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Il mondo è un bel posto e per esso vale la pena di lottare
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Ernest Hemingway
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l’editoriale
GLI SGRANATI DI PIETRO DOMMARCO L’approfondimento del sesto numero di Terre di frontiera è dedicato al grano. Alla guerra del grano, che negli ultimi mesi sta segnando una nuova stagione di speculazioni e proteste. Siamo partiti da un assunto: la drastica riduzione dei prezzi all’ingrosso del duro (18 centesimi al chilo) e del tenero (16 centesimi al chilo), ovvero le materie prime necessarie alla produzione di pasta e pane: tra i simboli del nostro Paese. Dal grano al pane il ricarico è del 1.450 percento. Sulla pasta, invece, del 400 percento. Valori in aumento, come le importazioni dal Canada e dai paesi dell’Est. Questo giustifica la continua ricerca del profitto industriale. Tra i prezzi e i flussi di grano dall’estero ci si dimentica della qualità. Cosa arriva sulle nostre tavole? Con la poca trasparenza e la mancata tracciabilità - anche e soprattutto su prodotti etichettati come made in Italy (che poi made in Italy non sono) - è
difficile dirlo. Ma, in questo gioco al massacro chi ci sta perdendo? Da una parte i piccoli produttori locali che - arrancando (e non poco) nello sviluppo della filiera corta - sono incapaci di fare cartello e fronteggiare il monopolio messo in atto dalle multinazionali del settore e di quelle della chimica. Dall’altra i consumatori che, in sostanza, non hanno le idee molto chiare su cosa mangiano. A queste e ad altre domande abbiamo cercato di dare una risposta. Comprese quelle che interessano chi lavora con il grano. In bilico, secondo le principali confederazioni ed associazioni agricole, ci sarebbe <<il destino di oltre trecentomila aziende agricole, di 700 milioni di utili e di un territorio di 2 milioni di ettari a rischio desertificazione>>. Soprattutto nel Sud Italia, in cui la cerealicoltura - ai tempi del granaio d’Italia - ha ricoperto un ruolo preminente
per l’economia italiana. Oggi, al contrario, le terre del meridione sono destinate ad altre forme speculative. Principalmente nel settore energetico e dei rifiuti. Ritornano ad essere terre di servitù sporca, e non pulita. Le peculiarità del territorio e l’agricoltura pagano il dazio dei movimenti finanziari, dei contratti derivati, dell’immobilismo del ministero delle Politiche Agricole (che dovrebbe pensare ad un rilancio della Programmazione e della politica per l’agricoltura), delle quotazioni non corrispondenti ai valori reali del mercato ed, infine, del braccio di ferro tra produttori e trasformatori dell’agro-alimentare, in un mercato che si dichiara libero. È, invece, fortemente condizionato dai capitali finanziari e delle grandi lobbies, a scapito degli interessi dei cittadini.
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TERRITORI
GLI SGRANATI
L’INTERVISTA DEL MESE
COPAGRI RISPONDE Intervista a Franco Verrascina, presidente della Confederazione produttori agricoli
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FOCUS
IL GASDOTTO “RETE ADRIATICA” ED IL RISCHIO SISMICO RIFIUTI CONNECTION
UNA STORIA DI ODORI, VELENI E FAVORI RIFIUTI CONNECTION
L’EMERGENZA CHIAMA EMERGENZA RIFIUTI CONNECTION
LA DISCARICA DELLA VERGOGNA
54 44 64
RIFIUTI CONNECTION
SENTENZA RESIT ORIENTAMENTI
NATURA VS FUOCO MIGRAZIONI
LA STORIA DI KALU
Terre di f Direttore responsabile Pietro Dommarco / twitter @pietrodommarco Caporedattrice Emma Barbaro
mensile indipendente
numero 6 anno 1 / settembre 2016
Un progetto di Associazione Culturale Ossopensante Codice Fiscale 97870810583 Sede legale: Via Montello 30 - 00195 Roma www.ossopensante.org
Terre di frontiera Testata registrata il 23 dicembre 2015 al n.359 del registro della Stampa del Tribunale di Milano www.terredifrontiera.info
Hanno collaborato Salvatore Altiero Giulio Ambrosetti Antonio Bavusi Rosario Cauchi Alessio Di Florio / twitter @diflorioalessio Roberto La Pira Giovanna Margadonna Leonardo Palmisano / twitter @LPalmisano Gianmario Pugliese / twitter @Tripolino00 Antonella Sferrazza Daniela Spera / twitter @Spera_Daniela
in questo numero
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LA GUERRA DEL GRANO DIBATTITI APERTI SUL FATTO ALIMENTARE GRANO, PUGLIA E OLIGOPOLI IL MARE DI GRANO CHE SEMBRA DI TUTTI GRANO E GLIFOSATO SERRE, RACKET E RICONVERSIONI
NUMERI E GRAFICI
29 70 72
TERRE PROMESSE MERIDIANO
LIBRI
LA FOTO DEL MESE
frontiera Pellegrino Tarantino Franco Tassi Lara Tomasetta
Foto di copertina Spighe di grano Marco Monari www.monarimarco.com Impaginazione Ossopensante Lab
Per informazioni, richieste e collaborazioni redazione@terredifrontiera.info Per inviare articoli articoli@terredifrontiera.info Twitter @terre_frontiera Facebook /ossopensante
Amatrice. Foto Wikimedia Commons
TERREMOTO CENTRO-ITALIA. I NUMERI DI UNA TRAGEDIA
VALLE DEL TRONTO 24 AGOSTO 2016, ORE 3:36 MAGNITUDO MOMENTO 6,0 ± 0,3
EPICENTRO: ACCUMOLI (RI)
296 VITTIME
CENTRI PIÃ&#x2122; COLPITI: ACCUMOLI E
238 PERSONE ESTRATTE VIVE
AMATRICE (RI), ARQUATA (AP)
388 FERITI 2500 SFOLLATI
focus
IL GASDO ED IL RIS DI GIOVANNA MARGADONNA
Il “Rete Adriatica” - opera inserita nella Rete nazionale gasdotti e dichiarata di pubblica utilità nel 2004 - è un metanodotto di 687 chilometri da Brindisi, in Puglia, a Minerbio in Emilia Romagna. Suddiviso in cinque lotti, attraversa dieci regioni, molte in zona sismica, come illustrato nella Mappa di pericolosità sismica del territorio nazionale, a cura dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia. (pag.10)
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OTTO “RETE ADRIATICA” SCHIO SISMICO Inizialmente progettato per raddoppiare una condotta già esistente lungo la dorsale adriatica, il grande gasdotto della Snam spa ha abbandonato la costa per snodarsi lungo le depressioni dell’Appennino centrale. Correndo in parallelo o intersecando numerose faglie, ed intercettando località ad elevato rischio sismico, come tutti i centri dell’aquilano colpiti dal disastroso sisma del 6 aprile 2009, quelli dell’Umbria e delle Marche colpiti dal terremoto del 1997. Il recente devastante terremoto del 24 agosto 2016 - che ha interessato Lazio (Amatrice, Accumoli), Marche (Arquata e Pescara del Tronto), Umbria e Abruzzo - ha colpìto, ancora una volta, la dorsale appenninica. La Snam sostiene che la ricerca di un corridoio idoneo ad ospitare l’opera il “Rete Adriatica” fu inizialmente indirizzata in prossimità della linea di costa, nel rispetto di un minor consumo di suolo, utilizzando servitù e varchi già costituiti. Un posizionamento che fino a Biccari, in provincia di Foggia, non ha incontrato ostacoli. I problemi sono cominciati in direzione di Pescara, nel tratto Biccari-San Salvo, a causa di criticità geologiche e urbanistiche che hanno resa necessaria la deviazione verso l’interno. Una decisione, quella della Snam, caratterizzata da una forte arbitrarietà, sia
per le asserite criticità non suffragate da adeguati studi, sia per il modo superficiale con cui è stato affrontato il problema delle alternative di tracciato. Il Sì della Commissione nazionale di Valutazione d’impatto ambientale Nel mese di ottobre 2010, la Commissione nazionale di Valutazione d’impatto ambientale (Via), accettando le dichiarazioni apportate dai titolari del progetto, ha espresso parere favorevole all’opera, pur rilevando la carenza degli studi sismici di dettaglio. Contraddittoria è, infatti, la posizione della Commissione che - pienamente consapevole dell’alto rischio sismico dell’Appennino - conclude che, pur in presenza di tali studi, la vulnerabilità della condotta può essere solo ridotta, ma non eliminata. Questo significa, in sostanza, che il rischio c’è e rimane tutto a carico delle popolazioni residenti. Infatti, la Mappa della pericolosità sismica del territorio nazionale mette in evidenza, attraverso l’intensità della colorazione viola, le aree che sono a più elevato rischio dell’intera Penisola. Sono le stesse aree che dovrebbero essere attraversate dal mega gasdotto Brindisi-Minerbio.
Gli studi sismici L’8 maggio 2011, all’Aquila, nel corso del Convegno nazionale “Gasdotto Rete Adriatica: perché sulla dorsale appenninica?, il professor Alberto Pizzi, sismologo dell’Università di Chieti, ha evidenziato la pericolosità dell’opera per la <<presenza delle faglie attive nell’area della dorsale appenninica interessata dal progetto del gasdotto che attraversa proprio la zona dove si verificano le massime accelerazioni al suolo>>. Lo stesso vale per la centrale di compressione prevista a Sulmona: tre turbocompressori della potenza complessiva di 33MW, una superficie di 12 ettari, in Zona Sismica 1 per la vicinanza alla faglia attiva del Monte Morrone, silente da oltre 1900 anni. Il 6 novembre 2010, a Sulmona, in una giornata di studi sulla sismicità nella Valle Peligna, il professor Warner Marzocchi, sismologo dell’Ingv (Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia), ha dichiarato che <<nei prossimi dieci anni potrebbe esserci in città un terremoto di magnitudo 5.5 o superiore. L’eventualità si attesta su una probabilità del 15 percento, che scende al 5 per i futuri 5 anni>>. I cittadini e i comitati locali, che da anni si battono contro il “Rete Adriatica”, si chiedono <<cosa accadrà in caso di realizzazione del gasdotto e della centrale
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di compressione? Come si può garantire l’incolumità dei cittadini se la cronaca ci riferisce di episodi di esplosioni di gasdotti di diametro inferiore al Rete Adriatica, anche per un semplice smottamento di terreno?>>. E di episodi ce ne sono stati: il 15 gennaio 2004 nella periferia di Montecilfone in Molise; l’11 febbraio 2010 a Tarsia in Calabria, per una frana; il 18 gennaio 2012 a Tresana in Toscana, per lavori di manutenzione; il 20 luglio 2013 a Sciara in Sicilia, forse a causa della condotta danneggiata; il 6 marzo 2015 a Mutignano di Pineto in Abruzzo, forse a causa di una condotta danneggiata; il 9 maggio 2015 a Roncade in Veneto, a causa di smottamenti del terreno; il 19 novembre 2015 a Ponte Presale di Sestino in Toscana, a causa di un cedimento strutturale della condotta. Stato attuale del procedimento Nel mese di maggio 2011 la Snam ha richiesto al ministero dello Sviluppo economico di procedere alla costruzione anticipata della sola centrale di compressione di Sulmona e delle quattro linee di collegamento rispetto al gasdotto. Da allora, l’iter procedurale segue due percorsi distinti: uno per la centrale e l’altro per il metanodotto. E così, mentre si sono già concluse le Conferenze di Servizi per la centrale di compressione - con la remissione degli atti alla Presidenza del Consiglio dei ministri, stante il mantenimento della negazione dell’intesa da parte della Regione Abruzzo - per il metanodotto Sulmona-Foligno le Conferenze dei Servizi non si sono ancora concluse. Dopo vari incontri tra i rappresentanti della Regione Abruzzo, del Comune di Sulmona, del Governo e dei Ministe-
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ri (Ambiente, Beni Culturali) - finalizzati al superamento della negazione dell’intesa - a dicembre del 2015 si è avuto l’ultimo incontro tra il presidente abruzzese, Luciano D’Alfonso, e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, Claudio De Vincenti, sull’ipotesi della centrale di compressione, sempre ubicata a Sulmona, ad alimentazione elettrica anziché a gas. Tale ipotesi, già espressa dalla Snam nell’incontro di settembre 2015 lascia intendere che, in questo modo, si risolverebbe il problema delle emissioni in atmosfera dannose per la salute, ma trascura e non risolve tutti gli altri impatti (ambientale e rischio sismico), che rimarrebbero inalterati. Implicitamente si ribadisce che il percorso del gasdotto rimane quello scelto e, soprattutto, non rispetta la volontà del Parlamento che ha disposto la modifica del tracciato al di fuori della dorsale appenninica e, di conseguenza, anche dell’annessa centrale a supporto del metanodotto. L’ipotesi della centrale di compressione ad alimentazione elettrica è stata bocciata sia dalla Regione (delibera di giunta del novembre 2015), sia dal Comune di Sulmona (ottobre 2015). I vizi procedurali La Snam ha suddiviso il gasdotto in più segmenti sottoponendoli ad una serie di valutazioni di impatto ambientale parziali, pur trattandosi di un’opera incardinata su un unico tracciato, Sud-Nord, e pertanto assoggettata a procedimento di Vas (Valutazione ambientale strategica) o ad un unico procedimento di Via, secondo le direttive n.42/2001CE (qualora sia considerata “piano o programma”), n.85/337/CE e n.97/11/CE (qualora sia considerata “opera unita-
ria”). La direttiva n.42/2001/CE - entrata in vigore il 21 luglio 2001, 4 anni prima la presentazione del progetto - stabilisce (art.1) che sulla base delle politiche e delle azioni comunitarie dirette a promuovere lo sviluppo sostenibile, deve essere obbligatoriamente garantita l’integrazione di considerazioni ambientali all’atto dell’elaborazione e dell’adozione di piani e programmi suscettibili di avere un impatto significativo nell’ambiente, al fine di assicurarne una valutazione ambientale efficace. Mentre, il procedimento Vas ha lo scopo di fornire i criteri per la scelta della strategia più sostenibile per l’ambiente, in seguito alla valutazione di tutte le strategie possibili e le ragionevoli alternative effettuate comparando gli obiettivi di sviluppo del piano o programma con gli effetti significativi, singoli e cumulativi che l’attuazione dello stesso potrebbe avere sull’ambiente. La prassi amministrativa seguita - non avendo sottoposto l’opera alla Vas - vìola le disposizioni comunitarie e nazionali che impongono la valutazione complessiva degli interventi proposti, come autorevolmente interpretato dalla giurisprudenza comunitaria e amministrativa nazionale. Anche per quanto concerne la centrale di compressione di Sulmona, la Snam ha posto in essere un “artifizio” attraverso il quale mira ad ottenere la realizzazione della centrale separatamente ed a prescindere da quella del metanodotto. In data 21 giugno 2011, la società ha inviato al ministero dello Sviluppo economico una lettera nella quale dichiara che ha necessità di <<dare avvio anticipatamente, rispetto al metanodotto, alla realizzazione della centrale di compressione
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Numeri ed impatti ambientali Complessivi 687 chilometri da Brindisi a Minerbio ed una centrale di compressione e spinta a Sulmona. Dieci regione coinvolte (Basilicata, Campania, Puglia, Molise, Lazio, Abruzzo, Marche, Umbria, Toscana ed Emilia Romagna) e cinque tronconi: Massafra-Biccari (194,7 chilometri, già autorizzato, costruito ed in esercizio); Biccari-Campochiaro (70,6 chilometri, autorizzato e in fase di costruzione), Sulmona-Foligno (167,7 chilometri, procedimento in corso); Foligno-Sestino (113,8 chilometri, procedimento in corso); Sestino-Minerbio (142,6 chilometri, procedimento chiuso con esito favorevole e con decreto di autorizzazione in fase di emissione). Un gasdotto di 120 centimetri di diametro, interrato a 5 metri di profondità e con una servitù di pertinenza di 20 metri per lato. Interessa, direttamente o indirettamente, territori di elevata qualità ambientale e paesaggistica, parchi nazionali e parchi, 21 tra Zone di protezione speciale e Siti di interesse comunitario della Rete Natura 2000, aree sottoposte a vincolo idrogeologico o gravate da usi civici. Interferisce con il progetto APE (Appennino Parco d’Europa), il più importante avviato nel nostro Paese e finalizzato alla conservazione della natura e allo sviluppo eco-sostenibile. Prevede l’attraversamento di numerosi fossi, torrenti e fiumi. L’importanza ecologica dei corsi d’acqua.
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gas di Sulmona e delle quattro linee di collegamento alla rete Snam esistente>> per <<assicurare la tempestività dell’aumento di capacità di trasporto per gli ulteriori quantitativi di gas naturale disponibili in corrispondenza del “campo di stoccaggio” di Fiume Treste (in Comune di San Salvo, provincia di Chieti) già collegato alla “Rete Nazionale” mediante gli esistenti gasdotti “Vastogirardi-San Salvo” e “Campochiaro-Sulmona”>>. Con tale dichiarazione la Snam assegna alla centrale di compressione di Sulmona una diversa funzione prioritaria rispetto a quella finora sostenuta: spingere nella rete esistente il gas “stoccato” a San Salvo. E nel mese di settembre 2011, il ministero dello Sviluppo economico, tramite la Snam, ha fatto pervenire a diversi enti locali una missiva con cui chiede il rilascio del <<parere di competenza>> in merito al seguente oggetto: “Autorizzazione alla costruzione dell’opera denominata centrale di compressione gas di Sulmona e delle quattro linee di collegamento alla Snam Rete Gas esistente”. Sia il decreto di pubblica utilità che quello di compatibilità ambientale - rilasciati rispettivamente nel dicembre 2010 e nel marzo 2011 - fanno riferimento ad un’opera denominata “Metanodotto Sulmona-Foligno e centrale di compressione gas di Sulmona” e non già all’opera, come afferma il ministero dello Sviluppo economico, denominata “Centrale di compressione gas di Sulmona e delle quattro linee di collegamento alla rete Snam esistente”. Pertanto, lo stralcio di parte dell’opera (cioè della centrale di compressione) non può essere effettuato in quanto la centrale è strettamente funzionale all’esercizio
Studenti contro il gasdotto (Sulmona, marzo 2015) Foto del Comitato cittadini per l’ambiente di Sulmona
del metanodotto. Come la Snam ha sempre asserito nella documentazione prodotta. In sostanza, centrale e gasdotto sarebbero entrambi funzionali per spingere il gas proveniente da Sud, in una strategia più ampia comprendente il contestato TAP (Trans Adriatic Pipeline) che trasporterà il gas proveniente dall’ Azerbaijan. Iniziative dei comitati, ricorsi e atti istituzionali Numerose le iniziative messe in campo negli ultimi anni da cittadini e comitati, riuniti nel Coordinamento interregionale “No Tubo” Abruzzo Marche Umbria. Osservazioni, ricorsi alla Commissione europea e al Consiglio di Stato contro i decreti di pubblica utilità e compatibilità ambientale, lettere alla Bei (Banca europea degli investimenti), che finanzia il progetto, e al ministero dello Sviluppo economico sulle irregolarità della costruzione anticipata della centrale di compressione rispetto al metanodotto. Molte, inoltre, le delibere di contrarietà all’ope-
ra approvate all’unanimità dai Comuni di Sulmona, L’Aquila, Navelli, Pratola Peligna, Pacentro, Popoli, Cansano, Introdacqua, Pettorano sul Gizio, Corfinio, Cascia, Foligno, Gubbio, Pietralunga, Province dell’Aquila, Pesaro Urbino e Perugia, Comunità Montane Peligna e del Catria e Nerone; cinque risoluzioni unanimi della Regione Abruzzo, quattro leggi regionali sull’incompatibilità tra grandi metanodotti e aree sismiche e sette negazioni dell’intesa, sia per il metanodotto sia per la centrale di compressione di Sulmona. Numerose anche le interrogazioni e interpellanze parlamentari, sia a livello nazionale che europeo. Di particolare rilievo la risoluzione della Commissione ambiente della Camera dei deputati del 26 ottobre 2011 che <<impegna il Governo ad assumere tutte le iniziative di competenza, anche dopo un necessario approfondimento attraverso un tavolo tecnico, ed in accordo con le amministrazioni interessate, per disporre la modifica del tracciato ed escludere la fascia appenninica al fine di evitare, sia gli alti costi ambientali che deriverebbero, sia l’elevato pericolo per la sicurezza dei cittadini dovuto al rischio sismico che metterebbe a dura prova la vulnerabilità del metanodotto>>. Risoluzione che resta ancora inattuata.
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San Bartolomeo in Galdo. Sguardo verso Monte dei Carpini / Foto di Marco Monari
LA GUERRA DEL GRANO 14
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DI ANTONIO BAVUSI
È in atto una vera e propria guerra del grano dovuta ai bassi prezzi praticati sul mercato interno. Gli agricoltori parlano di <<speculazione>>, ma per gli industriali del settore e per quelli della trasformazione alimentare non è altro che una <<necessità produttiva>>. Il prezzo del grano all’ingrosso ha raggiunto quello di 30 anni fa e sta provocando una crisi senza precedenti. Ma non è solo un problema di offerta del prodotto. È soprattutto un problema di movimenti finanziari e strategie speculative che troverebbero nel Chicago Board of Trade il punto di riferimento del commercio mondiale delle materie prime agricole. E dei contratti derivati. Ma davvero le ragioni della crisi hanno origine negli Stati Uniti? Secondo le nostre ipotesi ci sarebbe, invece, una “faida” interna al settore agro-alimentare italiano a colpi di prezzi, che sembra aver rotto definitivamente una tregua tra produttori cerealicoli ed industria di trasformazione, rischiando così di assestare il colpo mortale all’agricoltura. Specialmente nel Sud Italia.
AGRICOLTURA E GRANO: DELLA MARGINALIZZAZI Il grano duro sul mercato interno viene pagato all’ingrosso circa 18 centesimi al chilo, mentre quello tenero - per la trasformazione in prodotto da forno - è sceso addirittura a 16 centesimi. Valori che non ripagano i costi di produzione. Gli arrivi dall’estero, spiega Coldiretti, <<si concentrano nel periodo a ridosso della raccolta e influenzano i prezzi delle materie prime nazionali anche attraverso un mercato non sempre trasparente>>. L’Italia nel 2015 ha importato circa 4,3 milioni di tonnellate di frumento tenero, mentre sono 2,3 milioni le tonnellate di grano duro che arrivano dall’estero, in particolare da Ucraina e Canada. Il primo ha praticamente quadruplicato (+315 percento) le vendite di grano tenero in Italia. Secondo le stesse statistiche il Canada è, invece, il primo esportatore di grano duro nel nostro Paese e ha accresciuto le vendite del 4 percento. Che beneficerebbero di dazi zero, mentre la nostra pasta entra in Nord America pagando una tassa dell’11 percento. Tutto senza contare i dubbi circa la qualità del grano in arrivo dai Paesi dell’Est Europa.
I conti non tornano A guardare le statistiche redatte dal Grain Market Report, dell’International Grains Council, le quantità di frumento - relative all’anno 2009, bene 7 anni fa - vedono l’Unione Europea al primo posto con 139,7 milioni di tonnellate prodotte. L’Italia si colloca solo al ventesimo posto dei paesi produttori mondiali, superata da Francia (38,3 milioni di tonnellate/anno), Germania (25,2 milioni di tonnellate/ anno), Gran Bretagna (14,4 milioni di tonnellate/anno), Polonia (9,8 milioni di tonnellate/ anno). Ma chi decide le quote di produzione di frumento in Europa?
La voce degli industriali alimentari italiani: <<non siamo noi a determinare il prezzo del grano>> L’Associazione dei Pastai spiega che non è l’industria della pasta a determinare il prezzo del grano duro. A farlo è il mercato globale. Ma chi è il “mercato globale”? Secondo i pastai la qualità del raccolto 2016 è complessivamente medio-bassa e le importazioni saranno quindi necessarie per garantire ai consumatori una pasta di qualità. <<Siamo disposti a cercare soluzioni e a trovare efficaci rimedi>>, sottolineano, <<ragionando congiuntamente con tutte le componenti di filiera sulle problematiche endemiche del mondo agricolo italiano: polverizzazione della produ-
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: LE RADICI STORICHE IONE DEL SUD ITALIA zione, strutture di stoccaggio inadeguate, qualità delle produzioni non sempre allineate alle esigenze qualitative dell’industria>>. I pastai e le industrie di trasformazione rilanciano su <<accordi di filiera per dare agli agricoltori una corretta pianificazione della produzione, con la giusta remunerazione e con meccanismi premiali in presenza di parametri qualitativi prestabiliti, in linea con le esigenze dell’industria>>. In gioco, non solo il buon nome di alcuni dei prodotti che tutto il mondo ci invidia - pasta e pane - ma anche <<il destino di oltre trecentomila aziende agricole e di un territorio di 2 milioni di ettari a rischio desertificazione>>.
Camere di Commercio e prezzi sul mercato interno 24 euro sul mercato di Bologna (riferimento per il Nord Italia), 19 euro su quello di Foggia (il più importante del Mezzogiorno). Più o meno la metà delle quotazioni di fine 2014. Il caso del Sud è il più preoccupante: nella seduta di giugno, la Commissione prezzi della Camera di Commercio di Foggia non ha <<prudentemente>> quotato il grano che veniva scambiato a 16 euro al quintale. Con gli agricoltori che hanno paventato l’ipotesi di quotazioni non corrispondenti ai valori reali di mercato, minacciando di allertare l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato sulle quotazioni fatte dalle Camere di Commercio. Tra le ipotesi sollevate dagli agricoltori ci sarebbe una manovra di alcuni Paesi per imporre grano estero che offre minore qualità ad un prezzo più basso, e la politica di alcuni grossi trasformatori con capitali esteri che mirano a fare piazza pulita dei produttori italiani di frumento. Mentre sono assenti le politiche governative per tutelare i produttori ed i consumatori italiani. Proprio durante la campagna di raccolta del grano nel porto di Bari hanno fatto scalo navi cariche di grano di cui non si conosce la provenienza. In sostanza, sull’attuale “guerra del grano” ci sarebbe l’ombra di accordi
e cordate tra alcuni produttori o “stoccatori cerealicoli” e le industrie di trasformazione alimentare (industria dolciaria, pastai) che penalizzerebbero i produttori. Un caos senza regole che il governo mostra di non governare.
del grano Terre di frontiera / numero 6 anno 1 - settembre 2016 / www.terredifrontiera.info
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PCN Piano Cerealicolo Nazionale: quale politica? La strategia cerealicola nazionale individua tra i punti critici del made in Italy un variare repentino delle superfici destinate a cereali a seconda del grado di redditività. Questa tendenza sarebbe <<espressione diretta del riorientamento dei piani aziendali al mercato e dell’estensivizzazione delle coltivazioni verso le foraggiere (colture a bassa intensità di capitali) oppure verso altre coltivazioni>>. Tra altre cause della crisi il PCN individua il <<il peggioramento della bilancia commerciale agricola>> e le possibili forme di concorrenza tra specie a destinazione food e specie a destinazione non food, in relazione del prezzo del petrolio. In sostanza, il Ministero delle Politiche Agricole scarica sui produttori cerealicoli i problemi italiani indicando tra le cause la <<scarsa rappresentatività delle organizzazioni di produttori cerealicoli in Italia>>. Ma non dovrebbe essere il governo ad indicare le politiche per il rilancio del settore e non viceversa? Parlamento e governo dovrebbero accelerare la discussione e l’approvazione del Piano cerealicolo nazionale per condividere le misure più idonee a valorizzare la cerealicoltura italiana e i prodotti della filiera 100 percento made in Italy, così come ha recentemente chiesto il Movimento 5 Stelle attraverso il portavoce pugliese Giuseppe L’Abbate, affinché il ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali attivi la Commissione unica nazionale <<per il mercato del grano duro al fine di ridurre il divario tra produttori e industriali e garantire trasparenza e regole certe, eliminando i conflitti di interesse al tavolo di concertazione>>.
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Alle radici del sud agricolo A leggere la storia d’Italia e del Sud ci si accorge che sin dall’antichità la cerealicoltura ha ricoperto un ruolo preminente per l’economia italiana, al punto che intere aree del Paese venissero denominate “granaio d’Italia”. Dalla spiga d’orzo della monetazione della colonia greca di Metaponto - con i riti legati a Cerere - ai Monti Frumentari (antica forma economica di incentivazione delle colture cerealicole). Ed ancora, i Piani delle Fosse di Foggia, San Severo, Cerignola e San Paolo
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Civitate, che testimoniano antiche modalità di conservazione del grano, tra le quali quelle più antiche dei siroi dei greci (silos sotterranei per conservare il grano tra l’altro utilizzate dagli anni Sessanta per stoccare rifiuti nucleari), alle battaglie del grano ed ai “semi eletti” di Nazareno Strampelli, tra i quali il famoso grano del senatore Cappelli (senatore e industriale cerealicolo di inizio Novecento). L’elenco potrebbe continuare, anche se la politica non è molto attenta alle ragioni storiche della cerealicoltura italiana,
Foto di Marco Monari
preferendo prefigurare per il Sud un incerto e traballante futuro industriale, cosĂŹ come ha fatto il premier Matteo Renzi inaugurando la Fiera del Levante a Bari, il 10 settembre.
E la fame nel mondo? Mentre crollano i prezzi allâ&#x20AC;&#x2122;ingrosso del grano in Italia, la Fao nel 2015 segnala come lâ&#x20AC;&#x2122;indice dei prezzi del frumento ha fatto segnare una flessione di oltre 29 punti. Una guerra del grano dichiarata ai poveri del mondo? Sempre la Fao indica quanto sia contraddittoria la situazione mondiale. In Africa, infatti, uno degli ultimi rapporti parla di <<una caduta nella produzione>> dei cereali. In Africa Centrale e Occidentale le prospettive dei raccolti permangono incerte a causa del clima sfavorevole e dei conflitti, mentre la produzione nazionale - secondo gli industriali - non è sufficiente a coprire il fabbisogno delle industrie di prima trasformazione. Ma i fatti stanno davvero in questo modo?
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COLDIRETTI ATTACCA L’IM GRANO ESTERO ADDIO P DI ROBERTO LA PIRA, DIRETTORE DE “IL FATTO ALIMENTARE”
Proteste di Coldiretti in Puglia e in altre regioni contro il grano importato dall’estero e contro il prezzo troppo basso pagato alle aziende agricole italiane per il prodotto nazionale. Sono questi i titoli dei quotidiani, dei siti internet e dei telegiornali per raccontare l’ennesima protesta di lobby che fa capo a Coldiretti.
Gli articoli riportavano la solita denuncia sul fatto che 1 pacco di pasta su 3 contiene grano importato dall’estero. La sceneggiata funziona sempre. I giornalisti raccontano le proteste senza un briciolo di approfondimento, la gente è contenta per la difesa a oltranza del made in Italy. La maggioranza dei commentatori ignora che la pasta italiana ha assolutamente bisogno del grano duro scaricato dalle navi, come pure delle cisterne di olio spagnole e greche, del latte e delle cosce di maiale che attraversano le Alpi, per produrre ed esportare prodotti considerati tra i migliori della produzione alimentare nel mondo. I dati sulle importazioni vanno letti con intelligenza. È vero, il 30-40% di grano duro viene dall’estero Ma le granaglie importate da Ucraina, Canada, Stati Uniti e altri paesi sono di alta qualità, hanno un’elevata percentuale di glutine. Solo miscelando questo grano con quello italiano si ottiene la pasta che esportiamo in tutto il mondo! Senza quel grano la nostra pasta non sarebbe così famosa nel mondo. Barilla, De Cecco, Delverde, Garofalo… potrebbero produrre solo grandi quantità di spaghetti e fusilli di qualità mediocre. Certo esistono linee di pasta confezionata con il 100% di
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grano nazionale, ma si tratta di quantità risibili, perché manca la materia prima di alta qualità. L’unico marchio presente su tutto il territorio in grado di proporre una pasta di alta qualità ricavata da grano duro italiano è Voiello. L’operazione è stata possibile solo perché 10 anni fa Barilla (proprietaria del marchio) ha iniziato a costruire una filiera di grano duro di alta qualità in grado di garantire l’approvvigionamento. Coldiretti lamenta la mancanza sulle etichette dell’origine del grano e ha ragione, perché i produttori, dimostrando poca lungimiranza e una certa miopia, non scrivono sulle confezioni la provenienza del grano, pensando che la trasparenza possa nuocere all’immagine Lo stesso comportamento di Barilla è ambivalente. Nella pasta a suo marchio non riporta l’origine, mentre per il marchio Voiello di sua proprietà sbandiera a destra e manca l’impiego di materia prima 100 percento made in Italy. Per risolvere il problema basterebbe riportare sulla confezione l’elenco dei paesi stranieri che abitualmente riforniscono l’azienda. Si tratta di una scelta doverosa, da affiancare a un messaggio in cui si dice la verità: la pasta italiana è buona perché è preparata con una percentuale rilevante
MPORT, MA SENZA PASTA DI QUALITÀ di grano pregiato straniero. Per Granoro – che propone la linea di pasta Dedicato preparata con 100 percento di grano pugliese – la soluzione alla crisi del grano non va cercata nella contrapposizione e il discredito fra i diversi attori della filiera (agricoltori, mugnai e pastai), ma promuovendo un nuovo modello di integrazione, legato alla produzione italiana di grano di qualità. In questa situazione, non guasterebbe un contributo concreto delle istituzioni volto a favorire l’integrazione di filiera per favorire lo sbocco dei prodotti di filiera nella grande distribuzione affinché il percorso “virtuoso” si completi fino al consumatore”. Un altro suggerimento che i pastifici potrebbero seguire è di riconoscere un quid in più rispetto al prezzo di mercato al grano nazionale come ha fatto recentemente Granarolo con il latte fresco per sostenere le aziende agricole. Chissà se l’associazione di categoria Aidepi che raggruppa buona parte dei marchi importanti come Barilla, De Cecco e tutti gli altri, saprà rispondere in modo adeguato alla crisi sui prezzi. Tre sono le cose che dovrebbe fare Aidepi: smettere di starnazzare con Coldiretti, adottare provvedimenti concreti come le etichette trasparenti e prevedere un sostegno per i prezzi dei grani nazionale. Conoscendo però la
scarsa flessibilità dell’associazione di categoria sarà difficile realizzare anche solo una di queste cose in attesa della prossima sceneggiata di Coldiretti.
dibattiti
http://www.ilfattoalimentare.it/guerra-grano-coldiretti-aidepi.html
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<<DAL CAMPO ALLA TAV TROPPO INIQUA CON GU EQUAMENTE DISTRIBUIT
DI PIETRO DOMMARCO
Calo dei prezzi della materia prima, aumento delle importazioni, rilancio del made in Italy, incentivazione della filiera corta. Per fare chiarezza su queste ed altre questioni che tengono banco nel settore agro-alimentare abbiamo incontrato Franco Verrascina, presidente di Copagri (Confederazione produttori agricoli).
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Presidente, partiamo subito da un argomento di stretta attualità e, soprattutto, di interesse pubblico. Il valore del grano duro e del grano tenero ha registrato un calo importante, ma il prezzo del pane e della pasta è in aumento o nel migliore dei casi stabile. Può spiegarci questo meccanismo che, da una parte, penalizza i produttori locali e, dall’altra, i consumatori? Si tratta chiaramente di meccanismi di mercato che possono essere ricondotti a movimenti speculativi. Di sicuro, in questa fase, ne escono fortemente penalizzati anche i molini. La situazione va però analizzata nel suo complesso. Nonostante non vi siano ancora dati ufficiali definitivi, la produzione di grano del 2016 raggiungerà un livello record: si parla di circa 5,5 milioni di tonnellate a fronte di una produzione media nazionale di 4 milioni, con rese ad ettaro eccezionali. Infatti, visti i prezzi molto elevati dello scorso anno, gli agricoltori, non solo italiani, hanno seminato
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un maggior quantitativo di grano duro. Così oggi siamo in presenza di una sovraofferta che ha chiaramente effetti negativi sui prezzi, che sono crollati. Basti pensare che le quotazioni del grano duro sono scese a 180 euro per tonnellata mentre l’anno scorso erano a 315 euro. Secondo i dati Ismea (Istituto per i servizi del mercato agroalimentare, ndr), nel giro di un anno le quotazioni del grano duro destinato alla pasta hanno perso il 43 percento del valore, mentre si registra un calo del 19 percento del prezzo del grano tenero destinato alla panificazione. Al contrario resta alto il prezzo all’ingrosso, intorno ai 300 euro a tonnellata). All’ingrosso il prezzo resta alto. Quindi già in questa fase qualcosa non va. Insomma, qualcuno che ci guadagna c’è… Sì. E i prezzi poi lievitano ancora nei passaggi fino al consumatore: dal campo alla tavola aumentano di 5 volte per la pasta e di addirittura 15 volte per il
l’intervista del mese
VOLA, LA FILIERA È UADAGNI NON TI>> pane. Noi della Copagri siamo convinti che sia una filiera troppo iniqua e che i guadagni non siano equamente distribuiti. È chiaro che a perderci sono da un lato i produttori, con quotazioni troppo distanti dalla copertura dei costi di produzione che mettono a rischio la stessa sopravvivenza di molte aziende impegnate in una delle produzioni più distintive per il nostro modello agricolo, e i consumatori sulle cui spalle ricadono gli aumenti. Ricapitolando, i numeri ci dicono che i prezzi della materia prima sono calati, quelli all’ingrosso aumentati, così come la produzione nazionale. Allo stesso tempo, l’attuale fotografia del mercato delinea un sostanziale aumento delle importazioni. Sembrerebbe un dato contraddittorio. Come stanno le cose? La situazione va chiarita. L’Italia, come accennavo prima, produce una media di 4 milioni di tonnellate annue mentre più di 6 milioni vengono utilizzate
dall’industria della pasta. Come per altre produzioni di punta del made in Italy - ad esempio l’olio - non abbiamo grano duro sufficiente a soddisfare la produzione di pasta. Siamo deficitari di circa 3,5 milioni di tonnellate di grano duro e per questo siamo obbligati ad importarlo (nel 2015 ne abbiamo importato 2,37 milioni di tonnellate). Le produzioni italiane sono cresciute, ma di fabbisogno interno e per l’export.
del contenuto proteico del grano duro nazionale. Per questo spesso viene usato grano proveniente da altri Stati con produzioni caratterizzate da una maggiore quantità di proteine e glutine. Tuttavia, secondo noi, quello che non va dimenticato è che l’export di pasta italiana (anche con grano straniero) è una perla per le nostre finanze e un fiore all’occhiello che ci identifica, per quantità e qualità.
Produzioni italiane per fabbisogno interno ed export. Si dice che il nostro grano non sarebbe adeguato alle richieste dell’industria. Una precisazione: il grano italiano non sarebbe adeguato alle richieste dell’industria, per fare una pasta abbastanza al dente ed elastica. Questo, però, non significa che le produzioni italiane non siano di qualità, ma che c’è una differenza nel contenuto proteico della granella. L’industria richiede che esso abbia un valore compreso tra il 13,5-14,5 mentre 12,5 è la media
In virtù di quanto sostiene, è quindi pensabile un rilancio del made in Italy e della filiera corta in questo settore? Cosa pensa? Noi della Copagri siamo fermamente convinti che affinché vi sia un rilancio del made in Italy nel comparto, occorre legare la filiera al territorio, costituire cioè una filiera veramente corta in cui il grano locale sia valorizzato, a prescindere dalle quantità prodotte. È necessario puntare molto sulle organizzazioni dei produttori e fare in modo che il grano locale sia sempre
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di maggiore qualità per essere poi utilizzato in determinate produzioni. Come accade con la Pasta di Gragnano. Poi è giusto che nel mercato ci sia spazio per tutti, senza alzare barriere o rinchiudersi all’interno di spazi ristretti che ci siamo creati da soli. Una pluralità di offerte per una pluralità richieste. Lei dice <<legare la filiera al territorio […] in cui il grano locale sia valorizzato>> e <<sempre di maggiore qualità>>. E quindi anche tracciabilità certa. Ma con l’aumento delle importazioni, di fatto, cosa arriva sulle nostre tavole? Intanto sgombriamo il campo da “leggende metropolitane” in merito a grano contaminato, tossico o altro. Come presidente di una importante organizzazione dei produttori voglio sottolineare che i controlli sull’agro-alimentare in Italia ci sono e sono anche efficaci. Tutti gli organi ad essi deputati svolgono efficacemente il loro lavoro. Poi, non tutto il grano che arriva dall’estero è di cattiva qualità o contaminato. Semmai dovremo tenere sotto controllo la questione del glifosato che in certi Paesi è utilizzato per fare arrivare a maturazione il prodotto (accade in Canada, tra i nostri fornitori di grano, ndr), viste le condizioni ambientali sfavorevoli. Su questo sì bisogna stare attenti e non abbassare la guardia. Il grano è al centro di importanti interessi geopolitici, soprattutto nel Mediterraneo. Chi decide le quote di produzione in Europa? Questa è una galassia assai variegata e diffusa. La produzione di cereali è fortemente influenzata dal mercato mondiale. Anche l’Unione Europea influenza
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il settore con le proprie decisioni e, molto spesso, a nostro parere, si muove “come un elefante in una cristalleria”, senza considerare le conseguenze che possono derivare a seguito di scelte non sempre favorevoli a paesi come il nostro. Il ministero delle Politiche Agricole ha annunciato, di recente, un fondo cerealicolo di 10 milioni, ed altre misure, come il marchio unico. Nei fatti come lo valuta e come si sta adoperando il Governo per far fronte all’attuale crisi e per controllare le proteste dei piccoli e medi produttori italiani? La Commissione agricoltura della Camera ha convocato noi della Copagri per un’audizione sul problema del prezzo del grano. Come noi sono stati ascoltati tutti gli attori della filiera e, in seguito, a luglio, il ministero ha convocato il tavolo nazionale della filiera cerealicola a cui hanno partecipato le organizzazioni dei produttori, la cooperazione, l’industria molitoria, quella mangimistica e della pasta. Abbiamo apprezzato che il Governo abbia individuato che il problema è interno alla filiera, tuttavia riteniamo che si debba agire in modo più concreto ed efficace. Ovvero? Purtroppo, a nostro parere, le azioni presentate dal Mipaaf (Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, ndr) non serviranno a ristabilire una situazione di normalità per il settore. In particolare, i 10 milioni di euro stanziati nel decreto legge enti locali per dare avvio a un organico piano nazionale cerealicolo, e sostenere investimenti anche infrastrutturali per valorizzare il grano di qualità 100 percento
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italiano - sono ben poca cosa rispetto a quanto realmente necessario; così come siamo convinti che la creazione di una Cun (Commissione unica nazionale), per rendere più trasparente la formazione del prezzo del grano duro, poi, non sarà efficace perché i prezzi li fa il mercato. La Copagri è poi favorevole al marchio unico volontario per grano e prodotti trasformati, per dare maggiore valore al grano di qualità certificata e riteniamo un’ottima misura, da attuare in fretta, il rafforzamento dei contratti di filiera, per i quali è previsto un budget totale di 400 milioni di euro (metà in conto capitale e metà in conto interessi). Apprezziamo, infine, la proposta di un tavolo di filiera, ma rivendichiamo la presenza al tavolo di tutti i soggetti rappresentanti l’intero comparto, altrimenti il tavolo è destinato a restare svuotato di ogni significato fin dall’origine. Infatti, se non parteciperanno tutti gli attori interessati non sarà possibile instaurare un percorso valido e determinare un prezzo sicuro per i produttori, che a tutt’oggi sono ancora l’anello più debole della catena. Come presidente della Copagri insisto, comunque, sulla necessità del settore di contratti e organizzazione dell’offerta: vanno migliorate le relazioni contrattuali, sviluppate le organizzazioni interprofessionali e rafforzate le organizzazioni dei produttori.
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DATI PRODUZIONE / SU FONTI ISTAT E ISMEA
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FRUMENTO TENERO
FRUMENTO DURO
DATI PRODUZIONE, SUPERFICI, RESE / SU FONTI ISTAT E ISMEA
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DATI PRODUZIONE / SU FONTI ISTAT E ISMEA
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GRANO, PUGLIA E OLIGOPOLI DI LEONARDO PALMISANO
Quando in Puglia si parla di grano si evoca sempre la figura di Casillo, imprenditore campano naturalizzato a Foggia, arrestato per associazione mafiosa nel 1994 e scagionato nel 2007. La sua figura, come quella di altri più piccoli importatori di grano e produttori di farine, è una specie di idealtipo utile a spiegare la tenebrosità del settore.
La Puglia è regione con antica tradizione nella produzione di grani, farine e paste. Le provincie di Bari, Bat e Foggia sono quelle con la più forte concentrazione di industrie, nonostante la crisi e le vicende giudiziarie abbiano decretato la morte di non poche di esse. Diciamo che il settore riesce ancora a tenere, ma i segnali di un cambiamento peggiorativo nelle condizioni della compravendita del grano ci sono tutti. Coldiretti ha denunciato un crollo del 30 percento del prezzo del grano pagato dall’industria della pasta rispetto all’anno scorso. Confagricoltura dichiara che esiste una differenza di oltre mille e quattrocento punti tra prezzo del grano e prezzo del pane al chilogrammo, e di quattrocento punti tra frumento e pasta. Perché tutto questo? È dai tempi di Casillo che si crea in Puglia un oligopolio dell’importazione, cosa che ha favorito la costruzione di relazioni molto pericolose tra industria e fornitori esteri (europei, russi, nordamericani). Si determinano così fenomeni di dumping, di concorrenza al ribasso che deprivano i produttori locali di grano. La natura di queste relazioni internazionali è dubbia. Per fare un esempio, può accadere che per settimane sia attraccata nel porto di
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Bari una nave apparentemente carica di grano ucraino vendibile a un prezzo molto più basso di quello praticato dai produttori locali. Può accadere che oscuri mezzani contattino i grossi trasformatori industriali pugliesi e che facciano provare la qualità del grano della nave. Può accadere, infine, che questi industriali ricontattino i loro fornitori per strappare un prezzo più basso del grano ucraino. Questo senza che nessuno sappia se davvero quella nave è carica o no di grano. Questa messinscena serve a ricattare i produttori locali, rivelando la criminosità del settore, compreso quello industriale. Se vogliamo, la conversione al pomodoro della Capitanata è un modo per sfuggire a questo ricatto. I consumatori ingannati Tuttavia, nonostante le proteste dei produttori, una parte consistente della pasta e del pane prodotto e venduto in Puglia non contengono grano pugliese, né italiano. L’importazione non è giustificata dell’aumento del consumo alimentare, ma dalla ricerca di profitti industriali a danno dei produttori e dei consumatori. L’agricoltura ne esce taglieggiata. I consumatori ingannati. La risposta non può che essere di salvaguardia e ripristino della produzione autoctona attraverso la creazione di una filiera artigianale - che non
Terre promesse Crisi grano: 10 milioni al fondo cerealicolo e prezzi più trasparenti con grano duro
mescoli troppe farine diverse - molto corta e di qualità elevata. In Puglia ci sta provando Granoro con la linea Dedicato, e può fungere da apripista anche per un intervento politico tendente alla realizzazione della filiera. Ma qui si apre un fronte di conflitto con le cinque sorelle del grano e con i loro grandi mediatori, veri e propri criminali globalizzati capaci di influenzare le borse a loro unico beneficio. Questi agiscono per deregolamentare il mercato, per svincolarlo dai controlli delle dogane, degli Stati e delle Regioni, per ricattare le industrie con l’imposizione di grani che puzzano di alterazione e di schiavitù. Sono forse il più potente cartello alimentare del pianeta, pertanto contrapporvisi non è per niente facile. Anche perché gli dà manforte la Grande Distribuzione Organizzata, sempre alleata di chi fa gravare il costo del profitto sulle tasche dei consumatori e dei produttori locali.
Il ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali ha presentato sei azioni da intraprendere nel corso della riunione del tavolo nazionale della filiera cerealicola. Sul piatto un fondo da 10 milioni di euro inserito nel decreto legge enti locali. Si tratta di un primo stanziamento per dare avvio a un organico Piano nazionale cerealicolo e sostenere investimenti anche infrastrutturali per valorizzare il grano di qualità 100 percento italiano. Si pensa anche alla creazione di una Commissione unica nazionale) per il grano duro, con l’obiettivo di favorire il dialogo interprofessionale e rendere più trasparente la formazione del prezzo. Dal ministero confermano gli aiuti accoppiati europei Pac per il frumento, che equivalgono a circa 70 milioni di euro all’anno fino al 2020 per quasi 500 milioni investiti nei 7 anni di programmazione, così come il rafforzamento dei contratti di filiera, per proseguire negli investimenti che hanno visto 50 milioni di euro impiegati dalla filiera cerealicola. I nuovi bandi in autunno prevedono un budget totale di 400 milioni di euro (metà in conto capitale e metà in conto interessi) ai quali potranno attingere anche i progetti legati al grano. Infine, per quanto riguarda la valorizzazione della qualità, l’idea è quella di istituire un marchio unico volontario per grano e prodotti trasformati, che rispetti il disciplinare del sistema di qualità della Produzione integrata e risponda a determinati requisiti organolettici. <<Mettiamo in campo proposte concrete e attuabili già dalle prossime giornate - ha dichiarato il ministro Maurizio Martina - ma con una chiara visione strategica per dare risposte strutturali. C’è bisogno di un piano nazionale cerealicolo che punti alla qualificazione della nostra produzione e consenta ai trasformatori di acquistare sempre più prodotto 100 percento italiano. In questo senso investiamo 10 milioni di euro per sostenere investimenti infrastrutturali nei sistemi di stoccaggio per valorizzare grano di qualità certificata, favoriamo nuovi contratti di filiera e istituiremo un marchio unico per grano e prodotti trasformati. Allo stesso tempo vogliamo dare una risposta alla necessità di maggiore trasparenza nella formazione del prezzo. Per questo abbiamo proposto al tavolo l’istituzione di una Cun grano duro, che favorisca anche lo sviluppo di migliori rapporti interprofessionali. A questo si aggiunge la decisione di confermare il budget dedicato al frumento negli aiuti accoppiati e la sperimentazione di uno strumento assicurativo sui ricavi che garantisca ai produttori di non essere eccessivamente danneggiati da fasi di mercato come quella che stiamo vivendo>>. Terre di frontiera / numero 6 anno 1 - settembre 2016 / www.terredifrontiera.info
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IL MARE DI GRANO CHE SEMBRA DI TUTTI DI LARA TOMASETTA
A maggio il vento accarezza le onde del mare d’Irpinia: un mare verde, accecante, silenzioso. Il sibilo soffia sulle spighe di grano che sommesse piegano la testa e cedono al volere del mutare dell’aria. Colline e colline di onde verdi affollano la Baronia, l’Alta Irpinia e quelle terre che per chilometri cantano il mare del silenzio. Il mare di un grano che sembra di tutti.
Flumeri, Frigento, Sturno, Castel Baronia: i piccoli borghi raccontano una delle storie più antiche dell’Irpinia; il lavoro nei campi, i tempi della terra, una tradizione che spacca le mani, irruvidisce la pelle e colora i volti di sole. Si attende il giallo della maturità, si attende il momento perfetto per la mietitura, per la trebbiatura e per l’essiccazione di quei grani antichi che fortunati ancora sopravvivono grazie alle sapienti mani degli agricoltori irpini. L’Irpinia del grano cambia colore al variare del tempo e dal verde intenso di un maggio fresco di primavera, si arriva a quel giallo che stordisce nei covoni di grano di un settembre che volge al termine. Le strade percorrono quei colori e ci mostrano un paesaggio cambiato e sempre diverso. Paesaggi mutati Oggi non c’è più solo il mare di spighe: immani sentinelle bianche spiccano e sovrastano con la loro effige mastodontica solcando cielo e terra. Sono le pale eoliche che da oltre 20 anni – sempre più numerose – hanno mutato le linee della nostra quotidianità. Gli espropri per l’installazione degli impianti eolici insidiano i terreni che sorgono tra Bisaccia, Lioni, Aquilonia, Conza e divengono protagonisti di una contesa che minaccia una delle risorse
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più importanti di questo territorio: la produzione del grano con varietà antiche e pregiate che resistono alle variazioni del mercato e che sostengono gli agricoltori nella difficile congiuntura economica che attraversa il Paese. Ma esiste un modello lavorativo che sta dimostrando una forma di resistenza, non solo alla minaccia degli espropri, ma anche al fenomeno del deprezzamento del grano che sta destabilizzando i coltivatori e le organizzazioni del settore in tutta Italia. Venticinque euro al quintale è il prezzo al quale oggi viene pagato il grano, come dichiarato da Agrinsieme, l’associazione che riunisce le quattro organizzazioni agricole di Confagricoltura, Cia, Copagri e Alleanza delle Cooperative: 30 percento in meno rispetto ai prezzi dell’autunno del 2015. Un così drastico calo dei prezzi è motivato dalla concorrenza spietata del grano proveniente dall’estero che ha fatto precipitare il valore di quello italiano: l’Italia nel 2015 ha importato circa 4,8 milioni di tonnellate di frumento tenero, che coprono orientativamente la metà del fabbisogno per la produzione di pane e biscotti, mentre sono 2,3 milioni le tonnellate di grano duro che arrivano dall’estero e rappresentano circa il 40 percento. Un dato, più di tutti, ci illumina su quanto sta
accadendo: nel 2015 gli arrivi di grano dall’Ucraina sono più che quadruplicati mentre dalla Turchia sono raddoppiati. Solo da questi Paesi sono arrivati 650 milioni di chili che vanno ad aggiungersi a quelli delle altre parti del mondo. Il mercato irpino è caratterizzato dalla presenza di tre attori che più di altri si distinguono per il lavoro svolto: Il Gruppo De Matteis, Il Gruppo Lo Conte e la filiera del Consorzio Formicoso Alta Irpinia del Grano Senatore Cappelli. Grano Armando Il progetto Grano Armando è un’idea di due famiglie, De Matteis e Grillo, socie da sempre e proprietarie di un pastificio industriale ricostruito al confine con la Puglia, dopo il terremoto del 1980, con 150 addetti. Le aziende agricole che finora hanno sottoscritto il contratto sono 998, per un totale di 33 stoccatori, oltre 11.400 ettari, 18 province di provenienza delle aziende, con il primato di Foggia con 6.200 ettari. Grano Armando riunisce quasi mille agricoltori di nove regioni italiane che hanno aderito al progetto di filiera con un rigido disciplinare sulla metodologia di coltivazione: questi si impegnano a usare sementi stabilite e a seguire precise regole nelle pratiche agronomiche. Sul prodotto conferito hanno il prezzo
minimo garantito rispetto a quello fissato dalla borsa del grano, la qual cosa dovrebbe sottrarli ai meccanismi speculativi del settore. Quest’organizzazione ha permesso al gruppo di diventare uno dei primi 5 pastifici italiani in termini di produzione (con un fatturato di 125 milioni di euro) oltre a essere presente in 45 Paesi e in 5 continenti. La pasta De Matteis va sul mercato con tre marchi propri e di private label sia in Italia che all’estero, al punto da raggiungere la leadership private label in Inghilterra. Il Gruppo Lo Conte Leader in Italia nella produzione di farine speciali e preparazioni per dolci e, con un’offerta che comprende oltre 350 referenze, è oggi il quarto top player del mercato italiano delle farine, il primo del settore farine speciali e miste. Il fatturato è passato dai 15 milioni del 2011 ai 21 del 2013, crescendo sempre a doppia cifra percentuale. Il gruppo gestisce quattro stabilimenti dotati di altrettanti centri per la distribuzione in tutta Italia e anche all’estero: due sono localizzati in Irpinia a Frigento e Ariano Irpino - uno a San Benedetto del Tronto e un altro in provincia di Pavia. Oggi il Gruppo utilizza grano tenero di provenienza sia italiana che europea, purtroppo non siamo riusciti a conoscere le percen-
tuali di utilizzo. Nel 2015 Lo Conte ha lanciato il progetto “Grani Antichi” che ha portato alla raccolta di 54 quintali di Risciola, un grano tenero antico e prezioso coltivato in Italia già dal 1500 e riscoperto nelle terre dell’Irpinia, riportato alla luce grazie alla collaborazione della Comunità irpina del grano Risciola, composta in parte da giovani e intraprendenti agricoltori. Tramite Molino Vigevano, il Gruppo si è impegnato a distribuire gratuitamente il seme necessario ai coltivatori iscritti alla Comunità irpina del grano Risciola e ad acquistare tutta la produzione, garantendo una maggiorazione del 60 percento del prezzo di mercato e un’assistenza totale agli agricoltori che decidono di prendere parte al progetto. La filiera del Grano Senatore Cappelli Quella del Consorzio Formicoso Alta Irpinia è una storia che risale al 2011 e che racconta di 28 agricoltori che si sono uniti con uno scopo ben preciso: salvaguardare un territorio, un modo di lavorare e di concepire la terra e i suoi frutti. Oggi lo si può definire un piccolo successo e un baluardo di civiltà. Il Consorzio nasce sotto l’impulso del GAL CISLI, in un’ottica di sostenibilità ambientale per la costituzione di una filiera agroalimentare di valore e pregio
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che si esprime attraverso la coltivazione del grano duro denominato “Senatore Cappelli” e la realizzazione di pasta secondo metodi tradizioni. Un progetto nato per trovare soluzioni e cambiare il sistema cerealicolo irpino allora in forte difficoltà. Un grano coltivato senza concimi e senza diserbanti che cresce secondo i tempi dettati dalla natura, con i terreni lasciati riposare a periodi alterni così come tramandato dagli avi e con le quantità giuste: non 40 o 50 quintali, ma soli 15 quintali per ettaro.
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Antonio Ciani, presidente del Consorzio, racconta il meccanismo di questa filiera virtuosa La regola è: coltivazione con metodo biologico e rotazione dei terreni con altre specie vegetali. Fino al 2012 è stata solo un’attività sperimentale, poi si è passati ad una produzione di 400-500 quintali di grano all’anno. La particolarità è ricercabile nell’utilizzo del solo grano irpino non mischiato, che viene lavorato nei Mulini De Vita, gli unici dove è possibile trasformare esclusivamente questa
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varietà. La filiera corta prevede la collaborazione con il Pastificio Gemme del Vesuvio. Gli stoccatori sono mastro Giulio a Bisaccia i Mulini De Vita per la farina e il Consorzio come organismo capofila. «Nella sola Alta Irpinia abbiamo 20 mila ettari coltivati a grano - racconta Antonio Ciani - con i quali si produce una pasta 100 percento irpina garantita da una filiera certificata, un prodotto di altissima qualità con caratteristiche nutrizionali eccellenti. Attualmente, il mercato italiano del grano sconta grossi
to ai 30 euro al quintale (anche 38) nel 2015». Gli agricoltori del Consorzio Senatore Cappelli si assumono il rischio d’impresa - vero e proprio - essendo anche i proprietari del sistema nella sua totalità, di contro riescono ad ottenere una valorizzazione del prodotto più alta rispetto alle normali attività commerciali, dovuta, ovviamente, alla qualità della materia lavorata. «Siamo entrati in un mercato di nicchia – spiega Ciani – con un prezzo al dettaglio di 6 a chilogrammi, pari a quello di mercato di Gragnano. Noi, però, abbiamo la possibilità di raccontare una storia in più: il nostro è un progetto territoriale che esalta esclusivamente il grano dell’Alta Irpinia». La storia di un’Irpinia fatta di onde di grano.
Foto di Marco Monari
problemi legati ai prezzi: quello convenzionale conferito agli ammassi va dai 18 euro al quintale per il grano tenero ai 24 euro del grano duro. Parliamo di prezzi che non consentono agli imprenditori neanche di recuperare le spese e di affrontare la concorrenza sleale dei mercati stranieri. Purtroppo nella grande distribuzione avviene che quando il grano ha un prezzo che non piace speso si fanno arrivare quantitativi dall’estero che comportano l’abbassamento dei prezzi. Siamo arrivati a 17 euro al quintale nel 2016 rispetTerre di frontiera / numero 6 anno 1 - settembre 2016 / www.terredifrontiera.info
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GRANO E GLIFOSATO DI GIULIO AMBROSETTI
Nell’anno di grazia 2016 i siciliani scoprono che il pane e la pasta che mangiano non sono, forse, i prodotti che immaginavano. Nel pane e nella pasta che circola in Sicilia di grano duro autoctono ce n’è poco. Già, il grano duro siciliano. Che fine ha fatto? I numeri raccontano che, ancora oggi, i seminativi a grano dovrebbero attestarsi intorno a 350 mila ettari. La produzione per ettaro varia da 35 a 45, fino ai 50 quintali di grano duro per ettaro. Diciamolo subito: il grano, in Sicilia, almeno fino ad oggi, non è una coltura redditizia. Se si vende a 24 centesimi di euro al chilogrammo aggiungendo l’integrazione dell’Unione Europea - gli agricoltori ci guadagnano poco. Ma ci guadagnano. Se, invece, il prezzo scende, i produttori cominciano ad avere problemi. Se il prezzo - come avvenuto quest’anno - precipita a 14 euro al chilogrammo è un disastro.
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Gli agricoltori siciliani producono in perdita, scontando l’illusione dello scorso anno quando, per contingenze internazionali, il prezzo del grano duro è schizzato a circa 50 centesimi di euro al chilogrammo. L’arrivo dei grani duri canadesi Da diversi anni, il grano duro siciliano - e in generale quello del Sud Italia - è penalizzato dai grani duri canadesi. Queste produzioni, che viaggiano su nave, non sono oggetto di controlli sulla qualità (presenza di micotossine) e finiscono alla grande industria a prezzi più bassi dei grani duri del Mezzogiorno. In più, i grani duri canadesi contengono una percentuale maggiore di glutine rispetto ai grani duri italiani. Il glutine è una sostanza proteica che conferisce alla pasta la tenuta durante la cottura. Un requisito che fa la differenza. E il glifosato? In Canada, l’erbicida più diffuso al mondo, viene utilizzato per l’essiccazione del grano duro nelle zone fredde e umide del paese, dove la maturazione naturale è difficile. Non proprio un dettaglio. A denunciare questa forma di maturazione chimica è stato un gruppo di agricoltori di Basilicata, Molise, Puglia e Sicilia che hanno dato vita ad un’associazione, l’AgriSalus. Una risposta dal basso, alle follie della globalizzazione. AgriSalus ha lanciato una campagna che partirà nei prossimi mesi:
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controlli a tappeto su tutti i prodotti del grano, dalla pasta al pane, dai dolci ai biscotti; analisi chimiche fatte da organismi indipendenti; trasparenza dei dati, da pubblicare in rete. Tra qualche mese i consumatori italiani - ma non soltanto quelli italiani - scopriranno che cosa c’è nei prodotti derivati dal grano duro. I grandi marchi della pasta che oggi in Italia controllano l’80 percento del mercato dovranno finalmente misurarsi con la realtà. Quello che non hanno fatto Stato e Regioni ovvero i controlli sulla qualità del grano duro e dei prodotti derivati - lo faranno gli stessi agricoltori. <<I canadesi, bisogna darne atto>>, dice Saverio De Bonis di GranoSalus, <<hanno trasformato un problema in opportunità. Ma adesso è arrivato il momento di fare chiarezza. Anche perché, si sa, il cibo a basso prezzo è un’illusione. Perché le conseguenze o le paga l’ambiente, o le paga la salute>>. O le pagano i produttori locali. <<In questi anni>>, racconta De Bonis, <<ben 600 mila ettari di seminativi nel Sud Italia sono stati abbandonati. Ci hanno guadagnato i canadesi. Ci ha guadagnato la grande industria della pasta. Ma i produttori di grano duro del Sud Italia sono stati massacrati>>.
L’allarme dell’Associazione italiana per l’agricoltura biologica Come abbiamo già avuto modo di spiegare nel secondo numero di Terre di frontiera (aprile 2016), con l’articolo “L’impero dei pesticidi” (a firma di Vito L’Erario), il glifosato è il diserbante più usato al mondo. E dai suoi effetti non sono esenti le terre di Sud. Ma cosa c’entra il glifosato con il grano? Come riporta un articolo pubblicato sul sito dell’Associazione italiana per l’agricoltura biologica (www.aiab. it) - dal titolo “Perché il glifosato è spruzzato sulle colture prima della raccolta?” - <<gli agricoltori usano il glifosato anche su colture come grano, avena, mais, fagioli commestibili e altre colture proprio prima del raccolto, sollevando preoccupazioni che l'erbicida potrebbe essere presente nei prodotti alimentari>>, come essiccante. La fonte è il professor Charles Benbrook che ha pubblicato un documento che conferma questa pratica di irrorazione prima della raccolta. <<L'uso di pre-raccolta con glifosato consente agli agricoltori di raccogliere le colture fino a due settimane prima di come normalmente avviene nelle regioni più fredde, avvantaggiando le regioni più a Nord>>. Le aree di coltivazione del grano sotto la lente di ingrandimento sono il <<Nord America, come le province degli Stati Uniti e del Canada del Midwest superiore, quali Saskatchewan e Manitoba>>. Ricordiamo che il Canada è il paese dal quale importiamo tra le maggiori quantità di frumento. L’Aiab, inoltre, ha reso note delle testimonianze molto interessanti proprio dal Canada. <<La stragrande maggioranza degli agricoltori in Manitoba, la terza provincia del Canada che produce più grano - da cui prende nome la famosa farina di grano tenero usata anche da noi - utilizzano molto glifosato sul grano, ha detto Gerald Wiebe, contadino e consulente agricolo. Direi che il 90 al 95% di ettari di grano in Manitoba sono spruzzati in pre-raccolta con glifosato>>.
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SERRE, RACKET E RICONV DI ROSARIO CAUCHI
L’indagine “Redivivi”, coordinata dai magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta, ha fatto luce su una sorta di realtà economica parallela che si sarebbe vissuta tra campi e aziende agricole della Piana di Gela e della fascia trasformata, al confine con la provincia di Ragusa. Un contesto, nel quale, c’è anche spazio per riconvertire con la canapa un’area industriale compromessa come quella gelese. La storia di David Melfa.
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<<Per me è una vera utopia. È possibile riconvertire con la canapa un’area industriale come quella di Gela. Io ci credo e, per questa ragione, sono ritornato. Non c’è mafia o minaccia che possa tenere. Gli agricoltori di questo territorio hanno fame e vogliono vivere>>. David Melfa ha puntato tutto sulla coltivazione della canapa, destinata non solo agli usi alimentari, ma anche a quelli medici. Da diversi mesi è tornato stabilmente a Gela dopo aver avviato il suo progetto in Spagna. <<Ovviamente la Spagna rimane un punto di riferimento e non l’abbandono>>, dice ancora. <<Ma io voglio dimostrare, nella mia terra, che non si vive solo di Eni. Anzi, la canapa può essere determinante nel processo di bonifica>>. Sì, perché Melfa, per anni nonostante la sua attività di imprenditore nel settore del metano, ha portato avanti un’intensa lotta, soprattutto giudiziaria, contro i vertici della raffineria Eni di contrada Piana del Signore. <<Mi è costata energie psichiche enormi. Adesso, però, non voglio essere ricordato per quello che sta solo contro l’Eni. La canapa offre mille possibilità di sviluppo. Non a caso, abbiamo già avviato le attività definite in base ad un protocollo d’intesa concluso con l’amministrazione comunale e l’Università degli Studi di Catania. Da questo punto di vista, siamo stati previgenti. Non abbiamo pensato solo alla coltivazione
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ma ci siamo soprattutto concentrati sui possibili settori di vendita della canapa e dei prodotti connessi>>. Insomma, Melfa - così come altri imprenditori locali del comparto agricolo - non sembra temere gli effetti collaterali dei campi della Piana di Gela. Questa volta, però, il fardello non si chiama Eni, o almeno non soltanto. L’incudine è targata Cosa Nostra. Il controllo dei clan sulle aree rurali, infatti, appare ancora capillare. L’imposizione delle guardianie, l’appoggio ad aziende di favore, i danneggiamenti, i pascoli abusivi. Tutti rami di un unico albero che, stando agli investigatori, è tutt’altro che abbattuto. Risale al novembre di un anno fa il blitz “Redivivi”, coordinato dai magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta ed eseguito dai poliziotti della mobile nissena e da quelli del commissariato di Gela. Ventidue ordinanze di custodia cautelare in carcere e, adesso, l’udienza preliminare partita davanti al gup del tribunale di Caltanissetta. I presunti capi, a quasi un anno di distanza dagli arresti, sono ancora detenuti e per il tramite dei loro legali si apprestano a patteggiare le accuse più pesanti, ovvero quelle legate all’associazione mafiosa. L’inchiesta è riuscita a disvelare una sorta di realtà economica parallela che si sarebbe vissuta tra campi e aziende agricole della Piana di Gela e della fascia trasformata, al confine con la provincia di Ragusa. Tra
VERSIONI le contrade rurali di Mignechi, Bulala e Spina Santa, la plastica era off limits. Questo emerge dal contenuto dell’ordinanza alla base dell’intera indagine. A gestire le fasi di raccolta tra le aziende agricole della zona e del successivo deposito dovevano essere solo i Trubia. Minacce, intimidazioni ed esplicite richieste di <<non lavorare>> perché oramai <<c’erano loro>> sarebbero state recapitate ad almeno una decina di piccoli raccoglitori e ad altrettanti imprenditori, titolari di aziende serricole e non solo. Il presunto monopolio scoperto a conclusione del blitz “Redivivi” passava tra le mani dei fratelli Vincenzo e Nunzio Trubia e di Davide Trubia, fratello di Rosario, ex reggente di Cosa Nostra e oggi collaboratore di giustizia. Chi non si adeguava alle pretese di quelli che vengono considerati esponenti di spicco del nuovo clan, organizzato tra i poderi e le serre, subiva intimidazioni anche faccia a faccia. Il sistema scoperto dagli inquirenti non si sarebbe basato solo sulla semplice raccolta della plastica dismessa dalla serre. I Trubia avrebbero stretto un vero e proprio patto economico con i titolari di almeno due centri di stoccaggio. In sostanza, la plastica veniva depositata, dietro compenso, solo nei centri gestiti dai “soci” in affari dei Trubia che, allo stesso tempo, riuscivano a praticare prezzi del tutto fuori mercato per il resto della potenziale concorrenza. Non a caso, data la mole d’af-
fari, i Trubia, ad un certo punto, temettero che i titolari dei centri di stoccaggio avessero intenzione di stringere un’intesa con i “Barbani”. Così erano chiamati i raccoglitori riconducibili alla famiglia Minardi. Le campagne locali, così, appaiono tutt’altro che pacificate. Tra i tanti mali che affliggono l’agricoltura locale e chi, con difficoltà, cerca di portare avanti la propria azienda, uno dei più difficili da curare si chiama pascolo abusivo. Sui tavoli delle forze dell’ordine, ci sono tante denunce sporte da agricoltori e proprietari terrieri. La diffidenza, tra le contrade rurali della città, è ancora evidente. Diversi pastori continuano a far paura, soprattutto sul piano delle eventuali ritorsioni: a cominciare dall’incendio dei terreni. Mentre l’indagine “Redivivi” ha fatto luce su una presunta organizzazione in grado di controllare il ciclo della plastica, con tanto di minacce e presunti collegamenti mafiosi, a tenere ancora banco tra i campi è la paglia. Pochi braccianti e pastori sarebbero in grado di monopolizzarne la raccolta e la successiva vendita. Un fenomeno più volte denunciato da operatori del settore come l’imprenditore Francesco Vacirca ma anche da Emilio Giudice, tra i responsabili della Riserva orientata Biviere. Negli scorsi mesi, il quarto rapporto Eurispes sulle agromafie ha segnalato, per le province di Caltanissetta e Ragusa, l’impennata delle percentuali legate al pascolo abusivo. La zona
“calda” è quella della fascia trasformata, ovvero al confine tra le aree rurali di Gela e quelle del ragusano.
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rifiuti connection
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UNA STORIA DI ODORI, VELENI E FAVORI
DI DANIELA SPERA
Mennole e Palombara sono due contrade del Comune di Lizzano, in provincia di Taranto, che ospitano le discariche della Vergine srl. Da anni, su questi impianti, si sono accesi i riflettori di cittadini esasperati dai continui miasmi.
Proprio in seguito alle segnalazioni dei residenti - supportate dai rilevamenti effettuati da Arpa Puglia - il 10 febbraio 2014 la discarica di Palombara, ubicata tra Lizzano, Monteparano e Fragagnano, è stata posta sotto sequestro. A firmare il provvedimento, il giudice per le indagini preliminari Valeria Ingenito, su richiesta del sostituto procuratore Lanfranco Marazia. L’ipotesi di reato contestata ai gestori è <<getto pericoloso di cose>>, per l’emissione di sostanze odorigene - come solfuro di idrogeno e biogas - derivanti dai processi di gestione e post gestione delle vasche di raccolta e di trattamento dei rifiuti. Le indagini, durate un anno e mezzo, sono state avviate in seguito a centinaia di esposti dei residenti, che hanno lamentato insopportabili odori. Il centro abitato di Lizzano dista appena 3 chilometri e mezzo dalla discarica di contrada Palombara. Sin dal 2010 le numerose manifestazioni di cittadini hanno contribuito a sensibilizzare progressivamente l’opinione pubblica, fino a spingere studenti e genitori degli alunni delle scuole lizzanesi a scendere in strada in segno di protesta, proprio perché è soprattutto al mattino - al rientro a scuola che si avvertono maggiormente i cattivi odori. I casi di malessere sono stati numerosi specie tra giovani e anziani.
Il sequestro dell’impianto di Palombara era stato disposto dopo che una consulenza tecnica compiuta dal chimico industriale Mauro Sanna e dall’ingegner Maurizio Onofrio - e numerosi campionamenti e monitoraggi effettuati dall’Arpa - aveva accertato, secondo quanto sostengono i carabinieri del Nucleo operativo ecologico di Lecce, <<concentrazioni di idrogeno solforato superiori alle soglie di percettibilità olfattiva prevista>> […] <<gli episodi di molestie olfattive lamentate negli esposti potevano essere correlati alla dispersione di sostanze odorigene compatibili con l’operazione di abbancamento dei rifiuti ed anche allo spegnimento di alcune torce presenti nell’impianto per la combustione del biogas. Su quest’ultimo si sono concentrate le osservazioni dei consulenti secondo i quali la mancanza di un corretto sistema di captazione degli stessi determina un accumulo di gas nel corpo della discarica che sfocia in una fuoriuscita con dispersioni maleodoranti in atmosfera>>. Sempre secondo gli inquirenti sarebbero stati omessi tutti gli accorgimenti necessari per evitare le emissioni anche per i fanghi in entrata. Uno studio sui venti ha, infine, confermato il sito di provenienza dei miasmi, escludendo, così, altre fonti inquinanti.
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Già nel novembre 2011 i Noe di Lecce, coadiuvati dal Comando della Polizia provinciale, avevano posto sotto sequestro l’impianto, autorizzato ad accogliere rifiuti speciali non pericolosi, come destinazione ultima degli scarti prodotti da numerose aziende, anche del Nord. Il decreto di sequestro preventivo, disposto dal Tribunale di Taranto, fu emesso per motivi di urgenza, a seguito di una serie di accertamenti finalizzati alla verifica dei requisiti previsti dalla legge. Affidata in custodia amministrativa a Nicola Bruni, l’attività, però, non venne interrotta, a condizione che venisse condotta nel rispetto delle prescrizioni contenute nell’Autorizzazione integrata ambientale (Aia). Il provvedimento aveva anche lo scopo di salvaguardare l’attività dei lavoratori occupati presso la discarica, peraltro, in condizioni di assoluta illegalità operativa. Le inchieste della magistratura La storia delle discariche Vergine annovera almeno tre inchieste, in parte già concluse con l’accertamento di illeciti da parte della società. Nel 2003 la discarica Mennole e la Ecolevante di Grottaglie finiscono nell’inchiesta giudiziaria “El Dorado”, che ha accertato un traffico illegale di rifiuti tra la Campania, la Lombardia, l’Emilia Romagna e la Puglia, destinazione finale delle balle di immondizia. Il sistema messo in piedi prevedeva complessi viaggi di carichi di rifiuti urbani di ogni tipo che dalla Campania venivano miscelati in Lombardia, con rifiuti tossici e terre di spazzatura delle strade milanesi ed altri materiali, e passare illecitamente come rifiuti industriali non pericolosi. Nel Febbraio 2010, invece, le discariche Vergine
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finiscono nell’inchiesta giudiziaria “Spiderman”, insieme alla discarica Cerratina di Lanciano. Otto le persone arrestate e 22 quelle indagate a piede libero per smaltimento illecito di rifiuti speciali. I rifiuti venivano conferiti nelle discariche senza essere trattati, falsificando analisi e documenti con l’ausilio di chimici e dipendenti conniventi. A giugno dello stesso anno è la volta dell’inchiesta “Ragnatela” condotta prima dalla Procura di Napoli e poi da quella di Macerata. Al centro dell’inchiesta un traffico di rifiuti pericolosi, compresi scarti e fanghi della Raffineria di Gela che, secondo gli investigatori, sarebbero stati smaltiti illegalmente tra il 2005 e il 2009, accompagnati da formulari e certificati falsificati. Gli scarti, provenienti in genere dal Centro-Sud - anche da aziende multiservizi di Roma e Colleferro - erano diretti in discariche di diverse regioni d’Italia, comprese quelle di Lizzano, per essere smaltiti dopo un finto trattamento presso un impianto di Corridonia. Dunque, le avvisaglie c’erano, ma solo la voce insistente di protesta dei residenti di Lizzano, i più agguerriti, ha determinato la svolta di questa ingarbugliata vicenda. A rendere il quadro ancora più complesso ci pensa la normativa nazionale in materia di fideiussioni, anche se le responsabilità della società Vergine restano lapalissiane. Vediamo perché. La revoca dell’Autorizzazione integrata ambientale Il 24 marzo 2015 il dirigente del Settore ambiente della Provincia di Taranto, Martino Dilonardo, revocava l’Aia rilasciata al gestore di Vergine srl, subentrato dopo la cessione di un ramo d’azienda operata dalla Vergine spa, per l’assenza totale di ga-
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ranzie finanziarie. Fideiussioni necessarie ad impedire l’abbandono del sito una volta esaurito evitando, così, di adottare le cautele previste per la prevenzione dell’inquinamento della falda e dei terreni circostanti, nonché attuare l’ordinaria manutenzione, a partire dalla raccolta e lo smaltimento del percolato prodotto dai rifiuti. Inizialmente le fideiussioni erano pari a 20 milioni di euro per la gestione operativa e circa 11 milioni di euro per la gestione post-operativa dell’impianto di contrada Palombara. Per l’impianto di contrada Mennole, invece, 9 milioni di euro per la
Oltre 40 anni di rifiuti. Ora basta. Foto AttivaLizzano
gestione operativa e 4 milioni e mezzo di euro per la gestione post-operativa. Dal 2005, però, la normativa ha subìto modifiche, fino a giungere al vaglio della Corte Costituzionale che ha dichiarato incostituzionale (sentenza n.67/2014) la legge regionale del 2006 con la quale la Regione Puglia aveva deciso di stabilire i criteri generali ai fini della determinazione delle garanzie finanziarie. Naturalmente i proprietari delle discariche non hanno perso tempo a sfruttare a proprio vantaggio tale sentenza. Così, il 16 aprile 2014 - con un provvedimento firmato dall’allora dirigente del
Settore ambiente della Provincia di Taranto, Stefano Semeraro - hanno ottenuto lo svincolo delle fideiussioni per quasi 5 milioni di euro. Il 19 maggio del 2014, tuttavia, la Provincia avviava la procedura per la revoca dell’Aia perché la sentenza della Corte Costituzionale entrava solo nel merito della illegittimità costituzionale della legge regionale sulle fideiussioni, ma non toccava l’obbligo del gestore di garantire le fideiussioni, questione rispetto alla quale la società Vergine era in torto. Infatti, l’impugnazione del provvedimento di diffida emanato dalla Provincia da par-
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te della società - prima al Tar e poi al Consiglio di Stato - non ha sortito alcun effetto. A marzo del 2015 arriva, dunque, la revoca dell’autorizzazione integrata ambientale per entrambi gli impianti. La società Vergine é comunque tenuta al puntuale rispetto di tutte le prescrizioni di manutenzione, sorveglianza e controlli delle due discariche. Un provvedimento privo di reale efficacia, dal momento che non vi era alcuna garanzia finanziaria da cui attingere le risorse utili al rispetto delle prescrizioni. Un gioco di ripensamenti lascia intravedere la possibilità di riabilitare l’Autorizzazione integrata ambientale Il 17 dicembre 2015 la Provincia di Taranto ha avanzato una proposta di deliberazione - poi ritirata per le proteste dei lizzanesi - nella quale il dirigente del Settore ambiente, Martino Dilonardo, dando notizia di un cambio di proprietà dell’impianto, concorda, in sostanza, l’annullamento del provvedimento di revoca dell’Aia: <<con nota del 01/06/2015 il signor Paolo Ciervo, in qualità di liquidatoretitolare della Società Vergine srl comunicava la variazione della titolarità della gestione dell’impianto (già autorizzato con Aia di cui alla determina n.384 del 2008) a favore della subentrante Lutum Srl di Massafra>>. Si legge ancora: <<Poiché l’autorizzazione oggetto di trasferimento è stata revocata con determina n.440 del 01/04/2015, il cessionario è disponibile a produrre in favore della provincia di Taranto le predette garanzie finanziarie per la prosecuzione dell’attività di discarica, così si legge nel carteggio intervenuto tra l’azienda Lutum srl, “società controllata” dalla
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C.i.s.a dell’imprenditore Antonio Albanese – come risulta dai dati resi disponibili dalla Camera di Com-mercio di Taranto – e il dirigente del settore ecologia della Provincia Martino Dilonardo>>. L’ente Provincia, del resto, dimostra di appoggiare la proposta, scelta dettata dal <<non poter far fronte all’attuale stato di abbandono in cui le stesse discariche versano e alle connesse ripercussioni che già vivono le popolazioni circostanti>>. Giustifica inoltre <<la revoca della determinazione n.440 del 2015>> come <<finalizzata all’accoglimento dell’istanza di volturazione della gestione delle discariche a favore della società Lutum srl, subordinatamente al rispetto, da parte della società subentrante, degli obblighi e prescrizioni di cui alle vigenti normative in materia ambientale, nonché di quelli contenuti nell’originaria autorizzazione>>. Sebbene sia fallito il tentativo di far riaprire l’impianto, la proposta di deliberazione fa ben comprendere quale sia l’atteggiamento politico diffuso in merito alla vicenda, e non si possono escludere nuove manovre in tal senso. A rendere più equivoca la questione è una notizia che fa molto discutere mediaticamente: il figlio dell’ingegner Dilonardo risulta essere socio in una società immobiliare con l’imprenditore Antonio Albanese, alla cui holding appartiene la stessa Lutum srl. Amministratore unico della Lutum è Nicola Lacalaprice, già dirigente della Cogeam, un consorzio di imprese di cui la stessa Cisa fa parte - insieme a Lombardi Ecologia e al gruppo Marcegaglia - per gestire la discarica di Conversano. Viene da pensare che il presidente della Provincia di Taranto e Sindaco di Massafra, Martino
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Tamburrano, forse non avrebbe dovuto procedere alla nomina di Dilonardo come responsabile del Settore ecologia. E invece lo ha fatto. Si è trattato di una svista? Ma non è tutto. La Lutum srl non ha dipendenti e risulta inattiva dal 2012. Si tratta di una società che ha un capitale sociale di appena quindicimila euro: come potrebbe presentare le garanzie finanziarie a favore della Provincia per la prosecuzione delle attività delle discariche Palombara e Mennole, per le procedure di chiusura, post-chiusura, <<nonché di ogni prescrizione rilevabile dall’autorizzazione>>? L’unica risposta è il giro d’affari che porterebbe la riapertura della discarica in contrada Palombara. I cittadini sono sempre in allerta. <<Le discariche vanno chiuse>> L’associazione “AttivaLizzano” continua a vigilare e a denunciare aspetti contraddittori della vicenda: <<Con l’ordinanza n. 58 del 13.11.2015 il Sindaco di Taranto ha imposto ai proprietari dei terreni su cui insiste la ”discarica Vergine” per rifiuti speciali non pericolosi, l’avvio dei lavori di rimozione e smaltimento del percolato presente all’interno della discarica, nonché la predisposizione di un pia-no finalizzato ad evitarne il successivo accumulo. Gli stessi proprietari hanno immediatamente im-pugnato detta ordinanza facendo ricorso al TAR di Lecce. In data 13.01.2016 – un’ordinanza é stata emessa di sospensiva dell’atto impugnato e poi - in data 4.5.2016 - ha ottenuto una sentenza favore-vole. Sorge il logico dubbio che molto spesso le ordinanze sindacali, specie se trattano di problemi ambientali, siano facilmente impugnabili fornendo l’alibi agli amministratori. Tale sentenza
Foto AttivaLizzano
è stata facilitata grazie al fatto che nessun comune, oltre a quello di Taranto, si è costituito e quindi neanche Lizzano, Fragagnano, Faggiano, Monteparano e Roccaforzata. Specifica inoltre il TAR che tali mi-sure non potevano essere imposte dal Sindaco, essendo di competenza della Provincia, la quale, a nostro avviso, si è limitata al tentativo di dichiarare le criticità della discarica come “interesse pub-blico” con la manifesta intenzione di volturare l’AIA ad altro soggetto>>. Riunione tra rappresentanti istituzionali e associazioni Dopo il rinvio dell’incontro, previsto per il 22 luglio scorso, si è svolta il 3 agosto - presso la sede dell’assessorato Qualità dell’ambiente - l’attesa riunione tra rappresentanti istituzionali e associazioni, per la discussione delle problematiche ambientali legate alle discariche gestite dalla società Vergine srl.
L’assessore Mimmo Santorsola ha aperto la discussione specificando che il ritardo nel cronopro-gramma - stabilito durante il tavolo del 25 febbraio scorso - è imputabile al sequestro degli impianti at-tuato dalla magistratura tarantina che ha vietato l’accesso alle discariche. Questo ha impedito ad Arpa Puglia di effettuare i campionamenti nei pozzi di prospezione. I primi dati allarmanti sono stati discussi nel tavolo dell’8 luglio, nel corso del quale è emerso che, sul sito in località Palombara, durante il campionamento delle acque sotterranee, in uno dei 4 pozzi spia posizionati lungo il perimetro dell’impianto, è stato riscontrato del materiale surnatante oleoso. L’analisi dei campioni di acqua sot-terranea ha evidenziato il superamento delle concentrazioni soglia di contaminazione in due pozzi. In uno, quello caratterizzato dalla presenza di surnatante oleoso, le sostanze che superano i
limiti definiti dalla legge sono gli idrocarburi, il benzene e il ferro. Nell’altro, il valore oltre i limiti di legge riguarda il ferro. Secondo l’ingegner Gramegna, dirigente del Settore bonifiche Arpa Puglia non sussiste una chiara relazione tra superamenti in falda e discarica. Mentre per l’associazione “AttivaLizzano” non c’è tempo da perdere: la discarica va chiusa. Il rinvio L’incontro si è concluso con un rinvio, in attesa di conoscere i risultati riguardanti i microinquinanti. Attendiamo, dunque, gli ulteriori sviluppi di questa intricata vicenda.
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Cinquantamila persone in marcia tra Orta di Atella e Caivano. Ottobre 2013 / Foto di Mauro Pagnano
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ENZA
DI SALVATORE ALTIERO
In Campania la proposta di un rinnovato Piano di gestione dei rifiuti apre una nuova stagione di opposizione sociale e costi ambientali. L’epilogo più verosimile per la nuova Proposta di Piano di gestione dei rifiuti della Regione Campania (delibera di giunta n.419 del 27 luglio 2016) sembrerebbe essere la catastrofe sociale. La misura che dovrebbe porre rimedio al malaffare e al disastro ambientale dell’ultima emergenza rifiuti, in realtà, annuncia l’apertura di nuove discariche. A rischio i territori che hanno già pagato a caro prezzo i metodi sbrigativi del Commissariato Berlusconi-Bertolaso. È il cerchio della mala gestione dei rifiuti che si chiude come una rete a circuizione, attanagliando sempre le stesse comunità. Taverna del Re - tra Giugliano e Villa Literno - 130 ettari di terreno adibiti a deposito di stoccaggio temporaneo per le ecoballe dell’ultima emergenza. Qui giacevano “temporaneamente”, da anni, 6 milioni di tonnellate di rifiuti in attesa di una soluzione arrivata solo da pochi mesi. Uno dei simboli del disastro ambientale causato in Campania dal mix letale di camorra, speculazione imprenditoriale, mala gestione e collusione. A tutti i livelli. Ma per la giustizia italiana non ci sono colpevoli e nel 2015 arriva puntuale una maxi multa dall’Europa per la mancata applicazione delle normative europee sui rifiuti: 20 milioni più 120 mila euro per ogni giorno di ritardo. A seguire, la bagarre sul “chi paga”, con la lapidaria posizione del ministro all’Ambiente, Gian Luca Galletti: <<pagherà la Campania>>. Come se la Campania non grondasse rifiuti tossici provenienti da altre regioni d’Italia e d’Europa. Come se l’appalto per lo smaltimento dei rifiuti campani non fosse stato vinto da un’Associazione temporanea di imprese - la Fibe - guidata dalla Fisia Italimpianti, controllata del gruppo Impregilo. La più grande azienda italiana operante nel settore delle costruzioni e dell’ingegneria avrebbe dovuto provvedere alla costruzione degli inceneritori e degli impianti per la produzione di CDR (Combustibile Derivato da Rifiuti). Come se non fosse stata Impregilo, dunque, a realizzare CDR non a norma e a continuare a produrne per anni, accumulandone milioni di tonnellate in giro per la regione, avendo puntato tutto sulla
termovalorizzazione ma senza rispettare il termine di consegna dell’impianto, poi realizzato con forte ritardo ad Acerra contro la volontà di una popolazione in rivolta. Insomma la Regione Campania paga pro quota. Che, tradotto, significa <<pagano i cittadini>>. I corsi e ricorsi della giustizia sollevano azienda e politica da ogni responsabilità e i costi ambientali ed economici si abbattono così su una popolazione già abbastanza vessata.
Altri Sud, stesse aziende Per la cronaca, i tempi del processo concluso con la cancellazione di ogni responsabilità per l’impresa (novembre 2013) per il disastro campano coincidono con l’Opa lanciata su Impregilo dal Gruppo Salini Costruttori che, proprio tra il 2012 e il 2013, acquisisce la maggioranza del capitale azionario di Impregilo dando vita, nel gennaio 2014, al Gruppo Salini Impregilo. Chissà se l’operazione sarebbe andata ugualmente in porto qualora avesse significato anche accollarsi i costi necessari a risarcire la popolazione campana e a porre rimedio al disastro. Nel curriculum di Salini Impregilo, d’altronde, troviamo il sistema di grandi dighe costruite in Etiopia lungo il fiume Omo. Progetto che nel 2004 ha ricevuto dalla Cooperazione Italiana allo Sviluppo 220 milioni di euro per la costruzione della “Gilgel Gibe 2”. La cifra più alta mai stanziata nell’ambito della cooperazione. L’operazione fu oggetto di un’inchiesta chiusa nel 2008
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senza condanne. Il prestito concesso all’Etiopia per la realizzazione dell’appalto assegnato senza gara alla Salini spa - giungeva appena dopo la cancellazione da parte del governo italiano del debito di 332 milioni vantato nei confronti dell’ex colonia. In sostanza un nuovo indebitamento e un prestito vincolato all’affidamento di un appalto ad un’azienda italiana etichettato come <<cooperazione allo sviluppo>>. Mentre, da anni, si denunciano i gravi danni all’ecosistema della Valle dell’Omo e alle popolazioni che da esso dipendono, private di risorse idriche e terreni agricoli. Altri Sud, stesse aziende. È per il mancato rispetto dei termini dell’appalto vinto da Impregilo che, nel 2007, la Commissione europa aveva proposto un ricorso contro l’Italia a causa della mancata creazione in Campania della rete impiantistica necessaria alla gestione integrata dei rifiuti, secondo il criterio dell’autosufficienza regionale, mettendo a rischio l’ambiente e la salute umana. La prima sentenza arrivò nel 2010. La maxi multa del 2015 è il frutto della sua mancata esecuzione.
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Il nuovo Piano rifiuti della Regione Campania. Discariche ed incenerimento La giunta regionale guidata da Vincenzo De Luca comincia così un affannoso iter di delibere e leggi regionali per adempiere a quanto prescritto dalla Commissione e dai giudici europei. Iter concluso con l’elaborazione di una proposta per il nuovo Piano rifiuti della Regione Campania, che ha un po’ il sapore di una nuova gestione emergenziale a bassa inten-
Ecoballe di Taverna del Re Foto Salvatore Altiero
sità. Stavolta dettata dalla necessità di fare in fretta per limitare i danni derivanti dalle sanzioni UE. Un po’ come la crisi romana determinata dalle procedure di infrazione europee per i rifiuti tal quale sversati a Malagrotta, in barba a qualsiasi norma comunitaria sulla gestione dei rifiuti. E così, mentre la realizzazione degli impianti di compostaggio è ancora in fase di progettazione, all’emergenza si risponde come al solito: discariche ed incenerimento. Quest’anno,
a giugno, il premier Matteo Renzi - accompagnato dal governatore campano - visita il sito di Taverna del Re. Le dichiarazioni sembrano miracoli. <<La Terra dei Fuochi dovrà diventare un ricordo […] con il nostro Governo e con l’impegno della Regione Campania e dell’Anac di Cantone, finalmente è partita la rimozione […] via le ecoballe in tre anni. Via la camorra, si fa sul serio […] restituiremo alla Campania la bellezza del luogo […] si deve investire in eco sostenibilità>>.
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Verso il 2019 Ad oggi, si intravedono solo nuove discariche e incenerimento. Una o più discariche andranno realizzate e messe in funzione, presumibilmente, entro il 2019. Quanto all’ecosostenibilità, di fatto, consiste in un processo di lavorazione delle ecoballe finalizzato alla produzione di CSS (Combustibile Solido Secondario) da bruciare nei cementifici grazie al decreto voluto dall’ex ministro all’Ambiente, Corrado Clini, e confermato dalle politiche del Governo Renzi nel decreto-legge “Sblocca Italia”. Piccolo dettaglio trascurato è l’ancora maggiore nocività, rispetto ai termovalorizzatori, delle emissioni dei cementifici adibiti all’incenerimento. Il residuo finirà in discarica, già in programma una con capacità pari ad 1 milione e 600 mila tonnellate di rifiuti. Vi è poi la parte che riguarda il ripristino ambientale delle cave con rifiuti inertizzati, anche questo in parte prodotto dalla lavorazione delle ecoballe. Sempre in nome dell’ecosostenibilità, andrà realizzato un nuovo impianto per la produzione del CSS da bruciare nei cementifici. È così che finiranno la maggior parte dei rifiuti ecoimballati. Nel 2008, il Commissariato straordinario guidato da Berlusconi e Bertolaso aveva individuato Chiaiano, Terzigno, Savignano Irpino e Sant’Arcangelo Trimonte per le discariche emergenziali, suscitando una durissima opposizione da parte delle popolazioni.
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Come abbiamo avuto modo di raccontare nel numero di giugno di Terre di frontiera (n.4/2016). Secondo le nuove previsioni della Regione, i nuovi siti per lo smaltimento dei rifiuti andranno individuati proprio sulla base degli studi di fattibilità delle precedenti strutture commissariali e la discarica dovrà essere il più vicino possibile agli impianti di trattamento delle ecoballe, quelli di Giugliano e Caivano. Tra i siti più probabili Chiaiano, Marano, Giugliano, Quarto e Palma Campania. Territori già colpiti dai disastri dell’ultima gestione emergenziale. Tirando le somme, insomma, commissariamento Berlusconi-Bertolaso, decreto “Terra dei Fuochi”, asse De Luca-Renzi ma, alla fine, emergenza chiama emergenza. Al danno si aggiunge la beffa: le ecoballe prodotte da Impregilo rientrano nella gestione dei rifiuti prevista dal Piano e, quindi, il costo di quello smaltimento sarà conteggiato in tariffa La fa franca un’azienda con un fatturato di circa 5 miliardi di euro annui che, al di là del piano legale, qualche responsabilità l’ha certo avuta in questo disastro. Già aperta, intanto, la partita con la miriade di comitati che animano il tessuto sociale della mobilitazione mai sopita per una gestione dei rifiuti rispettosa di ambiente e salute e contro lo smaltimento illegale dei rifiuti industriali.
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Blocco dei camion di rifiuti da parte dei manifestanti (Terzigno, 2010) Foto Janos Chialá
Cittadini in piazza Un partecipato corteo svoltosi il 16 settembre a Chiaiano - uno dei siti già utilizzati nel periodo dell’emergenza e di nuovo a rischio discarica - è servito a lanciare un monito chiaro all’amministrazione regionale: le comunità locali, dopo aver sviluppato, in anni
di procedure emergenziali, anticorpi democratici ostili ad ogni soluzione calata dall’alto a danno della salute e dell’ambiente, non sono più disposte ad accettare a mani basse politiche di stupro del territorio. Questo il messaggio che arriva da comitati e cittadini.
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Discarica di Santâ&#x20AC;&#x2122;Arcangelo Trimonte / Foto di Pellegrino Tarantino
LA DISCARICA DELLA VERGOGNA 50
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DI EMMA BARBARO
Un sibilo lento e la cancellata inizia a scorrere. La discarica di Santâ&#x20AC;&#x2122;Arcangelo Trimonte, in provincia di Benevento, riapre i battenti. Il suo cuore pulsante fatto di percolato e biogas aerodisperso era giĂ riuscito a farla sopravvivere alle miserie del post commissariamento sui rifiuti in Campania.
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Ma in questi giorni ad avervi accesso non sono solo gli operai addetti alla sua manutenzione post mortem. Il dipartimento di Scienze e Tecnologie dell’Università di Benevento ha, infatti, stipulato una convenzione con la Provincia per eseguire indagini ambientali all’interno e all’esterno della discarica. A sovrintendere le operazioni, in qualità di responsabile scientifico, c’è il professor Domenico Cicchella, già membro della Commissione provinciale di controllo all’epoca dei conferimenti di rifiuti nel sito di Sant’Arcangelo Trimonte. Il fine è quello di stabilire se le matrici ambientali acqua e suolo siano state eventualmente contaminate dalle attività correlate alla discarica. Le operazioni previste consistono in indagini geoelettriche in tomografia, sondaggi con prelievo di campioni di acque e suoli e analisi chimiche sulle matrici ambientali prese in esame. Lo stato dell’arte Ad oggi è stata espletata solo una prima fase di analisi. Per le altre, si attende che il magistrato disponga un’eventuale proroga dei tempi previsti per gli ulteriori accertamenti. L’ex discarica commissariale – realizzata nel 2008 da Daneco spa su un sito notoriamente in frana – è stata posta sotto sequestro nel marzo 2011 dalla Procura di Benevento. Le ipotesi sono di omissioni in atti d’ufficio, truffa, inquinamento ambientale. Ma il dispositivo di sequestro fa anche riferimento al pericolo di frana, disastro ambientale, mancata messa in sicurezza delle aree preposte alla coltivazione e mancata osservazione delle prescrizioni. La gestione della “discarica della vergogna” oggi spetta alla Samte Sannio Ambiente e Territorio, società a responsabilità
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limitata interamente partecipata dalla Provincia di Benevento. Un compito ingrato. Specie se si considera che la Samte deve, nonostante i suoi conti in rosso, far fronte agli ingenti costi di manutenzione di un sito improduttivo ormai da troppi anni. La frana, le ingenti perdite di acque di percolato verso l’esterno – stimate dai periti nominati dalla Procura in circa 10mila litri al mese – poi ancora l’intervento della magistratura teso a bloccare i conferimenti e ad accertare le responsabilità. Una saga infinita. Di cui cambiano le comparse ma mai la protagonista principale: la discarica, il suo tanfo insopportabile, la sua presunzione d’eternità. L’ombra della rifunzionalizzazione e la Corte di Giustizia Europea Per i risultati di queste indagini ci sarà da attendere, certo. Ma sulle sorti dell’ex sito Daneco sembrano già muoversi altri interessi. Si pensa a una sua possibile rifunzionalizzazione. O almeno questo è quanto prevedeva il Piano dei Rifiuti Regionale del 2012. Su cui non sembra essere intervenuta con troppi stravolgimenti la recente proposta di aggiornamento varata dall’esecutivo De Luca (Delibera di Giunta n.419 del 27 luglio 2016). Più che in chiave innovativa, la proposta di aggiornamento del Piano Rifiuti in Campania si muove in un’ottica contenitiva. Dettata ancora una volta dalla necessità di dar seguito alla sentenza di condanna della Corte di Giustizia Europea del 16 luglio 2015. L’Italia deve
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pagare una sanzione pari a 120 mila euro al giorno complessivi per non aver adottato per la Campania tutte le misure necessarie per assicurare che i rifiuti siano recuperati, o smaltiti, senza pericolo per l’uomo e pregiudizio per l’ambiente, e per non aver creato una rete adeguata ed integrata di impianti di smaltimento. La nuova programmazione prevede di incrementare i sistemi di raccolta, implementare la differenziata portandola al 65 percento entro il 2020 e, più in generale, di contenere entro il limite di 81 chilogrammi annui per abitante il conferimento di rifiuti urbani biodegradabili in discarica. L’Araba Fenice C’è di più. Le vecchie glorie commissariali vengono analizzate, scandagliate nel dettaglio. Si guarda alle loro potenzialità in termini di metri cubi. Si riconsiderano le volumetrie. Si riprendono in mano i vecchi incartamenti. E persino la discarica di Sant’Arcangelo Trimonte, come l’Araba Fenice, risorge dalle proprie ceneri a nuova vita. Secondo una stima della capacità residua aggiornata al 29 febbraio 2016, risulta che il nuovo impianto di San Tammaro (Caserta) abbia già coperto i suoi 50 mila metri cubi disponibili. Il sito di Savignano
Irpino, in provincia di Avellino, ha una capacità stimata che va dai 10 mila metri cubi attuali ai 310 mila metri cubi. E non c’è dubbio, dato che è in corso di realizzazione l’implementazione del lotto IV della discarica, che queste volumetrie non siano sottostimate. Poi c’è Sant’Arcangelo Trimonte ed il silenzio sulla frana Per la discarica in frana viene stimata una <<capacità disponibile nel breve periodo>> di circa 200 mila metri cubi. Un’enormità. Nella proposta di piano si intuisce che il sito in questione è oggetto <<di un sequestro giudiziario>>. Tutto qui. Nessun accenno, in 1341 pagine, alla frana. Silenzio assoluto sulle volumetrie iniziali e finali. Nel 2009 la Protezione Civile sostiene che la capacità residuale della discarica sia di 400 mila metri cubi a fronte dei 750 mila complessivi. Nel 2011 Daneco spa parla di una volumetria finale, corrispondente ai profili AIA (Autorizzazione Intergrata Ambientale), di 844
mila metri cubi per un totale di 1.050.000 tonnellate di rifiuti autorizzate. E Samte, l’attuale gestore, come si esprime? Nel documento di valutazione dei rischi risalente al luglio 2014 si legge che <<la discarica è costituita da due vasche interrate fisicamente separate: la prima vasca, sede del lotto I, ha una capacità stimata di circa 190mila metri cubi di rifiuti; la seconda, sede di altri tre lotti di coltivazione, garantisce una volumetria lorda di circa 650mila metri cubi>>. Ci sarebbe da domandarsi quale sia invece la volumetria netta. Ma il documento, questo, non lo chiarisce. In linea con l’incertezza che scandisce l’intera proposta sulla nuova programmazione dei rifiuti in Campania, non viene spiegato se quei 200mila metri cubi disponibili nel breve periodo siano da aggiungere o assumere nella volumetria originariamente stimata. In tema di monnezza, si preferisce navigare nel torbido. Uno stillicidio costante Intanto la discarica di Sant’Arcangelo Trimonte continua a vivere, ma di una vita propria. Frane e smottamenti non l’hanno violata nell’intimo. Le perimetrazioni esterne, i paletti e il nastro rosso da cantiere, hanno già ceduto da tempo. Attorno
ai vasconi di raccolta, costantemente macchiati di acqua e residui oleosi, c’è un recinto di terra e fango. Organizzato ad hoc per consentire alle melmose acque di prima pioggia, che strabordano i limiti delle vasche, di confluire con maggior grazia all’esterno dell’ex sito commissariale. Uno stillicidio costante. Goccia, dopo goccia. Unito a un rumore più forte, che si avverte solo quando la natura tutt’attorno tace. È il suono dell’acqua che scorre. Ma non c’è nessun ruscello. Più a sud, verso il vallone Pazzano, la vecchia interpoderale è già franata lasciando spazio a un cratere appena nascosto dalle ortiche rigogliose. La natura si è ripresa il pendio, l’asfalto è crepato, come accartocciato su se stesso. Una buca frastagliata e scomposta lo separa da ciò che è stato. Resta un tubo cavo, ancora per le acque di prima pioggia. E il respiro fetido della discarica. Quel fetore di metano misto a marciume che resta attaccato addosso, che impregna pure i pensieri. È il biogas. Cui si arrendono pure i teli neri che rivestono l’impianto. Poi la cancellata esterna si richiude, ancora una volta. Lasciando fuori la speranza che le recenti indagini possano restituire un sapore di verità a una vicenda i cui contorni, segnati dal chiaroscuro, sono ancora tutti da definire.
Della discarica di Sant’Arcangelo Trimonte ci siamo ampiamente occupati nel quarto numero (giugno 2016), con un’inchiesta di Emma Barbaro.
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SENTENZA RESIT, IL PRO DI ROBERTO MANCINI
DI ALESSIO DI FLORIO
Mille chilometri quadrati e cinquantasette comuni coinvolti. Questi i confini della Terra dei Fuochi, teatro di un terribile crimine contro l’umanità perpetuo, che quotidianamente avvelena e uccide. Il processo Resit e altre indagini restituiscono la fotografia di un sistema malavitoso ben collaudato.
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I numeri non bastano a definire quel che sta accadendo da decenni. Inquinamento ambientale e morti di tumore. Tra questi Roberto Mancini, il poliziotto morto il 30 aprile 2014, a 12 anni dalla diagnosi di linfoma non-Hodgkin contratto per il ripetuto contatto ravvicinato con i rifiuti tossici e radioattivi della Terra dei Fuochi. La storia di Mancini ha inizio nel 1996. Le sue indagini, prima di finire nel limbo, confluirono in una dettagliatissima informativa alla Direzione distrettuale antimafia, poi ripresa dal giudice Alessandro Militia che ritrovò i suoi fascicoli e proseguì il lavoro. Approdando al processo “Resit” - dal nome di una discarica di proprietà dell’avvocato Cipriano Chianese - che si è concluso in primo grado lo scorso 15 luglio. Oltre a Chianese (condannato a 20 anni, l’accusa ne aveva chiesto 30), tra gli imputati sono comparsi Gaetano Cerci (condannato a 16 anni), considerato dalle cronache vicino alla P2 (ne fa riferimento anche Carmine Schiavone), e Giulio Facchi (condannato a 5 anni e 6 mesi), ex sub-commissario per l’emergenza rifiuti nel periodo 2000-2004.
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Uno snodo fondamentale nella storia d’Italia “Resit” non ha catturato particolarmente l’attenzione delle cronache nazionali. È, invece, un processo che rappresenta uno snodo fondamentale nella storia d’Italia. Per la prima volta una sentenza (anzi due, perché già nel 2013 era stato condannato il boss Francesco Bidognetti a 20 anni per inquinamento delle acque e disastro ambientale aggravato) vede al centro lo sversamento di rifiuti da parte dei Casalesi nella “Terra dei Fuochi”. I media che hanno riportato la notizia abbondavano di titoli sulla condanna al <<Re delle ecomafie>>, <<all’inventore delle ecomafie>>. Ma la ricerca di verità e giustizia per il biocidio, ovviamente, non finisce con questa sentenza. Così come tanta luce è ancora da accendere su personaggi, connivenze, trame, responsabilità. Il fotogiornalista Nicola Baldieri - co-autore de “Il volto di Gomorra”, premio “Giancarlo Siani” 2011 e International Siani Reportage Prize 2013 e, da qualche mese, consulente della III Commissione Speciale bonifiche, ecomafie e Terra dei Fuochi della Regione Campania - in un’intervista ha dichiarato che la sentenza Resit <<farà la storia, ma sicuramente non giustizia>> definendola <<una vera e propria beffa>> che non ha fatto <<piena luce sui veri
OCESSO responsabili dell’avvelenamento della nostra terra>>. Ma Baldieri nell’intervista va oltre, focalizzando l’attenzione su uno dei punti meno illuminati e più importanti di tutto il sistema. <<Chianese è solo la punta finale di un sistema molto più grande e ramificato. La camorra è entrata nell’affare rifiuti molto dopo rispetto all’imprenditoria criminale ed allo Stato>> dichiara il fotogiornalista, accusando la <<commistione tra pezzi dello Stato, compresi servizi segreti, imprenditoria criminale e camorra>>. Io morto per dovere La biografia e la ricostruzione della storia delle indagini di Roberto Mancini è stata pubblicata in un libro uscito pochi mesi fa, “Io morto per dovere”, di Nello Trocchia e Luca Ferrari con la collaborazione della vedova Monika Dobrowolska. I due giornalisti denunciano che <<non sarebbe esistita una immonda e sconcia storia criminale e camorristica senza l’appoggio di importanti figure della borghesia affaristica>> e che mancano <<i nomi dei principali responsabili, dei complici, dei politici, degli infedeli servitori dello Stato, dei professionisti e degli imprenditori>>.
I cabli di Wikileaks E non è questa l’unica testimonianza del peso avuto nel biocidio della “Terra dei Fuochi” da servizi segreti e settori dello Stato. Walter Ganapini - nominato nel 2008 da Bassolino assessore all’ambiente della Regione Campania - secondo un cablo di Wikileaks, in un colloquio privato con esponenti di comitati civici ed associazioni ambientaliste, raccontò di aver subito due atti intimidatori (lo speronamento in auto nel modenese e l’aggressione notturna di quattro persone <<a bordo di due moto con il volto coperto da caschi integrali>> in piazza del Gesù a Napoli), affermando che <<gli avvertimenti li ho ricevuti, diciamo, rispetto al fatto che ho visto qualcosa che non dovevo vedere>>, e alla discarica di “Parco Saurino 3”, in provincia di Caserta, <<che sarebbe stata capace di accogliere tutti i rifiuti dell’emergenza campana>>. Ganapini, raccontò ancora nel colloquio riportato da Wikileaks, ha negoziato su quella discarica con <<il comandante […] il coordinatore dei servizi segreti>> che gli disse <<per due volte, urlando: si è esposta due volte la Presidenza della Repubblica>>.
Adelphi Nell’informativa consegnata alla Dda Roberto Mancini fa riferimento all’inchiesta “Adelphi” del 1993. Per la cronaca, Cipriano Chianese nel processo sarà assolto senza che la Procura abbia fatto appello, mentre per altre figure centrali i reati contestati furono dichiarati prescritti in Appello. In quell’inchiesta per la prima volta la Procura di Napoli cercò di ricostruire i contorni e le trame dello sversamento dei rifiuti in Campania. Le indagini posero l’attenzione sul connubio tra appartenenti a logge massoniche toscane, boss casalesi e imprenditori aversani. Le cronache riportano che il 4 febbraio 1991 un camionista si presentò ad una clinica di Castel Volturno accusando un vistoso calo della vista. Poco tempo dopo la perse completamente. Aveva trasportato un carico di rifiuti tossici. Partì da lì l’inchiesta. Le prime testimonianze del boss Nunzio Perrella rappresentarono una svolta. Perrella disse agli inquirenti che i clan grazie a tangenti e al controllo esercitato sui territori scaricarono illegalmente <<rilevantissime quantità di rifiuti>>. Un quadro che appare simile a quanto dichiarò nel 2009 l’allora Commissario straordinario all’emergenza rifiuti della Campania, Alessandro Pansa, alla Commissione parlamentare sulle attivi-
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tà illecite connesse al ciclo dei rifiuti. Pansa riportò alla Commissione che <<per costruire una discarica abusiva, occorre una connivenza totale con la criminalità organizzata, che è il fattore legante e organizzativo. Ci vuole il coinvolgimento delle aziende (che forniscono i prodotti, soprattutto quando si tratta di discariche abusive di prodotti tossici), quindi degli imprenditori, di un sistema di autotrasporti, dei proprietari del terreno, di coloro che a quel terreno hanno accesso e anche di coloro che ne hanno visione. Le discariche abusive, infatti, sono attività che funzionano non per pochi giorni, bensì per tempi abbastanza lunghi. È evidente, quindi, che la disattenzione è totale. Sorgono in zone non facilmente assistibili, in zone agricole dove la presenza dei controlli da parte delle forze dell’ordine è molto limitata, poiché, come si sa, queste ultime essenzialmente sono concentrate nei centri urbani. Il sistema dei trasporti, però, doveva essere controllato, giacché comunque si parla di quantitativi notevoli e volumi enormi, che circolano sul territorio nazionale e sulle strade principali. Questi rifiuti percorrono praticamente tutto il territorio nazionale, in quanto la maggior parte dei prodotti veniva dal nord, come moltissime inchieste hanno accertato. Durante il viaggio, questi prodotti, in effetti, cambiavano natura dal punto di vista della documentazione: il meccanismo è sempre stato questo>>. Quest’ultimo è un meccanismo consolidato e documentato in molte inchieste non solo campane, che ha portato anche al cosiddetto “giro di bolla”. I rifiuti vengono fatti passare in un centro di stoccaggio nel quale vengono falsificate la bolla (così il centro
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ne diventa sulla carta il nuovo produttore, cancellando la vera origine del rifiuto) e la tipologia, declassificando il rifiuto da pericoloso a non pericoloso senza che ci sia stato alcun trattamento per diminuirne la tossicità. Nel 1998, ascoltato dalla Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti, così lo descrive l’ex Procuratore della Repubblica di Napoli, Agostino Cordova,: <<normalmente questi rifiuti vengono classificati, alla produzione, come rifiuti tossico-nocivi e affidati per lo smaltimento. Durante questo giro la qualificazione viene cambiata, e vengono classificati come rifiuti riutilizzabili. Quindi vanno a finire in vari posti, come cave quasi sempre abusive, sfruttate per l’estrazione della ghiaia e poi riempite di rifiuti; oppure, più semplicemente, vengono mescolati al terriccio ed interrati>>.
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Cassiopea L’inchiesta che in Campania più di tutte cercò di documentare questo sistema fraudolento fu “Cassiopea”, condotta dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere nel 2003 e su cui calò il sipario nel 2011, in un processo che vide 95 imputati, soprattutto per intervenute prescrizioni. Le indagini coinvolsero un traffico di decine di viaggi settimanali che hanno portato in Campania rifiuti pericolosi da diverse regioni del Nord. Si andava dalle polveri da abbattimento dei fumi delle industrie siderurgiche e metallurgiche, alle ceneri da combustione di olio minerale, lubrificanti delle macchine, scarti delle vernici, ceneri residue da combustione, solventi, e le acque proveniente da stabilimenti di industrie chimiche e acidi. Appena arrivati in Campania venivano interrati in cave e campi. Un sistema con gli stessi meccanismi del processo “Resit”, così come riportò Roberto Mancini nell’informativa. Si offrivano addirittura soluzioni ai comuni della provincia di Roma che avevano difficoltà a smaltire anche solo i rifiuti domestici. E si arrivò ai rifiuti industriali e ad altre regioni. Nella discarica Resit tra il 1987 e il 1991 sarebbero state smaltite almeno 30.600 tonnellate di rifiuti provenienti dalla bonifica dell’Acna di Cengio, un’azienda savonese di coloranti.
orientamenti
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LA NATURA BATTERÀ IL F QUALI SONO LE VERE CA DI FRANCO TASSI
Tra i disastri ambientali che provocano in Italia i danni maggiori, con costi e disagi altissimi per contenerli e risarcirli, gli incendi occupano senza dubbio uno dei primi posti: ma non sembra che il Paese sia stato finora capace di evitarli e combatterli in modo adeguato. Le strategie di contrasto al fuoco sono rimaste statiche e onerose, spesso tardive e incomplete: e quelle di prevenzione appaiono tuttora assai limitate e carenti.
Eppure è ben noto che i frequenti incendi, non soltanto estivi, rappresentano uno dei più gravi pericoli per i nostri boschi, e soprattutto per le Pinete litoranee e montane. Provocando il denudamento delle pendici collinari e l’alterazione dell’equilibrio idrogeologico, preparano anche il successivo dilavamento e dissesto del terreno, con la grave conseguenza di periodiche, immancabili alluvioni. Si tratta di un fenomeno ben noto, ma assai poco approfondito nelle vere cause che lo fanno esplodere e propagarsi in modo drammatico. Spesso si sente accennare superficialmente all’opera di presunti, e quasi mai identificati, piromani, ma raramente vengono poi svolte indagini approfondite per identificarne le vere cause. Il fuoco viene visto, insomma, come fatale e ineluttabile “calamità naturale”, mentre appare evidente che, nella maggior parte dei casi, risulta invece frutto di azione volontaria, di incuria o colpa dell’uomo. Gli incendi dei boschi possono essere classificati in vario modo Spontanei, per autocombustione? No! Mai nel nostro Paese, salvo forse casi rarissimi (come la caduta di fulmini dopo il temporale) Colposi, per fuochi sfuggiti da
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bruciature di stoppie, accensioni di falò all’aperto, mozziconi di sigarette? Sì, abbastanza spesso! Accidentali, ma in realtà preterintenzionali, per abbandono di bottiglie, vetri, plastica, carta, rifiuti infiammabili, oppure accumuli di aghi resinosi in prossimità di vetri, o fonti di calore? Sì, spesso! Dolosi, ad opera piromani o di chi apre la via a cementificazione, edificazione e urbanizzazione strisciante, o punta ai cantieri di rimboschimento con fondi pubblici? Sì I danni del fuoco alle nostre foreste sono ingentissimi. Come prevenirli, limitarli e reprimerli con successo? Contro gli incendi, è necessario sviluppare, fin dall’infanzia e dalla scuola, un’ampia cultura e sensibilità ambientale, facendo comprendere a tutti i rischi e i danni che ne derivano, sviluppando il controllo attivo e la condanna sociale, individuando e poi punendo severamente i responsabili. Ma come riuscirci? Educazione ambientale Creare un Centro Fuoco, ovvero un Museo attivo che illustri la storia, la genesi, la dinamica degli incendi e le strategie di prevenzione e contrasto, stimolando la visita e l’educazione
FUOCO. AUSE DEGLI INCENDI? civica di giovani e anziani, popolazioni locali e forestieri. Volontariato Istituire un Corpo di Vigili o Pompieri Volontari, e un Gruppo di Guide Naturalistiche Volontarie, con distintivi e attrezzature, collegate con i Vigili del Fuoco. Segnaletica Collocare nei punti adeguati, in prossimità delle foreste, vistose tabelle di Pericolo Fuoco, con una freccia girabile sul livello di rischio incendio nei momenti più cruciali. Normative di emergenza Pubblicizzare e sanzionare i comportamenti pericolosi, fino al divieto assoluto di fumare e penetrare nelle zone a rischio nei periodi di massimo rischio. In Italia ci si limita a impartire suggerimenti. Bacini idrici Creare in prossimità delle foreste ampi laghetti, o bacini artificiali, dai quali poter attingere facilmente acqua con autobotti o velivoli in caso di necessità, senza doversi allontanare eccessivamente. Allarme tempestivo Grazie alla strategia dell’insetto pirofilo, ben proposta nella tavola illustrata, la Natura può battere il Fuoco ispirandosi alla BioMimetica. Ma il “Fattore Tempo”, e cioè l’intervento immediato, resta essenziale! Divieto assoluto di edificazione Nelle zone incendiate va preclu-
sa ogni opera edilizia - non solo teoricamente - per un decennio, ma con un catasto pubblico continuamente aggiornato e visibile, almeno per un cinquantennio. Divieto assoluto di pascolo Stroncare la pratica del “fuoco pastorale” e di quello strumentale che mira a nuovi “cantieri di rimboschimento”, con recinzione e/o segnalazione dei territori da non utilizzare per un decennio. Osservatori di studio Documentare con segnaletica visibile, itinerari guidati e punti di osservazione la rigenerazione spontanea, e la progressiva ricostituzione dell’ecosistema, trasformando i terreni incendiati in campi di studio della dinamica ecologica. Ancora una volta, la Natura batte il Fuoco. Campagna promozionale Stimolare articoli, documentari, spot e pubblicazioni sulla lotta contro il fuoco, con massima diffusione, e congrui premi alle iniziative, persone, istituzioni e organizzazioni più meritevoli. La natura insegna: ecco la biomimetica Centinaia di migliaia di anni prima che l’uomo avesse inventato gli odierni sistemi di rilevamento e misurazione a distanza delle fonti di calore un piccolo Coleottero Buprestide, la Melanophila (dal greco, “amante del nero”, e cioè del legno carbo-
nizzato) sapeva già percepire a grande distanza ogni radiazione calorifica. Una miriade di questi insetti compare di colpo là dove scoppia un incendio. Tanta tempestività appariva del tutto inspiegabile finché non si scoprì che questo Buprestide riusciva, grazie a speciali organi sensori, a localizzare il fuoco captando le radiazioni infrarosse. In questo modo il Coleottero pirofilo trova subito il legno carbonizzato, di cui si nutrono le sue larve, e vi depone le uova. Se l’uomo avesse osservato con maggiore attenzione questo e altri “miracoli della natura”, oggi saprebbe individuare ed estinguere facilmente ogni incendio sul nascere. Soltanto in tempi molto recenti si è sviluppata una nuova scienza, la Biomimetica, il cui intento è <<lo studio consapevole dei processi biologici e biomeccanici della natura, come fonte di ispirazione per il miglioramento di attività e tecnologie umane>>. E su queste basi l’Agenzia delle Nazioni Unite - aveva lanciato il progetto Nature’s 100 Best, individuando, tra le duemila conosciute, le cento migliori idee tecnologiche suggerite dal mondo animale e vegetale. Se molti piccoli insetti che vivono intorno a noi fossero stati studiati con approccio interdisciplinare a disposizione la più efficace strategia di prevenzione dei disastrosi incendi estivi.
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KALU E I SUOI FRATELLI DI PELLEGRINO TARANTINO
Kalu nello sguardo conserva ancora una grande luce. Dopo l’inferno e le ferite. Kalu fugge dalla Nigeria, da un paese martoriato dai terroristi integralisti di Boko Haram, da torture, stupri e crimini di guerra perpetuati dai militari, da guerre civili tra comunità ed etnie, dalle tratte di esseri umani, dagli sgombri di massa per interessi economici e politici, dall’inquinamento petrolifero fuori controllo. Kalu cerca la vita, la libertà, l’equità, la democrazia. Cerca la speranza. Così Kalu scappa verso la terra promessa al di là del mare. È l’Europa. Il viaggio è lungo, il cammino sembra infinito ed i trafficanti di esseri umani non perdono occasione per privarlo di qualsiasi dignità e annientare il suo sguardo. Per loro, Kalu - e tutti quelli come lui - non sono altro che carne da macello. Poi il deserto, il sole, il caldo infernale del giorno ed il freddo gelido della notte, la sabbia, il grande Sahara, fino alle rive di quel mare tanto atteso, immenso.
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Kalu il mare non lo ha mai visto prima. Gli scafisti lo ammassano sulla barca insieme a tutti gli altri. Sembra non ci sia più posto. Li lanciano così, in mezzo a quelle onde e correnti che spersero anche il grande Ulisse. Il cuore si ferma ogni volta che sullo scafo s’infrange quell’artiglio d’acqua che sembra voler trascinare tutti a fondo. Alla fine la costa, l’Italia, la terra della libertà, della democrazia, dei diritti, della speranza, dove avrebbe potuto lavorare, studiare, vivere dignitosamente, essere trattato da persona. Così sperava Kalu. Finché non si è visto ammassare in un centro di accoglienza, senza possibilità di muoversi, senza possibilità di lavorare, in attesa di un documento, di una risposta che non vuole arrivare. Passano nove mesi prima di ricevere una risposta. Prima che la commissione di Caserta decida cosa farne di Kalu e dei suoi amici. Parere negativo. Respinti. Respinti dalla libertà, dalla democrazia, dalla speranza. Senza mezzi per
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poter lasciare il Paese, condannati al limbo, ad uno stato di clandestini illegali, privi di identità e diritti. Kalu racconta di alcuni suoi fratelli, a Bologna, che hanno ricevuto il documento dopo soli due mesi. Vorrebbe raggiungerli, rivederli, rimettere insieme quei pochi frammenti rimasti della sua vita, riabbracciare la sua famiglia. Ma la legge lo incatena dov’è e lui racconta il dolore di non poter far niente, di sentirsi un fantasma, vorrebbe lavorare, rendersi utile, dare un senso alle sue giornate, guadagnarsi da vivere. Così come lo vorrebbero molti dei suoi compagni di sventura ed in tanti come loro finiscono poi nelle maglie della nuova schiavitù. A lavorare a nero in un campo per 10 euro al giorno. A <<raccogliere pomodori ed insulti>>, come dice una canzone. Tra Kalu ed i suoi amici tanti sono laureati. In economia, ingegneria, architettura. Studi portati avanti a prezzo di enormi sacrifici. Altri, invece, gli studi li hanno abbandonati e
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sognavano di riprenderli proprio qui, in Italia. Tanti ragazzi, ognuno con il proprio inferno, con la propria storia, ma con un comune desiderio di normalità. Vengono dalla Somalia, dal Ghana, dal Gambia, dal Senegal. Spiegano che quasi tutte le loro richieste d’asilo sono state respinte. Hanno il sospetto che li vogliano semplicemente usare per prendere soldi e contributi. Non sanno di chi fidarsi. Finanche il mediatore culturale che viene mandato a parlare con loro sembra più interessato a farli sgombrare che a sentire le loro ragioni. Le loro paure. Ora, Kalu e i suoi compagni, vorrebbero solo riprendere il viaggio verso un luogo che li accolga. Una casa. Sono fuggiti dall’inferno per approdare tra i “senza patria”.
Il pocket money o diaria giornaliera - ovvero la cifra concessa ai migranti per le spese giornaliere - è di 2,50 euro. In diversi centri di accoglienza le diarie non vengono erogate per mesi. Il costo stimato per migrante è di 35 euro al giorno. Una cifra gestita da cooperative ed associazioni destinata alle spese alimentari, alla pulizia, alla gestione delle strutture di accoglienza. Una parte di questi soldi sono coperti da fondi Europei. Circa il 70 percento dei richiedenti asilo soggiorna in un Centro d’accoglienza straordinaria (Cas). La legislazione che regola i Cas è carente in quanto i centri erano stati pensati per far fronte a flussi d’emigrazione, appunto, straordinari. Mancano standard di qualità ed un sistema di trasparenza per la gestione dei fondi che favorisce le infiltrazione della malavita organizzata. <<Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno>>, così affermava Salvatore Buzzi rivolgendosi a Pierina Chiaravalle, sua collaboratrice, in un’intercettazione eseguita dal Ros dei Carabinieri per conto della Procura di Roma nell’ambito dell’inchiesta Mafia Capitale La legge imporrebbe una risposta alla richiesta d’asilo entro trenta giorni, a cui dovrebbero seguire sei mesi di “corsi per l’integrazione”. In realtà potrebbero passare anni.
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Si ringrazia per la gentile concessione
Campagna ad inserzione gratuita
meridiano
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libri CRISI AMBIENTALE E MIGRAZIONI FORZATE
LE RAGIONI DEL NO
A CURA DI SALVATORE ALTIERO MARIA MARANO
A CURA DI DUCCIO FACCHINI
Asud / CDCA
Altreconomia edizioni, 4.00 €
Un libro che ha l’intento di offrire non solo una raccolta di dati ma anche una riflessione politica sul tema delle migrazioni ambientali. Per questo motivo il lavoro è stato suddiviso in quattro parti. La prima di analisi del contesto generale: la crisi ambientale e climatica e i suoi legami con i fenomeni migratori. La seconda parte ospita una rassegna di casi studio esemplificativi delle cause di migrazione ambientale: grandi progetti di sviluppo, dighe, inquinamento, sottrazione di terre e risorse idriche, siccità, cambiamenti climatici, innalzamento del livello dei mari. Nella terza parte viene affrontato il tema dal punto di vista della riflessione giuridica sulle forme di tutela di questa ormai consolidata categoria di migranti. Nell’ultima sezione, invece, trovano spazio le testimonianze dirette di migranti costretti a lasciare il proprio Paese per cause ambientali. Il debito ecologico derivante da un modello di sviluppo in grado di garantire benessere ad un numero decrescente di esseri umani scarica le proprie conseguenze soprattutto su quelle comunità che ancora dipendono dalla natura per
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la propria sopravvivenza e in quelle aree del mondo più povere e meno attrezzate a far fronte agli stravolgimenti ambientali in atto. Ma non basta, perché l’insostenibilità ambientale e gli impatti sulle comunità sacrificate all’attuale sistema produttivo riguardano sempre più anche il cosiddetto occidente sviluppato. A fronte di ciò, la soluzione non sta solo in un mutamento dei sistemi di produzione e nella necessaria restaurazione dell’equilibrio uomo-natura, bensì nel radicale mutamento dei sistemi di potere economico e politico.
Contributi di: Salvatore Altiero, Toon Bijnens, Anna Brambilla, Anna Brusarosco, Antonello Ciervo, Maurizio Cossa, Nicolas Liuzzi, Maria Marano, Adelaide Massimi, Mariagrazia Midulla, Milena L.V. Molozzu, Giulia Murgia, Rosa Paolella, Desirée A.L. Quagliarotti, Johanna Rivera, Stefania Romano, Irene Romualdi, Andrea Stocchiero, Roberto Trevini Bellini, Saleh Zaghloul. Il libro è scaricabile gratuitamente su: www.asud.net
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Questo libro spiega in modo chiaro, semplice e sintetico perchè questa riforma - insieme alla legge elettorale Italicum - mette a rischio il principio costituzionale della sovranità popolare e la democrazia stessa. “Le ragioni del no” è una guida pratica ed essenziale per chi vuole capire fino in fondo le conseguenze del Ddl Boschi-Renzi, in difesa della Costituzione e dei suoi principi fondanti. Uno strumento semplice, ma rigoroso, dedicato a singoli cittadini, comitati, associazioni, gruppi díacquisto solidali, che si vale delle opinioni di autorevoli giuristi e costituzionalisti tra cui Ferrajoli, Besostri, Carlassare, Pace, Angiolini e altri ancora. “Le ragioni del no” analizza il contesto in cui nasce la riforma e il combinato disposto con la legge elettorale Italicum. Affronta poi il Ddl Boschi-Renzi articolo per articolo per spiegarne i contenuti e le criticità. E infine riassunti, in 52 punti, i motivi per cui respingerla.
foto Foto IO, MORTO PER DOVERE
LA DISMISSIONE
LUCA FERRARI NELLO TROCCHIA MONIKA MANCINI
ERMANNO REA
Chiarelettere, 15.00 €
Feltrinelli, 10.00 €
La vera storia di Roberto Mancini, il poliziotto che ha scoperto la Terra dei Fuochi. Sapeva già tutto del disastro ambientale. Vent’anni fa conosceva nomi e trame di un sistema criminale composto da una cricca affaristica in combutta con la feccia peggiore della malavita organizzata e con le eminenze grigie della massoneria. Aveva scritto un’informativa rimasta per anni chiusa in un cassetto e ritenuta non degna di approfondimenti, ha continuato il suo impegno depositando, nell’ultimo periodo della sua vita, un’altra informativa. Roberto Mancini è morto il 30 aprile 2014, ucciso da un cancro. Sarà riconosciuto dal ministero dell’Interno come “vittima del dovere”. Una grande storia di passione, impegno e coraggio. Questo libro finalmente la racconta tessendo insieme con delicatezza e profondità le testimonianze dei colleghi e della famiglia, i documenti, oltre dieci anni di lavoro alla Criminalpol e la voce stessa di Mancini.
”La dismissione” è la storia dello smantellamento dell’acciaieria Ilva di Bagnoli, simbolo di una città che ha fallito la chance industriale. Rea indaga e sviscera un universo storico, dove fatica, lavoro, esaltazione, frustrazione, oltre all’impaludamento politico italiano, hanno creato un mostro popolato dallíumano. Il risultato di questa discesa negli inferi di un luogo tanto emblematico per l’Italia esplode nella narrazione di un mondo in irreversibile trasformazione, un mondo post, una colata di aneddoti e vicende travasata nell’altoforno della scrittura di Rea da Vincenzo Bonocore, operaio a Bagnoli prima e poi dismissore della fabbrica.
L’ALBERO DELLA BODHI
Secondo la tradizione buddhista, Siddharta Gautama meditò sotto questo albero, chiamato Ashwattha nel Tripitaka, quando giunse al Nirvana. La parola Ashwattha deriva dalla radice sanscrita shwa che significa domani, a particella negativa, e tha che significa “quel che resta”. Dunque “quel che non resta uguale domani”. QUARTA DI COPERTINA
GIANMARIO PUGLIESE
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DI GIANMARIO PUGLIESE