economico controparte. E penso. riesce a far Sai cosa? Che il potere vedere economico riesce a farti vedere la biodiversità la anche quando la si combiodiversità” promette. Scrivono che la vittoria del Sì comprometterebbe l’attività estrattiva di gas in Adriatico con alcune piattaforme che chiuderebbero entro un anno. Il loro obiettivo è quello di portare i giacimenti ad esaurimento. Non importa entro quante miglia si trovano dalla costa. Personalmente non sono mai stato coinvolto, nel corso della mia attività lavorativa, in incidenti su piattaforma. Ma è assurdo dire che queste attività sono a impatto ambientale zero. La loro è pura propaganda e strategia del terrore. Parlano della perdita dei posti di lavoro, come se il futuro della manodopera specializzata dipendesse unicamente dal comparto dell’oil&gas. Fomentano l’unica logica che conta, quella legata al petrolio. La loro. Il problema non lo risolvi con questo referendum, ma secondo me è uno spartiacque tra un passato fossile e un futuro diverso, rinnovabile”. Come non pensare al passato di Raffaele. A quelle piattaforme divise per aree, gruppi di lavorazione, tipologie di raffinazione. A quelle strutture tubolari che trasportano il gas o il petrolio raffinato verso la meta o destinazione finale, verso gli impianti a terra o gli oleodotti 50
in mare aperto direttamente collegati. A quei turni di lavoro differenziati di trenta o quaranta persone al massimo in mare aperto “perché ogni lavoro lì è amplificato”. Raffaele sulle piattaforme ci veniva trasportato in elicottero. L’eliporto era grandioso, l’indotto di base enorme. “Io transitavo sulle piattaforme in maniera abbastanza veloce. Essendo specializzato nei ponteggi industriali, il mio lavoro era a servizio di tutte le altre lavorazioni. Ero il responsabile di cantiere, impostavo i lavori o soprintendevo le esercitazioni dei lavoratori in caso di malfunzionamento. Sai, ‘loro’ battono molto affinché non ci siano incidenti di lavoro. Un fermo nella lavorazione significa milioni di euro che si bruciano in un attimo. Si investe tantissimo per non avere problemi durante le fasi cruciali di estrazione e raffinazione preliminari. E c’è una pianificazione a monte sul tipo di lavorazioni e sugli operai da impiegare giorno per giorno. Ma i lavori di costruzione vera e propria si svolgono tutti a terra”. Già, a terra. Da una tubatura di soli tre metri può nascere una piattaforma immensa in sette, otto mesi di lavorazione al massimo se si va veloci. Se, questo è ovvio, si dispone di un cantiere navale con almeno duecento o trecento lavoratori tra ingegneri, operai e tecnici. Con delle chiatte particolari e rimorchiatori le piattaforme vengono spinte a mare. Il posizionamento esatto avviene tramite satellite. L’ancoraggio con palizzate in ferro battute oltre cento metri di profondità. I tubi di trivellazione vengono posizionati. L’estrazione può avere inizio. Ma non questa volta. “Questo referendum rappresenta la fine di un blocco mentale, di una chiusura economica che privilegia la fonte fossile rispetto ad altre. Abbiamo il dovere di mettere la parola fine a questo meccanismo distruttivo. Anche i gesualdini devono prenderne coscienza. Non andando a votare, invitiamo implicitamente i cercatori di petrolio a venire anche qui a Gesualdo a trivellare in un centro storico. Il 17 aprile abbiamo la possibilità di scrivere una nuova pagina della nostra storia”. La vecchia cava aspetta, paziente. Dopo un sussulto nell’aprile 2015, quando la Vatic Ventures Cor-
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poration di Vancouver sembrava interessata a concretizzare l’acquisto delle società Italmin e Cogeid e, ivi compresi, i rispettivi titoli minerari e permessi di ricerca, la situazione si è di nuovo calmata. Calma apparente. L’acquisto non si è concretizzato. Ma la Italmin, a novembre, chiede l’autorizzazione a modificare nuovamente l’intestazione del titolo. Rivuole l’80 percento del permesso Nusco. Lo rivuole, facendo valere il proprio diritto di prelazione rispetto a chiunque altro. Nel frattempo,
l’ennesima sospensione del decorso temporale. Sospeso, come il destino di un’intera comunità, fino al pronunciamento del ministero dell’Ambiente e comunque non oltre il termine di diciotto mesi. Il silos giallo, sprezzante guarda al castello. Ha assunto una nuova vita nella coscienza e nella dimensione pubblica. Lo si guarda con biasimo o insofferenza, con curiosità, rassegnazione o, in qualche caso, con un briciolo di compassione. Quasi mai con rabbia. Quasi mai con vera ribellione.
DRITTI AL CUORE NERO DELLA BASILICATA DI MAURIZIO BOLOGNETTI / twitter @mbolognetti
Sorgenti, boschi, un Parco nazionale, pozzi e chilometri di condotte che si insinuano nel terreno. A Calvello, vice-capitale europea dell’oro nero, in provincia di Potenza è possibile ripercorrere ed osservare la perfetta sintesi di un distorto concetto di sostenibilità Made in Lucania
#orizzontiperduti #raccontifossili #basilicata
Mentre percorro ancora una volta la Strada statale 558 di Fondo Valle d’Agri, la pioggia batte sull’asfalto. Come sempre, guardando la bellezza e la varietà del paesaggio, mi assale un sottile senso d’angoscia. Da un lato i colori, gli odori, i sapori di una delle più belle valli lucane, dall’altra le ferite inferte al territorio dalla folle, miope, scellerata scelta di autorizzare attività di estrazione di idrocarburi a ridosso di sorgenti, fiumi, centri abitati, aree a rischio sismico e a rischio frana. Ai quali si aggiunge il Centro olio di Viggiano, in provincia di Potenza, ubicato a qualche centinaia di metri, in linea d’aria, dalla diga del Pertusillo. Il lago di Pietra.
Questa volta, però, la meta non è Viggiano, ribattezzata dai suoi amministratori la Città di Maria - la Madonna nera - e del petrolio. Il cuore nero del più grande giacimento di greggio in terraferma d’Europa. Sono diretto a Calvello, la Città Museo. Il paese dei moti carbonari del 1821. Sono sulle vie del Parco nazionale Appennino Lucano Val d’Agri Lagonegrese e del petrolio. Sono nel cuore di un territorio dove qualcuno ha pensato di realizzare una impossibile convivenza tra pozzi e sorgenti, tutela ambientale e trivelle. A monte della sorgente Acqua dell’Abete - sequestrata per ben due volte dal Corpo Forestale dello Stato, il 20 novembre 2008 e il 26 luglio 2010 - c’è il
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Calvello, acqua inquinata / Foto di Maurizio Bolognetti
pozzo “Cerro Falcone 2” dell’Eni. Per un attimo, il rumore dell’acqua che scorre dà pace e serenità. Poi la mia scarpa affonda nel terreno inzuppato e, come già nel avvenuto 2008, noto delle macchie iridescenti e oleose. Il pozzo è stato autorizzato a monte di un corso d’acqua. La Procura della Repubblica di Potenza ha archiviato tutte le denunce presentate, ma qualche anno fa - da analisi effettuate dall’Agenzia regionale per la protezione ambientale (Arpa) - è emersa la presenza di “terre e rocce da scavo contenenti sostanze pericolose”. A poche centinaia di metri da “Acqua dell’Abete” - sempre nel territorio di Calvello - troviamo la sorgente “Acqua Sulfurea” dove fa bella mostra un cartello che invita il viandante a non bere l’acqua, causa inquinamento “chimico e batteriologico”. Il divieto è in vigore dal 2004 e in prossimità della sorgente, in mezzo a boschi e cavalli al pascolo, troviamo un altro pozzo: il “Cerro Falcone 1”, sempre dell’Eni. Sorgenti, boschi, un Parco nazionale e poi 52
pozzi e chilometri di condotte che si insinuano nel terreno. A Calvello, vice-capitale europea dell’oro nero - uno dei tanti straordinari borghi lucani, abitato da poco meno di 2000 anime, troviamo la perfetta “a Calvello sintesi di un distorto concetto di sostenibilità la perfetta Made in Lucania. Può sintesi di un succedere questo ed concetto altro in una terra in cui distorto di vige il negazionismo e sostenibilità” in cui qualcuno, prima o poi, ci racconterà che gli inquinanti emessi dal Centro olio di Viggiano sono un potente antinfiammatorio. Intanto mi chiedo quanti cittadini lucani sanno che l’Eni ha presentato sei segnalazioni di inquinamento riguardanti proprio il territorio di Calvello. GUARDA IL REPORTAGE DI RADIO RADICALE
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Panorami
IL PARCO ASSEDIATO DALLE TRIVELLE LA NATURA DEL SUD, PRINCIPESSA O CENERENTOLA?
APPENNINO LUCANO, IL PARCO ASSEDIATO DALLE TRIVELLE DI ANTONIO BAVUSI
Il racconto del lungo travaglio che ha portato alla nascita del Parco nazionale Appennino Lucano Val d’Agri Lagonegrese, oggi subordinato allo sviluppo petrolifero della Basilicata Con l’approvazione della Legge Quadro sulle Aree Protette n.394/91 veniva individuato come Parco nazionale il territorio della Val d’Agri e del Lagonegrese, compreso tra i monti Arioso, Volturino, Viggiano, Sirino e Raparo. La sua istituzione veniva però posta in subordine alla realizzazione del Parco interregionale del Delta del Po ed all’eventuale fallimento dell’intesa tra ministero dell’Ambiente e Regione Sardegna in merito alla costituzione del Parco nazionale del Golfo di Orosei, Gennargentu, Isola dell’Asinara. Ma - seppur in continuità geografica con i parchi nazionali del Cilento e del Pollino, e con notevoli valenze ambientali e specie floro-faunistiche prioritarie - è destinato a diventare, nelle intenzioni delle compagnie minerarie, il principale “campo petrolifero” italiano, sul quale si accentrano gli interessi economici delle multinazionali del petrolio, ben decise a sfruttare gli incentivi pubblici - oltre 2000 miliardi delle vecchie lire - messi a disposizione dal Governo alla ricerca ed estrazione di idrocarburi. La prima proposta di istituzione Un gruppo di lavoro formato dalle associazioni WWF, Legambiente e Pro Natura predispone la proposta di perimetrazione dell’area pro54
#orizzontiperduti #panorami #basilicata
tetta. La fiducia e la speranza che l’istituzione del parco potesse salvaguardare, come in uno scrigno, inestimabili valori ambientali, si rilevò ben presto una illusione. Come se fosse sufficiente picchettare i suoi confini per poter salvaguardare adeguatamente i riconosciuti valori scientifici, naturali, ambientali e paesaggistici del territorio “da difesa e delle comunità che lo di inestimabili abitano. La prima provalori posta del parco nazionale, presentata dalle ambientali associazioni agli ammia grande nistratori, ai cittadini illusione” ed alla stampa, in località fontana dei Pastori di Viggiano, è datata settembre 1993. Non si conoscevano ancora i programmi dell’Eni e della Shell, anche se già noti agli amministratori regionali, nonostante i valori conclamati dall’Abetina di Laurenzana, ai boschi di monte Pierfaone, al “Faggeto di Moliterno”. E poi ancora, il massiccio del Sirino, il monte Volturino, con il circo ed il lago Laudemio di origine glaciale con le stazioni relitte popolate da preziosi endemismi botanici. Ed ancora, la Serra di Calvello, il monte
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Raparo, la Montagna Grande di Viggiano ed altre numerose località. Per quanti amano e rispettano la montagna queste località rappresentano molto di più di un semplice nome segnato sulla carta geografica. Un lungo travaglio Nonostante il verificarsi delle condizioni favorevoli alla sua realizzazione, l’annuncio da parte dei media nazionali delle sensazionali scoperte di giacimenti petroliferi nella Val d’Agri fa passare l’istituzione del parco in secondo piano, e suscita in sede locale iniziative che si susseguono a ritmo frenetico. Convegni e prese di posizione da parte di associazioni, gruppi di opinione e partiti politici si alternano a procedimenti amministrativi in merito all’istituzione del Parco nazionale. La proposta ufficiale di perimetrazione del Parco, inviata nel 1997 dal Ministero dell’Ambiente agli Enti Locali ed alla Regione Basilicata, viene di fatto ritardata da quest’ultima che, da parte sua, predispone due proposte alternative. Di queste una, recante la dizione “Parco dell’Appennino lucano”, inviata per una richiesta di parere anche agli Enti locali, viene contestata dalle associazioni ambientaliste. Il cambio della dizione in “Appennino lucano” determina di fatto l’ulteriore rinvio dell’istituzione del Parco a tutto vantaggio delle “i confini società petrolifere, a del parco, tra causa della sua indiviperimetrazioni duazione come “ area di e riperimetrazio- reperimento”. In presenza di possibili cause di ni tardano degrado ambientale dead arrivare” rivanti dalle attività di ricerca, estrazione e raffinazione del greggio, il WWF Italia chiede ripetutamente, nelle more della perimetrazione dell’area protetta nazionale, che il ministero dell’Ambiente - avvalendosi dei poteri attribuiti dalla Legge n.349/86 ed in particolare dell’articolo 1, comma 2 e dell’articolo 5 comma 2 della stessa legge - individui con urgenza i territori da comprendere nel futuro parco. Tanto al fine di assicurare, in un quadro organico, la conservazione, la difesa e la promozione di zone di importanza
naturalistica nazionale ed internazionale da perseguire anche mediante l’emanazione di misure urgenti di salvaguardia. Mentre la richiesta viene inizialmente ignorata, le società petrolifere interessate ricevono dalla Regione Basilicata e dal ministero dell’Ambiente le autorizzazioni ad effettuare ricerche ed estrazioni petrolifere, nonché il parere positivo per la Valutazione d’impatto ambientale (Via) sia per la costruzione dell’oleodotto Viggiano-Taranto, sia per l’ampliamento del Centro olio della Val d’Agri. Parallelamente - mentre l’intesa tra Eni e Regione Basilicata per lo sfruttamento petrolifero e lo sviluppo delle aree interessate dell’estrazione di idrocarburi, diventa l’argomento preminente di contrattazione tra poteri locali e Governo nazionale - il Consiglio dei ministri, con l’approvazione della legge 426/98 dal titolo “Nuovi interventi in campo ambientale”, all’articolo 2 comma 3, sancisce l’istituzione del Parco della Val d’Agri che, nel frattempo, nella dizione ha perso il territorio del Lagonegrese. In attesa del decreto del Presidente della Repubblica Entro 180 giorni dall’entrata in vigore della legge si dovrà procedere alla perimetrazione ed alla emanazione delle norme di salvaguardia tramite un decreto del Presidente della Repubblica e su proposta del ministero dell’Ambiente dopo aver sentito, con parere vincolante, le Regioni, i Comuni, le Province interessate e la Conferenza Stato-Regioni. Con il D.P.C.M. del mese di settembre 2000 viene modificata la legge sulla Valutazione di impatto ambientale. Dopo tale provvedimento, diventa applicabile anche per le ricerche ed estrazioni petrolifere nelle aree protette. Nel mese di gennaio 2001 il ministero dell’Ambiente trasmette agli Enti locali ed alla Regione Basilicata una nuova ipotesi di perimetrazione del parco. Lo schema di decreto riguarda la zonazione e le misure di salvaguardia dalle quali si evince come, nell’ambito delle tre zone in cui viene suddiviso il territorio, restino fuori i centri storici di numerosi comuni, aree a forte vocazione naturalistica e quelle interessate dall’attività petrolifera. Intanto con procedimento n.2000/5037 nel mese di ottobre
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Il lago del Pertusillo / Foto di Pietro Dommarco
2002 la Commissione Europea, Direzione Generale Ambiente, comunica al Governo italiano “la messa in mora per cattiva applicazione delle direttive 2/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche, e 85/337/ CEE concernente la valutazione di impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati, in relazione alla mancata effettuazione delle procedure previste dalle due direttive su determinati progetti di prospezione, coltivazione, estrazione, stoccaggio e trasporto di petrolio in Basilicata, alla mancata adozione di misure idonee ad evitare il degrado degli habitat naturali, degli habitat di specie e la perturbazione delle specie di determinate ZPS della Regione Basilicata nonché alla adozione di misure che possono gravemente pregiudicare l’integrità di determinati Siti di Importanza Comunitaria proposti dalla Regione Basilicata”. Con l’intesa raggiunta e con il successivo Decreto del Presidente della Repubblica, il Parco nazionale Val d’Agri Lagonegrese - in 56
mancanza del Decreto del Presidente della Repubblica che lo istituisce - vede aprirsi la difficile fase gestionale attraverso un regime di tutela diversificato su tre fasce di territorio sottoposte a diverse forme di salvaguardia. La Deliberazione del Consiglio Regionale n.552 del dicembre 2002, nel “il Parco riproporre la dizione prende forma “Appennino Lucano”, evitando di definisce la transizione intralciare attraverso il rilascio i progetti dei pareri relativi ad opere ed attività della petroliferi” Regione all’Ente Parco, stabilendo il principio di “divieto di ricerca, estrazioni e trasporto petrolifero” nel territorio del parco. Un principio, appunto, superato da una norma bluff, inserita nello schema di decreto, che fa salve le aree pozzo già autorizzate “dall’espressione del giudizio di compatibilità ambientale del progetto relativo alla variazione del program-
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ma lavori concessione Volturino” del 16 giugno 1999, autorizzato dai Ministri dell’Ambiente, Edo Ronchi (Verdi) e dei Beni ed Attività Culturali, Giovanna Melandri (DS). L’istituzione del parco Il Parco nazionale dell’Appennino Lucano - istituito con Decreto del Presidente della Repubblica 8 dicembre 2007 - è prossimo al traguardo del decimo anno. Comprende il territorio di 29 Comuni e quasi 69 mila ettari situati lungo l’Appennino centro-meridionale. Il frastagliato perimetro del parco si presenta “a macchia di leopardo”. È il risultato di una decina di perimetrazioni succedutesi negli anni, man mano che il travagliato iter istitutivo faceva i conti con gli interessi delle compagnie petrolifere e con le politiche localistiche dei Comuni. Una nascita che ha riserbato un futuro già segnato. La nomina iniziale del commissario al posto del presidente, e la conseguente rinuncia da parte della Regione Basilicata di perorare l’insediamento degli organi del parco previsti dalla Legge 394/91, ne hanno condizionato le scelte. Così come quella di affidare alla stessa società che ha progettato il Centro olio di Corleto Perticara (di Total, Shell e Mitsuij) la redazione del Piano del Parco. Una gestione condizionata dagli interessi del petrolio Un parco congelato avvantaggia il cosiddetto parco dell’energia. Termine quest’ultimo coniato dai fautori dello sviluppo del petrolio e propagandato dalla Fondazione Mattei, con il sostegno della stessa Regione. Tutto ciò mentre Eni, Shell e Total diventano padrone del territorio, mettendo in un angolo del territorio del parco. Basta leggere i cartelli stradali che fiancheggiano le strade comunali e provinciali di montagna all’interno del parco per convincersene. Oppure addentrarsi nei boschi e sulle montagne per quanti vogliano approfondire la loro conoscenza. Come è stato possibile aggirare le misure di salvaguardia del parco nazionale negando che all’interno del perimetro del parco nazionale vi fossero pozzi petroliferi? È sufficiente un report dello stesso Ufficio Tutela della Natura della Regione Basilicata per verificare come vengano chiaramente indicati
16 pozzi petroliferi su 27 in produzione situati nel parco, a cui oggi si aggiungono una decina di nuovi pozzi autorizzabili con l’espediente del “workover”, ovvero “lavori di manutenzione” che in realtà sono vere e proprie nuove trivellazioni partendo dalle postazioni esistenti, molte delle quali a profilo orizzontale. Si preannunciano intanto ulteriori autorizzazioni nell’area protetta nell’ambito dei permessi di ricerca denominati “Satriano” (Eni, Valle del Melandro), “Anzi” (Eni, Val d’Agri-Val Camastra), “Pignola” (Shell, Val d’Agri), “La Cerasa” (Shell, Valli dell’Agri-Melandro), “Grotte del Salice” (Shell, Val d’Agri -SIC/ZPS Timpa San Lorenzo), “Monte Cavallo” (Shell, Val d’AgriCilento Vallo di Diano). All’orizzonte riappare inoltre la vergognosa “pantomima” sulle autorizzazioni delle discariche e dell’eolico industriale. Il Parco nazionale dell’Appennino Lucano si presenta oggi come un vaso di argilla in mezzo a vasi di ferro, con le trivelle meccaniche e centinaia di chilometri di oleodotti sotterranei in acciaio che puntano al cuore dell’area protetta, alla qualità delle acque e all’integrità dei sistemi naturali. Così come purtroppo avviene al lago del Pertusillo, sulla carta un sito di importanza comunitaria, o presso le sorgenti in quota nei territori comunali di Calvello, Marsico Nuovo, Marsicovetere e Viggiano, interessate da trivellazioni e attività petrolifere che il Memorandum sottoscritto dalla Regione intende incrementare con un raddoppio delle quantità di idrocarburi estratti su uno dei più grandi bacini idrici di superficie e di profondità presenti nel Sud, con l’incremento di produzione (soprattutto gas) nella V linea del Centro olio di Viggiano. È purtroppo prevalsa la concezione formatasi durante secoli di storia che considera le montagne ed i boschi, aree marginali e di più basso valore rispetto alle aree vallive e pianeggianti, più rare, ricche ed appetibili per l’insediamento edilizio e commerciale. L’infrastrutturazione petrolifera è avvenuta in questo contesto culturale, prima che geografico, nell’assoluta indifferenza di gran parte delle pubbliche amministrazioni, ed anche di parte della pubblica opinione. Le trivelle si sono così attestate sulle montagne e nei boschi, nel “parco di nessuno”.
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Si ringrazia per la gentile concessione
Campagna ad inserzione gratuita
LA NATURA DEL SUD, PRINCIPESSA O CENERENTOLA? DI FRANCO TASSI
È molto bello, e significativo, che dal Mezzogiorno d’Italia giungano messaggi in difesa degli alberi, delle foreste, della natura. Tanto più importante proprio oggi, che contro il patrimonio culturale, ambientale e paesaggistico del nostro Paese si è scatenata una lotta senza limiti, con ogni mezzo e con i più assurdi pretesti Straordinario, e ancora molto da esplorare, è il patrimonio naturalistico del nostro Mezzogiorno, capace di riservare ancor oggi inattese e incredibili sorprese. Una cornucopia ricchissima maggiore cura da parte delle comunità e delle istituzioni. Basti pensare agli ulivi millenari del Salento, ai quali veniva prestata scarsa attenzione fino al momento in cui sono stati minacciati da demenziali tagli, espianti e veleni, che hanno finalmente risvegliato la fiera reazione della popolazione. Gli esempi di curiosità, misteri e scoperte abbondano soprattutto nel regno animale, tanto da sconfinare talvolta nel campo della criptozoologia. Meritano di essere ricordati enigmi ben noti, come quelli di lince appenninica, camaleonte, boa delle sabbie. E spingendosi oltre, alle entità scomparse, come il lupo di Sicilia, che si ha ragione di ritenere fosse ben diverso dal lupo appenninico. Tra gli uccelli, non possono essere dimenticati cicogna nera, picchio dorso bianco di Lilford e picchio nero e poi, se ci si spinge nell’ambiente marino, foca monaca e calamaro gigante.
#panorami #natura #parchi #sud
Oscurantismo naturalistico Non riveliamo certo una novità sconvolgente, affermando che il Italia, e in particolare proprio nelle regioni più privilegiate dalla natura, la cultura ecologica lascia molto a desiderare. Frutto di una serie di ragioni storiche, tra cui spiccano la secolare dominazione straniera e la prevalenza della cultura umanistica, con conseguenze manifeste in ogni settore della vita civile. La scuola è carente, e non si pensa nemmeno a ripristina“nelle re l’educazione civica, ambientale, sanitaria scuole e stradale, tanto per manca limitarci ai settori più l’educazione critici.
ambientale e sanitaria”
L’Università è baronale, dedita soprattutto alla corsa a fondi, pubblicazioni e carriere, sempre più fagocitata da tentazioni tecnologiche, più che lanciata verso la ricerca pura. I musei sono praticamente inesistenti, o vergognosamente trascurati, proprio
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là dove potrebbero svolgerebbero un prezioso ruolo informativo e formativo. La burotecnocrazia è più che mai indifferente, se non ostile, alla conservazione della natura e delle sue risorse. Quanto alla politica, nella sua sfrenata sete di dominio, essa “ha scelto l’ignoranza”, come afferma il recente manifesto sottoscritto da 500 scienziati europei. Che dire di più? Per chi nutrisse ancora qualche dubbio, sarà sufficiente un quesito. Come mai la maggior parte delle scoperte zoologiche più valide proviene sempre dal mondo indipendente, da esperti e studiosi appassionati, dilettanti e non professionisti, al di fuori di qualsiasi progetto o programma accademico? Analfabetismo ecologico L’impressione dei più qualificati osservatori internazionali è che l’Italia, erede di un passato unico e glorioso, sia ormai purtroppo un Paese in decadenza, senza grandi possibilità di ripresa. Una nazione dove tende oggi a dominare il bieco principio materialista che “con la cultura non si mangia”, mentre i valori morali e spirituali, l’equità e la giustizia, la verità e la memoria storica, la riconoscenza e il merito vengono considerati soltanto fastidiosi ostacoli da rimuovere. “la green Mezzogiorno rapinato, economy alberi massacrati, boè stata schi devastati, parchi sostituita banalizzati e asfaltati, dalla paesaggi violentati, grey economy” fauna perseguitata. Affoghiamo indubbiamente nel più lampante “analfabetismo ecologico”. Eppure, bersagliati da un’informazione spesso manipolata, sembriamo non rendercene conto. Tutto il “sacco d’Italia” perpetrato dai nuovi Lanzichenecchi viene ammantato nel velo ipocrita della cosiddetta green economy. La madre di biomasse, biogas, inceneritori che sarebbe meglio definire grey economy. Questo Paese tanto sonnolento potrà un giorno risvegliarsi? In ritardo, con fatica, tra mille difficoltà, qualche esempio di sensibilità culturale, rivolta 60
Lince fotografata da un turista nei boschi della Calabria
ecologica e cittadinanza attiva sembra affiorare qua e là. Dopo la grande opposizione alle scorie nucleari di Scanzano, sono fioriti in varie parti d’Italia i comitati a favore della Forestale e contro la privatizzazione dell’acqua, i gruppi in difesa dell’orso e del lupo, degli uliveti e delle pinete, i movimenti No Tav e No Triv. Ma non basta ancora. Per una decisa inversione di rotta occorrerà una forte mobilitazione. Ai referendum contro le trivellazioni e per la Costituzione dovranno aggiungersi forti iniziative contro gli incentivi alla grey economy. Ne saremo capaci? Ancora una volta, la soluzione dell’eterno “dilemma” uomo-natura resta affidata a noi. La salvezza non verrà da prodigi esterni, ma “la soluzione dalla nostra mente e del dilemma dal nostro cuore. Siamo uomo-natura un Paese marcescente, resta è vero. Ma nella natura, in quell’equilibrio ecoaffidata logico in perpetuo dinaa noi” mismo, dal legno morto rinasce finalmente la vita. Dalle macerie del fallimento della corsa allo sviluppo illimitato, domani potrebbe germogliare una nuova umanità più generosa e responsabile. Dipenderà dalle energie che sapremo sprigionare a favore di Madre Terra, la nostra Casa Comune.
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Multinazionali
LA FACCIA SPORCA DEL TTIP L’IMPERO DEI PESTICIDI
LA FACCIA SPORCA DEL TTIP DI FRANCESCO PANIÉ / twitter @francesco_panie
L’Unione europea, per conto degli Stati Membri sta negoziando con il gli Stati Uniti un accordo sul commercio e gli investimenti dalla sigla ostica: TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership). Il rischio è che gli standard sociali ed ambientali diventino barriere non tariffarie di disintegrare Quando la provincia canadese del Quebec, nel 2012, ha deciso di varare una moratoria sul fracking - in attesa di valutarne l’impatto ambientale - alla Lone Pine Resources non si sono persi d’animo. Hanno dato incarico al legale David Haigh, esperto in diritto commerciale, di fare causa al governo del Canada presso una corte di arbitrato. L’accusa era quella di aver espropriato la compagnia del permesso di trivellare nel fiume San Lorenzo. La richiesta di risarcimento per mancati profitti attesi ammonta a 250 milioni di dollari. Saranno tre arbitri privati, in un’udienza a porte chiuse e senza possibilità di appello, a stabilire se lo Stato ha violato i termini del Nafta, l’accordo di libero scambio tra Stati Uniti, Canada e Messico siglato nel 1994. Questo genere di trattati fornisce alle imprese private di ciascun Paese contraente la possibilità di ricorrere ad un sistema giudiziario sovranazionale, nei casi in cui i loro investimenti all’estero non vadano a buon fine per qualsiasi ragione. Se un governo decide di inasprire le normative di tutela ambientale, la compagnia petrolifera straniera può citarlo in giudizio presso le corti arbitrali. Se un referendum costringesse l’esecutivo a ripubblicizzare i servizi idrici privatizzati nel passato, sarebbe passibile di denuncia. Lo stesso accadrebbe 62
#multinazionali #stopttip
se decidesse di alzare il salario minimo dei lavoratori di un dato settore. Non si tratta di eventualità realistiche, ma di fatti reali. Lo testimoniano le cause che hanno visto finire alla sbarra Argentina ed Egitto. Presto potrebbe toccare anche al nostro Paese L’Unione europea, per conto dell’Italia e degli altri Stati membri, sta negoziando con gli Stati Uniti un accordo sul commercio e gli investimenti dalla sigla ostica: si chiama TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership), e punta a trasformare in maniera irreversibile il nostro sistema sociale. L’idea alla base del TTIP è creare un canale preferenziale per le imprese Ue e USA nei rispettivi continenti. In quest’ottica, gli standard sociali e ambientali diventano “barriere non tariffarie” da disintegrare. Stesso discorso per i regolamenti a tutela dei prodotti tipici e dei servizi pubblici. Tutto ciò che frena il libero scambio e la competizione deve sparire. Per eliminare il rischio che qualche Parlamento nazionale, ente locale, associazione o comitato metta i bastoni tra le ruote delle aziende, il TTIP prevede un meccanismo molto simile a quello che ha permesso alla Lone Pine di chiedere centinaia di milioni al Canada per aver sospeso il fracking. Grazie all’arbitrato internazionale, gli inve-
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stitori riducono a zero il rischio di impresa: possono sempre ricorrere alla ristretta cerchia di “giudici” del settore, che convivono serenamente con il conflitto di interessi. Solo alle aziende estere spetta il privilegio di attivare questi opachi tribunali, nati in seno alla Banca Mondiale negli anni Sessanta. Le imprese locali non possono accedervi: devono rivolgersi alle corti nazionali. Lo Stato, invece, può varcarne la soglia unicamente nella veste di imputato. Le statistiche dicono che due volte su tre i governi perdono la causa e i contribuenti devono pagare centinaia di milioni, se non addirittura miliardi, in compensazioni. L’ammontare delle cifre suggerisce che gli accordi di libero scambio sono un affare per poche grandi imprese multinazionali. Infatti, i colossi dell’agribusiness, della chimica, della finanza e dell’energia guardano con favore al TTIP, il progetto più “i colossi «ambizioso» mai tendella chimica, tato. Per meritarsi un della finanza tale attributo, il trattato e dell’energia non può limitarsi a un guardano con abbattimento di dazi e tariffe, già oggi ai mifavore al TTIP” nimi tra i due blocchi. È necessario scardinare il sistema di normative e standard imperniati sul principio di precauzione, che – almeno in parte – informa oggi la politica europea. Il messaggio è chiaro: zero regole, sempre e dovunque. La mancanza di studi su diritti civili, mercato del lavoro ed ambiente Il nostro e molti altri governi sostengono che il TTIP è una imperdibile opportunità di crescita economica. Ma i dati a sostegno di questa tesi, quando esistono, sono deboli. Per la verità mancano anche studi di impatto sui diritti umani e civili, sul mercato del lavoro, sull’ambiente. Nessuno ha pensato di commissionarli prima di iniziare le trattative. Eppure in un Paese come il nostro, dove il tessuto economico è una fitta trama di micro, piccole e medie imprese, i rischi di un tracollo senza ritorno sono palpabili. Le indicazioni
geografiche che proteggono i nostri prodotti di eccellenza verrebbero in massima parte esposte alla concorrenza di una enorme mole di prodotti a basso costo dal nome similare. Coltivatori e artigiani non potrebbero sostenere la competizione, le aziende dovrebbero delocalizzare o abbattere i costi della manodopera. Le amministrazioni “il 7 maggio verrebbero private della Roma ospiterà possibilità di sostenere la prima economicamente i termanifestazione ritori, pena cause miliardarie da parte degli nazionale investitori esteri. Stop TTIP” Nel tentativo di bloccare questo accordo, centinaia di organizzazioni italiane ed europee in difesa dell’ambiente e della società civile hanno costruito la campagna Stop TTIP. Il 7 maggio 2016 Roma ospiterà la prima manifestazione nazionale costruita da 300 realtà associative con lo scopo di sollevare una questione gravemente sottovalutata a livello politico e mediatico. L’accordo potrebbe essere parzialmente concluso entro questa estate, aprendo una voragine democratica incolmabile nel nostro sistema sociale. L’onere di fermarlo prima che sia troppo tardi, ancora una volta è in capo a noi.
STOP TTIP La Campagna Stop TTIP Italia nasce nel 2014 per coordinare reti, organizzazioni e territori in opposizione al Partenariato Transatlantico sul commercio e gli investimenti (TTIP). Negli ultimi due anni sono sorti oltre 50 comitati locali, che hanno promosso con successo più di 70 mozioni di contrarietà al TTIP presso Consigli comunali e regionali. Recentemente è stata lanciata la petizione online “Fuori il TTIP dalla mia città”, mentre il 7 maggio è in programma la manifestazione nazionale costruita da 300 realtà associative. www.stop-ttip-italia.net
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L’IMPERO DEI PESTICIDI DI VITO L’ERARIO / twitter @vitolerario
Glifosato, OGM e cocktail micidiali di diserbanti mettono a rischio l’equilibrio degli habitat e la salute umana Il glifosato è un analogo aminofosforico della glicina, inibitore dell’enzima 3-fosfoshikimato 1-carbossiviniltransferasi (EPSP sintasi), noto come erbicida totale (non selettivo), di cui Monsanto possedeva il brevetto di produzione, scaduto nel 2001. Secondo la simbologia adottata per classificare il rischio chimico, il glifosato è erbicida utilizzato in agricoltura, molto diffuso. È un veleno a tutti gli effetti per l’ambiente. Una sostanza solida inodore che provoca gravi lesioni oculari, estremamente tossico per gli organismi acquatici. Secondo ricercatori indipendenti (Buffin & Jewell, 2001) “il glifosato è tra i pesticidi più segnalati come causa di avvelenamento accidentale. Provoca una serie di sintomi acuti nell’uomo, tra cui eczema ricorrente, problemi respiratori, elevata pressione del sangue e reazioni allergiche; mentre provoca danni al DNA nei mammiferi (osservati in laboratorio danni al DNA dei topi, nelle cellule di fegato e reni, danni genetici nelle ossa delle cellule del midollo). È tossico negli agrosistemi per gli organismi benefici del suolo e per i predatori, aumenta la suscettibilità delle colture alle malattie. In silvicoltura e in agricoltura, il glifosato ha effetti dannosi indiretti sugli uccelli e i piccoli mammiferi danneggiando le loro scorte di cibo e lo stesso habitat. Dosi sub-letali possono causare danni per deriva aerea e colpire habitat e specie di interesse fino a 20 m di distanza dal spruzzatore”. 64
#multinazionali #agricoltura #stopglisofato
Gli avvertimenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) - che per mano dell’Agenzia Internazionale per la Ricerca del Cancro (AIRC) - ha classificato il glifosato come “probabile cancerogeno”. Le proteste di attivisti organizzati dinanzi la sede di Bruxelles, le tante petizioni, le opposizioni di scienziati e di Svezia, Francia, “l’OMS ha Olanda e Italia, hanno classificato indotto la Commissione il glifosato Europea a rimandare come al prossimo maggio la decisione se prorogare probabile per altri 15 anni o meno cancerogeno” l’utilizzo del glifosato in agricoltura nel Vecchio Continente: le autorizzazioni all’erbicida più diffuso al mondo scadono, infatti, il prossimo giugno. Nel frattempo, l’Agenzia europea per le sostanze chimiche (ECHA) condurrà indagini approfondite sull’impatto sanitario del glifosato dopo l’allarme lanciato dall’OMS. Scende in campo Greenpeace Secondo il rapporto “Tossicodipendenza da pesticidi: come l’agricoltura danneggia il nostro ambiente” di Greenpeace, è necessario rafforzare con urgenza le norme che dovrebbero controllare l’impiego dei pesticidi in Europa perché al momento il sistema di regolamentazione è definito, dagli ambientalisti, fallimen-
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Vigneti e glifosato / Foto di Vito L’Erario
tare. Un monopolio agro-chimico da miliardi di euro-dollari ristretto a poche aziende. Nel 2011, tre aziende europee - Syngenta (Svizzera), Bayer CropScience e BASF (Germania) - controllavano il 52,5 percento del mercato globale dei pesticidi. Sempre secondo Greenpeace, se sommiamo le tre società americane, Dow AgroSciences, Monsanto e DuPront, si arriverebbe al 76 percento di vendite di pesticidi al mondo. Avanzano Cina e India Ma nel mercato globale dei pesticidi stanno crescendo anche l’Asia (Cina e India) ed il Sud America (Brasile e Argentina). Già nel 2014, l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) aveva avviato una consultazione pubblica proprio in virtù della possibilità di estendere, nel tempo, l’utilizzo del glifosato in agricoltura. Oltre a Greenpeace, tra le organizzazioni ambientaliste più attive che meritano giusta menzione, sono certamente da citare la Food & Water Watch Europe e la SumOfUs
(quest’ultima si occupa anche dei diritti dei consumatori) che si sono - e si stanno battendo - affinché l’uso dell’erbicida glisofato venga bandito definitivamente come pratica agricola. Proprio la Food & Water Watch Europe si è resa protagonista di una petizione online che ha chiamato molti cittadini alla sottoscrizione per chiedere all’EFSA “i cittadini di proteggere il nostro si battono cibo dai pesticidi e non per bandire tutelare la Monsanto o il glifosato quelle multinazionali food, che tentano di come pratica governare ciò che managricola” giamo quando ci sediamo a tavola. L’11 novembre 2014 le popolazioni dell’isola di Maui, situata nell’arcipelago delle Hawaii, hanno votato una moratoria contro le colture OGM (Organismi Geneticamente Modificati) della Monsanto che, a sua volta, aveva investito più di 8 milioni di dollari per convin-
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LINK UTILI www.isprambiente.gov.it www.greenpeace.org www.foodandwaterwatch.org www.sumofus.org www.ilsostenibile.it
nare tutte le erbe infestanti, senza intaccare le coltivazioni. Il tutto si conforma nella riduzione di lavoro e risparmi finanziari grazie alla riduzione dei costi di controllo delle infestanti (Bianco, Bellucci, Jacomini - Dipartimento Difesa della Natura - ISPRA). Le aziende biotech tentano in tutti i modi di mettere le mani sul monopolio alimentare, come il recente tentativo di fusione Monsanto-Syngenta che ha visto l’intervento delle Autorità di regolamentazione Antitrust europee ed americane. Pesticidi e colture OGM sono il grande tema di questi anni, in cui si decidono le sorti di un Pianeta sempre più nelle mani delle aziende biotech.
Uliveti e glifosato / Foto di Vito L’Erario
cere le popolazioni locali a boicottare il voto. Rovesciare l’esito del voto è ora intenzione della multinazionale, più che decisa nell’intento grazie anche ad un esercito di avvocati pronti a dare battaglia. L’organizzazione SumOfUs, in un suo Rapporto, ha denunciato come il 10 percento dei terreni agricoli delle Hawaii siano di proprietà di Monsanto, Dow, Basf, ed altre grandi aziende biotech che, a quanto pare, hanno trovato in questo arcipelago le condizioni climatiche ideali per sperimentare i loro semi geneticamente modificati, da vendere in tutto il Pianeta. Maui è il luogo con la maggiore diversità biologica al mondo, ma che oggi è stato trasformato in un laboratorio gigante, in cui si sperimenta biologico con uso dilagante di colture OGM e pesticidi. Tuttavia esistono OGM appositamente modificati per essere resistenti ai pesticidi, in particolar modo al glifosato, meglio conosciuti come “Roundup Ready” (RR). Queste varietà permettono agli agricoltori di irrorare le coltivazioni con l’erbicida, con l’obiettivo di elimi-
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È il caso del colosso chimico tedesco Bayer, uno dei maggiori produttori di pesticidi a base di neonicotinoidi (introdotti come alternativa sicura al DTT, ma fortemente neurotossici e derivati dalla nicotina). Si teme che proprio l’utilizzo di questi pesticidi possa essere la causa della grave moria di api degli ultimi anni, un fenomeno che gli “i pesticidi esperti chiamano “coe la grave lony collapse disorder”. moria L’EPA, l’Agenzia ameridi api cana per la protezione dell’ambiente, ha clasdegli ultimi sificato i neonicotinoidi anni” di Bayer estremamente tossici per le api. È quanto denuncia un’altra organizzazione con sede a Washington chiamata League Conservation Voter (LCV), che persegue le finalità di trasformare i valori ambientali in priorità nazionali, statali e locali. La possibile alternativa Secondo la LCV, in base a studi condotti da ricercatori inglesi, ci sarebbe un’alternativa ai neonicotinoidi: a quanto pare un particolare ragno australiano, dal veleno fatale, agirebbe contro i parassiti comuni senza avere alcun effetto negativo sulle api. Un condizionale d’obbligo, considerato che questa organizzazione propone pesticidi alternativi su cui si potrebbe molto discutere: se i neonicotinoidi venivano considerati sicuri e come alternativa al DDT, oggi scopriamo che questo pesticida agisce in maniera devastante sulle api. Sappiamo bene quanto siano importanti le api, la loro funzione impollinatrice è di estrema importanza per la sopravviveva del genere umano. Se i dati dimostrano un continuo aumento di pesticidi nell’Unione Europea è necessario invertire la rotta avviando una svolta epocale verso l’agricoltura sostenibile. Lo sviluppo e le selezioni di varietà naturali resistenti alle malattie aiuta a ridurre, e anche a eliminare, funghi e insetti infestanti. Una rotazione delle colture ben pianificata, così come la diversificazione dei sistemi agricoli e realizzazione di policolture, possono aumentare i raccolti e proteggerli da grandi infe-
STOP GLIFOSATO IN BASILICATA Un cartello di associazioni locali e nazionali lo scorso 5 marzo - come prima fase di un’azione di informazione sul tema - ha inviato una missiva al presidente della Regione Basilicata, agli assessori regionali all’Ambiente e alle Politiche Agricole e ai Comuni lucani, con la quale si chiede di non finanziare forme di agricoltura che prevedano uso di disseccanti. Tavolo associazioni agricolo-ambientali
stazioni di parassiti. Salvaguardare il suolo e accrescere la sua componente organica, incrementandone così la fertilità, è un altro fattore che assume un ruolo importante per il controllo delle infestazioni. Infine, la sostituzione dei pesticidi con la lotta integrata, che impiega nemici naturali dei parassiti, sta avvenendo anche con un certo successo. (Rapporto Tossicodipendenza da pesticidi, Greenpeace 2015). Ma cosa si potrebbe fare nell’immediato per arrestare l’uso dilagante dei diserbanti? Le Istituzioni potrebbero agire attraverso il Principio di Precauzione, che sindaci o presidenti di Regione, attraverso specifiche ordinanze potrebbero mettere in pratica per evitare l’uso incontrollato di queste sostanze chimiche, che la letteratura scientifica classifica dannose per gli ecosistemi e la salute umana. Si pensi, ad esempio, alla stagione primaverile in cui le api svolgono la loro funzione naturale di impollinazione: l’uso dei neonicotinoidi metterebbe in crisi la loro sopravvivenza con il rischio di assistere a morie continue così come accaduto in passato. Dove vietare il glifosato? Vietare l’uso del glifosato nelle cosiddette Aree Protette (Parchi, Rete Natura 2000, Zone Ramsar), nei centri abitati, lungo le arterie stradali e comunque in tutte quelle colture destinate alla produzione alimentare, incentivando le buone pratiche agricole che spesso restano solo negli atti di programmazione di settore.
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Orientamenti
DELITTI CONTRO L’AMBIENTE L’ABRUZZO E LA DIRETTIVA SEVESO
DISPOSIZIONI IN MATERIA DI DELITTI CONTRO L’AMBIENTE DI VINCENZO BRIUOLO
La legge n.68 del 22 maggio 2015, presentata dall’onorevole Ermete Realacci, dalla prima stesura del 19 marzo del 2013 ha subìto opportune modifiche. Un percorso tormentato tra Commissioni e Parlamento. L’analisi, i quesiti e le preoccupazioni di due geologi (Seconda parte)
Parte VI-bis / Disciplina sanzionatoria degli illeciti amministrativi e penali in materia di tutela ambientale Articolo 318-bis (Ambito di applicazione) - 1. Le disposizioni della presente parte si applicano alle ipotesi contravvenzionali in materia ambientale previste dal presente decreto che non hanno cagionato danno o pericolo concreto e attuale di danno alle risorse ambientali, urbanistiche o paesaggistiche protette. Definizione di danno o pericolo concreto. Chi, e come, stabilisce l’entità? Ad esempio la presenza di un inquinante tossico e cancerogeno, o comunque pericoloso per la salute (es. tetracloroetilene, benzene) è di per sé nociva a prescindere dal valore limite stabilito per legge. Nelle acque ad uso potabile sostanze come quelle citate non dovrebbero essere presenti. In sostanza si è determinata una contaminazione delle acque di falda di difficile - se non di impossibile decontaminazione - pur rientrando nei parametri stabiliti dalla normativa. Questo danno come lo si configura? 70
#orientamenti #reatiambientali
Articolo 318-ter (Prescrizioni) - 1. Allo scopo di eliminare la contravvenzione accertata, l’organo di vigilanza, nell’esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria di cui all’articolo 55 del codice di procedura penale, ovvero la polizia giudiziaria impartisce al contravventore un’apposita prescrizione asseverata tecnicamente dall’ente specializzato competente nella materia trattata, fissando per la regolarizzazione un termine non superiore al periodo di tempo tecnicamente necessario. In presenza di specifiche e documentate circostanze non imputabili al contravventore che determinino un ritardo nella regolarizzazione, il termine può essere prorogato per una sola volta, a richiesta del contravventore, per un periodo non superiore a sei mesi, con provvedimento motivato che è comunicato immediatamente al pubblico ministero. Sembrerebbe dar adito alla discrezionalità della Polizia Giudiziaria o di chi supporta tecnicamente la stessa. E in quali casi si applica? Come si distinguono i vari casi? Il termine prescrizione è sempre, purtroppo, presente e serve unicamente ad impartire direttive per
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continuare a svolgere attività, anche manifestatamente dannose, rimandando poi a controlli che difficilmente vengono effettuati. O peggio, a monitoraggi effettuati dallo stesso indagato con il solo obbligo di trasmettere i dati alle Autorità competenti. Articolo 318-quater (Verifica dell’adempimento) - 1. Entro sessanta giorni dalla scadenza del termine fissato nella prescrizione ai sensi dell’articolo 318-ter, l’organo accertatore verifica se la violazione è stata eliminata secondo le modalità e nel termine indicati dalla prescrizione. Questo articolo pone un problema sulla stretta vigilanza e sul controllo dell’adempimento delle prescrizioni in casi di inquinamento particolarmente rilevante e pericoloso. Articolo 318-quinquies (Notizie di reato non pervenute dall’organo accertatore) - 1. Se il pubblico ministero prende notizia di una contravvenzione di propria iniziativa ovvero la riceve da privati o da pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio diversi dall’organo di vigilanza e dalla poli-zia giudiziaria, ne dà comunicazione all’organo di vigilanza o alla polizia giudiziaria affinché provveda agli adempimenti di cui agli articoli 318-ter e 318-quater. In che termini e responsabilità ne risponde l’organo accertatore che non ha adempiuto correttamente alla vigilanza? E se da questo dovesse scaturirne un reato più grave? Articolo 318-sexies (Sospensione del procedimento penale) - 3. La sospensione del procedimento non preclude la richiesta di archiviazione. Non impedisce, inoltre, l’assunzione delle prove con incidente probatorio, negli atti urgenti di indagine preliminare, né il sequestro preventivo ai sensi degli articoli 321 e seguenti del codice di procedura penale. In alcuni casi, l’esperienza sul campo ha insegnato che l’incidente probatorio è servito alle difese di prendere e perdere tempo, anche con significative compromissioni relative all’accertamento dell’entità del reato. Articolo 318-septies (Estinzione del reato)
- 3. L’adempimento in un tempo superiore a quello indicato dalla prescrizione, ma che comunque risulta congruo a norma dell’articolo 318-quater, comma 1, ovvero l’elimi-nazione delle conseguenze dannose o pericolose della contravvenzione con modalità diverse da quelle indicate dall’organo di vigilanza sono valutati ai fini dell’applicazione dell’articolo 162-bis del codice penale. In tal caso, la somma da versare è ridotta alla metà del massimo dell’ammenda stabilita per la contravvenzione commessa. A maggior ragione, nelle prescrizioni, sarebbe stato necessario imporre al ‘reo’ una puntuale e cronologica rendicontazione dello stato di avanzamento dei lavori. Inoltre, nel caso di soluzioni prospettate e concordate diverse e difformi, il ‘reo’ dovrebbe concordare nuovamente con gli organi di vigilanza e controllo le soluzioni tecniche proposte dimostrandone sia l’effettivo miglioramento, sia la volontà di temporeggiare e dilatare i tempi di intervento. Articolo 318-octies (Norme di coordinamento e transitorie) - 1. Le norme della presente parte non si applicano ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della medesima parte. Il presente articolo, non applicandosi ai procedimenti in corso, determina che gli stessi abbiano un’alta probabilità di essere prescritti per decorrenza dei termini?
COLMATO UN VUOTO. MA... Le norme sui reati ambientali appaiono poco o per nulla efficaci. Si è persa l’occasione per avere rigorosi strumenti legislativi senza scappatoie, come richiederebbe invece l’attuale situazione ambientale, al fine di riaffermare quel diritto ineludibile sancito dall’articolo 32 della Costituzione: la tutela della salute pubblica. Le nuove disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente si posizionano a valle di altri percorsi di riforma delle leggi sull’ambiente. Il testo principe, il famoso decreto legislativo n.152/2006 laddove appariva troppo rigoroso e stringente, è stato più volte oggetto di opportune modifiche, depotenziandolo.
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DIRETTIVA SEVESO E TRASPARENZA. IL CASO ABRUZZO DI ALESSIO DI FLORIO / twitter @diflorioalessio
La categoria degli stabilimenti a rischio di incidente rilevante è stata introdotta in Italia dal 1988. Da allora, nelle more di recepimenti ed integrazioni, la direttiva Seveso sembra essere ancora un tabù Ci sono luoghi che entrano nella storia e nella memoria collettiva, e non ne escono più. Assumono una notorietà perenne, che cambia anche il senso ed il significato del nome stesso. Può accadere per un evento straordinario. Ma ancor di più accade per eventi tragici, drammatici, mortali. Questa sorte toccò al Comune di Seveso, poco più di 20 mila abitanti nell’attuale provincia di Monza e Brianza. Nel 1976 una nube della diossina più pericolosa conosciuta, fuoriuscita dalla Icmesa, investì una vastissima area. Era il 10 luglio di una terra senza colpa, nella quale i bambini giocavano al sole, come scrisse qualche mese dopo Antonello Venditti in una canzone dedicata al disastro. Quando la storia di Seveso e della Brianza cambiò per sempre. Una città spettrale, dove chi raccoglieva campioni da analizzare vagava tra le case vuote ed esposte alla diossina, tra animali morti. Il silenzio era rotto solo dalle comunicazioni radio. I fatti di Seveso indussero, sei anni più tardi, i governi europei a varare l’omonima Direttiva che, ancora oggi, impone l’identificazione e una speciale regolamentazione e controllo degli “impianti a rischio di incidente rilevan72
#orientamenti #direttivaseveso #abruzzo
te”. Questa speciale legislazione, che negli anni ha subito diverse variazioni, prevede il coinvolgimento di tutti gli Enti locali (Comuni, Regioni, Province), dei Vigili del fuoco e delle Prefetture. La categoria degli “stabilimenti a rischio di incidente rilevante” fu introdotta in Italia con Decreto del Presidente della Repubblica n.175 del 17 maggio 1988, che recepiva nell’ordinamento italiano la “sei anni dopo i fatti di Seveso Direttiva 82/501/CEE, detta appunto “Direttiva arrivò Seveso”. La normativa è l’omonima stata successivamente Direttiva. aggiornata con il Decreto legislativo n.334/99 Era il 1982” con recepimento della Direttiva 96/82/CEE. Una parte importante della legislazione prevede che la popolazione sia consultata e informata, che sia a conoscenza dei rischi e - lì dove ritenuto necessario - abbia un piano a disposizione nel caso l’incidente rilevante avvenga. L’articolo 20, infatti, prevede che “il prefetto, d’intesa con le regioni e gli enti locali interessati, previa consultazione della popolazione
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e nell’ambito della disponibilità finanziarie previste dalla legislazione vigente, predispone il piano di emergenza esterno allo stabilimento e ne coordina l’attuazione”. Ma, la consultazione della popolazione è stata ulteriormente precisata e regolamentata dal Decreto n.139/2009 del ministero dell’Ambiente, che fa seguito al Decreto legislativo n.238/2005 che ha recepito in Italia la Direttiva 2003/105/CE. L’articolo 2 del Decreto n.139/2009 prevede che “Il prefetto, ai fini di cui all’articolo 20, comma 1, del decreto legislativo n. 334 del 1999, nel corso della predisposizione del piano di emergenza esterno e comunque prima della sua adozione procede, d’intesa con il comune, alla consultazione della popolazione per mezzo di assemblee pubbliche, sondaggi, questionari o altre modalità idonee, compreso l’utilizzo di mezzi informatici e telematici”. L’ultima modifica è avvenuta con il Decreto legislativo n.105 del 26 giugno 2015. In un articolo pubblicato a gennaio 2015 sul sito del mensile Altreconomia [Stoccaggi, che fine ha fatto il rischio industriale? (di Pietro Dommarco)] si apprende che nel 2013 l’Unione europea ha avviato una procedura d’infrazione europea nei confronti dell’Italia per il mancato rispetto della normativa Seveso. La predisposizione e pubblicizzazione dei Piani di emergenza esterni, si legge nella stessa inchiesta, sono oggetto quotidiano di impegno per attivisti di Lombardia e Abruzzo. Ma i focus su quella che rappresenta uno dei punti cardine della normativa di tutela ambientale sono diversi. Nel gennaio 2013, Legambiente in un suo studio sull’applicazione della “Direttiva Seveso” su tutto il territorio nazionale ha riportato il dato di oltre 1100 impianti (attualmente il sito del ministero dell’Ambiente parla di 1096 totali, di cui 556 rientranti nella tipologia che richiede la predisposizione del Piano di emergenza esterno) concentrati in 739 comuni italiani, ai quali venne inviato un questionario sul livello di “realizzazione o partecipazione” degli stessi “a periodiche esercitazioni, del recepimento da parte degli stessi comuni delle informazioni contenute nei Piani d’emergenza ester-
ni redatti dalle prefetture competenti, della pianificazione urbanistica che tenga conto del rischio esistente”. Solo il 29 percento dei Comuni rispose al questionario di Legambiente. Di questi, il 14 percento non aveva predisposto “una planimetria del territorio e individuato le aree di danno, sottoposte a conseguenze nell’eventualità di un incidente nello stabilimento a rischio”. Addirittura solo la metà dei Comuni che risposero all’associazione ambientalista ha dichiarato di “nel 2013 l’Ue “aver realizzato camha avviato pagne informative sui procedura comportamenti da tenedi infrazione re in caso di emergenza, nei confronti per dare a tutti coloro che vivono e lavorano in dell’Italia” prossimità dell’insediamento informazioni pratiche, precise e puntuali su come riconoscere i segnali di allarme e come mettersi al sicuro”. Un quadro sconfortante. Eppure basta scorrere l’elenco per capire immediatamente quanto la questione sia delicatissima e meriti la massima attenzione e responsabilità. Da nord a sud troviamo raffinerie, impianti per esplosivi, impianti siderurgici, distillerie, depositi energetici, centrali. La situazione abruzzese Gli impianti abruzzesi riportati nell’inventario nazionale sono 26. Localizzati in 20 comuni. Di questi, solo due risposero al questionario della Legambiente. Un dato inferiore alla già bassissima media nazionale. Il quadro della situazione in terra d’Abruzzo viene tracciato in uno studio del 2014, a cura dell’Associazione antimafie ‘Rita Atria’ e da Peacelink. Dieci dei 26 impianti presenti risultano classificati nella categoria degli impianti a più alto rischio. Sullo sfondo una enorme difficoltà ad avere accesso alle informazioni, diversi ritardi nell’applicazione della normativa e mancanza di trasparenza, tanto che “la popolazione non è neanche a conoscenza, in alcuni casi, che lo stabilimento situato nel proprio Comune è ricompreso nell’Inventario Nazionale”. Un precedente accesso agli atti presso tutti gli Enti coinvolti addirittura “ebbe pochissime rispo-
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Fonte: Elaborazione Ispra su dati ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare / Aggiornamento al 31 dicembre 2012
ste, in alcuni casi fu alquanto laborioso (in un caso per avere un documento che la normativa impone sia di dominio pubblico si è dovuto arrivare quasi a minacciare di adire le vie legali) e in un Comune, addirittura, gli stessi uffici comunali non conoscevano la normativa e che uno stabilimento a rischio di incidente rilevante fosse presente nel loro Comune”. Quasi quattro anni dopo la situazione è cambiata? Abbiamo ripetuto la stessa ricerca, alla ricerca dei dieci Piani di emergenza esterna degli impianti considerati più a rischio (Decreto legislativo 334/99 c.m. 238/05 - articoli 6/7/8). Lo abbiamo fatto consultando principalmente i siti istituzionali. Innanzi tutto, l’inventario nazionale - disponibile sul sito del ministero dell’Ambiente, e aggiornato al 3 agosto 2015 riporta che gli impianti a cui ci stiamo interessando sono così catalogati: 2 di “Produzione e/o deposito di esplosivi”, 1 è “Stabilimento chimico o petrolchimico”, 3 sono “Depositi di 74
gas liquefatti”, 1 è “Deposito di olio minerale”, 2 sono “stoccaggi sotterranei” e 1 ha produzione di diversa natura non specificata. Distribuiti nelle province di Chieti, L’Aquila, Pescara e Teramo. Le aziende titolari, invece, sono la Stogit spa, Eni spa, Edison Stoccaggi spa, Solvay Chimica Bussi spa, Butangas spa, Wts Gas spa, Simad spa, Alannogas scarl, Esplodenti Sabino srl e Laboratori Nazionali del Gran Sasso. Al termine della nostra ricerca il quadro sembra essere quello di due anni fa. Su dieci Piani di emergenza esterni ricercati ne abbiamo trovati solo quattro. Ne mancano all’appello sei ed interessano territori in cui, ad oggi, la popolazione non è consultata ed informata sui rischi e sulla gestione dell’emergenza in caso di incidente rilevante. In perfetta simbiosi con quello che accade in Pianura Padana, il cuore degli stoccaggi italiani.
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Meridiano
CLERO-SODA ANIME NERE NAPOLINORD
teatri di memoria
CLERO-SODA DI ALESSIO DI MODICA
Il racconto ambientato nel mezzo del polo petrolchimico più grande d’Europa. Quello di Augusta Dall’Olocausto alle dittature sudamericane, dall’antimafia alla pedofilia. La Chiesa ha sempre presentato grandi ambivalenze, come uno schizofrenico lucido che cerca di controllare parti di sé incontrollabili. Se mentre in Salvador, il cardinale Oscar Romero veniva assassinato durante la messa altri, invece, si giravano dall’altro lato con complice silenzio-assenso alla dittatura. Allo stesso modo, mentre un proiettile era pronto per don Peppe Diana o don Pino Puglisi, dall’altro lato c’erano preti che davano i sacramenti ai latitanti. Ad Augusta nel mezzo del polo petrolchimico più grande d’Europa la cosa non è differente. Capita di assistere ad un clero ben piazzato al fianco degli industriali. Una chiesa che usufruisce dei fondi delle multinazionali del petrolio donati attraverso la maschera dei tanti club-service, dietro ai quali spesso ci sono gli stessi dirigenti delle aziende petrolifere. Questo crea un torbido magma di silenzio che coinvolge persone, gruppi, associazionismo, sindacati. Ma nella schizofrenia lucida c’è sempre l’altro lato. C’è chi da anni prova a tenere alta l’attenzione sui morti di cancro e sullo sfruttamento del territorio. Nonostante di quella stessa chiesa faccia parte. Non sarà una messa, non saranno le semplici omelie a far accadere qualcosa, non saranno i fedeli infedeli che si battono il petto ed essere poi pronti - ancora sul sagrato - a dire che le industrie sono più importanti della vita, che qualche posto di lavoro è più importante dei tanti morti di cancro. Non sarà tutto questo a cambiare profondamente le cose ma almeno qualcosa accade. Padre Palmiro Prisutto è l’arciprete di Augusta. È andato a
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ricoprire questo ruolo perché il precedente è stato rimosso in quanto accusato, e condannato in primo grado, per molestie sessuali ad una ragazza. Padre Palmiro è un attivista storico: dalle navi dei veleni al terremoto del 1990 È sempre stato una voce determinata contro l’inquinamento e gli affari che ci girano intorno. Padre Palmiro da quando è diventato arciprete ogni ultima domenica del mese fa una messa per ricordare le vittime del cancro. Legge i nomi. Va in televisione. Prende riconoscimenti nazionali come una vera e propria rock star religiosa dell’ambientalismo. La sua è una scelta chiara e decisa, che forse non attecchisce come dovrebbe in una buona parte dei suoi fedeli, ma crea dibattito, rompe il silenzio, scuote le coscienze dentro gli ambienti cattolici che grazie a lui sono costretti ad affrontare la questione. Poi all’improvviso l’arcivescovo Salvatore Pappalardo decide, senza motivi precisi, di rimuoverlo chiedendone le dimissioni. Palmiro rifiuta di consegnarle. Tutta la cittadinanza, cattolici e laici, si mobilita. Ma ne parlano i media nazionali e davanti a questo clamore l’arcivescovo torna su suoi passi. Chi conosce bene padre Palmiro sa che da uomo di chiesa difenderà la curia da qualsiasi tipo di attacco o da qualsiasi voce critica. Quella che resta, è la sudditanza psicologica alla devastazione industriale che va anche oltre gli ambienti cattolici. È diffusa a tutti i livelli. Ha incancrenito culturalmente il tessuto sociale. Qualche anno fa l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) passò da qui in maniera blan-
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da, fermandosi ad una indagine epidemiologica in collaborazione con alcuni enti del territorio. Non serviva venire da lontano per limitarsi a fare quello che qua già era stato fatto in precedenza. L’azione delle multinazionali resta incontrollata. Troppi interessi intorno a questa zona industriale, soprattutto perché è pure militare. Greenpeace ad esempio qui non ci ha messo mai neanche il naso. Lo ha fatto solo nel 1988, in occasione dell’arrembaggio alla nave dei veleni Deep sea Carrier. Intanto le associazioni ambientaliste hanno preso contributi dalle multinazionali del petrolio per dire alla cittadinanza “Tranquilli, va tutto bene”. Se è vero che serve l’attenzione mediatica è anche vero che non se ne può più di tutti quelli che vengono per fare il loro bel servizio, senza realmente andare a fondo e comprendere le istanze del territorio, intervistando sempre gli stessi protagonisti ormai “invecchiati” di un ambientalismo fai-da-te, che a telecamere spente spariscono e non si sono mai messi contro il potere industriale. Finito il servizio gli industriali tornano coi loro uomini a incontrare gli abitanti, a entrare nelle scuole raccontando quanto loro vogliono bene alla città, insinuando dubbi e mettendo in discussione la credibilità di quei pochi che non sono allineati e accondiscendenti verso di loro. C’è chi ha fatto uno studio sociale sul territorio ascoltando le ragioni della popolazione e degli industriali. Gli stessi, nel fare uno studio sulla mafia per sentire le ragioni di entrambe ascoltano i familiari delle vittime e i killer? Qui, ad Augusta, accade pure che chi parla di deindustrializzazione in ambito accademico lo fa a casa degli industriali, sentendosi immune col suo pass da studioso. Va casa del lupo per parlare di come ha ucciso le pecore. Padre Palmiro va in giro con una maglietta che dice “se muoio di cancro è un omicidio” Fuori da ogni retorica e da ogni sottomissione psicologica, fuori dal ricatto occupazionale e dall’impoverimento culturale è il momento di individuare i mandanti di migliaia di omicidi in questo territorio. Se questa storia fosse un’opera teatrale sarebbe “Nemico del popolo” di Ibsen. Dove chi dice la verità diventa un nemico da eliminare, estirpare, distruggere. Uno che non ama la sua città e ne sottolinea le cose negative. Uno che deve sparire per lasciar spazio a chi invece è pronto a vendersi il mare, il cielo, la storia e la cultura di questa terra al miglior offerente.
sud e cinema
ANIME NERE DI DOMENICO D’AMBROSIO
Africo è un comune della Calabria travolto nel 1951 da una alluvione che lo rese inabitabile. Sorse allora in un’area vicina al mare Africo Nuovo. Alle vicende di questo paese, Corrado Stajano dedicò nel 1979 un bellissimo libro-inchiesta: “Africo. Una cronaca italiana di governanti e governati, di mafia, di potere e di lotta”, in cui esaminava con attenzione le dinamiche di malaffare messe in atto dai potenti del luogo ai danni della povera gente, e la compromissione dei potenti, politici e preti, con il potere mafioso. In questi luoghi è ambientato Anime nere, bel film di Francesco Munzi che parla di ‘ndrangheta e di come gli eventi malavitosi possano condizionare - ed in maniera pesantissima - la vita di quanti si trovano a vivere in quei luoghi. Anche se hanno scelto di vivere lontani dalla malavita e dalla sua mentalità distruttrice. Il film narra la storia di tre fratelli, figli di un pastore dell’Aspromonte. Non tutti e tre hanno intrapreso una carriera nella malavita organizzata: mentre il più piccolo dei tre è un trafficante internazionale di droga e il secondo fa l’imprenditore a Milano utilizzando soldi sporchi, il più grande, Luciano, ha rifiutato uno stile di vita “mafioso” e vive semplicemente lavorando la terra e nulla ha a che fare con gli affari dei fratelli. Eppure, nonostante il suo rifiuto della vita e della mentalità malavitosa che caratterizza la sua terra, Luciano sarà coinvolto suo malgrado in una guerra tra la sua famiglia ed un clan della ‘ndrangheta. La guerra viene scatenata da suo figlio Leo, che spara alcuni colpi di fucile sulla saracinesca di un bar protetto dalla malavita. Da questo evento apparentemente innocuo, si dipanano una serie di fatti e di vendette incrociate, fino ad arrivare alla tragica conclusione. Nella massa di film e fiction sulla criminalità organizzata (spesso inutili e stereotipati) Anime nere si distingue per la sua originalità, la sua capacità di esame psicologico dei personaggi e la sua lucida fotografia sulla mentalità criminale che condizio-
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na la vita del sud e ne costituisce la vera palla al piede. Il film è velato di pessimismo dalla prima all’ultima scena, e la conclusione amara non lascia spazio a facili speranze: in questi luoghi la ‘ndrangheta ha conquistato - prima ancora del potere economico e criminale - la mente delle persone, incapaci di reagire al potere criminale. Presentato in concorso alla 71a edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, il film non ha ottenuto premi, anche se la maggior parte della critica lo aveva indicato come il favorito per il Leone d’Oro. Lo avrebbe meritato, così come Fabrizio Ferracane, l’attore che interpreta Luciano, avrebbe probabilmente meritato la Coppa Volpi come miglior attore protagonista. A volte, però, le giurie non riescono proprio a leggere l’originalità e il valore delle opere che devono giudicare. In questo caso la svista è stata davvero imperdonabile.
conoscrere per deliberare
NAPOLINORD DI DOMENICO LAMBOGLIA
Napolinord è un racconto di Vincenzo Rea, giornalista e scrittore napoletano. Le prime pagine sembrano quelle di un romanzo di appendice ma, andando avanti nella lettura, l’immagine che si ha della periferia più grande, complessa e discussa di tutto il Sud Italia - è quella di uno schiaffo rivolto alla sua città. L’esortazione dello scrittore è che Napoli si svegli da un incubo. Dal suo incubo. Il protagonista, Ernesto, assume i tratti della duplicità: un carattere borderline tra l’eroe e il narratore. Non tra il bene e il male. Alla fine prevale il narratore.
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Forse, oggi, la figura più indicata per denunciare lo schifo della criminalità organizzata, dato che di eroi ne sono pieni i cimiteri. Per questo si reca a Scampia. In quella che sembra a tutti gli effetti una discesa negli inferi, dove il Virgilio di turno è l’onesto Matteo. Lì le “tre d” - degrado, disoccupazione e droga - sono le protagoniste in ogni angolo di strada. “È lì l’infero, è proprio lì il buco nero, la residenza privilegiata del male, dove si concentrano poco più di quarantamila anime, molte delle quali dannate: questa è Scampia, welcome nel quartiere, nella capitale del mondo della droga, nel ghetto marcio della periferia nord di Napoli dove è presente il tasso di disoccupazione più alto di tutta la Campania”. Vincenzo Rea racconta così, Scampia, aiutandosi con delle fughe temporali. Passa dall’infanzia alla prima giovinezza, per poi ritornare nel presente. Tempi - passato, presente e futuro - conditi di immagini nostalgiche e poetiche, come quella del vecchio albero di noce su cui il protagonista amava arrampicarsi quando era un ragazzino. Anche il presente è colorato. Sono i colori della città partenopea che Rea descrive con lucidità. Il futuro, invece, è quasi sempre plumbeo, come se il precariato del protagonista - che poi è precariato di tutta una generazione - non lasciasse intravedere l’orizzonte e di conseguenza la speranza. Il protagonista, in un momento difficile, pur di lavorare piega il capo e chiede l’aiuto al solito politico cinico e sfruttatore, uno di quei politici che costruisce la sua carriera e il suo piccolo castello di potere calpestando l’onestà. Le nubi iniziano a diradarsi quando Ernesto fa un passo indietro e si veste d’umiltà ritrovando così la sua libertà. Porta a termine il suo libro e nel frattempo inizia a lavorare per suo padre. Non è il lavoro che cercava ma guadagnarsi il pane senza strisciare non ti fa sentire la stanchezza e ti ripaga di qualunque sacrificio. Il messaggio di Vincenzo Rea è resistere, lottare e riconquistare - a poco a poco - la civiltà. Emblematiche sono le parole che l’autore fa pronunciare a Matteo: “Non serve a nulla scappare, farlo è la scelta più facile, difficile è rimanere in questa merda e continuare a lottare contro questa gente di merda che ci sta rendendo la vita di merda.” È evidente quanto sia necessario un depuratore. E questo depuratore deve essere la società civile. La poesia finale è la sintesi del racconto Napolinord. Autore: Vincenzo Rea Casa editrice: Photocity.it Pagine: 180 / Prezzo: 12,00 €
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la foto del mese
Le attenzioni maschili a volte possono diventare piuttosto insistenti. Lo sanno bene le bellissime donne della tribù indiana degli Apatani in Arunachal Pradesh, che per secoli hanno dovuto sopportare le poco gradite avances degli uomini di altre etnie. Tanto da decidere di “imbruttirsi” apposta, per essere lasciate in pace. Così, secondo la tradizione, è nata la loro usanza di tatuarsi il viso e inserirsi delle grosse placche di legno scuro nelle narici. Una pratica che, col tempo, si è trasformata in un “segno distintivo” di questa tribù.
RITRATTO DI DONNA APATANI DI GIANMARIO PUGLIESE / twitter @Tripolino00
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