Terre di frontiera / Novembre 2016 - Numero 8 Anno 1

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Mrdoomits / 123RF Archivio Fotografico


Il giornalismo d’inchiesta per i beni comuni Il progetto Il giornalismo d’inchiesta per la tutela dei beni comuni intende sviluppare approfondimenti giornalistici specifici su 5 beni comuni: parchi, acqua, paesaggio, aria e terra. Con un filo conduttore: la tutela della salute. Ad ogni bene comune corrisponde un caso raccontato scelto insieme ai nostri sostenitori. Ci muoveremo in Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sicilia e Sardegna. La realizzazione delle inchieste avrà cadenza bimestrale. Le racconteremo su questo mensile e sul nostro sito con diversi strumenti, a seconda dell’argomento e della location: un reportage della lunghezza di 20 mila battute, una video-inchiesta di 5 minuti, la costruzione di un format audio su un totale di 3 minuti; un reportage fotografico; il racconto del backstage del reportage sui social network, l’organizzazione di una mostra fotografica permanente che metta in contrasto le immagini realizzate nel corso della costruzione dell’inchiesta con le bellezze del paesaggio fotografate. Le finalità del progetto richiamano i principi di rispetto e tutela dei beni comuni, che rappresentano valori universali e vitali del nostro quotidiano. Attraverso il racconto e le testimonianze degli intervistati sarà possibile avviare un percorso di educazione e sensibilizzazione ambientale, così come la creazione di una rete sensibile di cittadini, associazioni e comitati attivi nelle regioni italiane scelte come modello di approfondimento, che interagiscono su una piattaforma informativa comune. Al tempo stesso, fotografare - nelle varie situazioni - come i beni comuni parchi, acqua, paesaggio, aria e terra sono minacciati da attività non sostenibili, mettendoli in contrapposizione con le risorse pulite dello stesso territorio. Una contrapposizione fondamentale per far risaltare impatti e possibilità di altre economie.

Fai la tua donazione per sostenere il nostro progetto: http://buonacausa.org/cause/giornalismo-beni-comuni


l’editoriale

SCORIE DI ORDINARIA FOLLIA DI PIETRO DOMMARCO Questo numero presenta diverse novità. Sono due le nuove rubriche, in apertura di giornale, che ci accompagneranno anche nelle prossime edizioni. La prima - I danneggiati - è una raccolta di storie e testimonianze da quei territori nei quali l’impronta della grande e sporca industria e dei progetti energetici è marcatamente drammatica. Per l’ambiente e per le economie locali. La seconda - Terre di migranti - rappresenta, invece, un esperimento narrativo. Ogni mese, metteremo a nudo i due volti della medaglia degli esuli, dei rifiutati e degli esclusi del nostro martoriato Paese. L’Italia di chi va e di chi viene. L’Italia di chi prende tempo su questioni importanti, di chi disattende gli esiti referendari e di chi aspetta. L’approfondimento di novembre - Scorie di ordinaria follia - spiega, infatti, l’attesa che c’è intorno alla pubblicazione della Cnapi, la Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee ad ospitare il deposito nazionale dei rifiuti radioattivi. Nel 1987 i cittadini italiani si sono

espressi con chiarezza: no al bubbone nucleare. Ma si è andati avanti. Oggi, l’unica notizia certa è che il 20 luglio dello scorso anno l’Ispra ha consegnato ai ministeri dello Sviluppo economico e dell’Ambiente la mappa delle regioni potenzialmente a rischio. Quali sono? Lo sapremo probabilmente ad ottobre del 2017. Strategie, trasparenza e riforma costituzionale permettendo. Perché l’ombra dell’accentramento del potere decisionale e il diktat della supremazia nazionale potrebbero cambiare le carte in tavola. Secretare. Avremo un deposito - al di là di qualche ipotesi dobbiamo affermare <<chissà dove>> - che costerà 1,5 miliardi di euro (650 milioni di euro per localizzazione, progettazione e costruzione del Deposito Nazionale, 700 milioni di euro per infrastrutture interne ed esterne, 150 milioni di euro per realizzazione Parco Tecnologico). Costi a nostro carico. Da addebitare sulla bolletta. Non ospiterà le scorie militari. Per queste potrebbe esserci un secondo

deposito. Ospiterà, invece, le scorie civili. Nel complesso 90 mila metri cubi di rifiuti radioattivi: 75 mila metri cubi a bassa e media attività e 15 mila ad alta attività. Una buona parte di questi rifiuti derivano dall’esercizio e della smantellamento degli impianti nucleari per la produzione di energia elettrica e dagli impianti nucleari di ricerca. Qual è la situazione pregressa ed attuale di queste infrastrutture in attesa di decommissioning? Per rispondere a questa domanda siamo stati a Sessa Aurunca, in Campania, e abbiamo realizzato un reportage esclusivo sulla centrale nucleare del Garigliano. In Basilicata, invece, abbiamo ripercorso la controversa storia della Trisaia di Rotondella in provincia di Matera, ricordando anche la manifestazione dei centomila di Scanzano Jonico, che nel 2003 si opposero alla realizzazione del deposito unico nazionale. Uno straordinario evento da ricordare in occasione del consueto anniversario che cade proprio a novembre. Perché, rassegnarsi è peccato.


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RIFIUTI CONNECTION

SCORIE DI ORDINARIA FOLLIA

L’INTERVISTA DEL MESE

ROBERTO MEZZANOTTE Esperto di nucleare e radioprotezione

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I DANNEGGIATI

C’ERA UNA VOLTA LA MASSERIA DEL CARMINE

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TERRE DI MIGRANTI

L’ITALIA DI CHI VA E DI CHI VIENE

IL REPORTAGE

SOTTO MENTITE SCORIE

SOCIETÀ

#NONUNADIMENO MULTINAZIONALI

L’INVERNO DEL LIBERO SCAMBIO PANORAMI

NELLA TERRA DI FLAIANO

Terre di f Direttore responsabile Pietro Dommarco / twitter @pietrodommarco Caporedattrice Emma Barbaro

mensile indipendente

numero 8 anno 1 / novembre 2016

Un progetto di Associazione Culturale Ossopensante Codice Fiscale 97870810583 Sede legale: Via Montello 30 - 00195 Roma www.ossopensante.org

Terre di frontiera Testata registrata il 23 dicembre 2015 al n.359 del registro della Stampa del Tribunale di Milano www.terredifrontiera.info

Hanno collaborato Antonio Bavusi Alessio Di Florio / twitter @diflorioalessio Leonardo Palmisano / twitter @LPalmisano Francesco Panié / twitter @francesco_panie Gianmario Pugliese / twitter @Tripolino00 Felice Santarcangelo / twitter @furra99 Giorgio Santoriello / twitter @PuntoebastaBas Daniela Spera / twitter @Spera_Daniela Pasquale Stigliani / twitter @PasqualeStiglia Lara Tomasetta / twitter @laratomasetta


in questo numero

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È SEMPRE LA SOLITA SCORIA L’EREDITÀ NUCLEARE LA GESTIONE DEI RIFIUTI E I DOCUMENTI DEL GOVERNO COME E SU COSA IL GOVERNO NAVIGA A VISTA L’ITREC E LE BARRE DI ELK RIVER

RASSEGNARSI È PECCATO TERRA DI NESSUNO E INFORMAZIONE PER POCHI

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MERIDIANO

LIBRI

RUBRICHE

LA FOTO DEL MESE

frontiera Foto di copertina Mrdoomits / 123RF Archivio Fotografico Diritto d’autore: http://it.123rf.com/profile_mrdoomits Impaginazione Ossopensante Lab

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Murales antinucleare in Basilicata, 1975 / Foto Archivio Ola (Organizzazione lucana ambientalista)


fotoinchiesta


C’ERA UNA VOLTA LA MASSERIA DEL CARM DI DANIELA SPERA

Quando il 9 febbraio del 2008, nel corso del convegno “Diossine Uomo Taranto”, l’associazione “Taranto Viva” presentava gli effetti della diossina nella città di Taranto, per la prima volta si cominciò a parlare di strage silenziosa. Non di una seconda Seveso, dunque, ma di un avvelenamento subdolo e drammatico negli effetti sulla popolazione tarantina. Un’ipotesi formulata dall’associazione Taranto Viva, costituita da medici e ricercatori del più autorevole laboratorio italiano di ricerche sui microinquinanti dell’epoca: l’Inca di Venezia. I dati, presentati con grande cautela, risultanti dalla ricerca di diossina nel corpo di dieci volontari tarantini, illustravano con dovizia di particolari - tabelle, grafici e citazioni dei più importanti studi internazionali sulla diossina.

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Il 10 febbraio del 2008 il Corriere del Giorno riporta: <<Taranto Viva ha presentato i risultati dell’esperimento condotto su dieci tarantini. Acceso dibattito tra Stefàno e il direttore dell’Arpa Assennato. Le tessere della vertenza ambientale ci sono tutte, dai dati sanitari a quelli ambientali ora bisogna iniziare a comporre il mosaico. Fare ordine, costruire una rete, giocare in squadra sembra facile ma non lo è. Un anno fa, era il 13 febbraio del 2007, i vertici dell’Ilva furono condannati in primo grado per inquinamento ambientale. Un processo costruito faticosamente, vista la complessità della materia, attraverso perizie e acquisizione di documenti. I pubblici ministeri Franco Sebastio, procuratore aggiunto, e Alessio Coccioli, illustrarono in una lunga e articolata requisitoria modalità e conseguenze dei reati contestati all’imprenditore Emilio Riva e al direttore dello stabilimento siderurgico tarantino Luigi Capogrosso. Ieri il procuratore aggiunto Franco Sebastio, intervenuto durante il dibattito insieme al sostituto procuratore Antonella Montanaro, ha ricordato che quella requisitoria fu tenuta in un’aula vuota. Un vuoto che ancora oggi pesa sulla coscienza di chi, accettando di firmare un atto d’intesa che

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prevedeva il ritiro o la non costituzione di parte civile da parte di Regione, Comune e Provincia nei processi contro la grande industria, ha privato la città del diritto di essere rappresentata e di chiedere un adeguato risarcimento per il danno che ha subìto e che continua subìre. Volendo fare i conti fino in fondo, Sebastio ha anche sottolineato che il pool di magistrati impegnati nella lotta all’inquinamento si costituì 30 anni fa e che la prima sentenza contro “una grande industria” per sversamenti di sostanze tossiche in Mar Grande risale al ’79, mentre la prima sentenza legata allo spargimento di polveri provenienti da camini e parco minerali della stessa “grande industria” è datata ’82. Aggiungeva Sebastio: “Noi interveniamo quando il reato è già stato consumato e in più di qualche occasione abbiamo percepito un clima non propriamente favorevole nei nostri confronti”.>> Quattro giorni dopo il convegno, Fiom-Cgil dichiara che <<per queste ragioni al fine di non generare un locale spettro Seveso o Bopal occorre una rapida e coordinata azione tesa ad una indagine a più ampio raggio per luoghi e classi di campionamento, fra Enti locali, Università, Asl, Arpa, Organi tecnici, deputati al controllo bio statistico del territorio che


i danneggiati

MINE diano segnali di trasparenza alla fine di tale lavoro. Si reputa scontato in tale procedimento di formazione cognitiva una partecipazione delle grandi industrie in forma attiva e spontanea, pena gravi dubbi sul proprio operato. Appare opportuno da parte nostra segnalare senza ipocrisia che tale azione deve partire nel controllo delle fasce più a rischio quali bambini, anziani e i lavoratori che operano nei siti potenzialmente produttivi di tale infausta sostanza.>> (Fonte PeaceLink) Le analisi in Procura Il 27 febbraio del 2008 PeaceLink consegna alla Procura di Taranto le analisi effettuate dal laboratorio Inca di Lecce su un pezzo di formaggio pecorino. Le analisi sono state richieste da un socio dell’associazione che da tempo si rifornisce da un pastore per procurarsi prodotti artigianali e “genuini” (in particolare latte e formaggio). Il tutto in seguito a notizie apparse sulla stampa locale circa greggi che hanno pascolato in aree prossime alla zona industriale. I risultati non sono conformi alla normativa in vigore: la somma di diossine e PCB supera di 3 volte i limiti di legge. Da quel momento in poi la vita di tantissimi allevatori cambia radicalmente. Si susseguono

poi denunce da parte di vari enti e associazioni che, nel 2010, portano alla richiesta di un incidente probatorio finalizzato ad individuare la fonte. L’enorme pressione mediatica esercitata da chi sostiene anche un controllo epidemiologico - il comitato “Taranto libera” in primis, divenuto poi “Legamjonici” - spinge i magistrati a commissionare anche una perizia epidemiologica che si affianchi a quella chimicoambientale. Quell’enorme polverone sollevato provoca però ulteriori danni alla già fragile economia tarantina. I controlli a tappeto dell’Asl portano all’abbattimento di numerosi capi di bestiame, distruggendo attività agricole tramandate di generazione in generazione. Danni sanitari, danni all’agricoltura e danni al turismo. L’acciaio no, quello continua a mietere distruzione e a creare profitti indisturbato. Perché solo chi denuncia disturba.

La storia

La storia che vi stiamo per raccontare narra il dramma vissuto dalla famiglia Fornaro, famiglia di allevatori. Un esempio di come le conseguenze di attività industriali inquinanti siano immediatamente quantificabili in termini di perdite economiche reali, di danno all’agricoltura e all’immagine di un territorio che, oggi, è in ginocchio sotto l’aspetto sanitario e che tenta faticosamente di risollevarsi. Perché se da un lato è difficile stabilire il nesso di causalità tra inquinamento industriale e patologie, è altrettanto difficile, ma non impossibile, dimostrare la fonte di contaminazione alimentare, quando questa si bio-accumula e presenta delle caratteristiche specifiche chimico-fisiche. A partire dal 2010 è stato questo lo scopo dell’incidente probatorio richiesto dalla Procura della Repubblica di Taranto e al quale, anche chi scrive, ha avuto l’onore e l’onere di partecipare e dunque può raccontare. Non a caso Vincenzo Fornaro era presente nel corso dei sopralluoghi, perché parte lesa. Si dedicherà un capitolo a parte sulla storia dell’inchiesta sull’Ilva. In questo numero daremo voce ai danneggiati.

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Tradizioni antiche L’attività dei Fornaro andava avanti dall’inizio del Novecento. Cominciata dal capostipite della famiglia. Vincenzo e suo fratello sarebbero stati la terza generazione di allevatori. L’attività era incentrata sull’allevamento ovicaprino con produzione di carne e prodotti caseari quali ricotta e formaggio. A questo si affiancava la lavorazione e la semina dei terreni prevalentemente per colture di cereali quali grano ed orzo. Attività abbandonata. Continua ad essere effettuata la raccolta delle olive e la relativa trasformazione in olio. La diossina non penetra all’interno delle olive e non se ne trova traccia nell’olio. Tutto si è concentrato prevalentemente sul rischio alimentare correlato ad attività di allevamento. Il Dipartimento di prevenzione ha avviato, dunque, una serie di analisi per capire lo stato di contaminazione degli animali nel raggio di 20 chilometri di distanza dalla zona industriale. Partendo dall’analisi della carne nei primi sei allevamenti colpiti dal vincolo sanitario, sono stati riscontrati valori oltre il limite in tutti e sei. Poi, in seguito all’emanazione di linee guida per i controlli da parte della Regione, le analisi si sono limitate al solo latte. Qualora il valore si fosse avvicinato al limite fissato dalla legge si sarebbe passati ad analizzare la carne. I dirigenti Ilva, nell’immediato, hanno reagito smentendo la possibilità che la contaminazione fosse dovuta alle loro emissioni, minacciando di querelare chiunque si fosse permesso di fare un simile accostamento. Nel 2008, a causa della contaminazione dei terreni e quindi degli animali che vi pascolavano, la famiglia

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Fornaro è stata costretta ad abbattere ben 605 capi di bestiame. Nella loro carne erano stati riscontrati valori di diossina e PCB anche 30-40 volte oltre i limiti consentiti dalla legge. La mattanza è avvenuta esattamente l’11 dicembre 2008. Il danno economico subìto si aggira intorno ai 200mila euro solo per il valore degli animali abbattuti, a cui va sommato il nucleo cessante dovuto alla perdita dell’attività e, soprattutto, all’impossibilità di poter riprendere l’attività dato

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che l’inquinamento persiste, così come il divieto di pascolo nel raggio di 20 chilometri di distanza dalla zona industriale. Del resto, sarebbe costato troppo nutrire quel gregge con mangimi artificiali. I Fornaro hanno avanzato una richiesta di risarcimento pari a 5 milioni di euro. Ma dalla Regione Puglia hanno ottenuto solo un ristoro spese di 39 mila euro per tenere in vita, al chiuso e in condizioni crudeli, i capi di bestiame da marzo (quando scoppia il caso) a dicembre del 2008 (quando sono stati prelevati ed


Ilva di Taranto Foto di Daniela Spera

abbattuti). <<Il governo non ci ha minimamente sostenuti anzi ha continuato a fare decreti su decreti salvaguardando solo la produzione ed ignorando completamente chi quei danni li ha subiti. Anzi, la Regione Puglia, nella persona dell’allora Presidente Nichi Vendola ha sempre sostenuto che i danni sarebbero stati pagati da chi ha causato l’inquinamento, una volta accertato. Ma quando si è dimostrata la responsabilità dell’Ilva l’intera classe politica si è schierata a favore della stessa>>, afferma Vincenzo,

voce coraggiosa di questa triste vicenda. C’è chi ha perso il posto di lavoro In azienda, tra fissi e stagionali, lavoravano circa venti persone. Nessuno di loro oggi continua a lavorare nella masseria del Carmine, di proprietà dei Fornaro, che, al momento dell’esplosione del caso, avevano progettato un ampliamento della loro attività: la realizzazione di uno spaccio aziendale di vendita dei prodotti realizzati

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“genuinamente”. E la genuinità era garantita dai controlli biologici. Ma nessuno degli organi di controllo aveva previsto di effettuare dei controlli chimici. Semplice dimenticanza? Per questo motivo la famiglia Fornaro era di fatto la prima consumatrice dei propri prodotti. Lo ribadisce Vincenzo: <<Credo che nessuno al mondo più di noi potesse dire di mangiare un alimento genuino. Lo producevamo noi, quindi eravamo convinti della qualità del prodotto, senza sapere che mentre noi lavoravamo in maniera genuina c’era chi, a nostra insaputa, avvelenava terreni ed animali.>> Cosa ha provato in quei mesi la famiglia Fornaro, prova a

spiegarcelo sommessamente ancora Vincenzo quando dice che <<lo stato d’animo della nostra famiglia in quei giorni era di totale scoraggiamento. Vedevamo vanificare gli anni di lavoro fatti dal nonno Vincenzo prima e da nostro padre poi. Non vedevamo un possibile futuro sui nostri terreni. Ma la sera, subito dopo aver caricato sul camion l’ultima capra, ci siamo ritrovati tutti seduti intorno al camino per decidere cosa fare. La decisione è stata unanime: rimanere in questa azienda, ricominciare una nuova attività ma soprattutto lottare per vedere riconosciuti i nostri diritti. La grande forza è stata l’unità della nostra famiglia.>>

La riconversione totale Oggi la famiglia Fornaro è impegnata in un progetto di riconversione totale dell’azienda agricola che è diventata nel tempo un luogo simbolo della lotta all’inquinamento ed anche contenitore culturale, ospitando presentazioni di libri, spettacoli teatrali e serate musicali. Ha aperto un maneggio dove si svolgono corsi di equitazione, ippoterapia e spesso si organizzano escursioni in Gravina per far conoscere la bellezza e la storia di questi luoghi dalle atmosfere magiche. Inoltre, da tre anni è partito il progetto sulla coltivazione della canapa con l’obiettivo di bonificare i terreni in modo naturale, a basso costo e

i danneggiati Una raccolta di storie e testimonianze da quei territori nei quali l’impronta della grande e sporca industria e dei progetti energetici è marcatamente drammatica. Per l’ambiente e per le economie locali. Inviateci le vostre storie a: redazione@terredifrontiera.info

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soprattutto senza modificare lo stato dei luoghi. Si tratta di un processo di fitobonifica con conseguente miglioramento della fertilità del suolo, grazie alla capacità di assorbimento da parte delle sue radici dei componenti organici o inquinanti presenti nel terreno. Tali sostanze vengono trasformate in metaboliti meno pericolosi, oppure catturate e recuperate. Ed ha sicuramente enorme interesse ed utilità l’applicazione di questo metodo, in diversi contesti, specie in zone con attività dismesse ed ex siti industriali. Quando però la fonte è ancora attiva non c’è alcuna operazione di bonifica che possa rivelarsi efficace. Ma il business delle bonifiche è un

capitolo a parte. Un’attrattiva per attività illecite da tenere sotto stretto controllo da parte delle autorità competenti e della cittadinanza attiva che spesso si sostituisce agli organi di vigilanza. La famiglia Fornaro dunque vuole provarci, propone, reagisce. I processi in corso a Taranto e presso la Corte europea di Strasburgo, forse, renderanno un po’ di giustizia. Intanto, ad oggi, gli unici ad aver visto sfumare le proprie risorse economiche sono stati gli allevatori, gli agricoltori e i mitilicoltori, mentre il sindaco di Taranto, Ippazio Stefàno, spalleggiando i ministeri di Ambiente e Salute dichiara che a Taranto non c’è emergenza sanitaria. Una beffa irriverente

nei confronti di quanti continuano ad ammalarsi a causa dell’inquinamento.

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terre di migranti

L’Italia di chi va e di chi viene

Terre di migranti è una rubrica a specchio, doppia, incentrata sul va e vieni, su questo strano fenomeno che partorisce la società italiana da qualche anno a questa parte: persone che vanno via e persone che arrivano. Il mix di queste dinamiche modifica la demografia, i rapporti di forza dentro il mercato del lavoro, la struttura economica e politica locale e nazionale. Proveremo a raccontare, di volta in volta, una doppia storia: un partente e un arrivante. I due volti della medaglia degli esuli, dei rifiutati e degli esclusi del nostro martoriato Paese.

La rubrica è curata da Leonardo Palmisano (1974, Bari), scrittore e sociologo. Presiede la cooperativa editoriale Radici Future Produzioni. Esperto di lavoro, migrazioni e criminalità, è autore di inchieste, saggi e romanzi. Tra le altre cose ha pubblicato Ghetto Italia. I braccianti stranieri tra caporalato e sfruttamento (Fandango Libri) con cui ha vinto il premio Rosario Livatino 2016, e, con Annalisa Gadaleta, Conversazione a Molembeek (Radici Future). Ha scritto per AlfaBeta2, Left, NarcoMafie, Lo Straniero, Terre di frontiera. È tra i redattori del blog Sul Romanzo.

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LA FISICA NON DÀ IL PANE. MUSTAFÀ E MASSIMO DI LEONARDO PALMISANO

MUSTAFÀ Mustafà è uno studente di fisica di Dakar. Un ventottenne molto alto e molto sereno. Lo incontro a Brindisi, in un pomeriggio d’autunno umidito da una pioggerellina insulsa e fastidiosa. Brindisi è una città morta, uccisa dall’industria tardonovecentesta almeno quanto le tangenti prese dagli amministratori locali. Brindisi è la prefigurazione di quel che avverrà molto presto a tutto il Sud: depressione, corruzione, disoccupazione, solitudine e Sacra Corona Unita. Per questo mi fa piacere essere illuminato dal sorriso radioso di Mustafà, un venditore senegalese di braccialetti, un ambulante di un metro e novanta, magro e bello, che prova a sollevarmi dalle paturnie con inestinguibile positività. <<Stai su, amico mio. Pensa sempre positivo, tutto cambierà in meglio>>, dice quando mi approccia nei pressi della marina. Davanti a noi tre navi militari e un catamarano da milionari oscillano mollemente nel porto. <<Ne sei convinto?>>, gli domando. <<Eh!>>, risponde. <<Non ti devi preoccupare. C’è la vita!>> Mustafà è arrivato in Italia un anno e mezzo fa, dopo aver mollato l’università perché sua madre – è orfano di padre – non ce la faceva a pagargli

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gli studi. Era bravo, una specie di promessa della fisica senegalese. <<Adesso mi esercito in matematica con questi>>, dice mostrandomi decine di braccialetti di cuoio e di lattice. Li importa dal Senegal, glieli invia sua sorella. Un’economia familiare di sussistenza tipica del mondo globalizzato. Lui non è di quelli che vanno a Napoli a comprare roba contraffatta nei quartieri Spagnoli. È scappato da Milano per non cadere nella trappola dello spaccio ed è sceso in Salento, dove non sottostà al governo della Sacra Corona ma divide una stanza nel centro di Lecce con un connazionale, anch’egli dedito alla vendita di strada. <<Dev’essere difficile, la fisica>>, gli dico. <<La fisica è come Dio, governa tutto>>, risponde sorridendo ancora. <<Anche le disgrazie?>> <<Certo. Per questo ti dico che devi avere fede. Voi italiani dovete avere fede, perché prima o poi tutto cambia. Tutto>> Qualche anno fa, prima che a Gorino trecento italiani avessero scacciato dodici donne immigrate, gli avrei dato ragione. Adesso no. Non più. L’Italia è cambiata in peggio. L’Italia è più vicina all’Ungheria del fascista Orban di quanto si possa pensare. Da nord a

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sud una ventata di radicato razzismo sta prendendo piede, e l’ottimismo di Mustafà ha i giorni contati. <<Perché non vai via da qui?>>, gli domando. <<Per ora no. Voglio provare ancora a fare qualcosa, ma so che senza di voi, senza gli italiani, non ce la posso fare>> Annuisco. Ha ragione da vendere. La ragione di chi assiste ineluttabilmente a una sconfitta epocale. <<Potresti andare in Francia, a studiare fisica>> <<Ci sto pensando. O lì o in Germania, se Dio vuole>> In Germania, dove vive un altro fisico. Un italiano. Un mio amico. <<Adieu, mon ami>>, mi saluta. <<Vendimi un bracciale, dai>>, lo esorto e lui mi infila a un polso un braccialetto di lattice giallo, verde e rosso, sul quale è stampato il nome del suo Paese: Senegal. <<Grazie>>, gli dico porgendogli cinque euro. Non li accetta. Si schermisce. <<Stasera i conti non mi torneranno, ma sarò contento lo stesso>>, fa. Ci salutiamo sotto la pioggerellina di Brindisi, mentre alle nostre spalle il mare s’increspa contro la chiglia delle grigie navi da guerra.


MASSIMO Abbiamo fatto il liceo insieme, nella stessa scuola ma in classi diverse. Io ho scelto di frequentare Lettere, lui Fisica. Era talmente bravo, che non ci ha messo molto a farsi notare, a prendere dimestichezza con la sentenziosa serietà della ricerca. Prima ancora di laurearsi partecipava a simposi e convegni internazionali, apprezzato come una fulgida promessa italiana della scienza. Poi, il tracollo. Quando… <<Ho terminato un dottorato internazionale abbastanza prestigioso. Avevo mille promesse davanti, tutte interessanti, ma ho sperato fino all’ultimo che l’università italiana mi tenesse con sé>> <<E invece?>> <<Invece niente. Manco un arrivederci. Si sono giustificati dicendo che non c’erano fondi, che l’aria era amara per tutti… Poi son venuto a scoprire che la figlia di un docente del nord ha preso un bel posto da ricercatore dove dovevo esserci io. Senza titoli. Senza uno straccio di pubblicazione decente>> Massimo non mi racconta niente di nuovo, ma la sua commozione, perché davvero ci teneva a restare in Italia, mi porta a fare alcune considerazioni. La prima è che dentro le statistiche sugli italiani che vanno via, che

sono 107mila solo nel 2015, ci sono storie, affetti interrotti, delusioni cocenti e investimenti emotivi. Ci sono le separazioni e perfino un certo orgoglio nazionale tradito. <<L’Italia è vergognosamente ignorante. L’università non ci merita. Per questo noi ricercatori non torneremo mai qui>> Massimo lavora a Berlino, dove ha a disposizione uno stipendio come si deve, un alloggio, un pensatoio, un laboratorio e due collaboratori che sta allevando pur non essendo ancora un docente. Questo sistema sta migliorando le performance della ricerca tedesca e garantendo una tenuta del Pil. <<I tedeschi hanno capito che se investono in ricerca possono essere i migliori e competere meglio di chiunque altro>> È proprio così. La Germania drena cervelli che mette al servizio della ricerca. <<Dell’umanità del futuro. Perché io faccio fisica teorica. Cerco quello che ancora nessuno ha dimostrato, non so se mi sono spiegato>> Si è spiegato eccome. Massimo prova a dare solidità scientifica a ciò che all’apparenza può sembrare etereo, impalpabile. Quanto stonano le sue parole con la vile ricerca di praticità e soluzioni facili dei governi italiani.

<<Se tu avessi la possibilità…>> <<Non dirlo nemmeno per scherzo. In Italia non c’è il clima giusto per fare ricerca. Troppi baroni e poca fiducia nella scienza>>, risponde senza farmi terminare. <<Sto bene così>> Nessun rimpianto, quindi. Nessun desiderio di tornare. Ma soltanto l’amara constatazione di esser figlio di un Paese dove – che si venga o si parta - di Fisica campano soltanto gli immeritevoli vassalli del medioevo universitario.

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società

#NONUNADIMEN DI LARA TOMASETTA

Il 25 novembre è la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, istituita nel 1999 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Una data importante - scelta da un gruppo di donne attiviste, riunitesi nell’Incontro femminista latinoamericano di Bogotà nel 1981 - necessari a porre l’attenzione su un fenomeno che non ha più i tratti tipici di un’emergenza, ma che è diventato uno stato di fatto e riguarda Paesi e culture in modo trasversale.

Non è semplice definire i contorni di un fenomeno così esteso che tocca tutte le fasce di età, tutte le razze, tutte le culture - senza distinzioni di sorta - e che si manifesta in forme sempre diverse: dalla violenza fisica a quella psicologica esercitata nel quotidiano, che sfugge spesso anche al nostro controllo. Avremmo potuto raccontare le storie di chi ha vissuto e vive la violenza. Ma a quelle storie, probabilmente, ci siamo abituati come ad un suono flebile e fisso in sottofondo. Una scena muta. Questo dipende dalla nostra sensibilità e dal modo in cui, ogni giorno, ci confrontiamo con la realtà. Ma dalla realtà bisogna ripartire. Termini come “femminicidio” sono entrati di forza nel nostro vocabolario ed oggi pronunciamo quella parola con semplicità, velocità, passività. Quasi che possa essere quella sola parola ad aiutarci ad archiviare l’ennesimo caso. Per ridare valore alle cose è necessario partire dalle origini, dalle parole, dagli intenti. Questo è il senso del nostro breve viaggio intrapreso per ritrovare il senso del rispetto e del vivere civile. Un percorso che parte dalle persone, come quelle che fanno parte della Casa Internazionale delle Donne di Roma, che il 26 novembre hanno organizzato


NO un’importante manifestazione sotto il segno di tantissime associazioni sparse su tutto il territorio nazionale che si incontreranno a Roma al grido di #nonunadimeno. Un corteo formato da <<coloro che riconoscono nella fine della violenza maschile una priorità nel processo di trasformazione dell’esistente.>> Vittoria Tola, responsabile nazionale dell’Unione Donne in Italia (UDI) è tra le promotrici della manifestazione. Il quadro che emerge dal confronto è sconfortante: pochi, pochissimi i dati reali raccolti sulla violenza femminile in Italia, con statistiche ormai obsolete che non tengono conto del sottobosco di situazioni e casi nascosti che faticano a venir fuori con una conseguente forte pecca che connota l’improbabile sistema di misure preventive atto ad arginare e bloccare l’escalation del fenomeno. Tipologie di violenza <<La fenomenologia è molto complessa>>, racconta Vittoria Tola. <<Secondo il lavoro delle donne delle varie associazioni, dei centri antiviolenza e delle case rifugio, in base a quanto previsto dalla convenzione di Istanbul (che si lega alla dimensione dell’Onu, ndr) si parla di violenza di genere riferendosi a tutto quel

meccanismo che partendo dalla violenza fisica, passa attraverso la violenza economica, psicologica, lo stupro, fino a tutte le forme di libidine violenta, lo stalking, la molestia sessuale e quella sul lavoro. È un meccanismo che trova il massimo epilogo in quello che chiamiamo femminicidio.>> Scarsità dei dati Vittoria Tola continua a spiegare che <<non si riesce mai ad avere un quadro reale, significa anche che c’è una ingenuità o una non volontà di profilare una dimensione quantitativa e qualitativa della violenza in tutte le sue forme e questo diventa un alibi per non adottare le misure adeguate in materia di prevenzione e non solo. Secondo la Convenzione di Istanbul lo Stato ha l’obbligo di prendere tutte le misure necessarie per proteggere le donne e risarcirle, nonché tutelare i figli aiutandoli a superare situazioni complesse, la scarsità di dati non può essere la scusa per giustificare le poche azioni del governo.>> Un esempio fondamentale fornito dalla dottoressa Tola è quello che riguarda i Pronto Soccorso: <<Non c’è un codice nel pronto soccorso che definisce se la donna in questione e che non denuncia può essere dichiarata possibile vittima di violenza, dunque

non può essere identificata e sostanzialmente rientrare in nessun tipo di statistica, anche su questo piano si sta un po’ lavorando. Ma c’è ancora molto da fare.>> Ricerche Istat Vittoria Tola è stata un membro del comitato di ricerca responsabile di una delle poche raccolte dati in merito alla violenza. <<Negli ultimi anni le ricerche sono state solo due: una che risale ai primi degli anni 2000 grazie ad un finanziamento di circa 3 milioni di euro del dipartimento per le pari opportunità con la prima grande ricerca Istat, ovvero la famosa stima sulle donne che hanno subito violenza: ci sono voluti sei anni. Nessuno aveva mai definito dei parametri per fare una ricerca di quel tipo. La seconda ricerca è stata fatta con il governo Monti, con una raccolta dati ancora frammentata, differenti a seconda del soggetto istituzionale che li raccoglieva, persino le denunce erano differenti.>> Centri antiviolenza in Italia <<I centri antiviolenza sono quasi tutti nati da donne, pochissimi quelli pubblici. Tra pubblici, convenzionati e autogestiti si raggiungono circa le 175 unità. Molte sono le case rifugio, gli sportelli

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I NUMERI territoriali o ospedalieri, distribuiti in tutte le regioni. Le più efficienti sono ad oggi Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Puglia, ma anche Sicilia, Veneto, Liguria e Piemonte, almeno per quanto concerne il rapporto tra territorio e punti ascolto. Ma guardando al fabbisogno attuale la proporzione è ancora insoddisfacente. Con la legge n. 119 del 15 ottobre 2013 lo Stato è intervenuto per disciplinare il finanziamento di questi centri con lo stanziamento di fondi erogati a Regioni, Province e Comuni. Alcune Regioni hanno impegnato questi soldi ma non hanno finanziato tutti i centri. Un esempio è quello che riguarda l’area metropolitana di Roma, a suo tempo sguarnita di personale di programmazione. L’errore fondamentale da parte del Governo è stato la mancanza di lungimiranza: non si è pensato alla sostenibilità economica per gli anni futuri, generando incertezza per il futuro di queste strutture.>> Molto spesso l’efficienza vera di questi centri dipende anche dal rapporto di sostegno che si crea con le istituzioni locali. Quindi la differenza, ancora una volta, la fanno le persone. Denunciare <<Si denuncia molto più di prima, quello che è cambiato poco purtroppo è il sostegno a chi trova la forza e il coraggio per compiere questo passo: denunciare è molto faticoso e molto spesso si finisce per subire una vittimizzazione secondaria, sia quando ci si rivolge alle forze dell’ordine, sia quando ci si reca nelle strutture sanitarie. Bisogna ricordare che fino a poco tempo fa, le donne venivano colpevolizzate per atteggiamenti provocatori, oggi - molto lentamente -

L’accesso delle donne ai centri antiviolenza Nel 2015 gli accessi sono stati 1.297. Se a questo numero aggiungiamo il dato trasmesso, successivamente alla rilevazione, dal Comune di Foggia e relativo alle donne che hanno avuto accesso alle prestazioni del proprio centro antiviolenza - che è pari a 205 - emerge un dato complessivo, sia pure ancora parziale, di 1.502 accessi nell’anno 2014. Gli accessi del 2014, includendo anche il dato del centro antiviolenza foggiano, sono stati di poco superiori agli accessi registrati nel corso del 2013 (1.453). A fronte di qualche lieve decremento registrato da qualche Centro antiviolenza, si sono registrati accessi in territori nei quali sono stati avviati sedi/sportelli, a seguito del convenzionamento stipulato tra Ambiti territoriali e centri stessi. Come ci si rivolge Sul totale del dato rilevato emerge che il 72 percento delle donne si rivolge spontaneamente al centro antiviolenza mentre nel 28 percento dei casi avviene su invio da parte di altri servizi, percentuale in aumento rispetto al dato del 2013 (21 percento). Etnia delle vittime Sul totale degli accessi registrati dai centri antiviolenza, il 91 percento delle donne ha cittadinanza italiana, il 3,5 percento ha cittadinanza nei paesi UE, il 5,5 percento è di cittadinanza extra UE. Dati che sostanzialmente confermano quanto registrato nell’anno precedente. Età La fascia di età prevalente, e con molta probabilità anche quella più colpita dalla violenza, riguarda Le donne tra i 30 anni e i 49 anni (47,3 percento). Significative anche le percentuali delle donne nella fascia 18-29 anni (13,9 percento) e nella fascia 50-59 anni (4,2 percento). Rispetto all’anno precedente si registra un aumento percentuale significativo (+7 percento) nella fascia di età compresa tra i 30-49 anni e un decremento in termini percentuali per la fascia di età che parte dai 18 anni. Da approfondire il dato del “non dichiarato” (18 percento) che potrebbe fare riferimento alla difficoltà dei centri antiviolenza di ottenere informazioni nel corso del primo contatto telefonico da parte della donna. Stato civile Con riferimento allo stato civile risulta che le donne vittime sono prevalentemente coniugate (55,8 percento). Segue la percentuale relativa alla condizione di nubilato (20,2 percento) e la condizione delle donne separate e divorziate (17 percento). Autori delle violenze Gli autori delle violenze sono prevalentemente due: il partner (includendo coniugi e conviventi) e l’ex partner. Tipologie di autori che rappresentano complessivamente il 78,2 percento. Il partner attuale è l’autore di violenza nel


questo atteggiamento comincia a sgretolarsi.>> Iniziare un percorso giudiziario significa affrontare un periodo molto lungo fatto di attese, ingenti spese economiche, ansia, problematiche lavorative. Anche questo punto troverà maggiore sviluppo in seguito, ma risulta emblematica una frase pronunciata da una ragazza di Montalto, al termine delle sue vicende giudiziarie durate ben otto anni: <<Se avessi saputo cosa avrei affrontato non avrei mai denunciato.>>

<<Il ricorso alla sanzione penale rappresenta il segno del fallimento delle politiche di prevenzione>> Elisabetta Rosi, magistrato presso la Corte Suprema di Cassazione, ha avuto modo di seguire moltissime vicende giudiziarie legate alla violenza sulle donne. Il suo impegno oggi è rivolto anche alla formazione dei giudici che devono quotidianamente entrare in contatto con queste storie per aumentare il livello di sensibilità e fornire gli strumenti minimi necessari per trattare nel modo giusto situazioni delicate. Il 26 novembre, insieme a molte altre figure come filosofi, avvocati, magistrati e professionisti di varia natura, sarà protagonista di una intera giornata di formazione: un incontro volto innanzitutto ad assumere maggiore impegno e responsabilità verso la Convenzione di Istanbul. <<La sezione della Cassazione che si occupa di violenze sessuali segue un panorama molto vasto di casi, con numeri grandi ma anche con vicende che giungono dopo anni e anni

di dibattimenti in tribunale. Stando a quanto indicato dalla Convenzione di Istanbul dobbiamo considerare i processi penali come il segno del fallimento degli interventi dei governi in tema di prevenzione, soprattutto in quelle fasi che dovrebbero stoppare l’escalation della violenza.>> L’Italia e il recepimento della Convenzione di Istanbul <<Siamo lontani dagli obiettivi che la Convenzione si propone, qualcosa in questi anni è cambiato se pensiamo, ad esempio, alla maggiore sensibilità degli uffici degli inquirenti che si occupano dei casi di violenza, ma molto va ancora fatto a livello culturale: bisogna partire dalle scuole, dalla mentalità, dal rispetto della donna, dai rapporti interpersonali. Allo stato attuale il rispetto comunemente inteso è un concetto lontano: la circolazione delle nuove tecnologie ha permesso che fenomeni come la pedopornografia, un tempo molto limitati, oggi trovino nuovi bacini di diffusione grazie alla rete e allo scambio di video e foto con la deriva del ricatto e con l’implicazione di molti minori coinvolti nei processi>>. L’iniziativa del 26 novembre costituisce il primo passo per istituzionalizzare incontri di formazione. <<Il problema è che a questi incontri il pubblico e la platea è quasi sempre composto da sole donne, questo è già il segno del fallimento di ogni iniziativa. L’importante è capire che la cultura del rispetto è di tutti, trasversale, e un giudice deve essere sensibile con una cultura a tutto tondo. Nel suo patrimonio culturale deve sentire come un proprio

problema il conflitto tra l’uomo e la donna quando questo conflitto arriva a ledere diritti fondamentali come la libertà, la salute e la vita.>> Il tema della giustizia <<Le statistiche giudiziarie sono gender blind rispetto alle vittime, dunque non è possibile ottenere dati sensibili per i processi che giungono in Cassazione. Per quanto riguarda i tempi di questi processi va detto che la giustizia in Italia ha una velocità a macchia di leopardo: certamente la necessità di una giustizia rapida è un problema che va oltre i casi di violenza sulle donne ma che riguarda tutti i processi in Italia. La tematica della giustizia penale trova ancora altri spazi di discussione con problematiche ancora differenti: tutti i giudici devono avere una specializzazione minima che riguardi la violenza, altrimenti per questi casi si rischia di creare il solito ghetto di donne deputate a disciplinarli. L’uomo realizzato con se stesso è il primo a voler garantire questo rispetto. Dobbiamo ragionare con gli uomini e con i giuristi. I giudici non hanno sesso, devono portare una sensibilità universale cercando di allontanarsi dai propri pregiudizi, altrimenti sarebbe un mestiere come un altro. Ma non lo è.>> Con la Convenzione di Lanzarote dell’1 luglio 2010 - il primo strumento internazionale con il quale si prevede che gli abusi sessuali contro i bambini siano considerati reati - sono stati stabiliti tempi di prescrizione molto lunghi al fine di proteggere le vittime, ma la contro partita di questa decisione ricade nell’eventuale paradosso che si

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crea: molti tribunali hanno un numero incredibile di arretrati dei processi penali, quando i presidenti fissano le date dei processi danno priorità a quelli che si prescrivono prima, quindi questi processi vanno in coda.>>

<<Restituiamo la parola agli uomini. Inventiamo una grammatica nuova>> Il modello Puglia Anna Maria Vigilante è la referente regionale dei centri antiviolenza di Puglia. La task-force è stata istituita con la legge regionale n.29 del 2014 dalla Regione Puglia: una legge prodotta da un percorso condiviso tra tutte le associazioni di genere presenti sul territorio e dai centri antiviolenza. Possiamo parlare di “modello Puglia” poiché grazie alle intense collaborazioni tra le istituzioni ai vari livelli e le associazioni e le cooperative presenti sul territorio, si è riusciti ad implementare un modello di rete funzionante, ancora in fase di rodaggio, che però è già in grado di generare dati, accogliere e proteggere le vittime di violenza su tutto il territorio pugliese in modo equilibrato e bilanciato. Come ci spiega l’avvocatessa Vigilante, <<la legge ha disciplinato le figure professionali richieste nei centri ed il livello di esperienza necessario di queste ultime definendo i requisiti. Siamo riusciti a coprire tutti gli ambiti territoriale meno due che ancora non sono riusciti a stipulare convenzione. Con un meccanismo a cascata, l’ente locale stipula convenzione con l’associazione che a sua volta cede ai programmi antiviolenza regionali.>>

60 percento dei casi mentre gli “ex” continuano ad agire violenza nonostante la chiusura del rapporto (18 percento). I familiari risultano autori della violenza per l’11,3 percento dei casi; i colleghi/conoscenti per l’8 percento delle situazioni; gli sconosciuti per il 2 percento. Il dato del 2014 non si discosta molto da quello del 2013, se non per un lieve calo della prima tipologia (-2,5 percento) ed un aumento della tipologia “altro parente” (+2,5 percento) che conferma in ogni caso la dimensione inquietante della violenza agita all’interno delle mura domestiche. Da sottolineare che la tipologia “sconosciuti” risulta la più ridotta in termini percentuali. Questo potrebbe far ipotizzare che le donne che subiscono violenza da parte di estranei si rivolgono direttamente alle forze dell’ordine e alla magistratura, senza passare dai Centri antiviolenza. Dai dati raccolti emerge una percentuale significativa (27,1 percento) riferita ad “altri parenti” e una percentuale identica (13,6 percento) per le tipologie “coniuge” e “figlio”. Tipologia di violenza La tipologia di violenza prevalente nel 2014 è quella fisica (49,4 percento), seguita da quella psicologica (25,7 percento), dallo stalking (14,2 percento), dalla violenza sessuale (6,7 percento). La violenza psicologica sembra però accompagnare tutte le forme di violenza (54,3 percento), così come quella del ricatto economico (18,7 percento). Rispetto al 2013 aumentano lievemente le donne che subiscono violenza fisica e psicologica, mentre diminuiscono le violenze sessuali (-3 percento). Aumenta la violenza economica soprattutto come forma di violenza che accompagna le altre (+8,5 percento).

Rilevazione dell’Osservatorio regionale su dati del 2014 e riferiti ai 15 Centri antiviolenza, pubblici e privati Sostegno Donna (Associazione Alzaya, Taranto), La Luna (Coop. Soc. Artemide, Latiano), Crisalide (Comune di Brindisi), Giraffa (Associazione Giraffa onlus, Bari), Aporti (Coop. Soc. Aporti, Brindisi), Io donna per non subire violenza (Associazione Io Donna, Brindisi), Il Melograno (Ambito territoriale di Conversano), Il Melograno (Coop. Comunità San Francesco, Parabita), La Luna nel pozzo (Comune di Bari), Osservatorio Giulia e Rossella (APS Osservatorio Giulia e Rossella, Barletta), Renata Forte (Associazione di Volontariato Donne Insieme onlus, Lecce) Riscoprirsi (APS RiscoprirSi, Trani), Rompiamo il silenzio (APS Sud Est Donne, Martina Franca), Safiya (Associazione Safiya onlus, Polignano a Mare), Save (Coop. Soc. Promozione Sociale e Solidarietà, Trani)


Cosa prevede la legge regionale La Legge Regionale n.29/2014, su “Norme per la prevenzione e il contrasto della violenza di genere, il sostegno alle vittime, la promozione della libertà e dell’autodeterminazione delle donne”, prevede 4 linee: monitoraggio sul territorio, attuato a costo zero perché attivato dagli stessi funzionari regionali, i quali chiedono dei dati che inviano anche al Ministero. Nel 2015 è stato fatto il primo report statistico, il primo regionale e anche nazionale, sulla base di questo report sono state adottate le linee guida sulle violenza assistita, come comportarsi nei confronti di minori; programmi antiviolenza che finanziano gli ambiti territoriali, oggi ne sono stati ammessi 36 su 38. Sono stati messi a disposizione 1.515.000 euro con i quali si è avviato il programma; erogazione dei fondi. La Regione ha già attuato la linea C. A giugno 2016 è stata erogata la prima trance del 60% da parte della regione agli enti locali e questi ai centri antiviolenza; intervento e contrasto per il maltrattamento sui minori. Questa linea gode di un finanziamento indipendente pari a 1.434.000 euro. Funzionamento centri <<Dopo un anno e mezzo di incontri in Regione siamo riusciti a pervenire a questa legge, come un vero sforzo corale. Il fatto che all’epoca ci fosse un’assessore donna ci ha sicuramente aiutato. Secondo la legge approvata, le figure presenti nei centri sono un’avvocatessa, due psicologhe - di cui una psicoterapeuta -, un’assistente sociale e un’educatrice. Queste sono le figure richieste perché il

centro sia ritenuto adeguato e possa essere iscritto al registro regionale. Intorno ne gravitano altre, come ad esempio una sociologa. Tutti i centri hanno la funzione di ascolto, una volta che viene interpretata l’esigenza della vittima si stabilisce se c’è bisogno di un avvocato civilista o penalista, se la donna richiede l’ausilio di una psicologa ed altre misure simili. Se c’è pericolo di fuga viene allontanata con l’ausilio dell’assistente sociale.>> Dai dati pugliesi Anna Maria Vigilante conferma che ci ritroviamo di fronte ad un fenomeno trasversale, dove tutte le fasce d’età sono coinvolte. Anche i minori sono molto coinvolti e per questo motivo si è attivato anche il progetto Giada con l’ospedale psichiatrico di Bari. Le violenze più frequenti sono quelle domestiche e sono efferate, raggruppano qualunque tipo di violenza fisica, psicologica ed economica, sessuale. Moltissimo stalking tra ex coniugi tra i quali la situazione diventa più allarmante al ridosso della separazione.

comunque le stesse modalità di accoglienza e nonostante questo ci sono ancora difficoltà soprattutto nell’iter giudiziario. Anche la Vigilante parteciperà a #nonunadimeno, perché <<contarsi non è mai sbagliato. Sarà un’azione di sensibilizzazione con un messaggio rivolto ai nostri politici che continuano ad utilizzare la violenza sulle donne come uno strumento di propaganda, dobbiamo evitare che vengano creati ulteriori danni . Dobbiamo avere la capacità di riconoscere i nostri errori, il bello della rete è proprio il confronto. Ma un confronto universale, che sia anche e soprattutto con gli uomini. Restituiamo la parola agli uomini inventiamo una grammatica nuova.>>

Iter giudiziario <<Le indagini sono lunghissime, contrariamente a quanto previsto dalla legge, i processi durano troppo. Non viene utilizzato mai utilizzato lo strumento dell’incidente probatorio, questo vuol dire che la donna deve essere sentita all’interno del processo e così sottoposta ad un’ulteriore “violenza”. Lo dico con rammarico.>> Sono procedimenti che devono avere una corsia preferenziale. Tutti i soggetti coinvolti e gli attori della rete stanno tentando di seguire un percorso di formazione unica per utilizzare quasi lo stesso linguaggio o Terre di frontiera / numero 8 anno 1 - novembre 2016 / www.terredifrontiera.info

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È SEMPRE LA SOLITA SCORIA 24

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DI PIETRO DOMMARCO Il 20 luglio 2015 l’Istituto superiore per la

protezione e la ricerca ambientale (Ispra) ha consegnato ai ministeri dello Sviluppo economico e dell’Ambiente l’aggiornamento della relazione sulla proposta di Cnapi, la Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee ad ospitare il deposito nazionale di rifiuti radioattivi, disposta dalla Sogin spa. In virtù degli articoli 27 e 28 del decreto Legislativo n.31 del 15 febbraio 2010. Dal 20 luglio 2015 non c’è alcuna novità. La Carta ufficiale non è ancora pubblica e i diversi attori in gioco, tra strategie e mancanza di trasparenza, stanno trattando la questione deposito con la massima riservatezza. In ballo ci sono 90 mila metri cubi scorie parcheggiate nelle centrali nucleari in fase di dismissione, nei depositi provvisori e nei centri di trattamento. E tanti affari. Manca, in sostanza, il nullaosta del governo. Ma come siamo arrivati a questa situazione di stallo?


Un bel po’ di storia L’8 e il 9 novembre 1987 i cittadini italiani furono chiamati ad esprimersi, mediante tre referendum abrogativi promossi dal Partito Radicale, sul tema del nucleare. Un anno e mezzo dopo il disastro di Chernobyl in Ucraina. Abrogazione dell’intervento statale in caso di mancata concessione da parte del Comune del sito per la costruzione di una centrale nucleare, abrogazione dei contributi di compensazione agli enti locali ospitanti centrali nucleari o centrali a carbone, esclusione dell’Enel da qualsiasi forma di partecipazione alla costruzione di centrali nucleari fuori dai confini nazionali. Questi gli argomenti. Quorum raggiunto ed ampia vittoria del Sì. Italia definitivamente fuori dal bubbone nucleare? Vediamo cosa accadde in seguito. Tra il 1995 e il 1997, nel corso di due conferenze nazionali sul tema dei rifiuti radioattivi - organizzate dall‘Agenzia nazionale protezione ambiente (Anpa) si decide di istituire un tavolo composto da tutti i soggetti interessati alla dismissione degli impianti nucleari italiani. Tavolo che arrivò nel 1998, a luglio. Denominato “Tavolo nazionale per la gestione degli esiti del nucleare” vedeva la partecipazione di Enel, Anpa, Enea, Enti locali e

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sindacati. Fu il primo passo per l’approvazione, nel novembre del 1999, di un Accordo di programma tra Stato e Regioni <<riguardante la definizione e l’allestimento di alcune misure volte a promuovere la gestione in sicurezza dei rifiuti radioattivi prodotti in Italia, nel cui ambito era previsto anche un piano per individuare un sito per la realizzazione del deposito nazionale per i rifiuti radioattivi>>, nonché la stesura di alcuni <<indirizzi strategici per la gestione degli esiti del nucleare in Italia>>. Nasceva dunque un gruppo di lavoro. Successivamente il Parlamento approvò due appositi decreti. Il primo del 26 gennaio 2000 e il secondo del 7 maggio 2011, rispettivamente su <<individuazione degli oneri generali afferenti al sistema elettrico>> e <<indirizzi strategici ed operativi alla Sogin>>, già citata società per azioni, incaricata della gestione degli impianti nucleari e del loro smantellamento. Il gruppo di lavoro - composto da tre membri dei ministeri dell’Industria, dell’Ambiente e della Sanità e da quattro membri scelti dalla Conferenza dei presidenti delle Regioni e delle Province autonome - concluse le attività nel giugno 2001. Fu partorito un documento contenente soluzioni organizzative ed operative che l’Esecutivo di

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allora avrebbe dovuto prendere in carico. Ma il secondo governo Berlusconi non tenne conto delle soluzioni proposte e dichiarò lo stato di emergenza. Lo fece con un decreto ministeriale datato 14 febbraio 2003. Lo stato di emergenza fu sancito <<in relazione alle attività di smaltimento dei rifiuti radioattivi dislocati nelle regioni Lazio, Campania, Emilia-Romagna, Basilicata e Piemonte, in condizioni di massima sicurezza>>. La scelta di Scanzano Jonico Nel giro di nove mesi la situazione, per i territori e per una regione in particolare, prende una brutta piega. Meno di un mese dopo - siamo a marzo - arriva un’ordinanza urgente (la numero 3267) inerente <<disposizioni urgenti in relazione all’attività di smaltimento in condizioni di massima sicurezza, dei materiali radioattivi dislocati nelle centrali nucleari e nei siti di stoccaggio>>, mentre a novembre - per la precisione il 14 - spunta il decreto n.314/2003 che individua in Scanzano Jonico, in Basilicata, il luogo idoneo per la realizzazione di un deposito definitivo. La straordinaria protesta pacifica e costante di centomila persone e la richiesta di ritiro del decreto da parte della Conferenza dei Presidenti delle Regioni fanno saltare la decisione. Infatti, con


conversione in legge (la numero 368) del decreto n.314, Scanzano esce dalle mire di Governo e Sogin e si opta per un deposito nazionale per soli rifiuti di terza categoria. La data ultima per la sua realizzazione è fissata al 31 dicembre 2008. Il sito idoneo non fu mai individuato, così come il commissario straordinario per la gestione di tutte le operazioni. Se la legge n.368/2003 regolava la realizzazione di <<un deposito nazionale riservato ai soli rifiuti di III Categoria>>, la legge n.239/2004 disponeva l’individuazione di un sito <<per la sistemazione definitiva dei rifiuti di II Categoria>>. Ma

anche in questo caso non ci fu un prosieguo, tanto che il 31 dicembre 2016 fu dichiarato cessato lo stato di emergenza sui rifiuti radioattivi. 2007. Si comincia daccapo L’11 ottobre 2007 il ministero dello Sviluppo economico pensa ad un nuovo gruppo di lavoro che nasce - con le stesse componenti del precedente con decreto ministeriale del 25 febbraio 2008. I lavori si concludono a settembre dello stesso anno con la consegna di un rapporto finale, preso in esame dalla conferenza StatoRegioni. Il resto è storia più o meno recente. Come riporta un

documento della Camera dei deputati su decommissioning nucleare e deposito nazionale. Nell’ordine, nel 2010 si arriva all’emanazione del decreto n.31, con il quale sono stati <<confermati i compiti e le funzioni già svolte dalla Sogin per la disattivazione degli impianti e la messa in sicurezza dei rifiuti dagli stessi prodotti nella fase di esercizio, ampliandone le competenze anche alla localizzazione, realizzazione e gestione del Parco Tecnologico, comprensivo del Deposito Nazionale dei rifiuti radioattivi>>. Nel 2011, il 12 e 13 giugno, un referendum popolare abroga <<le citate

QUALI E QUANTI RIFIUTI RADIOATTIVI OSPITERÀ IL DEPOSITO NAZIONALE? 90.000 metri cubi complessivi 75.000 metri cubi di rifiuti radioattivi a bassa e media attività (la radioattività decade a valori trascurabili al massimo entro 300 anni), così suddivisi: 44.000 metri cubi derivanti dall’esercizio e dallo smantellamento degli impianti nucleari per la produzione di energia elettrica 12.000 metri cubi derivanti dagli impianti nucleari di ricerca 19.000 metri cubi dai settori della medicina nucleare e dell’industria 15.000 metri cubi di rifiuti radioattivi ad alta attività (stoccaggio temporaneo a lungo periodo di 50 anni), derivanti dallo smantellamento delle installazioni nucleari

Fonte: www.depositonazionale.it

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disposizioni concernenti la realizzazione di nuovi impianti nucleari sono state abrogate, mentre sono rimaste inalterate le norme relative allo smantellamento degli impianti nucleari esistenti e la realizzazione del Parco Tecnologico-Deposito Nazionale>>. A seguito del referendum viene soppressa l’Agenzia per la sicurezza nucleare. Le competenze passano pertanto all’Ispra. Nel 2012, il decreto-legge n.1 fissa <<i tempi per la definizione da parte della Sogin della Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee ad ospitare il Parco TecnologicoDeposito Nazionale>> chiarendo <<come la fonte di finanziamento per la realizzazione e la gestione del Parco Tecnologico e del Deposito Nazionale sia costituita dalla componente A2 della tariffa elettrica>>. Intanto, la direzione Energia della Commissione europea ha messo in mora l’Italia per non aver trasmesso entro la fine del 2015, ma solo agli inizi del 2016, il piano nazionale sulla gestione dei combustibili esauriti. Il welfare nucleare I problemi connessi allo smaltimento delle scorie di natura civile e militare non è soltanto un problema italiano. Ma accomuna i cittadini europei. In Francia - la nazione più nuclearizzata d’Europa - si registra una fortissima opposizione interna allo sviluppo e al mantenimento dell’energia nucleare. La rete francese “Sortir du nuclèaire” che conta 865 associazioni - da anni chiede al governo francese di uscire dal nucleare e non solo per ragioni di sostenibilità ambientale ma, soprattutto, economica. Quello nucleare

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è un sistema che va avanti con gli aiuti di Stato, civile e soprattutto militare. Solo in questo modo è possibile sostenere la grande opera pubblica del decommissioning. In sostanza c’è una filiera vera e propria che prevede operazioni di mantenimento in sicurezza degli impianti, decontaminazione e messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi, trattamento e trasformazione dei rifiuti, riprocessamento per l’ottenimento di nuovo materiale riutilizzabile, generazione di nuovi rifiuti nucleari che prevedono costi di trattamento, gestione e messa in sicurezza. È un cerchio continuo che si apre e si chiude. E qualcuno di guadagna. Sogin prima di tutti. La Sogin e i costi del deposito La Sogin, come è possibile leggere sul sito ufficiale, è una società pubblica interamente partecipata dal ministero dell’Economia. Il braccio strategico in materia del Governo italiano. <<Operativa dal 2001, diventa gruppo nel 2004 con l’acquisizione della quota di maggioranza del 60 percento di Nucleco spa, l’operatore nazionale qualificato per la raccolta, il trattamento, il condizionamento e lo stoccaggio temporaneo dei rifiuti e delle sorgenti radioattive provenienti dalle attività di medicina nucleare e di ricerca scientifica e tecnologica>>. Per le sole attività di smantellamento la Sogin ha stimato, per il periodo che va dal 2011 al 2021, un costo di 1,5 miliardi, con una media annuale di circa 120 milioni l’anno. Il deposito nazionale e il Parco Tecnologico valgono invece 2 miliardi di euro. Nel mese di marzo 2016 il ministero dello Sviluppo economico

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e quello dell’Ambiente hanno redatto un rapporto preliminare, propedeutico alla Vas (Valutazione ambientale strategica), del <<Programma nazionale per la gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi>>. Che oggi, dal sito del ministero dell’Ambiente, risulta non più scaricabile. Il documento mette in evidenza proprio i costi. <<Gli investimenti previsti per la localizzazione e la realizzazione del parco tecnologico, comprensivo del Deposito Nazionale, ammontano complessivamente a 1,5 miliardi di euro, così ripartiti: 650 milioni di euro per localizzazione, progettazione e costruzione del Deposito Nazionale; 700 milioni di euro per infrastrutture interne ed esterne; 150 milioni di euro per realizzazione Parco Tecnologico>>. A questi investimenti andrebbe sommato 1 miliardo di euro per progetti di ricerca per le attività di individuazione e realizzazione del deposito che ai sensi dell’articolo 24, comma 4, del decreto-legge n.1/12, convertito con modificazioni dalla legge 27/2012 - sarebbero finanziate dalla componente A2 della bolletta. La Sogin spa, in base al bilancio di esercizio 2015, ha registrato <<ricavi da prestazioni connesse con le attività nucleari pari a 216,5 milioni di euro>> che <<presentano un incremento complessivo di 18,1 milioni di euro rispetto allo scorso esercizio, per effetto principalmente dell’incremento di ricavi derivanti dal riconoscimento dei costi commisurati all’avanzamento del decommissioning e dei costi per il riprocessamento e lo stoccaggio del combustibile.>> Il 3 agosto 2005 il ministero


dello Sviluppo economico le ha anche affidato il coordinamento generale delle attività di <<smantellamento dei sottomarini nucleari e la gestione dei rifiuti radioattivi e del combustibile irraggiato>> degli stessi, in virtù di un accordo sottoscritto tra Italia e Russia il 5 novembre 2003 e ratificato con la legge n.160 del 31 luglio 2005. Il progetto si chiama Global Partnership, varato dal G8 del 2002 di Kananaskis in Canada. Le ipotesi di localizzazione del deposito nazionale La mappa che circola negli ambienti “No Nuke” è sempre la stessa. Con qualche

variazione sul tema. Una cartina elaborata nel 2000 mese in più, mese in meno - dal gruppo di lavoro per la gestione in sicurezza dei rifiuti nucleari. Tratteggia le <<Aree potenzialmente idonee per il deposito nazionale>>. Un po’ di Piemonte, un po’ di Abruzzo e un po’ di Calabria. L’area settentrionale del Lazio e la Toscana. Le Murge, tra Puglia e Basilicata. Ma c’è di più perché nel 2010 un’altra mappa, molto simile - smentita dalla Sogin - scende più in profondità annoverando una lista di 52 Comuni. Confermate il Piemonte, la Toscana, il Lazio, La Puglia e la Basilicata, con la new entry Lombardia. I

luoghi sono stati individuati secondo i criteri dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) adottati dalla Sogin, sulla base degli standard utilizzati dalla task force Enea e del gruppo di lavoro del 2008. All’appello manca la Sardegna che, invece, secondo l’onorevole Mauro Pili sarebbe la regione più accreditata. <<La Sardegna secondo Ispra e Sogin è la terra più sicura per le scorie nucleari>>. Per l’onorevole Pili il passe-partout sarebbe rappresentato dalla riforma costituzionale necessaria per far scattare la clausola di supremazia nazionale.

Aree potenzialmente idonee per il deposito nazionale Gruppo di lavoro per la gestione in sicurezza dei rifiuti nucleari, 2000

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Manifestazione contro il deposito unico. Scanzano Jonico, 2003 / Foto Archivio Ola

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L’EREDITÀ NUCLEARE DI ANTONIO BAVUSI

Dove finiranno gli oltre 90mila metri cubi di rifiuti nucleari attualmente dislocati presso le centrali nucleari in fase di dismissione, i centri di trattamento e i depositi provvisori in Italia? Lo sapremo, forse, dopo il voto del Referendum costituzionale del 4 dicembre. Solo nelle centrali nucleari italiane (chiuse dopo il Referendum del 1987) si stimano 40mila metri cubi di scorie radioattive da stoccare nel deposito unico. A questi quantitativi vanno aggiunti dai 2mila ai 2500 metri cubi di rifiuti radioattivi di origine medica e sanitaria. Poi ci sono i rottami metallici, i parafulmini ed i materiali contaminati prodotti da ospedali e laboratori, pubblici e privati, che producono ogni anno oltre 500 tonnellate di nuove scorie. Sarebbero un centinaio

le aree potenzialmente idonee - in base ai parametri Euroatom - riportate nella Cnapi, ovvero la Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee ad ospitare il deposito unico. Una carta ancora segreta. Secondo alcune voci di corridoio, non confermate ufficialmente, i depositi potrebbero essere anche due.


DEPOSITO DELLE SCORIE I COMUNI SONO GIÀ IN S La Carta pare già validata dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), ha messo in allerta numerosi Comuni (una cinquantina quelli idonei, che verrebbero ridotti ad una decina se si prende per buona la condizione che il deposito dovrà essere ubicato vicino ad un Parco tecnologico). I sindaci stanno rispolverando le vocazioni antinucleariste riposizionando all’ingresso dei territori comunali il cartello di “Comune Denuclearizzato”. Una classificazione, rimossa in questi ultimi decenni, molto in voga nella seconda metà degli anni Ottanta, prima del Referendum sulla localizzazione delle centrali nucleari in Italia, promosso dai Radicali, che vide oltre il 60 percento di italiani recarsi alle urne ed esprimersi per il Sì. Era il 1987, un anno dopo il disastro presso la centrale nucleare di Cernobyl. Intanto sarebbero state intraprese negoziazioni con i territori e con alcuni Comuni (pochi), che avrebbero annunciato “autocandidature” per ospitare il deposito delle scorie radioattive, in cambio di benefici economici ed occupazionali promessi dal Governo. Il referendum costituzionale ridurrebbe inoltre, in caso di vittoria del Sì, i lacci e lacciuoli che Regioni e Comuni imporrebbero per l’autorizzazione al transito dei

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rifiuti radioattivi sul territorio nazionale. I Comuni dell’Alta Murgia e del Materano hanno già annunciato il loro No Il deposito di scorie nucleari rischia di essere localizzato in un’area tra i comuni di Altamura e Matera. Nel mese di febbraio di quest’anno, i Consigli comunali hanno approvato una delibera tesa a dichiarare il territorio cittadino “Area Denuclearizzata”. I Comuni per il no sono Altamura, Matera, Gravina in Puglia, Santeramo in Colle, Irsina, Spinazzola e Poggiorsini. Tra la Puglia e la Basilicata. Già nella mappa redatta da Sogin nel 2010 – hanno fatto notare i sindaci dell’area appulo-lucana - le aree interessate sono, oltre a Scanzano Jonico e Craco, anche Matera e l’Alta Murgia, tanto più che <<nella nostra zona insiste una servitù militare che potrebbe fare comodo>>. L’auspicio degli amministratori locali è che la mappa del 2010 - essendo assoggettata ai nuovi criteri e a studi di compatibilità ambientale venga modificata depennando la Capitale europea della Cultura 2019 (Matera) e l’area pugliese più vicina dalla geografia dei siti idonei ad ospitare il deposito unico. Ma nonostante la deliberazione - e la richiesta alla Regione Puglia e alla Regione Basilicata, di

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dichiarare le aree del territorio regionale e dei Comuni interessati “non disponibili alla localizzazione del deposito nazionale destinato allo smaltimento a titolo definitivo dei rifiuti radioattivi e del Parco tecnologico” - dalle due Regioni non è giunta alcuna risposta. Il sindaco di Matera, Raffaello De Ruggieri, in più occasioni ha ribadito che il suo territorio non può essere considerato <<la pattumiera d’Italia ogni volta che c’è un’emergenza ambientale>>, mentre il Comune di Aliano, in provincia di Matera - luogo di confino politico di Carlo Levi, autore del “Cristo si è fermato ad Eboli”, ha deliberato, nel mese di maggio 2016, l’autocandidatura presso il ministero dei Beni e le Attività Culturali, a “Capitale italiana della Cultura 2018”, ribadendo la priorità delle vocazioni paesaggistiche, culturali ed ambientali del comune dei Calanchi lucani. Trisaia di Rotondella: Parco Tecnologico o deposito provvisorio? In base al decreto legislativo n.31/2010, il centro della Trisaia Enea-Sogin di Rotondella, in provincia di Matera, venne già definito “Parco Tecnologico”. Nel frattempo sono stati realizzati due enormi capannoni per lo stoccaggio di rifiuti nucleari. Ufficialmente dovrebbero ospitare le 64


E RADIOATTIVE: STATO DI ALLERTA barre Uranio-Torio di Elk River, rimaste in eredità permanente in Basilicata, dopo il progetto di riprocessamento fallito degli anni Settanta e destinato, in origine, a riprocessare questo tipo di combustibile per i reattori Superphoenix. Dopo aver traslato e trasferito, pare negli Usa - dall’aeroporto militare di Gioia del Colle materiali radioattivi non meglio classificati, con un blitz di mezza estate 2013 - il programma per la localizzazione del “Parco Tecnologico”, alias “deposito delle scorie radioattive provvisorio/definitivo” è invece andato avanti presso il Centro

della Trisaia. <<Nei piani futuri stabiliti dalla normativa sul ritorno all’atomo in Italia>>, riferisce l’associazione NoScorie Trisaia, <<è prevista la messa in esercizio presso la Trisaia di Rotondella di un Parco Tecnologico, comprensivo di un sistema per lo smaltimento a titolo definitivo dei rifiuti radioattivi a bassa e media attività, nonché di un deposito provvisorio per l’immagazzinamento dei rifiuti ad alta attività e del combustibile irraggiato proveniente dall’esercizio degli impianti nucleari.>> Il “Parco Tecnologico”, concepito come un centro

di eccellenza del settore, sarà “provvisorio” perché la soluzione definitiva (geologica o di superficie) sarà comunicata alle popolazioni solo dopo la fase di individuazione del sito unico. No Scorie Trisaia ha invitato le amministrazioni locali ed i cittadini a tenere alta la guardia sull’eventuale localizzazione in Basilicata del deposito unico nazionale delle scorie radioattive, fatto passare anche attraverso la definizione di “Parco Tecnologico”, facendo rientrare dalla finestra ciò che è uscito dalla porta nel 2003 a Scanzano Jonico, sempre in provincia di Matera.

I QUESITI REFERENDARI DEL 1987 Volete che venga abrogata la norma che consente al Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) di decidere sulla localizzazione delle centrali nel caso in cui gli enti locali non decidono entro tempi stabiliti? - 80,57 percento Sì / 19,43 percento No La norma a cui si riferisce la domanda è quella riguardante “la procedura per la localizzazione delle centrali elettronucleari, la determinazione delle aree suscettibili di insediamento”, previste dal comma 13 dell’articolo unico della legge n.8 del 10 gennaio 1983 Volete che venga abrogato il compenso ai comuni che ospitano centrali nucleari o a carbone? - 79,70 percento Sì / 20,30 percento No La norma a cui si riferisce la domanda è quella riguardante “l’erogazione di contributi a favore dei comuni e delle regioni sedi di centrali alimentate con combustibili diversi dagli idrocarburi”, previsti dai commi 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12 della citata legge Volete che venga abrogata la norma che consente all’ENEL (Ente Nazionale Energia Elettrica) di partecipare ad accordi internazionali per la costruzione e la gestione di centrali nucleari all’estero? - 71,90 percento Sì / 28,10 percento No Questa norma è contenuta in una legge molto più vecchia, e precisamente la n.856 del 1973 che modificava l’articolo 1 della legge istitutiva dell’Enel Terre di frontiera / numero 8 anno 1 - novembre 2016 / www.terredifrontiera.info

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LA GESTIONE DEI RIFIUT E I DOCUMENTI DEL GOV DI PASQUALE STIGLIANI, SCANZIAMO LE SCORIE

Il secondo governo Berlusconi, nel 2003, con un provvedimento di urgenza preceduto dal commissariamento scaturito per l’emergenza terrorismo, voleva collocare nel territorio di Scanzano Jonico, in provincia di Matera, in Basilicata, il deposito unico nazionale di scorie radioattive. Da allora, cancellato il nome di Scanzano, svanita l’urgenza e l’emergenza, si attende la soluzione definitiva per la messa in sicurezza di rifiuti altamente pericolosi che continuano a giacere nei luoghi in cui erano. Intanto il deposito nazionale non ospiterà i rifiuti nucleari militari per i quali sarà necessario individuare un’altra sistemazione, in una o più aree. Nonostante i milioni di euro spesi dalla Sogin, per la campagna di comunicazione sul deposito di rifiuti nucleari prodotti da attività civile, il processo per la localizzazione non trova fine. La carta delle aree potenzialmente idonee è riservata.

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Assieme ai ritardi e ai costi aumentano le incertezze che il processo raggiunga il termine cogliendo l’obbiettivo. La pubblicazione delle aree potenzialmente idonee provocherebbe conflitti locali in quasi tutto il territorio nazionale facendo perdere consensi importanti ad un Governo che pone molta attenzione a questo aspetto. Verso la centralizzazione dei poteri La modifica della Costituzione potrebbe far cambiare il processo individuato per la localizzazione delle aree. Lo spostamento del potere decisionale dalle autonomie territoriali verso il Governo offre nuove riflessioni sui modi con i quali il processo stabilito possa essere modificato. Con la riforma del Titolo V e la modifica dei rapporti tra lo Stato e le Regioni, l’imposizione del Governo di realizzare la mega discarica di scorie nucleari non sarà più considerata violazione di un diritto. Paradossalmente, con questa modifica costituzionale, una protesta, seppur civile, contro una decisione come quella di Scanzano, non troverebbe più una giustificazione. L’Esecutivo non violerebbe più il diritto dei cittadini. Saranno i cittadini che non accetteranno l’imposizione

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della discarica in violazione dei diritti sanciti dalla Costituzione, firmata dal primo ministro Matteo Renzi e dalla ministra per le Riforme Costituzionali e per i Rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi. Forte di questo aspetto, il Governo per risolvere, prima nel mondo, una partita difficile - e minimizzare la perdita di consenso potrebbe decidere di evitare la ricerca del dialogo con i territori imponendo legittimamente la decisione dell’ubicazione con l’utilizzo della forza: in difesa di un presunto interesse nazionale o di un’emergenza che può essere velocemente creata. Confermiamo l’attenzione verso i rifiuti parcheggiati nel centro Trisaia di Rotondella per i quali si evidenzia, dai cronoprogramma sullo smantellamento, un continuo accumulo di ritardi ed aumento dei costi. La situazione generale necessità di numerose risposte Una maggiore trasparenza sulle attività favorirebbe la chiarezza, colmando il vuoto politico renziano creato sull’argomento. Vorremmo sapere se questa condizione è frutto di una strategia o di semplice sciatteria politica. Se non ci saranno stravolgimenti è nostro interesse partecipare e coinvolgere le altre parti


TI RADIOATTIVI VERNO interessate nella procedura di Valutazione ambientale strategica (Vas) del programma nazionale, già in una fase preliminare aperta dal ministero dell’Ambiente che ha riscontrato l’assenza di partecipazione dell’istituzione Regione Basilicata, nonostante le nostre sollecitazioni. È il momento giusto per individuare cosa saranno il Parco Tecnologico e il deposito nazionale dei rifiuti radioattivi. Se per lo smaltimento dell’alta attività è possibile percorrere l’idea dell’esportazione, per quanto riguarda “ScanZiamo le Scorie” ribadiamo che fino a quando non vedremo il cosiddetto “prato verde” della Trisaia di Rotondella non saremo disponibili ad alcun confronto che coinvolga il territorio lucano nell’ipotesi di poter ospitare aree potenzialmente idonee per la realizzazione del deposito nazionale. Per l’interesse strategico nazionale la Basilicata ha già dato: le conseguenze negative su economia locale, salute e ambiente sono ormai sotto gli occhi di tutti. Le barre di Elk River Occorre dedicare attenzione al combustibile americano di Elk River allocato presso la piscina dell’impianto Itrec in Trisaia. Sul suo destino c’è

confusione perché negli anni le ipotesi di soluzione cambiano continuamente, rimandando la decisone. Innanzi tutto c’è il tema della natura giuridica di questo materiale nucleare e chi ne ha la proprietà. Questo materiale venne consegnato dagli Stati Uniti al Comitato nazionale per l’energia nucleare (Cnen) nel 1973 per essere ritrattato nell’impianto pilota della Trisaia. Non è tuttora chiaro se il trasferimento implicasse anche l’acquisizione della proprietà, trattandosi di materiale strategico sottoposto a controlli di salvaguardia. È evidente che sia soggetto ad un regime giuridico particolare. Quando fu evidente che l’impianto Itrec non sarebbe mai stato realizzato il Cnen chiese agli Stati Uniti di poter restituire il materiale. La cosa sfociò in un contenzioso presso la magistratura americana, che ovviamente diede ragione agli Usa che si rifiutarono di ritirare il “malloppo”. Recentemente è stata di nuovo tentata la strada della riconsegna del materiale nell’ambito degli accordi Italia-Usa sulla “nuclear security”, che prevedevano il ritiro di materiale strategico presente sul territorio italiano. Anche in quel caso, dalle informazioni che abbiamo, l’accordo si è limitato a piccole quantità di plutonio, e il torio di Elk River non è

stato preso in considerazione. Nell’ambito del programma nazionale la prima cosa che andrebbe chiarita è proprio questa. Se si considera che la proprietà del combustibile sia degli Usa allora bisogna anche indicare con quali strumenti si intende arrivare alla restituzione (accordo intergovernativo o ricorso ad un arbitrato internazionale). Se, invece, consideriamo questo materiale italiano, allora bisogna procedere con urgenza alla messa in sicurezza e al trasferimento in un adeguato deposito. Sta di fatto che nel 2010 la Sogin ci rassicurava che la consegna dei casks (contenitori per la messa in sicurezza) sarebbe avvenuta entro il 2014 e tuttora stiamo aspettando le giustificazioni del ritardo e un programma credibile. La procedura di Vas dovrà indicare la soluzione e le eventuali alternative di riserva nel caso in cui la soluzione di riferimento non riesca ad essere perseguita. Il caso del combustibile Elk River è quindi un banco di prova importante per verificare se il Governo italiano voglia fare una Vas seria, oppure una delle ennesime prese in giro cambiando nuovamente il processo stabilito.

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<<IO SU UNA SCORIA NUCLEARE NON CI DORMIREI MAI, MA...>>

DI EMMA BARBARO

L’intervista a Roberto Mezzanotte - esperto di nucleare e radioprotezione, attualmente collaboratore della Commissione parlamentare di inchiesta sui rifiuti radioattivi - nasce per interrompere questa prassi della segretezza. Per fare chiarezza su un tema spinoso che, di qui a qualche mese, ci riguarderà molto da vicino.

Sul deposito unico nazionale per i rifiuti radioattivi sembra calato il silenzio. Alle poche e scarne campagne pubblicitarie messe in campo dalla Sogin, la società che dovrà progettare e gestire il sito unico ha fatto seguito un mutismo istituzionale. Lo stesso vale per il decommissioning delle ex centrali nucleari, in ballo dall’estate del 2015, e la mappatura delle aree idonee a ospitare il deposito per i rifiuti radioattivi nazionale, ovvero la Cnapi (Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee). Ma del processo pubblico e trasparante che avrebbe dovuto accompagnare la procedura non si parla più. Dott. Mezzanotte, sappiamo che il complesso processo che porterà all’individuazione del deposito unico nazionale è composto di più fasi: dall’individuazione delle aree potenzialmente idonee, all’indicazione dei siti da sottoporre a indagine, fino ad arrivare alla caratterizzazione

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tecnica di dettaglio delle aree prescelte. Ma da qualche tempo a questa parte sembra che sulla questione del deposito unico sia volontariamente calato il silenzio. Ecco perché le chiedo: a che punto siamo? È pronta la mappa delle aree potenzialmente idonee? Sul deposito unico siamo al punto zero. La procedura che lei ha sinteticamente descritto è stata fissata da un decreto legislativo del 2010. Il testo di legge prevede che una volta stilata una mappatura delle aree potenzialmente idonee si apra una fase di discussione tecnica prima di passare alla carta definitiva. A quel punto inizia una sorta di trattativa, o meglio interlocuzione con Regioni ed Enti locali per stabilire insieme, senza arrivare a imposizioni, quali aree possano essere interessate a ospitare il deposito unico tenendo conto del fatto che ovviamente ci sono dei vantaggi, delle contropartite per le comunità locali. La


l’intervista del mese

procedura del 2010 prevede che il primissimo passo debba essere la definizione di criteri per l’individuazione del sito da parte di un Ente di controllo.

del deposito unico. E dal 2010, anno del decreto, siamo arrivati all’estate del 2014. Quattro anni persi solo per stabilire chi dovesse redigere i criteri.

Stiamo parlando dei 28 criteri - 15 di esclusione e 13 di approfondimento – redatti dall’Ispra? Esatto. Ma il decreto del 2010 non ha affatto stabilito che a redigere quei 28 criteri dovesse essere l’Ispra, anzi. I criteri dovevano essere fissati da un nuovo soggetto, istituito appositamente per la materia nucleare. Sto parlando dell’Agenzia per la sicurezza nucleare, ente costituito in previsione di un rilancio dell’attività nucleare in Italia. Quando poi si è compreso che nel nostro Paese non c’era assolutamente nulla da rilanciare, specie all’indomani dell’incidente giapponese di Fukushima, l’Agenzia per la sicurezza nucleare è stata cancellata. Solo a quel punto l’Ispra ha cominciato a lavorare ai criteri per l’individuazione

Poi su quei criteri è intervenuta la Sogin… Perfetto. La Sogin, che deve progettare, realizzare e poi gestire questo deposito unico, e che poi, come lei sa, è la stessa società che sta gestendo il decommissioning degli impianti nucleari italiani, una volta ottenuti questi criteri ha iniziato a lavorare sulla sua proposta di carta delle aree potenzialmente idonee, in gergo denominata Cnapi. Nel gennaio 2015, entro i tempi che la procedura le assegnava, la Sogin ha consegnato e trasmesso all’Ispra e ai ministeri dell’Ambiente e dello Sviluppo economico il suo elaborato. Le sto parlando di documenti assolutamente riservati, che nessuno ha avuto l’opportunità di visionare al di fuori di Sogin, Ispra e dei due ministeri competenti.

A quel punto l’Ispra aveva 60 giorni per verificare che fossero stati rispettati i 28 criteri. Evidentemente questo ente deve aver sollevato qualche obiezione perché nell’aprile 2015 i due ministeri hanno richiesto ulteriori approfondimenti alla Sogin. Nel giugno 2015 quest’ultima ha consegnato nuovamente la Cnapi e l’Ispra, nel luglio dello stesso anno, ultimate le sue verifiche ha dichiarato pubblicamente di non aver più rilievi da fare. La procedura prevede che i due ministeri, di concerto tra loro, abbiano un mese di tempo per la pubblicazione della Cnapi. Quindi la pubblicazione era attesa già per il settembre 2015, ottobre al massimo. E invece… E invece? La Sogin, se ricorda, in quel periodo ha cominciato a far passare alla TV degli spot pubblicitari che avrebbero dovuto aiutare in una corretta e più semplice recezione del deposito unico da parte del

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pubblico. Ma sono iniziati a passare i mesi. E della Cnapi nessuna notizia. Fino a oggi. Sappiamo che esiste da agosto dello scorso anno. Ma nessuno l’ha mai vista. Come si spiega questi ritardi? Guardi, io le dico cosa è ufficialmente accaduto. Poi se lei vuol dire che questa Cnapi sarà comunque un documento scomodo che dovrà essere gestito, insomma, sicuramente ci saranno reazioni da parte delle Regioni che vedranno i propri territori come potenzialmente idonei a ospitare questa struttura. Beh, questo è sicuro. Specie dopo quanto si è verificato a Scanzano Jonico nel 2003. La vicenda di Scanzano è diversa. Addirittura in quel caso era stato un decreto legge a definire la mappatura del sito. Preferirei non parlare di Scanzano Jonico. Per me è da considerarsi un vero e proprio incidente di percorso. A Scanzano Jonico la questione è stata gestita male fin dall’inizio, e non soltanto per come è stato scelto il sito in cui ubicare il deposito nazionale di rifiuti radioattivi. Allora, come oggi, a mancare è la tanto decantata trasparenza e partecipazione dei cittadini a una scelta che li riguarderà molto da vicino. E poi non crede che l’Italia stia accumulando un po’ troppi ritardi sul nucleare? Il decomissioning delle ex centrali è fermo al palo, sul deposito unico, stando a quel che lei dice, siamo al punto zero, e il Programma nazionale non è ancora pronto. Perché? Sì, il ritardo nell’autorizzare la pubblicazione di una carta

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già pronta da un anno non è l’unico. Il Programma nazionale è un documento previsto da una direttiva europea sulla gestione dei rifiuti radioattivi. L’Europa ha imposto che ogni Stato membro dell’Unione debba redigere una programmazione coerente sui rifiuti radioattivi il cui contenuto doveva essere trasmesso, entro il 23 agosto 2015, alla Commissione europea. Nell’agosto 2015 sarebbero dovute succedere due cose: l’autorizzazione alla pubblicazione della Cnapi e la trasmissione a Bruxelles del Programma nazionale. L’Italia non ha fatto nessuna delle due. Le ragioni non le conosco. E l’Europa come ha gestito il ritardo italiano? Nell’aprile 2016 ha aperto una procedura d’infrazione a carico dell’Italia. Attenzione: l’Europa non ha sanzionato l’Italia perché non ha ancora predisposto e realizzato il deposito unico, come pure molti sostengono. L’ha fatto perché l’Italia non ha ancora presentato il Programma nazionale, così come la direttiva imponeva. Le due questioni, tuttavia, si intrecciano. Circa un mese fa, infatti, il ministro dell Sviluppo economico, Carlo Calenda, ha dichiarato che la pubblicazione della Cnapi sarà successiva alla definizione del Programma nazionale, in modo tale che i cittadini possano essere maggiormente consapevoli della tematica. Giacché il Programma nazionale dovrebbe essere pubblicato, senza ulteriori indugi, attorno alla metà del prossimo anno, l’autorizzazione alla pubblicazione della Cnapi realisticamente verrà rilasciata non prima del terzo trimestre del 2017.

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Produ


uttori e detentori di rifiuti radioattivi in Italia Fonte: www.depositonazionale.it

Il rapporto preliminare sul nucleare pubblicato sul sito del ministero dell’Ambiente, lo scorso aprile, è un documento propedeutico al Programma nazionale? Quel rapporto è un documento preliminare sulla base del quale verrà effettuata la Valutazione ambientale strategica (Vas) del Programma nazionale. È in quel testo che vengono definiti i contenuti del rapporto propedeutico alla Vas. Siamo dunque in una fase ancora iniziale della procedura, che va ultimata prima della definizione del Programma nazionale. Tenuto conto dei tempi relativi al corretto espletamento della procedura, ecco perché il Programma verosimilmente non potrà essere pubblicato prima dell’estate 2017. Ed ecco perché la Cnapi, di conseguenza, non potrà che essere pubblicata attorno all’autunno dello stesso anno. Ovviamente, se tutto va bene. Cosa accadrà dopo la pubblicazione della Cnapi? A quel punto la Sogin dovrà organizzare, predisporre e tenere, entro 120 giorni dalla pubblicazione, un seminario nazionale per presentare il lavoro svolto in maniera tale da aprire ufficialmente la discussione pubblica sulle proposte di localizzazione del deposito unico. Proviamo a stilare un computo dei rifiuti radioattivi sul territorio nazionale da destinare al deposito unico. Anche perché, al di là della mancata trasparenza, forse sono state anche le banalizzazioni sulla tematica della gestione dei rifiuti radioattivi a scatenare le polemiche da parte dell’opinione pubblica. Per dirla con Veronesi, lei ci dormirebbe tranquillamente


su una scoria radioattiva? Ha perfettamente ragione, ci sono persone che vogliono banalizzare il problema dei rifiuti radioattivi. Guardi, io su una scoria non ci dormirei mai. I rifiuti radioattivi devono essere gestiti in maniera ottimale per poter stare tranquilli. Ci sono tecniche già sperimentate in altri Paesi riguardo alla gestione di un deposito nazionale. Personalmente collaboro con la Commissione parlamentare di inchiesta sui rifiuti radioattivi, e posso dirle che visitando i depositi di Francia, Spagna e Olanda abbiamo potuto constatare che si tratta di opere che mettono in assoluta sicurezza le scorie. Abiterei nei pressi di un deposito del genere in assoluta tranquillità. C’è poi chi definisce il deposito unico come una “discarica nazionale di scorie”. Parliamo di un’opera che non è nemmeno lontanamente assimilabile a una discarica di rifiuti urbani. Il deposito sarà un impianto di tipo industriale nel quale i rifiuti radioattivi saranno preventivamente messi in sicurezza in parallelepipedi di cemento armato modulari. Le scorie vengono inserite all’interno di fusti di cemento che a loro volta vengono chiusi in quei parallelepipedi che le dicevo, coperti poi ancora di altro cemento. In pratica attorno alle scorie sarà creato una sorta di bunker di cemento armato. Restiamo sui rifiuti. L’Ispra sostiene che il quantitativo di rifiuti radioattivi da destinare al deposito unico ammonta a circa 90mila metri cubi, tra cui vanno distinti quelli a bassa e media attività, che vengono sottoposti a un determinato processo di condizionamento, da quelli ad alta attività.

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Partiamo dal presupposto che i rifiuti radioattivi crescono di qualche centinaio di metri cubi all’anno per due ordini di ragione: innanzitutto determinati tipi di materiale radioattivo vengono comunemente utilizzati negli ospedali, andando a costituire il cosiddetto rifiuto ospedaliero. In secondo luogo, fino a quando le ex centrali nucleari italiane non saranno smantellate, il mantenerle in sicurezza continua a far produrre rifiuti radioattivi. Siamo già alla soglia dei 30mila metri cubi di rifiuti. Poi dobbiamo pensare a quelli che si formeranno quando l’attività di decommissioning sarà più avanzata. Gli ex impianti nucleari vanno smantellati ed è chiaro che i materiali di risulta radioattivi vadano trattati come veri e propri rifiuti. La stima certo non può essere precisa al metro cubo, ma parliamo di circa 40mila metri cubi di rifiuti radioattivi derivati dal solo smantellamento delle centrali. Infine ci sono, non in termini di volume ma di radioattività in essi contenuta, i rifiuti che torneranno in Italia da Inghilterra e Francia: si tratta del combustibile irraggiato dalle ex centrali da sottoporre a riprocessamento. In pratica gli impianti ad hoc siti in Francia e Inghilterra dovranno separare l’uranio e il plutonio riutilizzabili per ulteriori processi energetici dai materiali di scarto, le cosiddette scorie. In questo caso si tratta di rifiuti ad altissima attività, ben più pericolosi delle categorie precedenti. Sono circa 1000 metri cubi di rifiuti radioattivi che vanno gestiti in maniera differente rispetto ai precedenti.

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Mi scusi, ma all’impianto di Sellafield in Inghilterra non erano stati spediti circa 6000 metri cubi di combustibile irraggiato? È un dato superato. Gli inglesi hanno offerto uno scambio che consente di sostituire, dietro un congruo corrispettivo, gli iniziali 6000 metri cubi inviati dall’Italia con pochi metri cubi di rifiuti concentrati. In verità la proposta è stata fatta anche ad altri Paesi, non solo all’Italia. In base agli accordi ritorneranno nel nostro Paese circa 16 metri cubi di rifiuti radioattivi ad altissima attività condizionati in vetro. Oltre ai 16 metri cubi di cui le ho parlato, ne prendiamo due in più andando a sostituire i 6000 di partenza. Può essere conveniente perché in questo modo, ad esempio, si annullano o riducono di moltissimo tutti i costi di trasporto e si attenua contestualmente la problematica relativa allo smaltimento di quei 6000 metri cubi, una quota comunque molto rappresentativa dell’inventario nazionale. Inoltre questi due metri cubi in più saranno stoccati negli stessi contenitori che dovranno ospitare i 16 metri cubi che tornano in Italia. I volumi esterni dei contenitori non cambiano. Risultato? La Sogin è stata autorizzata a fare questo scambio, non credo abbia già definito formalmente la cosa, ma sembra che ormai si vada in questa direzione. Prenderemo due metri cubi in più di rifiuti radioattivi ad altissima attività, con tutta l’attività che equivale praticamente a quella dei 6000 metri cubi iniziali. Torna in Italia un concentrato di radioattività, in buona sostanza. Come si arriva al totale dei 90mila metri cubi di rifiuti radioattivi stimati dall’Ispra?


Si tiene conto anche della continua produzione di rifiuti radioattivi nel corso dei prossimi cinquant’anni. I rifiuti ospedalieri non possono essere sostituiti in tempi brevi, dunque saranno ancora prodotti per molto tempo. Il deposito nazionale viene dimensionato su 90mila metri cubi, di cui 75mila a bassa e media attività e 15mila ad alta attività. Il vertice massimo di questa attività è costituito proprio dai rifiuti radioattivi di ritorno dall’estero. Tuttavia ci sono anche 235 tonnellate di combustibile nucleare irraggiato non ancora sottoposto a riprocessamento. È quello inviato all’impianto di La Hague in Francia? Sì, esatto. Le 235 tonnellate di cui parla provengono soprattutto dall’impianto di Caorso (180 tonnellate) e dal deposito Avogadro di Saluggia. Nel 2006, il ministro dello Sviluppo economico, Pier Luigi Bersani, e il suo corrispondente francese hanno sottoscritto un accordo affinché quelle 235 tonnellate venissero spedite in Francia per il riprocessamento, e dal 2009 sono cominciate effettivamente le spedizioni. È partito quasi tutto, salvo una quindicina di tonnellate ancora stoccate temporaneamente nel deposito Avogadro. Come viene effettuato il trasporto del combustibile irraggiato? Questa è un’attività che qui in Italia, un Paese in cui di nucleare ormai è rimasto ben poco, sembra una cosa eccezionale. Ma in realtà in molti Pesi è una faccenda ordinaria. Esistono contenitori particolari in grado di trasportare al massimo due

tonnellate di combustibile. Per darle un’idea, per due sole tonnellate di combustibile irraggiato viene utilizzato un contenitore che ne pesa 70. Le operazioni di solito vengono fatte sott’acqua, nelle apposite piscine degli impianti, per evitare che il combustibile venga a contatto con l’aria. Il trasporto, sia ferroviario che su strada, è regolamentato dalle norme internazionale dell’Iaea (International atomic energy agency). Ovviamente viene utilizzata una tecnologia raffinata per svolgere tutte le operazioni in totale sicurezza. Ma una volta entrati nel meccanismo, direi che è quasi banale. L’Italia ha utilizzato qualcosa come 1600 tonnellate di combustibile irraggiato spedite tutte all’estero per il riprocessamento, tranne quel piccolo residuo del deposito di Avogadro. E poi c’è un ulteriore residuo di combustibile irraggiato che non partirà affatto. Si tratta di un paio di tonnellate del particolarissimo combustibile del ciclo uraniotorio stoccato nell’impianto di Rotondella della Trisaia. È una tipologia molto particolare, non riprocessabile negli impianti in cui si riprocessano i combustibili comunemente utilizzati nelle centrali nucleari. Quel combustibile è destinato a restare lì dov’è. Ma se cambia la tipologia di rifiuto radioattivo, non cambia di conseguenza anche la tipologia di impianto? È così. Per i rifiuti a bassa e media attività il deposito - definito ingegneristico - finisce con l’essere una sorta di parallelepipedo di cemento armato. Una volta costruito il bunker di cemento armato di cui le ho parlato, viene effettuata un’ulteriore

copertura in cemento, viene impermeabilizzato e dall’esterno si vede una sorta di collinetta sulla quale si può far crescere persino l’erba. Non si tratta di impianti prototipi, ne esistono diversi modelli ed esemplari in tutto il mondo. I rifiuti a bassa e media attività possono essere trattati così perché dopo circa 300 anni non sono più radioattivi. La struttura è progettata per durare a lungo, e ne resta una tracciabilità. I rifiuti ad alta attività, invece, non decadono in alcune centinaia di anni. Alcuni decadono dopo migliaia o una decina di migliaia, oppure ancora centinaia di migliaia di anni. Non li si può stoccare in una struttura artificiale ingegneristica perché nessun impianto potrebbe dare una simile garanzia di durata. Quindi qual è la soluzione? La soluzione prospettata è quella del deposito geologico. Si ipotizza di stoccare questi rifiuti a un migliaio di metri di profondità sotto terra. È la stessa soluzione di Scanzano Jonico, tanto per intenderci, solo che lì volevano stoccarci indifferentemente rifiuti a bassa, media e alta attività. Ma Scanzano, le ripeto, è stato un incidente di percorso. Oggi come oggi l’unica soluzione sembrerebbe essere quella del deposito geologico: una formazione geologica, cioè, che dia garanzie di stabilità e sia in grado di tenere in isolamento i rifiuti per il tempo necessario. Ci sono delle particolari formazioni di argille, sali o miniere di sale, o ancora particolari graniti che potrebbero garantire questa affidabilità. Però non tutti nel mondo scientifico sono convinti che una soluzione del genere sia valida in termini assoluti.

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Il dibattito è ancora aperto, la discussione è continua. Mentre ormai è pacifica l’affidabilità di un deposito ingegneristico, lo stesso discorso non vale per quello geologico.

e media attività in superficie mentre in un altro sito si sta realizzando un impianto per i rifiuti ad alta attività. Altri ancora hanno scelto invece il deposito geologico.

Il nostro deposito unico nazionale sarà un impianto di tipo ingegneristico, adatto a ospitare i 75mila metri cubi di rifiuti a bassa e media attività di cui mi ha parlato. E i restanti 15mila come saranno gestiti? Per gli altri 15mila dovremo aspettare una soluzione come quella del sito geologico. Ma come le dicevo ci sono almeno due problemi: innanzitutto non sono tutti d’accordo. E poi per qualificare un sito geologico ci voglio almeno 20-30 anni. Noi questi tempi non li abbiamo, per il semplice motivo che il combustibile spedito all’estero per essere riprocessato tornerà in Italia entro il 2025. Abbiamo adottato, quindi, una soluzione ad interim. Una risposta temporanea cioè, ma di lungo periodo. Costruiremo un deposito superficiale ingegneristico in grado di mantenere questi rifiuti ad alta attività almeno per i prossimi 100 anni. Sfrutteremo questo tempo per continuare a studiare il problema e trovare così una soluzione congrua. Ad esempio si stanno facendo delle ricerche per trasformare i radionuclidi dalla vita più lunga in radionuclidi in grado di decadere entro i 300 anni. Le prospettive sono diverse. Il deposito unico, ovviamente, sarà il sito prescelto per stoccare momentaneamente anche i rifiuti ad alta attività. Le soluzioni sono diverse da Paese a Paese. In Olanda esiste già un deposito di questo tipo, in Spagna ce n’è uno per lo smaltimento dei rifiuti a bassa

In tema di rifiuti, non si può fare a meno di notare una più marcata sensibilità dell’opinione pubblica rispetto a quelli radioattivi. Se spostiamo il discorso sui rifiuti industriali, o su quelli speciali pericolosi, la percezione cambia completamente. Molto spesso a torto. La domanda potrà sembrarle capziosa, ma le chiedo: quali sono i tempi di decadenza, se così si può definire, di un metallo pesante? Sfonda una porta aperta. È chiaro: il rifiuto radioattivo può decadere in tempi brevi come in tempi lunghissimi. Ma alla fine decade. Se lei mi chiede in quanto tempo decadono i metalli pesanti, le rispondo che non decadono affatto. Un metallo pesante resta un metallo pesante. È vero che la percezione è molto diversa. Personalmente mi sono sempre occupato di nucleare. Sulla base della mia esperienza personale posso dirle che, anche se può sembrar strano, la cura che si mette sui rifiuti radioattivi è molto diversa rispetto a quella con cui sono gestiti i siti per rifiuti speciali pericolosi. Le offro dei numeri per fare i dovuti distinguo. Per il nucleare parliamo di un inventario complessivo di 90mila metri cubi totali. Ogni anno in Italia si producono 10milioni di tonnellate di rifiuti pericolosi. Le posso precisare quali sono i programmi per mettere in sicurezza i 90mila metri cubi di rifiuti radioattivi. Programmi sui quali, come le ho detto, stiamo

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andando lentissimi. Ma se lei mi chiede dove vanno a finire i 10 milioni di tonnellate di rifiuti speciali stimati dall’Ispra, quali sono i programmi per lo smaltimento o le prospettive al riguardo, non glielo so dire. I numeri sono questi. Un’ultima domanda: sulla base delle conoscenze e degli studi moderni, lei avrebbe mai avallato la scelta localizzativa di alcune delle ex centrali nucleari attive sul territorio nazionale? Oggi siamo chiamati a gestire l’eredità lasciata dalle scelte fatte sul nucleare. La decisione di localizzare le centrali nucleari in prossimità di fonti d’acqua è stata, a suo tempo, funzionale alla produzione di energia elettrica. Ma per i rifiuti radioattivi, il discorso è inverso. La prossimità dell’acqua costituisce un pericolo. E tutte le ex centrali site sul territorio nazionale custodiscono i propri rifiuti radioattivi in attesa della creazione del deposito unico. Ecco perché il deposito serve. Ci sono stati impianti che hanno dato problemi, è vero. Se lei fa riferimento alla ex centrale del Garigliano, le dico che a parer mio ci sono impianti messi ben peggio. Penso al deposito Avogadro di Saluggia, lo stesso nel quale c’è ancora qualche tonnellata di combustibile non riprocessato. La Dora ha già inondato il sito diverse volte. L’Italia ha aderito al nucleare all’inizio degli anni Sessanta, mentre le prime procedure per disciplinare le autorizzazioni a costruire le centrali sono del 1964. La centrale del Garigliano e la gran parte dei siti nucleari italiani è stata localizzata prima che entrasse in vigore la legge. I criteri di scelta furono ben diversi.


COME E SU COSA IL GOVERNO NAVIGA A VISTA DI PIETRO DOMMARCO

Programma nazionale, partecipazione dei territori, scorie civili e scorie militari, il peso del deposito unico sulla bolletta. Di questo ed altro abbiamo parlato con Gianni Girotto, cittadino portavoce del Movimento 5 Stelle al Senato e membro della X Commissione permanente su Industria, Commercio e Turismo.

Senatore Girotto, con l’emanazione del decreto legislativo n.31 del 15 febbraio 2010 il nostro Paese è entrato nuovamente nell’era e nel dibattito nucleare. I criteri per la localizzazione di un impianto di smaltimento superficiale di rifiuti radioattivi a bassa e media attività ci sono dal 2014, ma la Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee ad ospitarlo ancora no. Entrando nel merito, cosa ci può dire? Il Governo naviga a vista e, peggio ancora, non vuole affrontare con decisione - per motivi elettorali - un tema estremamente importante per la sicurezza e la salute dei cittadini, in particolare per quelli che convivono nei territori in cui insistono centri nucleari. Prima della pubblicazione delle aree, il Governo dovrebbe completare il Programma nazionale sulla gestione dei rifiuti nucleari attraverso un processo di partecipazione dei territori interessati, aperto e

trasparente. È nel Programma che dobbiamo individuare tutti gli elementi che riguardano la gestione dei rifiuti nucleari compresa di quale tipologia di deposito si parla. Solo in seguito si può parlare di aree. Pertanto non escludo che i criteri oggi individuati, dopo la definizione e conclusione del Programma, possano essere rimessi in discussione. Smaltimento a titolo definitivo dei rifiuti radioattivi a bassa e media attività ed immagazzinamento, a titolo provvisorio di lunga durata, dei rifiuti ad alta attività e del combustibile irraggiato proveniente dalla pregressa gestione di impianti nucleari. La guida tecnica 29 dell’Ispra tratta solo ed esclusivamente il primo aspetto. Ci chiarisce questa incongruenza di fondo molto evidente? Come verranno gestiti i rifiuti ad alta attività è, a tutt’oggi, ancora il vero problema irrisolto. È un aspetto sul quale regna

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incertezza. Cosa si intende per “immagazzinamento, a titolo provvisorio di lunga durata, dei rifiuti ad alta attività”? La struttura deve essere progettata e autorizzata per appoggiare i rifiuti nel deposito quanti anni? E allo scadere del termine? Possiamo lasciarli lì? E quelli all’estero, li appoggiamo in un deposito provvisorio e poi li spostiamo? Le regole adottate dovrebbero chiarire molti aspetti. Il Governo su questo è completamente assente. Alla luce di queste divergenze, dei tanti quesiti irrisolti e dei ritardi sulla tabella di marcia, il Programma nucleare nazionale fa acqua da tutte le parti… Il programma deve essere soggetto a Valutazione ambientale strategica (Vas). Questo presuppone un’importante partecipazione dei territori che possono presentare le loro osservazioni. Attualmente siamo in una fase iniziale con il rapporto preliminare, presentato dal ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, privo di contenuti importanti come ad esempio la gestione dei rifiuti nucleari militari ed altro. È auspicabile un processo di partecipazione aperto per migliorare la proposta di partenza. A proposito di rifiuti nucleari militari. Il sottosegretario al ministero della Difesa, Domenico Rossi, in risposta ad una sua interrogazione ha dichiarato, testualmente, che <<il ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare […] ha comunicato che […] il Programma nazionale di gestione del combustibile nucleare e dei

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rifiuti radioattivi […] prevede, allo stato, soltanto la gestione dei rifiuti derivanti da attività civili.>> E per quelli militari? È ipotizzabile un secondo deposito? È ormai chiaro che in Italia non potrà esserci solamente un deposito, ma almeno due: uno civile e un altro militare. Appare, infatti, altamente improbabile affidarne le gestione dei rifiuti militari a soggetti esteri. Sarebbe interessante capire con quali regole sarà quindi realizzato il “deposito militare”, visto che nelle norme adottate fino ad ora non vi è traccia.

impianti Enea di Saluggia (Vercelli), Casaccia (Roma) e Rotondella (Matera). A che punto siamo? Abbiamo smantellato nei siti gran parte del materiale civile. Invece, sulle fasi più delicate e impegnative - inerenti il vero e proprio smantellamento del “cuore” dei centri nucleari, con la loro “eredità” di sostanze fortemente radioattive - i lavori devono ancora entrare nel vivo. Abbiamo più volte denunciato un avanzamento troppo lento dei lavori, e infatti i cronoprogramma, in gran parte, subiscono ritardi che si sono accumulati.

Ritorniamo per un attimo al discorso della trasparenza e del coinvolgimento delle comunità locali. Da questo punto di vista cosa non le torna scorrendo il cronoprogramma sviluppato da Governo e Sogin? I tavoli della trasparenza istituiti dopo la protesta di Scanzano Jonico del 2003 non svolgono più la stessa funzione. Si è ristretto il coinvolgimento, e gli attori interessati, a discapito della trasparenza delle informazioni e della conoscenza. Ogni centro nucleare in Italia è un luogo potenziale di rischio. Fondamentalmente il decommissioning è inchiodato da tempo. Lo smantellamento avanza in modo lento scaricando i costi sulla collettività. Abbiamo da poco ricambiato i vertici della Sogin. Auspichiamo una svolta per superare e risolvere i problemi.

Ritardi e costi elevati del decommissioning: chi paga? Deposito unico e bollette: Cosa ci dice da questo punto di vista? Nella bolletta elettrica paghiamo come consumatori di energia, per ogni KW utilizzato, un onere che costa circa 300 milioni di euro all’anno. Nel 2015 tali oneri sono aumentati a 622 milioni. Gli utili di Sogin, nello stesso anno, sono stati di 2,6 milioni di euro. Per quanto riguarda il deposito unico anche qui, obbligatoriamente, serve chiarezza su chi pagherà cosa. Sappiamo con certezza che anche questi costi sono e saranno scaricati in bolletta. Ma non è chiaro se rifiuti nucleari industriali, e comunque di attività privata, pagheranno per un deposito che dovranno realizzare anche loro. Su questo argomento l’Autorità per l’energia ha inviato anche una segnalazione al Parlamento che ne dovrebbe tenere in considerazione per legiferare.

Decommissioning appunto. Le installazioni interessate sono le 4 ex centrali nucleari italiane di Trino (Vercelli), Caorso (Piacenza), Latina e Garigliano (Caserta) e gli

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Guadagni privati a carico dei cittadini, insomma. E a proposito di guadagni, vorremmo una sua


valutazione sulla possibile fusione tra Sogin e Ansaldo. In risposta ad una mia interrogazione, il 3 novembre scorso, il sottosegretario allo Sviluppo economico, Teresa Bellanova <<ha specificato che negli scorsi anni sono state discusse a livello di mera ipotesi possibili operazioni che avrebbero potuto coinvolgere le due società>>. Quindi ha ammesso che c’è, o quantomeno c’è stata, una discussione di pochi - a bassa voce - che non va bene. Se Sogin deve essere riformata che si apra ad una discussione politica. Personalmente non sono favorevole a cedere asset strategici come quelli tenuti in capo alla Sogin verso compagnie straniere.

COSTI ASSOCIATI ALLA REALIZZAZIONE DEL DEPOSITO NAZIONALE E DEL PARCO TECNOLOGICO Nel mese di marzo 2016 i ministeri dello Sviluppo economico e dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare hanno redatto un rapporto preliminare, propedeutico alla Vas (Valutazione ambientale strategica), del <<Programma nazionale per la gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi>>. Che oggi, dal sito del ministero dell’Ambiente, risulta non più scaricabile. Il documento mette in evidenza i <<costi associati alla realizzazione del Deposito Nazionale e del Parco Tecnologico>>. Gli investimenti previsti per la localizzazione e la realizzazione del parco tecnologico, comprensivo del Deposito Nazionale, ammontano complessivamente a 1,5 miliardi di euro, COSì ripartiti: 650 milioni di euro per localizzazione, progettazione e costruzione del Deposito Nazionale; 700 milioni di euro per Infrastrutture interne ed esterne; 150 milioni di euro per realizzazione Parco Tecnologico. La stima è stata effettuata in sede di analisi preliminare da Sogin spa. A questi investimenti si stima in aggiunta circa 1 miliardo di euro per progetti di ricerca, ai sensi dell’articolo 24, comma 4, del decreto-legge 1/12, convertito con modificazioni dalla legge 27/2012, le attività di individuazione e realizzazione del Deposito saranno finanziate dalla componente A2, compresa - ma solo a titolo di acconto - la quota parte di costo che riguarda i settori al di fuori del “perimetro” elettrico (quindi, il settore industriale, sanitario e di ricerca). Infatti, l’articolo 24, comma 5, del decreto legge n.1/2012 stabilisce che i soggetti produttori e detentori di rifiuti radioattivi che conferiscono tali rifiuti presso il Deposito Nazionale, debbano pagare un corrispettivo per l’utilizzo delle strutture del Parco Tecnologico e del Deposito Nazionale. Questo corrispettivo è determinato secondo modalità stabilite dal ministro dello Sviluppo economico, su proposta dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas, in misura tale da compensare quanto sarà transitoriamente a posto a carico della tariffa elettrica. Si evidenzia, da ultimo, come, ai sensi degli articoli 1 e 30 del decreto legislativo n.31/2010, vadano annoverati tra i costi associati alla realizzazione del Deposito Nazionale e del Parco tecnologico anche i benefici economici relativi alle attività di esercizio del Deposito Nazionale, che dovranno essere corrisposti in favore delle persone residenti, delle imprese operanti nel territorio circostante il sito e degli enti locali interessati al fine di massimizzare le ricadute socioeconomiche, occupazionali e culturali conseguenti alla realizzazione del Parco Tecnologico. Tale contributo di natura economica è destinato per il 10 percento alla provincia o alle province nel cui territorio è ubicato il sito, per il 55 percento al comune o ai comuni nel cui territorio è ubicato il sito e per il 35 percento ai comuni limitrofi, intesi come quelli il cui territorio ricada in tutto o in parte all’interno di un’area compresa nei 25 chilometri dal centro dell’edificio Deposito.

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Centrale nucleare del Garigliano, Campania / Foto di Emma Barbaro

il reportage

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DI EMMA BARBARO

Siamo a una manciata di chilometri da Sessa Aurunca, in provincia di Caserta. Imbocco la via Appia. La cerco con lo sguardo e non la trovo. Ad un tratto appare un lungo filare di alberi e un cartello piccolo. Troppo piccolo rispetto alla grandezza di quello che indica. Eccola lì. La centrale nucleare del Garigliano. La sua sfera possente e quel camino che un tempo sputava all’esterno i radionuclidi prodotti dalla fissione controllata. Non sembra scalfita dal tempo. In verità è magnifica vista da una certa distanza. Meno magnifico è il vigilante che mi intima di andare via, di non scattare foto. Perché? Cosa c’è di male nel voler immortalare un pezzo abbastanza consistente della storia energetica italiana? Quali segreti si pensa possa ancora celare quell’insieme di lamiere e cemento destinato al decommissioning non appena sarà individuato un cimitero per scorie


La centrale nucleare del le capace di custodirne Garigliano non è come le tristi spoglie? altre. Il suo ciclo di vita non è stato interrotto per effetto del referendum sul nucleare del 1987. Non è stata la più celebre Chernobyl a tagliarle le gambe, così come è accaduto per tutti gli altri siti italiani. Entrata ufficialmente in funzione nel 1964 venne definitivamente fermata l’8 agosto del 1978 per un’avaria riscontrata su uno dei generatori di vapore secondari. È l’ultimo incidente di una centrale elettronucleare zoppicante fin dai primi mesi di vita. Il primo di una lunga serie per un sito che, a 34 anni dalla chiusura ufficiale, non è stato ancora denuclearizzato. Del 4 marzo 1982 è, infatti, la delibera con cui si dispone la sua disattivazione definitiva. La titolarità della licenza di esercizio dell’ex sito nucleare Enel è passata alla Sogin nel 2000, che dodici anni dopo, il 28 settembre 2012, è stata autorizzata all’esecuzione delle operazioni connesse alla disattivazione accelerata in un’unica fase. Fino al rilascio incondizionato del sito. Smantellamento e decontaminazione dell’isola nucleare che, stando alle ultime informazioni, procedono a singhiozzi. Ultime notizie dalla centrale Il 10 ottobre 2016 si è riunito il Tavolo della Trasparenza presieduto dal vicegovernatore campano, con delega all’Ambiente, Fulvio Bonavitacola. L’organo, che nelle intenzioni dell’ordinanza del presidente del Consiglio dei ministri n.3355/2004 avrebbe dovuto riunirsi con cadenza trimestrale, è stato convocato a distanza di due anni dall’ultima riunione. Aggiungere che la Regione Campania ha costituito

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formalmente questo Tavolo solo nel 2011 può forse dare una cifra della trasparenza con cui si stanno svolgendo le operazioni inerenti alla messa in sicurezza dell’ex sito nucleare. <<Le domande che abbiamo posto come comitato hanno avuto una risposta più o meno soddisfacente.>>, si legge nel documento stilato dal Comitato antinucleare del Garigliano. <<Abbiamo chiesto dello stato dei lavori inerente allo smantellamento della ciminiera. Proprio negli ultimi giorni, infatti, è stata ultimata la fase di scarifica del camino. La ciminiera è stata resa disponibile all’abbattimento controllato che verrà avviato dopo l’installazione di un’apposita struttura. Le polveri radioattive e le parti dei macchinari venute a contatto con elementi radioattivi verranno condizionate in matrici isolanti e stoccate all’interno del deposito D1 presente nel sito della centrale. Sia il robot che il particolare impianto che ne ha permesso la gestione verranno decontaminati diventando patrimonio della Sogin spa che li adopererà, su richiesta, anche all’estero. L’esperienza acquisita in queste operazioni, svolte per la prima volta proprio nella nostra centrale - che è nata come esperimento e che come tale continua ad essere utilizzata - è divenuta un importante capitale per la Sogin. I milioni di euro spesi per queste operazioni sono usciti dalle tasche degli italiani. Quelli che la Sogin guadagnerà torneranno, in qualche modo, agli italiani quando questa società sarà pagata per sfruttare quello che le nostre tasche le hanno permesso di imparare? Sappiamo che è una domanda polemica, ma

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dovete permettercela.>> Non è la prima domanda polemica indirizzata alla Sogin e agli enti di controllo. Nel dicembre 2012 la Procura di Santa Maria Capua Vetere iscrive nel registro degli indagati Marco Iorio, ex responsabile Sogin della disattivazione del sito del Garigliano. Il sostituto procuratore Giuliana Giuliano apre un fascicolo per irregolarità in materia di sicurezza nucleare. Il procedimento è il n.9664/12. L’ipotesi è di disastro ambientale. Nel mirino - a causa della radioattività riscontrata su una trincea e sugli scarichi che confluiscono nel fiume Garigliano - finiscono Sogin e Arpac. Quest’ultima perché, stando a quanto sostiene l’accusa, non svolge controlli sul sito da sette anni. Tra le anomalie riscontrate vanno annoverati anche i registri di carico e scarico liquidi e aeriformi scritti a matita. Si mobilitano Guardia di Finanza, Ispra, Arpac. L’ex sito viene praticamente cinto d’assedio per svolgere nuovi sondaggi. I giudici della Procura di Santa Maria Capua Vetere Giuliana Giuliano e Raffaella Capasso vengono convocati per un’audizione dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sullo smaltimento illecito di rifiuti, presieduta dall’onorevole Alessandro Bratti. In quella sede dichiarano che <<nell’immediatezza di questo primo sopralluogo, un alto valore che destò allarme fu quello della vasca di accumulo all’interno della centrale. Cioè la vasca dove confluiscono gli scarichi della centrale che, attraverso un collettore, convergono nel fiume Garigliano.>> Il centro Interforze studi per le applicazioni militari (Cisam) di San Piero a Grado


rileva contaminazioni di cesio 137, cesio 134 e cobalto 60 nelle acque del fiume Garigliano. La contaminazione viene definita <<non eccessiva>>. Come se dosi anche minime di radioattività non siano in grado di generare, nel lungo periodo, un danno per le popolazioni residenti. Su questo procedimento non c’è più alcuna comunicazione ufficiale. Nel corso dell’ultima riunione del Tavolo della Trasparenza quel che i portatori d’interesse hanno potuto scoprire, sempre attraverso semplici indiscrezioni, è che il procedimento è stato archiviato. Ma nessuno ha mai letto il corpus del decreto che ne dispone l’archiviazione. Chi svolge, oggi, i controlli sulle matrici ambientali? Come sappiamo che i rifiuti condizionati stoccati “temporaneamente” nel deposito D1 dell’ex centrale del Garigliano sono custoditi in sicurezza? E come vengono gestiti quegli scarti di radioattività che la centrale continua a produrre per garantire il mantenimento in sicurezza dell’impianto? A svolgere i campionamenti sulle matrici ambientali è la Sogin spa con mezzi e funzionari propri. L’ente di controllo è l’Ispra. Ma Sogin e Ispra sono di fatto gli attori principali del cast di eccezione che dovrà selezionare il deposito unico nazionale per rifiuti radioattivi. Quello stesso deposito che è la ragione per cui, oggi, il decommissioning degli ex siti nucleari italiani è fermo al palo. Alla luce di queste considerazioni, la domanda sorge spontanea: chi controlla il controllore? E perché i dati sui monitoraggi non vengono resi pubblici?

Il cuore radioattivo della centrale L’allontanamento del combustibile nucleare utilizzato nella ex centrale del Garigliano è stato espletato tra il 1985 e il dicembre 1987. Le 322 barre di combustibile irraggiato ad alta attività sono state trasferite presso il deposito Avogadro di Saluggia. Da qui, una parte è stata inviata per il riprocessamento all’impianto di Sellafield, in Gran Bretagna. Un’altra parte è stata invece trasferita in Francia, presso l’impianto di Le Hague. Le barre riprocessate - quelle cioè da cui l’uranio e il plutonio utili per un nuovo impiego elettronucleare sono stati separati dalle scorie ad alta attività - dovranno ritornare in Italia entro il 2025. Anche se a margine dell’audizione del 31 ottobre 2013 l’onorevole Bratti si è mostrato palesemente scettico, dichiarando che <<la Francia non è più disponibile ad accettare le nostre scorie per il riprocessamento perché non crede che il nostro Paese stia organizzandosi per gestire il ritorno di questi rifiuti. Anche da Sellafield, in Inghilterra, ci chiedono di riprenderli al più presto.>> Ma del deposito unico, nemmeno l’ombra. Almeno fino al prossimo autunno 2017. Al di là del combustibile, vanno dismessi e stoccati tutti i rifiuti a bassa e media attività che la ex centrale del Garigliano ancora custodisce. Nell’inventario Ispra del 31 dicembre 2013 si parla 3214,81 metri cubi di rifiuti radioattivi. L’aggiornamento al 2014 del Comando dei Carabinieri per la Tutela dell’Ambiente è di 3884,59 metri cubi. A questi volumi vanno sommate le 158 tonnellate di amianto rimosse dall’edificio turbina

e dall’edificio reattore, di cui 133 tonnellate contaminate da radioattività temporaneamente stoccate presso il deposito ex diesel della centrale. Quest’ultimo, adeguato a deposito temporaneo, presenta una volumetria di 6000 metri cubi, con capacità di stoccaggio di circa 600 metri cubi di rifiuti radioattivi. La Sogin ha inoltre realizzato un ulteriore deposito temporaneo – il deposito D1 – con una volumetria di 10mila metri cubi e una capacità complessiva di circa 1100 metri cubi di rifiuti radioattivi. I conti, rispetto agli oltre 3800 metri cubi stimati dagli enti di controllo, palesemente non tornano. <<Siamo preoccupati>>, arringa l’instancabile Giulia Casella, anima del circolo Legambiente di Sessa Aurunca. <<Nel cronoprogramma dei lavori presentato da Sogin al Tavolo della Trasparenza del 27 novembre 2012 si apprende dell’urgenza nell’individuazione del deposito unico nazionale per rifiuti radioattivi. Specie perché in caso contrario una quota del combustibile irraggiato riprocessato di rientro in Italia dovrà essere temporaneamente stoccato nei depositi D1, ex diesel e D2, per il quale sarà adibito l’edificio turbina, una volta adeguato simicamente e smantellati i componenti e sistemi interni. In più c’è l’incognita dello smantellamento del circuito primario e dei componenti e sistemi dell’edificio reattore.>> La scarifica del camino è stata ultimata nell’ottobre 2016. La gara d’appalto per la demolizione del vecchio e la costruzione del nuovo camino è stata vinta da sei aziende specializzate nel settore: General Smontaggi spa, Penta System srl, Dama srl, FTC di

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Tarantino Rocco & C. snc, Comie srl e Griec.A.M. srl. <<C’è poi il problema delle trincee nelle quali, tra il 1968 e il 1978, furono sotterrati rifiuti a bassa attività – prosegue Casella – E ora vanno bonificate. I lavori previsti sono slittati di alcuni anni rispetto ai programmi iniziali.>> L’elenco dei cantieri attivi nella ex centrale del Garigliano, aggiornato al 30 novembre 2015, è pubblicato sul sito web della Sogin. I lavori riguardano la realizzazione del nuovo sistema di trattamento degli effluenti liquidi della centrale, denominato RadWaste, l’esecuzione di un nuovo punto di scarico e l’abbattimento del camino, lo smantellamento dell’impianto di spruzzamento del nocciolo del reattore e dei sistemi interni all’edificio, i lavori presso la stazione centralizzata di tagliodecontaminazione e la stazione di rilascio dei materiali e, infine, quelli di ristrutturazione del locale “officina calda” e del trattamento dei rifiuti radioattivi prodotti dalle attività di bonifica delle trincee. Gli incidenti di percorso Tra il 1964 e il 1978 si verificano una serie di anomalie che mettono a dura prova tenuta e corretto funzionamento del sito elettronucleare del Garigliano. I casi sono stati dettagliatamente riportati dall’avvocato Carlo Marcantonio Tibaldi. La pubblicazione a sua firma dal titolo “Lettere ai giudici sulla centrale atomica del Garigliano”, è una sorta di memorandum di tutte le denunce fatte e sedimentatesi nel corso degli anni. Il primo marzo del 1964 si verifica la rottura delle valvole di intercettazione del circuito primario. Nel settembre del 1965 le strutture

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interne del reattore risultano danneggiate. Del guasto, che avrebbe potuto produrre effetti gravissimi, parla il professor Antonino Drago di “Medicina democratica”. Nello stesso anno gli ingegneri Brindbaugh, Ubbard e Minor della General Electric Company – società che progetta e in parte realizza la centrale del Garigliano – si dimettono dinanzi al Comitato per l’energia atomica del Congresso degli Stati Uniti. Gli ingegneri sostengono, in buona sostanza, che l’uso pacifico del nucleare non è sicuro. Che le centrali non sono sicure. E che quella del Garigliano, in particolare, non lo è di certo a causa delle vibrazioni eccessive dovute al flusso di acqua attorno al reattore. Nel 1967 e successivamente nel 1968 vengono rinvenuti depositi di materiale di corrosione nel combustibile. Nel febbraio del 1970 si rischia l’incidente massimo, la fusione del nocciolo per insufficienza degli impianti elettrici di emergenza. Del marzo 1972 e del 1976 è l’esplosione nel sistema di smaltimento dei gas incondensabili, con tanto di rottura dei filtri e rilascio di radioattività nell’atmosfera. In entrambi i casi il Cnen sostiene che <<le conseguenze in termini di dosi alle popolazioni sono risultate decisamente modeste.>> Nel 1972 e nel 1977 si registrano i danneggiamenti alla flangia di uno scambiatore di calore del sistema di depurazione del fluido primario. Nel 1976 l’acqua del Garigliano inonda il deposito di scorie. <<L’incidente – scrive l’avvocato Tibaldi – non viene menzionato dal Cnen, ma rivelato dai periti nominati dal Pretore di Sessa Aurunca.>> Del 1977 sono invece le fessurazioni e “cricche” dovute e fenomeni di

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corrosione di alcune tubazioni della centrale. L’8 agosto 1978 la produzione elettrica della centrale viene definitivamente fermata a causa di un’avaria riscontrata su uno dei generatori di vapore secondari. Ma non finisce qui. Il 16 novembre del 1979 e, successivamente, il 14 novembre 1980 il Garigliano straripa e allaga una vastissima area dell’impianto nucleare. Del primo episodio non si dà alcuna notizia, anche se sul posto intervengono i Vigili del fuoco di Caserta e Latina con i mezzi anfibi. Il secondo, non può essere taciuto. <<Il


La centrale del Garigliano Foto di Emma Barbaro

17 novembre 1980, tre giorni dopo, il Collegio dei delegati alla sicurezza dell’impianto nucleare decide – scrive Tibaldi – di ispezionare, con molta calma, i locali dei serbatoi delle scorie e solo allora si accorge che qualcosa di veramente grave è accaduto nella centrale. Il Collegio conclude che una certa quantità d’acqua, circa 300 metri cubi, si è trasferita nel sottosuolo. A questo punto si ritiene opportuno informare il Cnen dell’accaduto anche perché siano predisposte le azioni atte a prevenire, nel breve termine, l’infiltrazione nel sottosuolo di acqua

contaminata.>> L’ingegner Claudio Sennis del Cnen con un telegramma urgente comunica al sindaco di Castelforte che l’acqua infiltratasi nella vasca nucleare è defluita verso il fiume trascinando con sé <<essenzialmente cesio 137>>. È disarmante la certezza dell’ingegnere sulla tipologia di contaminante fuoriuscito. Il 30 novembre il professore Mauro Cristaldi dell’Istituto di Anatomia comparata dell’Università di Roma invia ai sindaci di Castelforte, Minturno e Sessa Aurunca una relazione tecnica con la quale suggerisce di comunicare ai cittadini

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un divieto alla coltivazione, pesca, pascolo e irrigazione di tutte le colture sommerse dalle acque contaminate. O almeno di quelle in diretta corrispondenza della foce del Garigliano. Infine, nel novembre del 1982, un contenitore spedito dalla Germania su ferro fino alla stazione di San Lorenzo di Roma e, tramite rimorchio speciale, dalla capitale al Garigliano, è risultato pieno di acqua contenente cobalto 58, cobalto 60 e manganese 54. Il tappo di drenaggio difettoso del contenitore ha causato il gocciolamento del liquido altamente contaminato lungo tutta la strada da Roma al Garigliano e, poi, negli interni della centrale stessa. La notizia è tratta dal telegramma del medico provinciale di Caserta e dal comunicato stampa dettato dall’Enea all’Ansa il primo dicembre del 1982. Le contaminazioni Tra il mese di maggio del 1980 e il mese di giugno del 1982 l’Enea conduce quattro campagne radioecologiche nell’area antistante la foce del fiume Garigliano. I tecnici che redigono la relazione dell’Enea sono Anselmi e Ferretti, del Laboratorio di Geologia ambientale Rad/ Cnen di Casaccia, e Papucci del Laboratorio ambiente marino del Cnen di Fiascherino. L’area di campionamento va dal Monte Circeo all’isola d’Ischia. Vengono rilevate concentrazioni di radionuclidi gammaemettitori come cesio 137 e cobalto 60. Nelle conclusioni si legge che <<nell’ambiente marino considerato la radioattività ambientale artificiale direttamente connessa all’esercizio dell’impianto elettronucleare è distribuita su un’area

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di almeno 1700 chilometri quadrati […] Il complesso di tutti questi risultati, correlati con la distribuzione spaziale dei radionuclidi nei sedimenti, suggeriscono che una delle aree maggiormente interessate dalla contaminazione e da fenomeni di accumulo è quella interna al golfo di Gaeta. In effetti è in quest’area che sono stati riscontrati i valori più elevati di cesio 137 e cobalto 60 sia nei sedimenti che in organismi eduli (militi, pesci). L’area riveste quindi un elevato interesse protezionistico sia per la valutazione della dose massima che per l’individuazione dei gruppi critici.>> C’è da chiedersi come mai i tecnici campionino esclusivamente cesio e cobalto. Infatti, nella relazione, nessun altro contaminante radioattivo viene debitamente tracciato o analizzato. Particolare di rilievo per una centrale in cui sono state condotte sperimentazioni che hanno previsto la sostituzione delle barre di uranio con quelle di plutonio. Nella relazione del 1969 inviata dall’Enel all’Euratom la questione viene citata in maniera circostanziata. <<La centrale del Garigliano – si legge – è stata fermata il 30 luglio 1968 per procedere alla sostituzione di 84 elementi di combustibile con egual numero di elementi freschi o parzialmente irraggiati suddivisi come segue: 54 elementi freschi all’uranio; 18 elementi parzialmente irraggiati; 12 elementi prototipi al plutonio di caratteristiche meccaniche e termoidrauliche analoghe a quelle degli elementi freschi di ricarica all’uranio. Di tali elementi 8 (di tipo standard) sono costituiti da 64 barrette contenenti pastiglie di ossido misto di uranio

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naturale e plutonio; gli altri 4 (di tipo advanced) costituiti da 24 barrette in ossido misto uranio naturale e plutonio e 40 barrette in ossido di uranio arricchito.>> Tuttavia, i campionamenti di cesio e cobalto sembrano bastare al pretore di Minturno Luigi Piccialli che, sulla base di un esposto firmato dall’avvocato Tibaldi, invita l’Istituto Superiore di Sanità ad accertare se le contaminazioni rilevate dall’Enea comportino pericolo per la salute umana. La risposta arriva nell’agosto del 1984. L’ISS conclude per una mancata rilevanza, sotto il profilo sanitario ed ecologico, dei fenomeni di accumulo di cesio 137 e cobalto 60 nei sedimenti marini. Peccato che l’Istituto abbia espresso un parere tecnico solo sulla scorta degli elementi già dati per assodati dalle relazioni dell’Enea. Senza cioè svolgere, come il pretore di Minturno aveva richiesto, tutti i nuovi accertamenti tecnici necessari all’avvio di una nuova indagine. Per tutta risposta, a finire sotto accusa è Marcantonio Tibaldi. I sindaci dei comuni del golfo di Formia, Minturno e Gaeta lo denunciano per divulgazione di notizie false e allarmismi ingiustificati <<con gravissimi danni – si legge - per la psiche collettiva dei propri amministrati e per l’economia turistica e commerciale in tutte le città del Litorale Marino.>> Il pretore dispone il decreto di non luogo a procedere. Le accuse di procurato allarme cadono miseramente. Gli animali malformati Nel marzo del 1981 viene pubblicato uno studio dal titolo “La mostruosità nucleare. Indagine sulla centrale del Garigliano” a cura del dottor


Alfredo Petteruti di Sessa Aurunca. È un’indagine diversa e, per certi versi, assolutamente innovativa. Petteruti compie un primo studio sul fenomeno delle malformazioni genetiche degli animali verificatesi nella piana del Garigliano. L’indagine viene limitata ad animali appartenenti alla medesima razza: vengono scelte le vacche Frisone italiane, dette localmente “olandesi”. Il dottore prende in esame tre gruppi di aziende in tre zone diverse, denominate A, B e C. La zona A dista dalla centrale nucleare da 1 a 9 chilometri. La zona B è sita a una distanza intermedia di circa 6 chiilometri. L’ultima area dista dal sito nucleare più di 40 chilometri. I risultanti sono allarmanti. Le aree più prossime alla centrale sono quelle in cui il numero delle nascite di vitelli malformati si impenna tra il 1979 e il 1980. E persino nella zona C, dove l’incidenza è più bassa rispetto alle prime due aree prese in esame, la stima viene definita peggiorativa se comparata coi valori di rifermento dei primi anni Sessanta. Le malformazioni riscontrate sono tutte incompatibili con la vita. Sulle malformazioni genetiche neonatali, invece, non sono stati condotti studi specifici. A onor del vero l’avvocato Tibaldi ha raccolto e pubblicato nel libro “L’inquinamento di radionuclidi del Lazio meridionale” diversi dati sulle malformazioni registrate nei vari ospedali locali tra il 1971 e il 1983. Tra i casi citati quelli di <<dito soprannumerario della mano sinistra, atrofia esofagea, ermafroditismo, cuore a destra senza situs inversus, polidattilia a quattro arti, pollice bifido, trisomia, ipospadia>> e molti altri

ancora. A questi vanno aggiunti i dati raccolti sull’aumento di insorgenze di tumori e leucemie che flagellano trasversalmente la piana del Garigliano. Ma, come in molti altri casi, a mancare è il nesso di causalità tra l’attività svolta dalla centrale nucleare e le patologie e malformazioni registrate. Nessuno studio ha dimostrato che è tutta colpa della centrale. Per il semplice motivo che nessuno studio di questo tipo è mai stato fatto. Poco si sa pure degli ex lavoratori della centrale nucleare In un solo caso, stando a quanto viene riportato dalla testata “La Provincia” del 24 maggio 2012, ad una ex lavoratrice della centrale è stata concessa la pensione di invalidità. Addirittura l’Inps avrebbe riconosciuto il nesso di causalità tra il lavoro svolto all’interno della centrale e la patologia neoplastica sviluppata. La donna, originaria di Terracina, è stata colpita da un adenocarcinoma al rene. Ha lavorato nella sala controlli delle apparecchiature radioattive della centrale tra il 1968 e il 1975. Successivamente è stata trasferita presso altri uffici Enel – Napoli, Formia e Terracina – prima di scoprire di essersi ammalata. Nel febbraio 1990 si è sottoposta a un delicatissimo intervento di nefrectomia sinistra. Il rene, in pratica, le viene asportato. La donna, poi, decide di far causa all’Enel per danno biologico e morale. Il Tribunale di Napoli il 29 dicembre 2004 rigetta la sua richiesta. Il 26 luglio 2006 la Corte di Appello di Napoli, ribaltando la sentenza, accoglie favorevolmente il ricorso della donna. L’Enel, a questo punto, decide di ricorrere in

Cassazione. La contestazione viene avanzata sulla base del presupposto che i giudici di appello si sarebbero basati unicamente sulla relazione tecnica che attesta alla donna il riconoscimento della pensione di invalidità. La Cassazione dà ragione all’Enel. La sentenza della Corte d’Appello di Napoli viene cassata. Sulla vicenda dovrebbero ora pronunciarsi i nuovi giudici della Corte d’Appello, sulla base di una perizia medico-legale. Ma anche di questo procedimento, allo stato dei fatti, non si sa più nulla.

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BASILICATA. L’ITREC, LE LA FOSSA IRREVERSIBILE DI FELICE SANTARCANGELO

Nel novembre del 2004 Il movimento antinucleare e pacifista “No Scorie Trisaia” chiede al sindaco di Rotondella, in provincia di Matera, di dedicare la piazzetta antistante al Centro Enea-Itrec della Trisaia alla memoria del giovane attivista francese anti-nucleare Sebastien Briat, morto il 7 novembre dello stesso anno, investito da un treno di scorie. Il giovane si era incatenato ai binari sui quali doveva passare il convoglio radioattivo diretto al deposito di Goldenberg, in Germania. Il 27 novembre 2007 gli antinuclearisti lucani, in mancanza del riconoscimento istituzionale, dedicarono una targa al giovane antinuclearista francese di fronte l’Itrec. Per tutti ora Piazza Sèbastien Briat. L’azione e il ricordo di Briat, seppur in un arco temporale recente, si collega con le opposizioni pacifiche in terra di Basilicata al centro nucleare sull’arco jonico lucano. Di cui vi raccontiamo la storia.

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L’impianto Itrec fu costruito alla fine degli anni Sessanta, nell’ambito di una collaborazione tra l’ex Comitato nazionale per l’energia nucleare (Cnen) e l’Atomic energy Commission americana. <<Lo scopo dell’attività dichiarata era quello di proseguire un progetto già iniziato negli Stati Uniti per valutare la convenienza economica del ciclo uranio-torio rispetto al più utilizzato ciclo uranioplutonio, per la produzione di energia nucleare. Tra il 1968 e il 1970 l’impianto ricevette dagli Stati Uniti, in tre spedizioni, 84 elementi di combustibile dalla centrale di Elk River. Di questi, 20 furono impiegati per eseguire, in due fasi - tra il 1975 e il 1978 - le prove nucleari di alcune parti dell’impianto, producendo quasi 3 metri cubi di soluzione uranio-torio, detto prodotto finito, un volume analogo di rifiuti liquidi ad alta attività, altri rifiuti liquidi, circa 60 metri cubi, ad attività minore e rifiuti solidi costituiti dalle parti metalliche del combustibile riprocessato. Questi ultimi furono inglobati in quattro monoliti di cemento di 5 metri di lunghezza e un metro quadrato di sezione, che furono interrati. Le prove dettero esito negativo, evidenziando la necessità d’interventi di modifica, che furono progettati, approvati e

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realizzati, ma - a seguito dei mutamenti dei programmi conseguenti all’incidente di Chernobyl nel 1987 - l’impianto fu chiuso. Peraltro, in America, la centrale di Elk River era già stata definitivamente spenta sin dal 1968. D’altra parte, le prove nucleari svolte avevano ovviamente determinato la contaminazione delle parti interessate e l’accumulo di rifiuti radioattivi, cosicché l’impianto deve oggi essere sottoposto a operazioni di decommissioning.>> Le barre di Elk River furono spedite in Italia con un contratto di lavorazione molto simile a quello stipulato dall’Italia, verso la Francia, per le barre di combustibile nucleare delle centrali italiane da riprocessare all’estero. Le barre nel contratto di lavorazione prendevano la definizione di weapons grade (grado di armi). Già il nome lasciava presumere la natura militare del combustibile. Nel contempo, negli Stati Uniti il processo uranio-torio fu abbandonato e oggi sono ancora stoccate circa 200 barre nelle piscine dell’impianto di Elk River nel Minnesota. Perché l’attività fu allora sponsorizzata in Italia? Quali altri interessi erano collegati a queste barre?


BARRE DI ELK RIVER, E E LA MAGNA GRECIA La contaminazione interna e le attività dell’Itrec L’impianto subì una contaminazione interna, come dichiarato dai responsabili Ispra e dai tecnici Sogin nei vari tavoli della trasparenza regionali. Fu allora che si decise di sospendere l’attività nucleare ed il centro è entrato in una fase di mantenimento e messa in sicurezza per arrivare alle attuali fasi dello smantellamento. A causa della sua natura sperimentale le barre di Elk River non possono essere riprocessate in nessun impianto al mondo. Da allora le 64 barre rimaste - con il loro carico di uranio e di torio - sono custodite in una piscina di 30 metri quadrati e alta 7 metri. Il prodotto finito di uranio-torio, invece, sarà trattato come rifiuto radioattivo di terza categoria e non più riutilizzabile per mancanza di impianti nucleari che utilizzano la tecnologia uranio-torio (c’è solo un impianto in India che tratta l’uranio-torio). Il dubbio su cosa sia stato estratto in più da queste barre permane nella popolazione locale. Mentre sull’Itrec è stato anche disposto il segreto di Stato. <<Sino al 2003 - come riportato in un documento agli atti della Camera dei deputati l’impianto Itrec, come gli altri impianti dell’Enea, è stato gestito dall’Enea stesso. L’ente,

dopo la chiusura, non aveva prodotto un preciso programma per il suo decommissioning e l’attività svolta è consistita essenzialmente nel condizionamento dei rifiuti radioattivi liquidi tramite cementazione, prima, tra il 1995 e il 1997, di quelli a bassa attività, successivamente, nel periodo 1999-2000, di quelli ad alta attività. Queste operazioni hanno portato alla produzione di 433 fusti di rifiuti per il condizionamento dei liquidi a bassa attività, e 307 fusti per il condizionamento di quelli ad alta attività, oltre a 30 fusti di rifiuti dal condizionamento dei liquidi di lavaggio. Negli stessi anni vennero effettuate operazioni di supercompattazione (riduzione di volume tramite pressatura, ndr) di rifiuti solidi a bassa attività, che hanno portato alla produzione di 841 manufatti (detti over-pack). È stato inoltre necessario effettuare operazioni di bonifica e la completa sostituzione della condotta degli scarichi liquidi in mare. Infine, a seguito di una contaminazione rilevata in alcuni pozzetti di monitoraggio intorno all’area, detta fossa irreversibile, ove sono interrati i monoliti di cemento di cui si è sopra detto, nel 2007 è stata realizzata una barriera di contenimento idraulico dell’area stessa, in attesa della

sua bonifica e propedeutica alla bonifica stessa. […] La situazione complessiva dei rifiuti radioattivi presenti nell’impianto, aggiornata al 31 dicembre 2011: a seguito di perdite di liquidi debolmente radioattivi che si erano verificate nel 1993 all’esterno dell’impianto a causa di rotture di tubazioni della condotta di scarico a mare, nonché gestire un versamento di rifiuti liquidi all’interno dell’impianto, causato dalla rottura di uno dei serbatoi ove i rifiuti erano stoccati. Questi eventi sono stati oggetto di un procedimento penale. Dall’agosto 2003 la gestione dell’impianto è passata alla Sogin. Da allora le attività prevalenti hanno riguardato la sistemazione generale del sito e la prosecuzione della gestione dei rifiuti radioattivi, in particolare per quanto attiene a quelli solidi conservati, insieme a materiali contaminati di vario tipo, in alcuni container collocati in un’area del sito stesso.>> Itrec: deposito provvisorio, impianto ICFP e fossa irreversibile Per stoccare le scorie prodotte dal decommissioning nei rispettivi centri nucleare la Sogin ha previsto dei capannoni provvisori di stoccaggio. Per il sito della Trisaia si

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prospetta la costruzione di un mega capannone di circa 20 mila metri cubi. L’Impianto ICPF riguarda la realizzazione di un impianto di cementazione finalizzato al condizionamento dei rifiuti liquidi radioattivi stoccati nell’impianto Itrec, mediante un processo di neutralizzazione e solidificazione con inglobamento della corrente radioattiva in matrice cementizia. L’impianto ICFP si compone di un edificio (di circa 6 mila metri cubi) in cui sarà eseguito il processo di condizionamento dei rifiuti liquidi radioattivi e di un edificio di deposito (circa 14 mila metri cubi) dove saranno stoccati i rifiuti-manufatti. La realizzazione dei nuovi edifici è prevista all’interno della porzione del Centro di ricerca Enea, dato in concessione a Sogin per le necessarie azioni di bonifica ambientale. In poche parole per trattare 3 metri cubi di liquidi ad alta attività sarà costruita una linea per la solidificazione che produrrà 480 metri cubi di rifiuti solidi da stoccare in un nuovo capannone, dal costo di 48 milioni di euro. Nel futuro deposito dovranno finire le barre di Elk River e i rifiuti della fossa irreversibile, ora diventata reversibile. Uno strano modo di trattare i rifiuti negli anni Settanta, con una classica sepoltura di un monolite a più strati contenente rifiuti di seconda e terza categoria. Pratica presente in diversi centri nucleari italiani che non garantiscono però condizioni di sicurezza nel tempo. Sono in effetti le falde idriche le prime ad essere interessate da probabili fughe di radioattività, a seguito del contatto dei contenitori di cemento con il terreno. Ed è per questo che

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la stessa Sogin ha avviato un programma di bonifica. Nel 2006 fu costruito attorno al monolite dell’Itrec una barriera impermeabile per una fuga di acqua radioattiva trovata nei pozzetti piezometrici limitrofi. Lo smantellamento del monolite è attualmente in corso. Ma non sarebbe stato meglio non riprocessare quelle famose 20 barre di uraniotorio o meglio lasciarle nel Minnesota? Il controllore e il controllato. I monitoraggi e la trasparenza È da qui che nasce la storia del controllore e del controllato in Basilicata. L’Itrec, prima con Enea e poi con Sogin si autocontrollava. Non era mai esistito un controllo terzo, pubblico, sulle attività di monitoraggio ambientale. Il movimento “No Scorie Trisaia” ha dato vita ad una campagna pubblica affinché questi controlli fossero attivati e, solo nel 2007, l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente (Arpab) si attrezzò completamente. Furono montate le prime due centraline pubbliche per il monitoraggio della radioattività dell’aria a monte e a valle del centro nucleare. Oggi, anche se esiste ed è stato redatto dalla Prefettura, il Piano di emergenza esterna per le popolazioni non è stato mai divulgato dai comuni di Nova Siri, Rotondella e Policoro, limitrofi al centro. Ne è mai stata fatta un’indagine epidemiologica completa per verificare l’impatto sanitario sul territorio. La Provincia di Matera e i Comuni di Rotondella, Nova Siri, Policoro e Tursi percepiscono ogni anno una compensazione economica per la presenza del centro nucleare. Presenza che

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rappresenta una minaccia per le colture pregiate presenti sul territorio e l’attività turistica. Il Comune di Rotondella attivò per due anni un monitoraggio ambientale fatto con le api. Un progetto in collaborazione con l’Università di Bologna. La Provincia, invece, per il monitoraggio ambientale non ha mai speso nulla. I tavoli della trasparenza regionali L’unico momento di trasparenza e informazione sul decommissioning nucleare dell’Itrec si è svolto nel corso dei tavoli della trasparenza istituzionali. Tavoli che si svolgono in tutte le regioni italiane nuclearizzate. Ma, qui, la Regione Basilicata non ha brillato in trasparenza. I tavoli sono stati convocati negli ultimi anni una volta l’anno, e solo in caso di incidenti. In un periodo di oltre due anni, durante la Giunta dell’ex governatore Vito De Filippo (attuale sottosegretario alla Sanità), il tavolo non è mai stato convocato, rimandando tutto ad una cabina di regia regionale inaccessibile al pubblico. La restituzione delle barre di Elk River e la missiva al presidente uscente degli Stati Uniti d’America È dal 2003 che il movimento “No Scorie Trisaia” - insieme ad associazioni antinucleari del territorio e alcuni sindaci dell’area - conduce una lunga campagna di comunicazione e pacifica mobilitazione, istituzionale e cittadina, per far sì che il governo italiano restituisca ai legittimi proprietari le barre di Elk River. Al fine di ottemperare al contratto di lavorazione e di permettere al centro una


RASSEGNARSI È PECCATO DI PASQUALE STIGLIANI, SCANZIAMO LE SCORIE Sono trascorsi tredici anni dalle quindici giornate di civile e pacifica protesta di Scanzano Jonico, in provincia di Matera, contro la realizzazione del deposito unico di scorie nucleari imposto dal secondo governo Berlusconi. Dal 13 al 27 novembre del 2003 è andato in scena un evento unico e straordinario. Lo ricordiamo in occasione del consueto anniversario. Esiste il ricordo vivo, la narrazione continua di una storia piacevole che non si vuole e non si può dimenticare. Di quei momenti ci sono tracce ovunque: in Basilicata e non solo. In macelleria, dal tipografo, dal tabacchino, nelle case o nella sala stampa “Nassyria” del Senato della Repubblica, ormai simboli della bellezza di un racconto che ha lasciato un segno profondo. Un segno indelebile per chi ha avuto la fortuna, come me, di partecipare. Il 13 novembre verso le tre del pomeriggio eravamo in quattro davanti la porta del Comune. Con Nicola, Vittorio ed Antonello non avevamo idea da dove cominciare, ma sapevamo che era giusto. Una scintilla sufficiente per dar fiamma e fuoco ad una forza che nessuno riuscì a spegnere, neanche il governo Berlusconi di allora ed il Generale (Carlo Jean, ndr) a

capo dell’operazione messa in atto per realizzare con urgenza il deposito di scorie nucleari in Basilicata, a Terzo Cavone, nel territorio comunale di Scanzano. La sera del 13 novembre il Comune era presidiato da una comunità che non voleva rinunciare alla sua sorte e non avrebbe mai concesso nelle mani di altri il proprio destino. Non era la prima volta. Ma la terza volta che, nella stessa piazza, le “forze del bene” si scontravano contro quelle del “male”. I cittadini che lavorano nelle terre contro chi dagli anni Sessanta vuole realizzare nelle caverne di salgemma una grande discarica nazionale contro lo sviluppo agricolo e turistico del territorio. Volevano cancellare definitivamente l’ambiente, l’economia e la “cultura contadina” di un popolo, a volte brigante, che vive pacificamente nella culla della Magna Grecia. Un popolo coscienzioso e consapevole che la terra è nostra e non si deve toccare. Che non vuole perdere le sue tradizioni, i sacrifici e il lavoro ma, soprattutto, la lotta e l’”emancipazione sociale” conquistata con l’occupazione delle terre e la Riforma Agraria. La possibilità di distruggere il creato di più generazioni ha alimentato la protesta contro la decisione del governo di cittadini e istituzioni non solo

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SCANZANO

locali. In quelle giornate ho vissuto prevalentemente al presidio del comitato “ScanZiamo le Scorie”. Sui luoghi dove dovevano realizzare la discarica nucleare abbiamo realizzato un Campo Base in cui si svolgevano diverse attività funzionali alla protesta. Il tempo trascorreva veloce. La tensione e l’organizzazione ci facevano sempre compagnia. Come i topolini che giravano nelle tende in cui ci si accampava e il fuoco con il generatore per la corrente sempre acceso. Le tortiere di pasta al forno, di patate, di carne e le innumerevoli quantità di vino paesano ci facevano capire che potevamo sopravvivere a lungo anche fino allo scontro. Eravamo ormai una grande comunità unità nella lotta, che non si sarebbe rassegnata. Alcuni parroci pregavano spesso: <<Rassegnarsi è peccato>>. Il 23 novembre 2003 la protesta “dei centomila” si mostrò con tutta la sua forza. In ogni città italiana o straniera dove viveva un lucano c’era un presidio contro la discarica. A Roma eravamo molto presenti con continue iniziative di “ScanZiamo le Scorie”, grazie ad un nutrito gruppo di giovani universitari: la vera spina nel fianco del Governo. Poi il 27, verso le due del pomeriggio,

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iniziarono ad arrivare le notizie della resa dell’Esecutivo e la conferma che <<Scanzano sarà cancellato dal decreto>>. Seguirono i sorrisi, gli abbracci e le lacrime della vittoria. La soddisfazione di aver difeso la “cultura contadina” che ci appartiene. Di aver ripreso il governo del territorio. Nei giorni successivi rientrammo rapidamente nelle case. Riprendemmo subito la serenità della vita quotidiana in compagnia della nostalgia di quei momenti passati, ma con la consapevolezza di essere sempre vigili e pronti a lottare contro chi potrebbe riprovarci.

declassazione della pericolosità da sito di terza categoria a sito di seconda categoria, e una futura riconversione produttiva per il territorio. Inizialmente la Sogin ha dichiarato che l’Italia ha acquisito la proprietà delle barre. Ma non convince il fatto di come un contratto di lavorazione sia diventato di acquisizione. Il governo Berlusconi inizia ad interessarsi alla possibile restituzione, ma con esito negativo. Il testo di un rapporto del 2006, tra Italia e Usa, sulla restituzione delle barre è intercettato da Wikileaks. Ma senza alcun risvolto positivo. Un nuovo tentativo, questa volta per mano delle associazioni, viene fatto nel mese di febbraio 2014. No Scorie Trisaia a seguito del silenzio istituzionale dei parlamentari lucani e dell’allora presidente della Regione Basilicata, Vito De Filippo, fa recapitare una lettera a Barack Obama. Alla luce degli accordi del vertice di Seul, con il presidente italiano Mario Monti, sul rimpatrio di materie nucleari strategiche d’origine americana dall’Italia si chiede la restituzione delle 64 barre di Elk River e i residui della lavorazione delle altre 20 barre. Allo stesso modo di come gli Stati Uniti hanno fatto nel 2012 con il materiale custodito nei centri nucleari di Saluggia e Trino Vercellese in Piemonte. Lo scopo è di denuclearizzare il centro Itrec della Trisaia di Rotondella per riconvertirlo in una scuola del Mediterraneo per le energie rinnovabili. Il trasporto americano radioattivo del 29 luglio 2013 Alle tre di notte del 29 luglio 2013 accade qualcosa che non passa inosservato nella calura estiva e nella movida policorese dei ragazzi che, nelle stazioni di

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servizio vicino la Strada Statale 106, consumano il classico cornetto notturno. Uno strano movimento di mezzi e uomini della Polizia presidia i viadotti della Jonica. Una scorta e un convoglio con mezzi pesanti e dei Vigili del fuoco provengono dall’Itrec. Nella confusione generale la stampa locale ipotizza la restituzione delle barre di Elk River facendolo passare come un successo politico. Si saprà a breve che si è trattato di una piccolissima quantità di materiale nucleare. Appena 1.050 grammi di uranio diretti negli Usa. L’allora sottosegretario all’Ambiente, Marco Flavio Cirillo, nel rispondere ad un’interrogazione parlamentare chiarisce che <<il materiale nucleare trasportato da Rotondella a Gioia Del Colle lunedì era biossido di uranio (UO2), 1.050 grammi, con uranio totale pari a 920 grammi, con arricchimento non superiore al 91%, per circa 828 grammi di uranio 235. Il trasporto è avvenuto secondo le regole internazionali come certificato dall’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale)>>. In poche parole uranio militare utile per la fabbricazione di ordigni nucleari. La domanda sorge spontanea: da dove proviene questo uranio arricchito? Forse dal riprocessamento delle 20 barre di Elk River? I pozzi di gas presenti vicino ai centri nucleari Nel 2010, nonostante le osservazioni e la mobilitazione dei cittadini, il ministero dello Sviluppo economico e la Regione Basilicata autorizzano un pozzo di gas vicino l’Itrec. Sulla questione, la Sogin, è stata sempre evasiva. Eppure il rischio di subsidenza non è mai stato preso

seriamente in considerazione. Nessun monitoraggio dell’abbassamento del suolo. L’Ispra, nella guida tecnica, è stata abbastanza chiara. Il deposito nazionale di scorie non può sorgere vicino luoghi dove si sfrutta il sottosuolo. E i pozzi di gas rappresentano lo sfruttamento del sottosuolo. Solo il 5 percento e lo spiraglio I volumi dei rifiuti nucleari custoditi nell’Itrec costituiscono circa il 5 percento dei 90 mila metri cubi previsti per il deposito nazionale. Se gli Stati Uniti dovessero recuperare le barre di Elk River il sito potrebbe tranquillamente essere riconvertito. La Sogin in un comunicato ufficiale del 2015 ha informato che <<il Dipartimento dell’energia degli Stati uniti sta elaborando uno studio tecnico per il trasferimento delle 64 barre di Elk River.>> […] <<L’Italia ha perso in merito cause legali con gli Usa. Da qui la ricerca di un accordo politico-commerciale per ottenere lo scopo. Così, siamo in attesa dello studio sulla possibilità tecnica del trasferimento.>>

ricerca universitaria e per l’Enea sarebbero canalizzate in un unico progetto di ricerca e di studio. Il centro è servito dalla SS106 e dalla ferrovia su Nova Siri e Policoro. Il bacino di utenza è notevole e potrebbe servire, secondo stime approssimative, oltre 600 mila abitanti considerando le zone di Puglia e Calabria dell’arco jonico. Pitagora nel 600 a.C. fondò la prima università a Metaponto facendo dell’arco jonico un ponte di sviluppo verso il Mediterraneo. Nel terzo millennio cosa ci impedisce di fare altrettanto?

L’Università delle rinnovabili al posto del centro nucleare della Trisaia Un indirizzo specifico per l’Università della Basilicata. Una proposta non casuale. Il centro potrebbe ospitare le aule già servite da tanti laboratori dove sono stati investiti ingenti risorse finanziare per la ricerca. Ha già a disposizione i servizi e gli spazi necessari per attività studentesche. Il personale di campo in servizio nel centro può essere riqualificato e impiegato nella nuova struttura universitaria. Le risorse finanziare per la Terre di frontiera / numero 8 anno 1 - novembre 2016 / www.terredifrontiera.info

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IL NUCLEARE LUCANO. TERRA DI NESSUNO E IN PER POCHI

DI GIORGIO SANTORIELLO

L’ultima volta che la nostra associazione ha avuto contatto con forme di vita all’interno del perimetro Itrec-Trisaia di Rotondella, il risultato è stata la loro fuga in massa, uomini e mezzi della Cada snc - azienda siciliana leader dei lavori-indagini ambientali, impegnata nei lavori di smantellamento - appena hanno visto una videocamera oltre la recinzione, nel giro di quindici minuti hanno preso camion, furgoni e pick-up e sono andati oltre il nostro campo visivo. Per la Cada snc, come per tutte le altre aziende contrattiste Sogin in Trisaia, non è visibile il certificato antimafia.

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Il tavolo della trasparenza sul nucleare si convoca quando il sistema-Regione vuole. I consulenti spariscono quando vengono ufficialmente chiamati dai Comuni della zona. Come il professor Massimo Zucchetti (ordinario presso il Dipartimento di Energia del Politecnico di Torino), sparito dopo una breve visita all’Itrec, con noi e con alcuni rappresentanti dell’amministrazione comunale di Policoro. Il rifiuto La Sogin rifiuta nuove visite da parte delle associazioni dotate di propria strumentazione di rilevamento di radioattività. Si continua a scaricare acqua in mare senza controllarne la radioattività in tempo reale. Le falde sono ufficialmente contaminate da sostanze cancerogene (principalmente trielina, idrocarburi e ferro) da oltre un anno e nessuno ne conosce la sorgente contaminante. Dell’attività del camino dell’Itrec non si sa nulla

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se non per parte Sogin in autocontrollo. Il primo cittadino di Rotondella, Vito Agresti - nonostante la vocazione agricola della zona - non ha mai emesso un’ordinanza di divieto di emungimento dell’acqua di falda. Non conosciamo i reali impatti dell’Itrec perché l’Agenzia per la protezione ambientale della Basilicata (Arpab) non ha i mezzi Del piano di emergenza esterna non si sa nulla di certo: ad eccezione del fatto che è incompleto perché non prevede tutti gli scenari possibili di rischio e la popolazione non è mai stata coinvolta in un’esercitazione. Il centro di decontaminazione dell’ospedale di Policoro è oggetto di una nostra richiesta di visita da oltre diciotto mesi, senza esito. I dati ambientali escono col contagocce e sono sempre di parte (ovvero fonte Sogin) e nell’ultimo monitoraggio ambientale relativo all’impianto ICPF i contaminanti cancerogeni


puntoebasta

rinvenuti, oltre un anno fa nelle falde dell’area, sono stati rinvenuti anche nel fiume Sinni. Per il responsabile della trasparenza Sogin è tutto nella norma. Terrorista E quando abbiamo contestato questo modus operandi un responsabile Sogin, Ivo Velletrani, nel corso dell’ultimo tavolo della trasparenza mi ha definito <<terrorista>>, mentre proiettavo uno studio della Sogin-Nucleco nascosto ai lucani e presentato a Vienna. Uno studio che illustra come alcuni ex locali dell’Agip nucleare, oggi interrati nell’area della Trisaia, avessero una contaminazione da radionuclidi tale da dover essere analizzati dall’esterno. Il monolite ha perso liquido radioattivo, le falde sotto il monolite non dovevano esserci invece ci sono, il canale di scarico a mare è stato interrotto nel giugno 2011 per il raggiungimento di 375 becquerel al chilogrammo nella sabbia marina e le origini

di tale anomalia non sono note, le analisi radiochimiche sulla percolazione del monolite le aspettiamo da due anni. Praticamente a noi cittadini non viene detto nulla, in violazione di ogni norma nazionale ed europea (Euratom) vigente in materia. In aggiunta, l’Istituto Superiore di Sanità ha attestato un aumento d’incidenza e mortalità per patologie tumorali - alla tiroide e alle vie biliari - nel territorio di Rotondella, consigliando approfondimenti radio tossicologici, che - ad oggi pare nessuno voglia fare, anche se noi li abbiamo proposti a tre comuni della zona. E in ultimo l’Ispra, i cui verbali d’ispezione all’impianto non sono pubblici. Loro che dovrebbero vigilare sull’attuazione della Convenzione di Aarhus. Questo, in parte, è il nucleare lucano e, forse, una nuova marcia di Scanzano dovremmo farla per la trasparenza e la partecipazione. Perché ancora, nel 2016, questi non sono diritti acquisiti.

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analizebasilicata.altervista.org

NFORMAZIONE

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L’INVERNO DEL LIBERO SCAMBIO DI FRANCESCO PANIÉ

L’agenda commerciale dell’Unione Europea è appesa a un filo che si chiama CETA. Se il processo di ratifica dell’accordo UE-Canada fallisce, sarà una vittoria storica per la società civile.

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La ratifica del CETA al Parlamento Europeo, che dovrebbe sancirne anche l’applicazione provvisoria in attesa delle ratifiche nazionali, è in agenda per San Valentino. Così Strasburgo e Bruxelles cercano di saldare la liaison dangereuse con gli interessi dei più grandi gruppi di potere industriale e finanziario al mondo. Un grande accordo di libero scambio con il Canada, che aprirà i rispettivi mercati in tutti i settori dell’economia: dall’agroalimentare ai servizi, dagli appalti pubblici agli investimenti, dall’energia alle biotecnologie. Senza contare i vantaggi che il trattato anche alle 42 mila imprese statunitensi che hanno una sede in Canada - l’81 percento degli investitori Usa in Ue - e potranno all’occorrenza trasformarsi in aziende canadesi per utilizzare le disposizioni più favorevoli del CETA e il suo tribunale speciale. Per questo motivo, i movimenti sociali che in questi anni si sono opposti ai nuovi accordi promossi dall’Unione Europea, individuano in quest’ultimo trattato il cavallo di Troia del più noto TTIP, negoziato con gli Stati Uniti. Il dialogo con gli Usa vive un momento di stanca, dovuto alle grandi preoccupazioni dell’opinione pubblica manifestate in centinaia di piazze durante

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questi anni. Oltre ai timori dei cittadini per un abbassamento degli standard europei, e l’aumento del potere delle grandi multinazionali rispetto ai governi, il TTIP è congelato per la tornata elettorale di Washington (che ha visto trionfare il repubblicano Donald Trump contro la democratica Hillary Clinton), Berlino e Parigi. Anche il CETA è stato sull’orlo del fallimento, rischiando di mandare a gambe all’aria l’intera agenda commerciale europea. Infatti, sebbene la firma fosse prevista il 27 ottobre a Bruxelles, durante un vertice Ue-Canada, la cerimonia è slittata per l’incapacità dei governi di dare mandato all’esecutivo europeo per l’operazione. A far saltare il banco è stata la Vallonia, regione del Belgio federale che ha negato il via libera al governo centrale, il quale non ha potuto assicurare il suo sostegno alla proposta della Commissione. Senza l’unanimità degli Stati membri, si è inceppato l’ingranaggio. Il ministro del commercio canadese, Chrystia Freeland, la Commissaria Ue al Commercio, Cecilia Malmström, e il presidente del Parlamento europeo, Martin Schultz, hanno avviato urgenti negoziati con il governo vallone, retto dal socialista Paul Magnette. Dopo due giorni di pressioni


multinazionali

politiche, sostenute da minacce di ripercussioni sul piano economico, la piccola regione belga ha ceduto e domenica 30 ottobre è arrivata la firma. Ma non prima di aver strappato alcune concessioni: sarà la Corte Europea di Giustizia, ad esempio, su input del Belgio, a valutare la legalità del meccanismo ISDS/ICS, il tribunale sovranazionale per gli investimenti che permette alle aziende di denunciare gli Stati che approvano leggi ritenute dannose per i loro profitti. Inoltre, basterà un voto contrario anche nel Parlamento regionale di uno Stato federale a far saltare l’applicazione provvisoria del CETA se le modifiche non verranno apportate. L’Ue ha anche promesso la promessa di una completa esclusione dal mercato per i servizi che gli Stati membri decidono di qualificare come “servizi pubblici” e per i cosiddetti “servizi di interesse generale”. A ciò si aggiunge un impegno a tutelare l’agricoltura, vietare le importazioni di OGM e carne agli ormoni, proteggere il principio di precauzione. Questo compromesso non ha convinto la società civile europea, salda sulla posizione di partenza: opzione zero, o battaglia. Così, il 5 novembre, in diverse città italiane, e in altri Stati europei, è stato lanciato lo

#StopCETAday, una giornata di mobilitazione contro l’accordo euro canadese e il crescente potere delle multinazionali. A Roma, in piazza Montecitorio, gli attivisti della “Campagna Stop TTIP Italia” hanno organizzato un presidio insieme ai sindacati e altre organizzazioni ambientaliste e della società civile, per sottolineare i rischi delle importazioni di grano canadese trattato massicciamente con il glifosato e carico di micotossine. A Torino si è svolto un presidio sotto il grattacelo San Paolo, mentre a Verona un corteo ha attraversato la città. Iniziative anche a Milano, Napoli, Gallarate, Catanzaro e Udine. Sono le prove generali per un inverno che si annuncia bollente. San Valentino compreso.

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Fiume Sangro / Foto di Marco Terrei

UN PARADOSSO V NELLA TERRA DI F 64

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DI ALESSIO DI FLORIO

Il 39 percento del territorio abruzzese è sotto tutela paesaggistica. La presenza di uno dei parchi nazionali - quell’Abruzzo e Molise - più antichi e rinomati d’Italia, lo rende unico. Eppure c’è un’area protetta che attende da quasi venti anni l’istituzione definitiva. È il Parco nazionale della Costa Teatina.

VERDE FLAIANO Terre di frontiera / numero 8 anno 1 - novembre 2016 / www.terredifrontiera.info

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IN VIAGGIO SULLA COSTA TEATINA L’area della Costa Teatina comprende ben sette Riserve regionali (“Ripari di Giobbe” e “Acquabella” nel comune di Ortona, “Grotta delle Farfalle” tra i comuni di San Vito e Rocca San Giovanni, “San Giovanni in Venere” a Fossacesia, “Lecceta di Torino di Sangro”, “Punta Aderci” a Vasto e “Marina di Vasto” con San Salvo) e sei Siti d’importanza comunitaria (Sic) appartenenti alla Rete Natura 2000, istituita con la Direttiva 92/43/CEE “Habitat”. Una ricchezza ambientale in standby, che potrebbe perfettamente rientrare tra i paradossi che resero celebre lo scrittore pescarese Ennio Flaiano. <<La costa teatina>>, racconta Marco Terrei, storico attivista del WWF, <<in termini di turismo naturale e di ricchezze ambientali ha un potenziale enorme ma non adeguatamente valorizzato dalla politica e da un’economia locale troppo spesso legata a logiche individualiste. Eppure il turismo verde secondo tutte le statistiche nazionali è il più produttivo. L’ambiente viene ancora considerato un forziere da saccheggiare e non un patrimonio da valorizzare.>> Sono queste visioni che animano l’opposizione all’istituzione del Parco, <<visto come rischio di ingessare e bloccare l’economia del territorio>> specifica Marco

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Terrei. <<Siamo nel 2016 ma lo sviluppo economico del territorio viene ancora legato alla totale espansione edilizia, a Piani regolatori generali che devono portare cemento ovunque e alla grande industrializzazione.>> Una situazione aspramente criticata in un doppio intervento anche dalla Conferenza episcopale di Abruzzo e Molise nel 2011 e 2012. L’allora coordinatore dell’Ufficio pastorale sociale, don Carmine Miccoli, nel suo primo intervento definì il Parco nazionale <<uno dei pochissimi argini verso le situazioni gravissime di devastazione ambientale>>, auspicando che venisse completata <<il prima possibile l’istituzione.>> L’anno dopo attaccò i ritardi di un’istituzione <<scandalosamente attesa da troppi anni.>> La storia e i contenziosi Era il 1997 quando, su proposta dell’allora senatore abruzzese Angelo Staniscia, il comma 3 dell’articolo 4 della legge n.344 inserì la Costa Teatina tra le <<prioritarie aree di reperimento>> previste dalla legge n.394/91 per l’istituzione di un Parco nazionale. L’iter fu avviato con la legge n.93/2001, contro cui la Giunta regionale Pace, nel 2002, ricorse alla Corte Costituzionale. La sentenza n.422/2002 rigettò il ricorso

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dichiarando <<non fondata>> la richiesta della Regione Abruzzo. L’iter comunque rimane fermo per mancanza dell’intesa tra il ministero dell’Ambiente e Regione. Solo quattro anni dopo, l’assessore Franco Caramanico della Giunta Del Turco - subentrata nel frattempo - elabora una prima proposta di perimetrazione dell’area protetta coinvolgendo i Comuni nella stesura e revisione. Solo tre su nove Vasto, San Salvo e Francavilla - partecipano attivamente deliberando loro proposte. Nonostante la mancata partecipazione di molti Comuni la Regione invia una sua proposta di perimetrazione al ministero ma l’arresto del presidente Del Turco e la fine anticipata della legislatura regionale porta nuovamente l’istituzione del Parco ad arenarsi. Due anni dopo, il 10 maggio 2010, il ministero convoca la Regione Abruzzo, la Provincia di Chieti e i Comuni coinvolti per cercare di definire la tanto attesa perimetrazione del Parco. Ma la questione resta sospesa per diversi mesi, accelerando solo dopo che (su proposta del senatore PD Legnini) il decreto “Milleproroghe” stabilisce il 30 settembre come data finale entro cui Regione e Comuni dovranno definire la loro proposta, superata la


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quale il ministero invierà un commissario. Il 30 settembre 2011 non vede, invece, la conclusione positiva della vicenda. Nel febbraio 2012 viene votata in Parlamento una proroga dei termini al 30 giugno 2012. Un nuovo termine che passa invano. Eppure, perché dal ministero arrivi un commissario si è dovuto attendere altri due anni. Il commissario è stato nominato solo nell’estate del 2014, individuandolo nell’ex presidente della Provincia di Pescara, Pino De Dominicis (DS). <<Dopo la consegna dei lavori l’anno scorso da parte del commissario De Dominicis, con il Parco quindi all’ultimo miglio, in Regione è stato approvato un documento che chiedeva di rimettere in discussione la proposta di perimetrazione di De Dominicis, e tutti i sindaci (dal centrodestra al PD, con questi ultimi addirittura maggiori proponenti) hanno firmato un documento con la stessa richiesta. Pressioni che sembrano aver avuto finora effetto perché, oltre un anno dopo la consegna della perimetrazione del commissario De Dominicis, il decreto non è arrivato>>. Eppure, continua nel suo racconto Marco Terrei, al governatore abruzzese, Luciano D’Alfonso, il ministero dell’Ambiente ha risposto <<che ormai gli enti locali non

potevano più intervenire: da un punto di vista tecnico-formale ormai è solo il commissario, che nonostante ciò ha svolto incontri e convegni pubblici nel suo anno di mandato, a poter decidere. D’Alfonso in questi mesi sta cercando, partendo dalle istanze del Consiglio Regionale, dei sindaci e di alcuni settori economici, di far modificare la proposta De Dominicis riducendola. Voci di corridoio della politica locale ci dicono che in una possibile nuova proposta di perimetrazione verrebbero stralciate le aree sulle quali insistono proposte di progetti che il Parco potrebbe rendere impossibili.>> Cammina per il Parco Da quattro anni Marco Terrei e Andrea Natale sono i promotori, insieme a WWF ed Arci, di “Cammina per il Parco”. Un’iniziativa, nata nell’inverno del 2012, che punta a far crescere la consapevolezza dell’importanza del Parco nazionale della Costa Teatina e far pressione affinché l’iter venga finalmente chiuso. Il cammino nei territori dell’atteso parco punta ad un <<contatto reale e diretto con l’ambiente>> per <<conoscere ed esplorare al meglio le sue ricchezze e lo stato in cui versano>>. La prima edizione, svoltasi nel giugno 2013, fu

legata alla scadenza del 30 giugno, <<entro la quale>>, ci dice Marco, <<i comuni dovevano deliberare la loro proposta di perimetrazione. In caso contrario la legge prevedeva l’arrivo di un commissario governativo. Avevamo il timore che non sarebbe stato così ma abbiamo voluto tentare, cercare di spingere perché la procedura finalmente si completasse.>> Ma così non fu. <<Il Pd, che nel 2011 sembrava volesse far diventare il Parco una sua bandiera non è stato l’attore decisivo per la conclusione dell’iter. Anzi, a partire dal presidente della Regione Abruzzo Luciano D’Alfonso, fino ad i sindaci dei Comuni coinvolti, si son rivelati decisivi nel frenarlo.>> Elementi di fortissima criticità ambientale. L’erosione “Cammina per il Parco” ogni anno si snoda, a piedi, sulla costa dei comuni coinvolti nel Parco (Ortona, San Vito Chietino, Rocca San Giovanni, Fossacesia, Torino di Sangro, Casalbordino, Vasto e San Salvo). Durante il cammino gli esploratori si ritrovano a godere dei luoghi più rinomati della costa, ma anche ad incontrare i punti più inquinanti e devastati. Marco Terrei e Andrea Natale hanno individuato cinque elementi di fortissima criticità

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Lido di Casalboldrino / Foto di Marco Terrei

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ambientale su tutta la costa. La spiaggia sabbiosa soffre di una fortissima erosione costiera, contro cui si continua ad insistere con palliativi fallaci come i ripascimenti e i pennelli verticali. Invece l’unico vero antidoto, le dune, sono considerate come un ostacolo e un elemento di sporcizia da rimuovere. Ogni anno subiscono massicci interventi con mezzi meccanici che aggravano la situazione, come succede a Casalbordino. Si concede di giungere fino ai trabocchi con le auto nonostante i Comuni avrebbero dovuto vietarlo, portando quindi una eccessiva pressione antropica e violando quel paesaggio che i visitatori vorrebbero trovare visitando questi territori. Dopo la dismissione di novembre 2005 l’ex tracciato costiero è stato destinato alla costruzione di una nuova pista ciclabile, la “Via Verde”, all’interno del “Corridoio Adriatico”, che da Ravenna giungerà a Lecce. Un progetto che, dopo anni di attesa, è oggi ad uno snodo fondamentale: la Provincia di Chieti ha annunciato che all’inizio del 2017 la ditta aggiudicatrice del bando inizierà i lavori. Nel frattempo, venuta a mancare la manutenzione da parte di Rete Ferroviaria Italiana, assistiamo ad un costante processo di erosione. Erosione che negli anni è nettamente peggiorata. Alcuni tratti ormai non esistono quasi più. A Torino di Sangro 500 metri di ex ferrovia non esistono più. Viene da domandarsi come sarà possibile realizzare la pista se non c’è più il terreno su cui realizzarla? I fiumi, i depuratori e la cementificazione Alcuni fiumi sono devastati dalla cementificazione, come

nel caso di Osento e Sinello. E in altri la qualità delle acque è stata fortemente compromessa da una pessima gestione dei depuratori, tra cui Feltrino e Moro. Soprattutto nel tratto di spiaggia di Francavilla al Mare abbiamo trovato numerosi scarichi direttamente in mare, mettendo a rischio la qualità delle acque. Alcuni di questi scarichi si trovano in prossimità degli stabilimenti balneari: incredibilmente abbiamo fotografato, davanti ai tubi - quindi nel pieno dell’acqua contaminata famiglie con bambini che giocano. Una situazione, quella della gestione dei depuratori, che coinvolge tutta l’intera Provincia. E di cui si dibatte da anni. Il 7 luglio 2015 la “Goletta Verde” di Legambiente assegnò addirittura la “bandiera nera” alla Sasi, la società di gestione del servizio idrico integrato in 92 Comuni della Provincia. <<Le nostre analisi confermano le criticità di un sistema depurativo che continua a immettere in fiumi, fossi e torrenti carichi inquinanti non trattati adeguatamente e il nostro obiettivo è quello di scovare le criticità e tutelare la salute del mare e dei cittadini. In Abruzzo, secondo l’Istat, il 41.5 percento dei reflui urbani non viene trattato adeguatamente e questa deve essere la priorità.>> Ad affermarlo è il responsabile scientifico di Legambiente, Giorgio Zampetti. Il 27 maggio 2016 il Forum abruzzese dei movimenti per l’acqua definì, un incubo la depurazione della Provincia di Chieti: secondo i dati resi noti dagli ambientalisti il <<41 percento dei controlli>> dimostrarono superamenti <<oltre le soglie per Escherichia Coli.>>

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Torino di Sangro / Foto di Marco Terrei

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PARCHI, IL PASTROCCHIO DELLA LEGGE QUADRO <<Né il Senato, né il Governo hanno accolto le osservazioni e le proposte di 17 associazioni ambientaliste e di centinaia di esperti e uomini di cultura, che hanno criticato in modo fermo e elaborato proposte migliorative. Risultato, una riforma sbagliata che chiediamo con forza venga modificata alla Camera.>>

Così le associazioni firmatarie di un appello congiunto, a seguito del voto con cui il Senato ha approvato, in prima lettura, il disegno di modifica della legge n.394 del 1991 sulle aree protette. <<Non volendo cogliere il senso costituzionale che vede la tutela della natura in capo allo Stato, la riforma non valorizza il ruolo delle aree protette come strumento efficace per la difesa della biodiversità e non chiarisce il ruolo che devono svolgere la Comunità del Parco. Un testo che doveva rafforzare il ruolo e le competenze dello Stato centrale nella gestione delle aree marine protette, ma che in realtà continua a lasciare questo settore nell’incertezza e senza risorse adeguate. Perché non possiamo non sottolineare che questa riforma viene fatta senza risorse, che la legge approvata non riesce a delineare un orizzonte nuovo per il sistema delle aree protette e senza migliorare una normativa che, dopo 25 anni di onorato servizio, non individua una prospettiva moderna per la conservazione della natura nel nostro Paese.>> Numerosi e tutti molto preoccupanti sono i punti più critici del disegno di legge approvato al Senato Una modifica della governance delle aree protette che peggiora la qualità delle nomine e non razionalizza sufficientemente la composizione del Consiglio direttivo, in cui viene prevista la presenza di portatori di interessi specifici e non

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generali come deve essere. Non vengono definiti strumenti di partecipazione dei cittadini né la previsione di comitati scientifici; una governance delle Aree marine Protette che non prevede alcuna partecipazione delle competenze statali e individua Consorzi di gestione gli uni diversi dagli altri; L’assenza di competenze specifiche in tema di conservazione della natura di Presidente e Direttore degli Enti Parco; un sistema di royalties che, pur legato ad infrastrutture ad alto impatto già esistenti, deve essere modificato per evitare di condizionare e mettere sotto ricatto i futuri pareri che gli enti parco su queste dovranno rilasciare; una norma che attraverso la “gestione faunistica”, con la governance prevista, acuirà le pressioni del mondo venatorio; l’istituzione di un fantomatico Parco del Delta del Po senza che venga definito se si tratti o meno di un parco nazionale, quando peraltro la costituzione di questo, come Parco Nazionale, è già oggi obbligatoria ai sensi dalla legge vigente; non si vietano le esercitazioni militari nei parchi e nei siti natura 2000; non si garantisce il passaggio delle Riserve naturali dello Stato, del personale e delle risorse impegnato, ai parchi.

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Una riforma sbagliata Sono alcuni dei motivi che fanno di questa riforma una riforma sbagliata, incapace di dare soluzioni ai problemi delle Aree Protette, ma addirittura tale da avvicinare troppo sino a sovrapporre pericolosamente i portatori d’interesse con i soggetti preposti alla tutela, svilendo la missione primaria delle aree protette e mettendole in ulteriore sofferenza. Alla luce di ciò, gli elementi utili introdotti dalla riforma, soprattutto in termini di pianificazione, di classificazione e gestione dei siti della rete Natura 2000, di considerazione dei servizi ecosistemici, appaiono sostanzialmente depotenziati. <<Abbiamo dato la massima disponibilità al confronto, elaborando argomenti seri e proposte dettagliate. Con infinito rammarico siamo costretti a dover prendere atto di mancate risposte del relatore, della maggioranza e del Governo, con il risultato doppiamente negativo di perdere l’opportunità di miglioramenti costituzionalmente coerenti e di determinare un grave scollamento tra la politica italiana ed un approccio alla conservazione della natura coerente alle indicazioni ed agli obblighi internazionali>>, continuano le associazioni

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ambientaliste che concludono come <<a venticinque anni dalla sua approvazione, il Senato, snaturandone i presupposti, approva modiche inadeguate alla legge sulle aree protette che ha garantito la conservazione della natura e la salvezza di una parte cospicua del territorio italiano. La questione ora si sposta alla Camera dei Deputati dove le associazioni ambientaliste faranno di tutto per far sentire una va ben oltre loro e coinvolge tutto il mondo della cultura e della scienza del nostro Paese.>> Le associazioni che hanno chiesto modifiche al Senato Ambiente e Lavoro, AIIG (Associazione Insegnanti di Geografia), Club Alpino Italiano, Centro Turistico Studentesco, Ente Nazionale Protezione Animali, FAI (Fondo Ambiente Italiano), Greenpeace Italia, Gruppo di Intervento Giuridico, Italia Nostra, LAV (Lega Antivivisezione), Legambiente, Lipu, Marevivo, Mountain Wilderness, Pro Natura, SIGEA, WWF Italia


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agricolo italiano, dalla piccola e media distribuzione e dalle multinazionali dell’industria agroalimentare, che si servono di questa forma coatta di sfruttamento, imponendo un ribasso eccessivo dei prezzi dei prodotti. Si tratta di un complesso sistema criminale in cui a rimetterci sono solo i braccianti, costretti a pagare cifre impensabili per vivere stipati in baraccopoli insalubri, lontano da qualsiasi forma di civiltà. Un reportage fatto di storie raccontate da chi vive in questa situazione al limite della sopportazione fisica e psicologica, un incredibile viaggio nei nuovi ghetti disseminati per l’Italia da nord e sud. La mappa di un paese ridisegnato da razzismo, ingiustizia e indifferenza. Ghetto Italia è questo e molto altro ancora.

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Un’inchiesta tagliente come un rasoio. Un libro che suscita rabbia e indignazione. La verità sconvolgente sul nucleare in Italia. Di tanto in tanto, in date sconosciute, ci sono treni che fanno la spola tra l’Italia e la Francia attraversando paesi e città. Trasportano scorie nucleari, solo che nessuno lo sa.


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Rifiuti tossici, traffico d’armi, terrorismo: le alleanze occulte 1992: tre navi affondano inspiegabilmente nel Mediterraneo con il loro carico micidiale di rifiuti tossici. Questo il punto di partenza di un’indagine che svela come traffici di scorie nucleari, armi, droga e diamanti abbiano finanziato guerre sporche e dimenticate, intrecciandosi con i sentieri minati del terrorismo fondamentalista. Immutati i meccanismi nei decenni, inquietanti e sorprendenti le alleanze occulte.

Storie di identità e territori. Un progetto dell’Agenzia di promozione editoriale e culturale Sepofà Radici emergenti sono quelle ben piantate nel terreno del nostro esistere quotidiano, che spingono verso l’alto, per uscire allo scoperto e partecipare attivamente alla protezione del territorio e dell’ambiente in cui le radici di tutti noi affondano. Da questa riflessione nasce una raccolta di vite e di emozioni, messe su carta da venti scrittori provenienti da ogni capo del Paese.

Ancora oggi servizi adeguati, completi e gratuiti, inclusa la ART, sono inaccessibili per molti affetti da HIV in Africa. Secondo l’OMS i principali ostacoli alla diffusione del trattamento nei Paesi poveri sono la fragilità dei sistemi sanitari, la scarsità di personale sanitario e la mancanza di finanziamenti adeguati e continui nel tempo. Cosa fare e come farlo è piuttosto chiaro: indicato dalle autorità scientifiche di riferimento, OMS in testa. Quello che manca è la volontà politica di farlo davvero e alla svelta. I Paesi ricchi si sono impegnati a versare, ogni anno, lo 0,7 percento del PIL destinato a programmi di cooperazione per lo sviluppo. Ma pochi lo hanno fatto. L’Italia continua a disattendere tale impegno nell’indifferenza più o meno generale. QUARTA DI COPERTINA

GIANMARIO PUGLIESE

Terre di frontiera / numero 8 anno 1 - novembre 2016 / www.terredifrontiera.info

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DI GIANMARIO PUGLIESE


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