Terre di frontiera / Settembre 2017 - Numero 11 Anno 2

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TERRITORI

L’INTERVISTA

TERREDIFRONTIERA.INFO

In Basilicata il volto sporco delle energie pulite: storture procedurali e complicità istituzionali

Inceneritori e democrazia. A tu per tu con Rossano Ercolini, fondatore di Rifiuti Zero

Campania nucleare. Centrale del Garigliano: ecco il punto sul decommissioning

Terre di frontiera PERIODICO INDIPENDENTE SU AMBIENTE, SUD E MEDITERRANEO

NUMERO 11 ANNO 2 / settembre 2017

DI

FUOCO

© PELLEGRINO TARANTINO

MEZZOGIORNO


IN QUESTO NUMERO

FOCUS

BRINDISI: PIÙ POVERI, PIÙ MALATI TERRITORI

IL VOLTO SPORCO DELLE ENERGIE PULITE I DANNEGGIATI

CROTONE E IL MIRAGGIO DELLE BONIFICHE RIFIUTI CONNECTION

I RIFIUTI NELLA TEBAIDE D’ITALIA RIFIUTI CONNECTION

PERICULUM FENICE RIFIUTI CONNECTION

LA VALLE INQUINATA RIFIUTI CONNECTION

GARIGLIANO: PUNTO SUL DECOMMISSIONING ORIENTAMENTI

V.I.A. LIBERA GELA PROFONDA

GELA E IL NON LUOGO A PROCEDERE ALLA CANNA DEL GAS

SISMICITÀ INDOTTA E SISMICITÀ INNESCATA

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L’INTERVISTA

A TU PER TU CON ROSSANO ERCOLINI

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PANORAMI

TERRA BRUCIATA

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54 60

FOTOREPORTAGE

ERUZIONE DOLOSA

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104 108 114 118

CONTROCOLTURE

IL BUSINESS DELL’ORO ROSSO MULTINAZIONALI

L’AUTUNNO CALDO DEL CETA TERRE DI MIGRANTI

L’ITALIA DI CHI VA E DI CHI VIENE

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sulle ceneri del sud

L’EDITORIALE

DI PIETRO DOMMARCO

Nel Mezzogiorno d’Italia a bruciare non sono solo i Parchi, le Zone di protezione speciale e i Siti di interesse comunitario. Nel Mezzogiorno d’Italia brucia anche la monnezza. Aree protette e rifiuti, per ragioni diverse, alimentano sistemi malavitosi, criminalità, lobby, affari e clientele. Li alimentano allo stesso modo. Sullo stesso piano c’è chi appicca il fuoco per deprezzare i terreni e renderli più appetibili a nuovi sfruttamenti, anche energetici, e chi ridefinisce le istituzioni di controllo dei territori ed abolisce il Corpo forestale dello Stato. Chi, relegando la tutela del paesaggio al ruolo di chimera, incentiva il disboscamento delle foreste del Sud Italia per ricavare biomassa necessaria ad alimentare i forni delle centrali a cippato. Chi autorizza nuovi inceneritori e raddoppia quelli esistenti. In questo numero di Terre di frontiera raccontiamo come il Sud è ridotto in cenere. Sempre più in emergenza, ambientale e sanitaria. Il Sud delle bonifiche mancate, delle indagini epidemiologiche incomplete, della deregolamentazione normativa, degli impuniti, dei morti per indifferenza, di chi invoca ancora l’intervento della “politica” per risolvere i problemi meridionali. Quando è proprio la “politica” ad averli creati. Il Sud del senno di poi.


FOCUS

BRINDISI: PIÙ POV PIÙ MALATI

DI MAURIZIO PORTALURI, ASSOCIAZIONE SALUTE PUBBLICA

Nei primi giorni di luglio, a Bari, è stata presentata un’indagine epidemiologica, effettuata su sette Comuni della provincia di Brindisi, attesa da anni. Lo studio ha confermato eccessi di decessi e morti attribuibili alle emissioni di centrali e petrolchimico di Brindisi. Mentre la comunicazione istituzionale tenta di relegare al passato gli effetti dannosi senza trarre, fino a questo momento, indirizzi operativi per il presente, emergono invece alcune urgenze operative.

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Sebbene negli ultimi venti anni alcuni studi epidemiologici descrittivi avevano evidenziato un eccesso di mortalità dei residenti per alcune forme tumorali e per malattie cardiovascolari e respiratorie, nonché suggerito un’associazione tra esposizione materna in gravidanza ad anidride solforosa e malformazioni congenite, lo studio attuale - che viene chiamato Studio Forastiere, dal nome del direttore del gruppo di ricerca - appare di certo in grado, per metodologia ed ampiezza, di stabilire con più precisione la relazione tra le emissioni di centrali e petrolchimico ed eventi sanitari: mortalità, ricoveri, malformazioni. Uno studio con persuasività scientifica superiore ai precedenti, svolto sotto il controllo e la gestione di dati e risultati da persone delle istituzioni pubbliche, in linea con le attese dei cultori della scienza <<che necessita di certificazione>>, purtroppo

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scettici di fronte alla libera scienza che eleva allo stesso piano serietà, libero confronto e trasparenza. UNO STUDIO CHE PARLA AL PRESENTE, CONTRARIAMENTE A QUELLO CHE HANNO VOLUTO FAR INTENDERE LE ISTITUZIONI Le dichiarazioni rilasciate da diversi rappresentanti istituzionali dopo la conferenza dei sindaci tenutasi sull’argomento a Brindisi, il 19 luglio scorso, esprimevano conferme sui danni provocati nel passato, ma una vigorosa rassicurazione sull’inoffensività della situazione emissiva attuale. Quanto alle misure di sanità pubblica si è parlato di attività di prevenzione. Probabilmente, le stesse dirigenze delle agenzie sanitarie ed ambientali hanno necessità - come tutte le organizzazioni sociali e politiche interessate di metabolizzare, anche attraverso il dibattito


VERI,

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Un progetto di: Associazione Culturale Ossopensante Codice Fiscale 97870810583 Sede legale: Via Montello 30 - 00195 Roma www.ossopensante.org

che si svilupperà nei prossimi mesi, uno studio così corposo e complesso. Ma intanto ci sembra di cogliere nella comunicazione istituzionale ascoltata, sia a Bari che a Brindisi, un’inclinazione a considerare lo Studio Forastiere come il racconto di un fatto storicizzato del passato e non, invece, come l’analisi di un grave accadimento che mette in discussione alcuni discutibili approcci di quel passato anche a causa dei suoi perduranti effetti dannosi sul presente. Una lettura dello studio questa che, se dovesse essere confermata dai fatti, risulterebbe oggettivamente fuorviante e soggettivamente indotta da improprie tendenze difensive di ufficio. Osservando le emissioni dal 1991 al 2014 si rileva, dall’inizio degli anni Duemila, una loro progressiva riduzione dovuta alla chiusura di impianti chimici e della centrale Brindisi Nord

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e alla riconversione a ciclo combinato di quella dell’Eni. Così come le più recenti riduzioni sono dovute alla crisi economica e ad un diverso modo di produrre energia. Ma nel 2004 le quantità di PM10 emesse dalle centrali sono di poco inferiori a quelle degli anni Novanta, i cui effetti a lungo temine sono ancora in corso. Ciò significa che, molto probabilmente, stiamo diagnosticando più malattie croniche cardiovascolari e respiratorie e tumori rispetto ad aree non così pesantemente industrializzate e che dobbiamo farvi fronte con le cure necessarie, per non sommare ingiustizia (fosse anche solo quella del passato) ad ingiustizia (di una inadeguata risposta terapeutica). Mentre molto si dovrebbe fare per la diagnosi precoce attraverso lo screening dei soggetti più a rischio di tumore al polmone, malattie cardiovascolari, respiratorie e quelle rinvenute in eccesso. Anche lo Studio Forastiere sostiene che per <<l’associazione tra emissioni da centrali termoelettriche e ricoveri ospedalieri per malattie cardiovascolari e respiratorie […] al diminuire delle esposizioni ambientali […] si è osservata una diminuzione della forza dell’associazione, pur rimanendo presente una relazione statisticamente significativa per il periodo più recente tra le emissioni da centrali elettriche e le malattie cardiovascolari e respiratorie.>>

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A ben vedere i numeri il periodo più recente in cui si registra la diminuzione dell’eccesso è quello dal 2005 al 2013, e per le malattie dell’apparato respiratorio. Il rischio relativo aumenta, sia pure di poco, nel 2010-2013 rispetto al quinquennio precedente. I ricercatori forniscono una possibile spiegazione della permanenza dell’effetto, negli anni più recenti, rinviando le responsabilità al passato. <<Data la riduzione dei livelli di esposizione ambientale dell’ultimo periodo è presumibile che la persone che vivono nelle stesse aree, che hanno avuto esposizione più alta nel passato, continuino a manifestare effetti sanitari in rapporto ad esposizioni pregresse.>> Una spiegazione che ci pare debole e che potrebbe, invece, valere anche per gli aumenti di rischio registrati nel 2005-2009 i quali, però, risultano sostanzialmente uguali per intensità a quelli dell’ultimo periodo (2010-2013), pur avendo alle spalle esposizioni molto più intense. La questione è forse più complessa e vale la pena notare che, in questi casi, alcune sottovalutazioni possono fare male alla salute pubblica. Emerge chiara la necessità, non solo di curare al meglio l’eccesso di malattie cardiovascolari, ma di prevenirle, con <<l’adozione delle migliori tecniche disponibili per il contenimento delle emissioni industriali>>. Una misura suggerita anche dallo stesso

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Studio Forastiere, ma che risulterebbe già disattesa nella recente revisione dell’Autorizzazione integrata ambientale di Cerano, dove si sarebbero potute - e si dovrebbe ancora - abbassare le emissioni alle Bat: concentrazione nei fumi media giornaliera di 20, 90 e 5 mg/Nm3 rispettivamente per SO2, NOx e polveri. Così come adottare interventi di educazione sanitaria sulla popolazione per la salute cardio-respiratoria.


© MOVIMENTO NO AL CARBONE BRINDISI

Risulta molto singolare l’assenza nel rapporto delle gravidanze con esito abortivo, mentre si confermano gli eccessi già registrati in passato di malformazioni neonatali. Un’assenza che lascia perplessi sia perché lo studio combinato delle due espressioni della salute riproduttiva è una consuetudine negli studi scientifici più rilevanti, sia perché gli stessi ricercatori le avevano riportate nello studio gemello concluso

qualche mese fa su Taranto. Una lacuna che speriamo sia presto colmata, ma che pone il problema della salute materno-infantile che qui deve fare i conti con un forte indebolimento della rete consultoriale. Così come ci saremmo aspettati che, oltre al rischio di morte o di ricovero, si riportasse il numero di morti e di malattie in più all’anno attribuibili alle emissioni delle centrali termoelettriche e del petrolchimico. In

particolare si dovrebbe chiedere agli autori dello studio il calcolo dei morti/ malati/anni-di-buonasalute-persi provocati dal 1999 a oggi, quelli evitati con la diminuzione delle emissioni, quelli evitabili in futuro con provvedimenti ulteriori. PIÙ POVERI, PIÙ MALATI Lo Studio Forastiere fa emergere, inoltre, con molta chiarezza, la forza della posizione socio-economica quale determinante di

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© MOVIMENTO NO AL CARBONE BRINDISI

salute. Un aspetto sul quale la comunicazione istituzionale ha sorvolato, come se il compito principale della politica non sia quello di ridurre le disuguaglianze. Rischi elevati di morte per varie cause sono più frequenti nelle persone con posizione socio-economica mediobassa e bassa, mentre la mortalità generale - e per alcune cause - risulta significativamente in eccesso nei quartieri più popolari. Un dato che

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la ricerca “libera” aveva evidenziato già qualche anno fa, elaborando dati dell’anagrafe comunale, ma che aveva ricevuto la medesima disattenzione politica riservata alla ben più quotata evidenza odierna. La riduzione delle risorse per lo stato sociale, se non invertita, non potrà che peggiorare questa situazione. Certamente si parla anche del passato, nel quale le emissioni industriali studiate hanno esposto molta più gente

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ad un rischio di malattia e di morte. E chissà cosa è successo prima del 1991, anno di cui sono disponibili solo i dati analizzati. Ma questa evidenza non è priva di conseguenze sul presente. Un’evidenza che mette in risalto quelle che ci sembrano disattenzioni e lacune nelle attività di vigilanza e controllo verso pratiche inquinanti e che conferma i danni all’ambiente e alla salute (tumori, malattie, ricoveri, malformazioni) di


lavoratori e cittadini i quali, costantemente denunciati negli anni, non sempre hanno trovato un’adeguata risposta sanzionatoria e risarcitoria. Un esito di indagine che inoltre spiega la sofferenza che si è prodotta ed ancora si produce nelle famiglie e nella società a seguito di quelle malattie e delle morti premature. Si tratta di ferite ancora aperte che non sono un problema del passato ma una questione attuale. Le mappe di

distribuzione della povertà, poi, mostrano come proprio le aree ed i Comuni più vicini all’area industriale siano le più povere e a rischio criminalità. E questo la dice lunga sugli effetti diseguali di quello sviluppo economico. La riduzione delle emissioni, nell’ultimo decennio, non è un merito della politica, ma la conseguenza delle chiusure stabilite dalle convenienze delle grandi imprese, e di qualche intervento della magistratura. Mentre i danni prodotti all’ambiente restano ancora in attesa di essere bonificati. Non ci conforta troppo <<stare meglio di Taranto>>. Né ci conforta avere il 38 per cento di popolazione nella posizione sociale mediobassa e bassa, contro il 53 per cento di Taranto. I danni, come i benefici, non sono stati uguali per tutti. Lo Studio Forastiere presenta un pregio particolare rispetto alle ricerche fin qui condotte. L’iniziale fatica di costituire la coorte di oltre 200 mila cittadini consente di aggiornarla nei prossimi anni per osservare la scomparsa, si spera, degli effetti rilevati. Si auspica che si prolunghi l’osservazione per almeno altri 15 anni in modo da avere dati su un periodo sufficientemente lungo come avvenne a Seveso dal 1976 in poi. [...] Non si può accettare un’interpretazione che releghi i risultati di questa ricerca, al di là delle intenzioni degli autori, nel novero dei reperti archeologici. Sono passati 5 anni dalla petizione popolare per

l’esecuzione di uno studio epidemiologico su Brindisi, e la presentazione dei suoi risultati. Ma non può certo sfuggire che quanto denunciato è stato confermato dallo studio epidemiologico. C’è da chiedersi come mai le istituzioni non hanno colto [...] quella pericolosità per la salute pubblica che era stata percepita in tutta la sua gravità, adeguatamente dimostrata e rappresentata da associazioni di cittadini e da un vasto movimento di opinione che ne aveva condiviso e sostenuto le scelte. C’è anche da chiedersi perché quel Principio di precauzione per il quale <<ove vi siano minacce di danno serio e irreversibile, l’assenza di certezze scientifiche non deve essere usata come ragione per impedire che si adottino misure di prevenzione della degradazione ambientale>> - non ha trovato concreta applicazione in un caso, come quello in discussione, che richiedeva rimedi sorretti da esigenze di urgenza e di cautela. Gli studi epidemiologici sono strumenti utili se eseguiti per tempo e se offrono un quadro della situazione completo. Ma non possono mai sostituire la doverosa decisione politica che deve essere assunta sia col doveroso <<senno di prima>>, in ottemperanza al citato Principio di precauzione e sia quanto meno, come nel caso che ci occupa, con l’altrettanto doveroso <<senno di poi>>, per riparare il riparabile, risarcire il risarcibile.

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IN BASILICATA IL

VOLTO SPORCO

DELLE ENERGIE PULI

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ITE

Con uno sguardo alla Puglia e uno alla Campania, il Vulture - lambito dal fiume Ofanto - è maestoso nella sua semplicità. La Basilicata è poesia nella lentezza, sospesa tra il peso ingombrante della sua storia federiciana e il miraggio dello sviluppo industriale. Centro direttivo di un sistema che dirama le sue articolazioni nel settore privato, pubblico e politico. Le energie rinnovabili sono il fiore all’occhiello di questo sistema. L’acqua santa con cui purificarsi da un peccato originale fatto di rifiuti, petrolio, speculazione ambientale. Il volto pulito del business energetico. Ma non sfuggono alle sue regole. La storia che vi raccontiamo ambientata a Lavello, in provincia di Potenza - è emblematica. Nel cuore del comprensorio Vulture-Melfese un parco eolico svela il vero volto dell’energia pulita in Basilicata. Tra storture procedurali e complicità istituzionali. Incanto e delizia per le lobbies di settore.

© PELLEGRINO TARANTINO

O

DI EMMA BARBARO


TERRITORI

Siamo a Lavello, in provincia di Potenza. Poco più di 13 mila abitanti, tra gli antichi tratturi e i pascoli del Vulture. Un’eredità longobarda, normanna e sveva che si stempera in un presente più moderno e meno romantico. Lavello, cinturata da pale eoliche che svettano imponenti ben al di sopra del centro storico, sembra aver perduto la propria identità. Ma l’impronta secolare è rimasta. Incardinata in un sistema che si lascia plasmare dal business facile, prestando il fianco ai concetti dell’indifferibilità e dell’urgenza. L’eolico a Lavello nasce con queste premesse, condite da una serie di elementi che rendono questo caso comune ma, al contempo, emblematico e facilmente esportabile. Qui c’è tutto: un progetto iniziale diverso da quello definitivo; una serie di società a responsabilità limitata collegate tra loro che si avvicendano per accedere alle aste del Gestore servizi energetici (Gse); un impianto eolico che, nella sostanza, si regge sulla volontà dei singoli proprietari dei suoli di concedere le particelle di

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L’EOLICO, IL BUSI L’INDIFFERIBILITÀ propria pertinenza dietro un canone annuo di circa 8 mila euro; espropri forzati; mancata osservanza delle prescrizioni urbanistiche; ricorsi pendenti. “IL FINOCCHIARO” Lo scorso 18 luglio si è svolta la prima udienza dinanzi al Commissario per la liquidazione degli usi civici per la Basilicata. Il ricorso era stato attivato a gennaio dai proprietari dei suoli impegnati dal parco eolico denominato “Il Finocchiaro”. I ricorrenti contestano alla società proponente (la Tivano srl), al Comune di Lavello e alla Direzione regionale per i beni paesaggistici di aver raggirato la normativa vigente sugli usi civici (regio decreto 1766/1927) e perseguire un interesse economico che avrebbe, di fatto, modificato la destinazione dei terreni: da uso agricolo a uso industriale. Invocano misure cautelari urgenti e chiamano in giudizio persino i proprietari dei fondi che invece hanno alienato quota parte dei propri beni. Venti di discordia in una guerra tra ultimi. Dove il più forte è

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arbitro del conflitto. Ma andiamo con ordine. Nel marzo 2011 la società Winderg srl avvia istanza di Valutazione di impatto ambientale per un impianto eolico di potenza complessiva pari a 60 megawatt elettrici. Da realizzare interamente nel comune di Lavello, con opere accessorie ricadenti tra i comuni di Melfi e Venosa. Ben 30 torri eoliche dalla potenza nominale di 2 megawatt elettrici, con cavidotti interrati collegati ai centri di connessione elettrica. La macchina burocratica viene avviata. Dopo una serie di Conferenze di servizi, la Winderg srl rimodula il progetto sulla base delle osservazioni depositate dagli organi competenti. Ora oggetto di valutazione è un progetto che vede ridotto il numero degli aerogeneratori da 30 a 15, variata la potenza nominale di ciascuno da 2,00 megawatt elettrici a 2,30 megawatt elettrici, così come la loro ubicazione. Il Comitato tecnico regionale, nel corso della seduta del 23 maggio 2013, esprime parere favorevole con prescrizioni. A marzo del 2014 la Winderg


INESS FACILE, À E L’URGENZA srl chiede un’ulteriore modifica impiantistica. Oggetto dell’autorizzazione unica regionale stavolta è un parco eolico da 28 megawatt elettrici, composto di 14 pale - di marca Vestas V110 - dalla potenza di 2 megawatt elettrici ciascuna. Con opere connesse che interessano i comuni di Rapolla, Melfi e Venosa. Non si può fare a meno di notare che nei tre anni decorsi dalla presentazione dell’istanza di Valutazione d’impatto ambientale il progetto è stato modificato tre volte. Ma l’Ufficio di compatibilità ambientale della Regione Basilicata ritiene che << le modifiche si configurano come variante non sostanziale al progetto già valutato e non comportano la riapertura del procedimento di valutazione d’impatto ambientale già espletato>>. Eppure, nel frattempo, la portata nominale dell’intero parco eolico è stata ridotta a meno della metà. L’ultima Conferenza dei servizi, quella propedeutica al rilascio dell’autorizzazione unica, si svolge il 9 aprile. “Il Finocchiaro” si farà. Il

giudizio di compatibilità ambientale espresso dalla Regione Basilicata con delibera di giunta n.608 del 22 maggio 2014 è solo un orpello a una scelta già fatta. Che viene effettivamente razionalizzata il 12 giugno 2014, data in cui l’autorizzazione unica diviene esigibile (determina dirigenziale n.150C). Con l’unica differenza che a realizzare il parco eolico in questione non è più la Winderg srl, ovvero la proponente iniziale. Al suo posto, agli inizi di maggio, subentra la società Tivano srl. Un’ulteriore modifica che passa sotto traccia, come le altre. Cosa è accaduto? Nel tempo intercorso tra l’ultima Conferenza dei servizi e il rilascio definitivo dell’autorizzazione unica, Winderg srl cede parte delle proprie proprietà o quote d’azienda a Tivano srl. Compresa la titolarità del costruendo parco eolico. La new entry ha il dovere di dare inizio ai lavori di costruzione dell’impianto entro un anno e di ultimarli entro tre anni decorrenti dalla notifica della determina dirigenziale

n.533 del 2014. Lavori che si sarebbero dovuti concludere, quindi, entro e non oltre il 16 giugno 2017, pena la decadenza dell’autorizzazione. Ma le cose non vanno esattamente così. Il progetto in questione non rientra nel contingente di potenza assegnatario degli incentivi previsti per la realizzazione di impianti eolici on-shore. Il Gse non paga per l’intero parco eolico ma solo per la sua metà. Tivano srl, in sostanza, ha i fondi necessari per installare solo 7 dei 14 aerogeneratori autorizzati. Nel maggio 2015 la società chiede una proroga di dodici mesi. Negata dall’Ufficio tecnico regionale nel settembre dello stesso anno (determina dirigenziale 150 AC). La situazione si fa difficile. Tivano srl rischia di perdere gli investimenti iniziali, l’autorizzazione unica per costruire l’intero parco eolico e, persino, la faccia. Una risoluzione è necessaria. Il 28 dicembre 2015 la società conferma di voler mantenere la titolarità del progetto. Ma solo per la quota parte dell’impianto aggiudicataria

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della tariffa incentivante all’asta del Gse. Le restanti 7 pale saranno realizzate da una nuova società, la San Mauro srl. Come? Con il placet della Giunta regionale lucana la Tivano srl voltura il provvedimento di compatibilità ambientale alla San Mauro srl. Quest’ultima viene autorizzata a realizzare la costola mancante dell’originario parco eolico “Il Finocchiaro”. Che da questo momento in poi viene denominata impianto “Le Coste”. In tal modo la San Mauro srl può tentare di accedere all’asta successiva del Gse. E la Tivano srl ha le mani libere per iniziare a installare le 7 pale che il Gse, nel frattempo, paga già. L’escamotage è riuscito. Le società si rimpallano la titolarità del parco eolico, la Regione acconsente, il Comune sta a guardare. LA CHIAMAVANO TRINITÀ Ma chi sono queste società? Hanno a disposizione un capitale tale da poter sostenere le spese necessarie alla realizzazione di un impianto eolico? E come sono collegate tra loro? La Winderg srl è una società che opera nell’ambito della progettazione, sviluppo e gestione di impianti di energia rinnovabile. Vanta un capitale sociale di 100 mila euro. Il 70 per cento delle quote societarie è detenuto dal gruppo Giambelli spa. Il restante 30 per cento è ripartito tra gli altrettanti tre soci e, contestualmente, membri del cda. L’amministratore delegato Michele Giambelli,

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Gianfranco Delli Guanti e Luca Mariani. Nel 2014, la società - attiva dal 2005 trasferisce parte dei propri godimenti a Tivano srl e Breva srl. Ivi compreso, per quanto attiene alla prima società, la titolarità del parco eolico “Il Finocchiaro”. Tivano è una società a responsabilità limitata il cui oggetto sociale attiene allo studio, realizzazione, costruzione e gestione di impianti industriali e opere infrastrutturali di qualsiasi natura con particolare riferimento agli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili. Partecipata da Winderg srl al 25 per cento e dal gruppo Edp Renewables Italia Holding srl per il restante 75 per cento, ha un capitale sociale di 100 mila euro. Presidente del cda è Emilio Rafael Garcia Conde Noriega. I restanti membri sono l’amministratore delegato Gianluca Veneroni e i due consiglieri Michele Giambelli e Spyridon Martinis. Nel 2015 Tivano srl avalla un progetto di scissione mediante costituzione di nuova società che porta alla nascita della Tivano 2 srl. Dal secondo progetto di scissione societaria, presentato il 4 dicembre 2015, nasce la San Mauro srl. Non può stupire, dunque, che il cda di San Mauro srl sia esattamente identico a quello di Tivano srl. Con Michele Giambelli che, di fatto, è il filo conduttore che unisce indissolubilmente le tre differenti realtà societarie. San Mauro srl detiene,

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a differenza delle altre due, un capitale sociale di 70 mila euro. Con i quali in parte dovrebbe far fronte alle spese per la realizzazione dell’impianto eolico “Le Coste”, di cui ora risulta proprietaria. I lavori - che si sarebbero dovuti concludere non oltre la data del 16 giugno 2017 - non sono mai stati avviati. Non per questo è venuta meno l’autorizzazione unica. Ed è vero che la titolarità del progetto passa da un ramo societario all’altro. Ma è


© PELLEGRINO TARANTINO

vero pure che all’ultima Conferenza dei servizi, quella del 9 aprile 2014, è presente l’intero cda di Winderg srl. Nulla, nella sostanza, è cambiato. E la continuità, nel falso cambiamento, è sintomatica di una serie di operazioni aziendali messe a punto per garantire l’agibilità economica di un progetto che, altrimenti, sarebbe potuto rimanere solo sulla carta.

THE DARK SIDE OF THE MOON L’intero iter procedurale che porta al giudizio di compatibilità ambientale per il parco eolico “Il Finocchiaro” sembra caratterizzato dall’ineluttabilità. Quasi come se gli enti deputati a operare responsabilmente una scelta di fattibilità avessero già deciso. Ben prima delle autorizzazioni necessarie. Con una serie di vizi procedurali e di leggerezze marcate. Non

è un caso che il 7 aprile 2014 - due giorni prima della Conferenza dei servizi conclusiva, e a più di un mese di distanza dalla relativa determina dirigenziale recante il rilascio dell’autorizzazione unica - il Comune di Lavello si sia affrettato a sottoscrivere un Protocollo d’intesa con la società Winderg srl (delibera di giunta n.41). Si tratta della definizione di un progetto di sviluppo locale da realizzare mediante proventi derivati

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direttamente dall’energia pulita. L’amministrazione si impegna persino a condividerne i benefici con i Comuni di Venosa, Rapolla e Melfi - i cui territori sono interessati solo dal cavidotto interrato - in misura tuttavia non superiore al 3 per cento del valore del progetto di sviluppo locale stesso. A Protocollo sottoscritto l’autorizzazione a realizzare il parco eolico è pura formalità. E poco importa se il Protocollo d’intesa è stato

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sottoscritto con Winderg srl e non, piuttosto, con la Tivano srl, già subentrata nella titolarità della concessione. Del resto, come in un sistema di scatole cinesi, ciascuna di queste società è esatta proiezione - o riproduzione dell’altra. PROCEDIMENTI E IRREGOLARITÀ Quello che accade nel corso della Conferenza dei servizi del 13 settembre 2013 è emblematico. Quando

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cioè vengono ratificati all’ingegnere Giuseppe Bianchini, responsabile del procedimento di autorizzazione unica per l’Ufficio energia regionale, i pareri contrari delle due Soprintendenze invitate a partecipare. Pareri che la Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici organo preposto alle due Soprintendenze che esprime parere vincolante - di fatto accoglie. <<Ed è qui che avviene un


fatto strano>>, ci spiega l’avvocato Domenico Pompeo Fortarezza, autore materiale dei ricorsi tuttora pendenti. <<Il delegato della Direzione regionale, il dottor Lucio Cappiello, rivolgendosi all’ingegnere Bianchini dice: “Possiamo aggiornarci”. Anziché limitarsi a esercitare il proprio mandato confermando semplicemente il parere negativo dell’organo che era chiamato a rappresentare, il delegato

va al di là rinviando a un incontro successivo. Un eccesso di potere. Riportato integralmente nel verbale della Conferenza dei servizi del 2013. In presenza di un parere contrario della Direzione regionale, si sarebbe dovuto applicare l’articolo 14 quater della legge 241/90. La Regione Basilicata in sostanza, non avendo più la facoltà di istruire la pratica, avrebbe dovuto trasferire gli atti a livello ministeriale. E non è accaduto. Come se ciò non bastasse, manca il parere definitivo della Direzione regionale. Che è un fatto gravissimo. Perché mentre i pareri espressi dalle due Soprintendenze sono endoprocedimentali, dunque inerenti alla corretta prosecuzione del procedimento stesso, quello della Direzione regionale è vincolante. E non può essere omesso. La Regione Basilicata ha dovere di controllo e di verifica. Non è mero ente di ratifica>>. Ma c’è di più. Gran parte dei terreni afferenti al parco eolico “Il Finocchiaro” sono gravati da uso civico. Intere particelle catastali, destinate all’uso collettivo, che sono state nel corso del tempo occupate da privati. I quali non sarebbero in condizione di alienarle senza avviare la cosiddetta “legittimazione” dei terreni gravati da uso civico. È un meccanismo contorto. Sulla base del quale gli attuali proprietari, definiti occupatori, prima di procedere alla vendita devono legittimare le particelle di propria pertinenza. In caso contrario, non possono

vendere. Né subire espropri. <<Siamo nella previsione dell’articolo 9 della legge 1766/27>>, dice l’avvocato Fortarezza. <<I terreni gravati da uso civico possono essere legittimati, su istanza degli occupatori, se concorrono tre condizioni: l’occupatore deve aver apportato migliorie sostanziali e permanenti, occupa i terreni da almeno 10 anni e la zona occupata non interrompe la continuità agricola dei terreni>>. Proviamo a semplificare. Il privato che intende procedere alla legittimazione dei terreni gravati da uso civico chiede a un tecnico demaniale di verificare se ne sussistono le condizioni. Dopo la consulenza tecnica è abilitato a inoltrare formale richiesta di legittimazione al Comune. Quest’ultimo ha il compito di individuare, in via preliminare, una somma che il privato dovrà versare per eliminare il vincolo che grava sulla proprietà dei suoli. Una volta espletato questo passaggio, il deliberato comunale passa alla Regione che può legittimare riservandosi tuttavia la facoltà di rivedere la somma che il privato dovrà versare. È quel che è accaduto a Lavello. Con qualche sostanziale differenza. Perché nel cuore del Vulture-Melfese non si poteva rischiare che qualcosa andasse storto. La Winderg srl prima, la Tivano srl e la San Mauro srl poi, avviano una trattativa privata coi proprietari dei suoli su cui dovrà sorgere il parco eolico. In sostanza,

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chiedono ai privati una delega che consenta loro di avviare le pratiche per la legittimazione al Comune. E per l’esproprio, garantiscono un canone di circa 8 mila euro all’anno. Quasi tutti accettano. Ma il prezzo per la legittimazione sale. <<All’atto della legittimazione, la Regione Basilicata ha ritenuto che al capitale di alienazione stabilito precedentemente dal Comune di Lavello andasse sommato il capitale per ogni singola area occupata dall’aerogeneratore e dalla piazzola>>, spiega Fortarezza. <<Parliamo di oltre 4 mila euro in più rispetto al prezzo individuato dal Comune.>> OLTRE IL DANNO LA BEFFA Le procedure per la legittimazione dei terreni erano state già avviate, in tutta velocità, nel corso del 2014. Al punto tale che il responsabile del procedimento funzionale al rilascio dell’autorizzazione unica, l’ingegnere Bianchini, nel corso dell’ultima Conferenza dei servizi sostiene che non esistono più vincoli alla palificazione. <<La Giunta regionale - si legge nel verbale della Conferenza dei servizi - con proprie deliberazioni n.321, 322,323,324,325, 326 e 327 del 13 marzo 2014, ha accolto le richieste in tal senso pervenute dal Comune di Lavello per la legittimazione di alcuni terreni gravati da uso civico, autorizzando lo stesso Comune ad alienarli, nelle forme e nei modi previsti dalle normative vigenti, con il rispetto delle condizioni stabilite dalle

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citate deliberazioni.>> Quali sono queste condizioni? Il sovrapprezzo di 4000 euro più le dieci annualità di interessi considerate. All’inizio i sei privati interessati alla legittimazione avrebbero dovuto versare, pro capite, una somma oscillante tra i 6 mila e i 13 mila euro. Grazie all’intervento regionale, si è passati da una cifra minima di 10 mila euro a una massima di 17 mila euro. Nulla rispetto agli 8 mila euro promessi dalle società a titolo di compensazione. Una beffa bella e buona. Il Comune di Lavello delibera in via definitiva sulla legittimazione solo nell’ottobre 2016 (delibera di consiglio comunale n.44). Quel che si evince dal deliberato è che occorre rideterminare il capitale di alienazione dei terreni <<tenendo conto del nuovo valore venale dell’area in considerazione della mutata destinazione della stessa>>. In pratica la destinazione d’uso dei terreni viene implicitamente modificata. E non potrebbe essere altrimenti. Del resto, non si può far passare una torre eolica come uno strumento agricolo. <<In sostanza è stato calcolato un capitale di alienazione aggiuntivo sulla base del fatto che la porzione di suolo in cui la pala ricade va considerata come zona industriale e non agricola>> sostiene l’avvocato Fortarezza <<al punto da applicare il sovrapprezzo di 4 mila euro. Ma modificando la destinazione d’uso dei terreni da agricola a industriale viene meno uno dei presupposti stessi della

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legittimazione. La garanzia della continuità agraria dei terreni sancita dalla legge del 1927. Hanno raggirato la normativa lasciando il compito di contattare i privati all’iniziativa delle società.>> A ben vedere, il Comune di Lavello avrebbe potuto inoltrare istanza di legittimazione alla Regione di propria iniziativa. Senza cioè aspettare che fossero le società a fare pressing sui privati. Ma per poter fare questo, l’amministrazione avrebbe


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dovuto avviare trattative private con ogni singolo proprietario particellare. Il che avrebbe richiesto tempo e, inevitabilmente, risorse economiche. <<È chiaro che la trattativa coi privati non era la soluzione economicamente più vantaggiosa per l’amministrazione>>, arringa Fortarezza <<Senza contare che la procedura difetta anche per mancanza di evidenza pubblica. Il Comune, prima di procedere all’individuazione di Tivano

srl piuttosto che di San Mauro srl quali beneficiari finali di tali alienazioni, avrebbe dovuto indire una gara a evidenza pubblica. Ovviamente, questo non è accaduto. E se si pensa che dalla realizzazione complessiva dell’impianto, con tutte le 14 pale, l’amministrazione otterrà circa 200mila euro a titolo di compensazione, non c’è nulla di cui meravigliarsi>>. Dulcis in fundo, la Regione Basilicata sostiene di non aver modificato la

destinazione d’uso delle particelle in questione. E sulle critiche mosse da alcuni cittadini rispetto al plausibile deprezzamento dei terreni, dei fabbricati e delle aziende agricole ubicati in prossimità del parco eolico, fa spallucce e risponde ricordando il dettato dell’articolo 12 del decreto legislativo n.387/2003. <<Giacché la realizzazione di impianti di produzione di energia elettrica da fonte rinnovabile è da

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considerarsi opera di pubblica utilità, indifferibile e urgente, anche qualora fosse dimostrato il deprezzamento dei terreni paventato dai cittadini, lo sfruttamento di tali fonti di produzione di energia è da considerarsi prevalente>>. Poi c’è la Tivano srl, che il 5 aprile 2017 comunica di non avere alcun accordo in corso con i proprietari dei terreni su cui insistono gli aerogeneratori. E che le precedenti scritture private sono di fatto scadute. Le

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indennità spettanti saranno quindi determinate in base al piano particellare d’esproprio. Con tanti cari saluti alle promesse di legittimazione e, forse, agli 8 mila euro di canone annuo. UNA STORIA DENTRO LA STORIA La masseria di Mario Di Ciommo sorge in prossimità del parco eolico. È semplice, essenziale e senza pretese. Rimanda al senso primario del compito

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che deve svolgere. Sede di un allevamento di cavalli, ostello per gatti randagi, regno incontrastato dei cani e degli attrezzi da lavoro. Il signor Di Ciommo ha scelto di non legittimare i terreni. È stato tra i primi ad avviare il ricorso al Commissario per la liquidazione degli usi civici per la Basilicata. Quello che, grazie all’ausilio dell’avvocato Fortarezza, ha messo su l’opposizione formale alla società proponente, al Comune di Lavello e persino alla


Regione Basilicata. I vincoli afferenti ai terreni di sua proprietà non sono stati rimossi. Per legittimare quei terreni Di Ciommo avrebbe dovuto sborsare una somma pari a 17 mila euro. Nonostante ciò ha subito un esproprio. Con una delle torri eoliche del parco “Il Finocchiaro” che materialmente occupa la superficie destinata a una servitù di sorvolo dei terreni di sua pertinenza. <<Il 19 settembre si è svolta la seconda udienza

davanti al Commissario per la liquidazione per gli usi civici, la dottoressa Maura Stassano, già presidente della Corte d’Appello di Potenza>>, spiega Di Ciommo. <<È stato un incontro interlocutorio. Il Commissario ha fissato i termini per la presentazione delle memorie difensive. Scadono tra 60 giorni, poi si dovranno aspettare gli ulteriori 20 giorni necessari alla presentazione delle controdeduzioni. Successivamente ci sarà la sentenza sulle questioni pregiudiziali. E il Commissario dovrà stabilire se è competente o meno a decidere nel merito. L’avvocato Fortarezza ha sottoposto alla sua attenzione sentenze anche recenti della Corte di Cassazione nelle quali si evince chiaramente che i commissari, in casi analoghi, hanno proceduto d’ufficio giudicando nel merito dopo un solo esposto da parte dei cittadini ricorrenti. Senza nemmeno necessità di un ricorso, come abbiamo fatto noi. La mia impressione è che il Commissario non voglia entrare nel merito della vertenza. Accogliendo, di fatto, le eccezioni sollevate da Comune, Regione e società. Potrebbe procedere d’ufficio e invece stiamo perdendo tempo. Se dovesse stabilire che la competenza in materia è della Regione Basilicata, così come le parti avverse sostengono, avremo perso una battaglia importante. Ma noi speriamo che non sia così. Siamo ancora convinti di poter ottenere giustizia.>>

Intanto le sette pale eoliche di proprietà della società Tivano srl sono già state realizzate. Le altrettante sette torri afferenti al nuovo parco eolico denominato “Le Coste” - nella titolarità di San Mauro srl - benché non ancora realizzate, sono oggetto di un ricorso presentato al Tar dall’avvocato Fortarezza. Tra le motivazioni oggetto del ricorso emergono le medesime criticità sollevate rispetto all’impianto già attivo. Quel che oggi si sa è che la società San Mauro srl avrebbe richiesto una proroga per il parco eolico “Le Coste”. Con una nota che, in pieno spregio delle normative sulla trasparenza del procedimento amministrativo, non è stata pubblicata per intero sul portale regionale, ma solo in un suo stralcio. Vanno fatte, poi, altre considerazioni. Con la delibera di giunta n.284 del 4 aprile 2017 la Regione Basilicata ha approvato le linee guida per il corretto inserimento nel paesaggio degli impianti alimentati da fonti rinnovabili. Non è il primo tentativo di disciplinare la materia. Già nel 2015 la giunta aveva approvato uno strumento simile - delibera di giunta n.903 del 7 luglio 2015 - che tanto aveva fatto discutere associazioni e comitati di cittadini. Si tratta, di fatto, di un tentativo di razionalizzare la disciplina autorizzativa promuovendo, al contempo, la riduzione dei consumi di energia e lo sviluppo delle rinnovabili. A tutto vantaggio delle aziende e multinazionali di settore. All’articolo

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9 si fa riferimento alle cosiddette varianti non sostanziali ai parchi eolici. Suggerendo che anche quando varia la tipologia degli aerogeneratori o la potenzia nominale di ciascuno, la modifica non comporta un riavvio della Valutazione d’impatto ambientale. O all’articolo 10 si stabilisce che la vigilanza su irregolarità edilizie o urbanistiche spetta al Comune che ospita l’impianto, che dovrebbe persino svolgere una verifica di conformità al progetto. Nel caso di Lavello tutto ciò si è tradotto in un silenzio assenso. Con alcune delle torri eoliche che non rispettano le distanze minime dall’abitato o dai fabbricati, in palese violazione delle normative urbanistiche sulla materia. <<Una delle pale si trova a meno di un chilometro e mezzo dal centro abitato. Nonostante quel che viene riportato dal progetto esecutivo. Credo ci siano tutti gli estremi per pensare di fare ricorso anche al tribunale ordinario>>, aggiunge l’avvocato Fortarezza. E c’è chi le procedure per il ricorso, per proprio conto, le ha già avviate. Come il signor Donato Catalinella - proprietario di uno dei terreni limitrofi al parco eolico “Il Finocchiaro” - che accusa la Tivano srl di non aver rispettato le normative urbanistiche relative alle distanze e di produrre inquinamento acustico.

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TRA PROMESSE E DOMANDE INEVASE Questo caso è intriso di promesse: dal ritorno d’immagine per il fatto di produrre energia rinnovabile all’auto-sostentamento energetico; dall’incremento dell’occupazione locale alla sistemazione e valorizzazione di un’area a vocazione agricola. Ma anche di domande inevase. La polizza fideiussoria versata inizialmente da Winderg srl - quale garanzia economica per la dismissione dell’impianto eolico - non basta a coprire l’intera cifra. Chi pagherà se la società - o tutte le società - dovesse cessare la propria attività prima della dismissione? Chi si occuperà del ripristino dello stato dei luoghi? Le scritture private con i proprietari dei fondi saranno rispettate? E perché, se la società San Mauro srl non ha dato inizio ai lavori di realizzazione dell’impianto eolico “Le Coste”, l’autorizzazione unica non è ancora decaduta? C’è poi una sola certezza: si fa presto a parlare di “energie pulite”. È il sistema delle rinnovabili nel Mezzogiorno a essere, nella maggior parte dei casi, “sporco”. Piegato ai concetti della speculazione energetica e dell’economicamente più vantaggioso, è la patente per fare qualsiasi cosa. Il passe-partout per marchiare, inesorabilmente, il volto di un intero territorio.

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I DANNEGGIATI

CROTONE E IL MIR DELLE BONIFICHE

DI DANIELA SPERA

La storia del sito d’interesse nazionale Crotone, Cassano e Cerchiara Calabra è una storia quasi dimenticata. Cinquecento ettari di terra e mille di mare interessati da contaminazioni industriali, tra rifiuti e discariche. Quattromila anni per una bonifica completa. Cominciamo a raccontarla con l’ingegnere chimico Vincenzo Voce, che conosce bene i veleni che si celano nel crotonese.

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La società Pertusola Sud spa, con sede a Crotone, ha prodotto semilavorati e leghe di zinco fino alla sua dismissione, avventa nel 1999. A partire dal 2001 - con decreto legislativo n.468/2001 del ministero dell’Ambiente - Crotone, Cassano e Cerchiara Calabra, vengono dichiarati Siti di interesse nazionale (Sin). Da sottoporre, dunque, ad attività di bonifica urgente. In particolare, si tratta di aree industriali dismesse. Di una fascia costiera contaminata da smaltimento abusivo di rifiuti industriali e discariche abusive. Nell’area insistono anche l’ex Fosfotec, due discariche a mare - Armeria e Farina di Trappeto - e l’area ex Agricoltura. I terreni rientrano a pieno titolo nel <<Progetto operativo di bonifica del decreto legislativo n.152/2006, aree Syndial-Sin di Crotone-Stabilimenti ex Pertusola>>.

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<<Siamo di fronte ad una vera e propria bomba ecologica>>, esordisce l’ingegnere Vincenzo Voce, che da anni supporta, a titolo professionale gratuito, i cittadini del Comitato “La Collina dei Veleni” impegnati in una battaglia quotidiana, spesso solitaria, per ottenere la bonifica dei siti inquinati. <<Si pensi che dei 48 ettari di terreno del sito ex Pertusola, 525 mila tonnellate sono assimilabili a rifiuti pericolosi e 450 mila tonnellate a rifiuti non pericolosi. Gli scarti della lavorazione dello zinco più pericolosi sono le ferriti di zinco, che venivano prodotte nel processo di lisciviazione del calcinato (ossido di zinco), a sua volta ottenuto dall’arrostimento della blenda (solfuro di zinco). Le ferriti di zinco sono classificate come rifiuti pericolosi. Questi scarti, sino al 1972, sono stati stoccati nella zona a nord dello stabilimento. Solo dopo questa data sono stati trattati nel forno


RAGGIO E cubilot, per il recupero di metalli pregiati come indio e germanio.>> Nel forno cubilot le ferriti venivano trasformate ad altissime temperature in sostanze non pericolose con matrice vetrosa. Impiegate inizialmente come materiale per sabbiare e, successivamente, come prodotto di base per la produzione di un Conglomerato idraulico catalizzato (Cic), costituito per il 50 per cento da scoria di cubilot, per il 12 per cento da loppa di altoforno, per il 37 per cento da sabbia silicea e per l’1 per cento da catalizzatore basico. <<In questi terreni sono anche presenti metalli pesanti e loro derivati estremamente tossici. Come il cadmio, classificato come cancerogeno di categoria I dall’Agenzia internazionale per le ricerche sul cancro. Il suo bersaglio principale sono i reni.>> ARSENICO OLTRE I LIMITI <<L’arsenico, sia nella sua forma metallica, sia

nella forma inorganica, é anch’esso classificato come cancerogeno e colpisce vescica e polmoni. Queste concentrazioni nei terreni superano di gran lunga i valori delle Csr stabiliti dall’analisi di rischio. Forse non è un caso che dalle nostre parti ci siano numerosi casi di tumori riconducibili a queste sostanze. Per non parlare dell’effetto sinergico tra questi ed altri metalli, come il piombo, che rendono estremamente complesso il quadro epidemiologico.>> Solo di recente la Syndial spa ha presentato un piano di bonifica del sito. L’ultimo di una serie di progetti <<ridicoli, con cui la società tenta di eludere la reale bonifica del sito sin dal 2008.>> L’ingegnere Voce non ha alcun dubbio. Quando si scoprì che nelle due discariche a mare erano presenti anche sostanze radioattive, la società chiese l’autorizzazione a costruire una discarica di servizio per rifiuti pericolosi. Dove avrebbe trasferito

i rifiuti provenienti dalle due discariche. In una zona considerata di interesse naturalistico. Il progetto fu bocciato. Ma successivamente Syndial ci ha riprovato chiedendo l’autorizzazione per la costruzione di un impianto di confinamento dei rifiuti provenienti dalle discariche del fronte mare. Da ubicare proprio nel sito ex Pertusola. <<Una vera e propria collina dei veleni. Ecco perché ci siamo opposti con forza, tanto da impedire l’autorizzazione a questo progetto deleterio. Dunque quei rifiuti saranno trasferiti altrove. Questa per noi è una prima importante vittoria.>> LA BONIFICA DEL SITO È UN PASSAGGIO NECESSARIO L’attuale progetto di bonifica presentato da Syndial spa prevede, in buona sostanza, una restituzione di aree ad uso industriale. <<Su 5 ettari è prevista la fitorimediazione, ovvero la piantumazione

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di alcuni alberi che estraggono i metalli pesanti presenti nel suolo. Poi c’è la rimediazione elettrocinetica, che sfrutta la mobilità degli ioni quando questi sono sottoposti a un campo elettrico. Ma, in verità, è una procedura di dubbia efficacia sull’arsenico. Su 2 ettari di terreno è inoltre previsto lo scotico superficiale dei suoli. Mentre per la restante area si parla di messa in sicurezza permanente. Ciò vuol dire che la maggior parte di quei suoli resterà, di fatto, confinata in eterno. L’aspetto più inquietante è che secondo il decreto legislativo n.152/2006, la messa in sicurezza permanente è prevista “nei casi in cui, nei siti non interessati da attività produttive in esercizio, non sia possibile procedere alla rimozione degli inquinanti pur applicando le migliori tecnologie disponibili a costi sopportabili”. Dunque nel caso del sito dell’ex Pertusola, in cui Syndial prevede la restituzione delle aree ad uso industriale, non ha senso parlare di messa in sicurezza permanente. Il sito sarà infatti destinato ad attività produttive in esercizio. Inoltre, i metalli possono essere rimossi attraverso le tecnologie disponibili. Come del resto si prevede di fare in altre aree con le tecniche di fitorimediazione e di EKRT.>> Intanto, il 3 febbraio 2017 il ministero dell’Ambiente ha concesso la bonifica del primo lotto dell’area dell’ex Agricoltura e dello stabilimento ex Pertusola.

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Da realizzarsi tramite fitorimediazione, rimedi azione elettrocinetica e attenuazione naturale. <<Noi ci aspettiamo che Syndial riveda il progetto. Il problema è che la società dichiara che applicando la prima tecnica ci vorranno 15-20 anni per la bonifica. Ma, in realtà, ce ne vorranno almeno 4000, dato che la tecnica dipende molto dalle specie di pianta utilizzate e dalla quantità di contaminante presente. Una vera beffa. Noi vogliamo la certezza che tra vent’anni la bonifica si sia conclusa efficacemente. In più Syndial fa marcia indietro rispetto al progetto iniziale, sostenendo che la rimediazione elettrocinetica è inefficace e che la fitorimediazione permette di rimuovere solo i metalli biodisponibili. Se si fa una bonifica devono essere rimossi tutti i rifiuti pericolosi, non solo quelli biodisponibili. Per questo motivo abbiamo presentato ricorso al Tar contro la decisione del ministero di autorizzare la bonifica del primo lotto. Hanno aderito al ricorso tanti cittadini, almeno 600, e numerose sigle sindacali e di categoria.>> Quello che serve per dare un segnale forte.

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L’INTERVISTA

GLI INCENERITOR BRUCIANO LA DEM

DI ALESSIO DI FLORIO

Rossano Ercolini, fondatore del movimento italiano Rifiuti Zero, e direttore dell’omonimo Centro di Ricerca, dal 1976 è protagonista di lotte e mobilitazioni contro la costruzione degli inceneritori. Nel 2013, il suo impegno gli è valso il prestigioso Goldman environmental prize, considerato il Nobel per l’ambiente. Lo abbiamo incontrato per conoscere meglio la situazione italiana, le dinamiche correlate all’incenerimento dei rifiuti nel nostro Paese e le opportunità offerte dalla strategia Rifiuti Zero. Un’intervista fiume che invita a riflettere su buone pratiche e strategie per ottimizzare il ciclo integrato dei rifiuti.

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L’incenerimento dei rifiuti torna preponderante nel dibattito pubblico. Le ultime occasioni sono state offerte dall’emergenza romana e, prima ancora, dallo Sblocca Italia. Nel primo caso, la nuova crisi dei rifiuti romana sta facendo ipotizzare il ricorso all’inceneritore di Colleferro. Nel secondo caso, l’articolo 35 della legge n.164/2014 prevede la realizzazione di dodici nuovi inceneritori, poi ridotti a otto nel 2016. Proviamo a fare chiarezza: quali sono le dinamiche correlate alla termovalorizzazione dei rifiuti in Italia? Si è cominciato a parlare di termovalorizzazione dal 2003. Anche se la normativa che definisce l’incenerimento come recupero di energia è stata materialmente applicata solo in Lombardia. L’unica regione in cui è stato realizzato un numero cospicuo di impianti di incenerimento. Attualmente

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gli inceneritori presenti nel nostro Paese sono passati da 56 a 38. Ma è aumentato il flusso di rifiuti destinato all’incenerimento. Tanto per citare alcuni casi, l’inceneritore di Acerra - di cui il governatore campano Vincenzo De Luca prevede una quarta linea - negli ultimi mesi tratta circa 2 mila tonnellate al giorno. Torino è sulle 1200. Qualcosa è cambiato. Quando nel 2004 è nato Rifiuti Zero, Confindustria chiedeva la realizzazione di altri 59 impianti entro il 2010. Non è accaduto. Ha pesato il valore della battaglia che dai territori si è levata per chiudere gli impianti. Lì dove ci sono state mobilitazioni, si sono ottenuti dei risultati tangibili. Si riferisce al caso della Toscana? Esatto. In Toscana si è registrata una tendenza inversa: dai nove impianti previsti nel 2000 si è passati ai cinque attuali. Proprio qui dove è nato il movimento


RI INQUINANO E MOCRAZIA italiano Rifiuti Zero, l’incenerimento ha subito pesanti battute d’arresto. Non solo sugli impianti proposti, ma anche su quelli esistenti. In generale è più difficile tentare di bloccare un impianto esistente. Si consideri il caso di Melfi. In Toscana invece, con la chiusura degli impianti di Ruffinato, in provincia di Firenze, a Greve nel Chianti, nella val di Sieve, a Pietrasanta, in provincia di Lucca, in Garfagnana, a Castel Nuovo o a Scarlino, l’industria dell’incenerimento è stata sconfitta. E a malapena riesce a mantenere un limitato numero di impianti esistenti. Da venti anni lottiamo perché non venga realizzato l’inceneritore nella piana fiorentina. Un impianto che ha ottenuto il placet amministrativo quando Matteo Renzi era presidente della Provincia. Ma, a quasi venti anni dalla sua progettazione è stato bocciato dal Tar. Il parere del Consiglio di Stato è atteso per la fine di ottobre.

Grazie alla mobilitazione popolare quest’impianto - della Q-Termo, una multiutilities partecipata dal gruppo Hera al 40 per cento - è in corso una Stalingrado per difendere l’ultimo tentativo di attuare la termovalorizzazione. Si parla di un impianto di 450 tonnellate al giorno. Il ministro Galletti - molto vicino ad Hera e assessore nella giunta Guazzaloca a Bologna - ha promosso questa società mista il cui core business è l’inceneritore di Case Passerini. Se riusciremo a bloccare questo impianto bloccheremo tutti gli altri, uno dopo l’altro. La questione di Case Passerini, come quella di Sesto Fiorentino, appaiono piuttosto indicative. Ma a suo avviso quali sono le soluzioni alternative all’incenerimento dei rifiuti? Le soluzioni sono molteplici. E la domanda è: se si possono adottare soluzioni migliori per la

salute, l’ambiente, per ottenere nuovi posti di lavoro - attraverso il recupero della materia, la riparazione, il riuso, il riciclo, il compostaggio perché dobbiamo esporre le popolazioni a nuovi rischi? Perché investire il 95 per cento delle risorse economiche pubbliche in impianti a rischio e non, invece, puntare tutto sulla filiera del recupero di materia? Il buonsenso, la scienza, la crisi ambientale globale ci dicono che l’incenerimento è una scelta anacronistica che non guarda al futuro. È una scelta che rappresenta un sasso al collo per uno sviluppo che sappia guardare alla qualità ambientale, alla ricchezza sociale, alla ricchezza delle comunità. Che differenza passa tra i vecchi e i nuovi impianti di incenerimento? Sui dati emissivi è in corso un dibattito serrato. I nuovi impianti generano una produzione di inquinanti -

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in special modo diossine - sicuramente inferiore rispetto al passato. Sono strutture di taglia nettamente superiore per ragioni di mercato e, soprattutto, per cercare di coprire gli ingenti costi di costruzione e gestione. Ma le differenze non sono decisive. Il fattore fondamentale è che nell’epoca dell’economia circolare si continua ancora a produrre intenzionalmente diossina. Vecchi o nuovi che siano, di fatto sono tutti impianti definiti a rischio dalla normativa. L’esperienza

possiamo dire di aver perduto tre battaglie negli ultimi quindici anni: Torino, Parma e Acerra. Questi impianti sono vincolati a un’emissione che non deve superare 0,1 nanogrammo per metro cubo. Secondo la legge n.133/2005 i controlli su diossine, metalli pesanti e cancerogeni di varia natura, vengono fatti non più di tre volte all’anno. Per il resto gli inceneritori sono in regime di autocontrollo. Addirittura in molti casi i controlli non ci sono affatto. Non ci può tranquillizzare che l’inceneritore di Brescia - ammesso che sia vero -

Cosa intende per industria sporca? È vero che gli inceneritori vengono indirettamente finanziati dai contribuenti attraverso la bollettazione energetica? Faccio riferimento alle multiutilities, società che minano la democrazia. Gli inceneritori inquinano e bruciano anche la democrazia. La Terra dei Fuochi lo dimostra. La società politica si è alleata con la criminalità organizzata e, anziché tutelare i cittadini, ha lasciato uno spazio vuoto riempito dai criminali.

<<LA SOCIETÀ POLITICA SI È ALLEATA CON LA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA E, ANZICHÈ TUTELARE I CITTADINI, HA LASCIATO UNO SPAZIO VUOTO RIEMPITO DAI CRIMINALI>> dimostra che sono nocivi. E, come dicono gli attivisti statunitensi, “nessun rischio è accettabile se è evitabile”. Ma cerchiamo di essere più precisi. L’impiantistica degli anni Novanta consentiva il trattamento di circa 800 tonnellate di rifiuti al giorno, per un massimo di 100 mila tonnellate all’anno. In un’epoca in cui la pericolosità delle diossine era sottostimata. Poi la letteratura scientifica ha definito la diossina uno degli inquinanti più velenosi che l’uomo abbia mai prodotto. E la realizzazione degli impianti è stata vincolata alle garanzie di un minore impatto sull’atmosfera. Complessivamente

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emetta dieci o cento volte meno dell’impianto di Bolzano. Nel frattempo si è compreso che la diossina è mille volte più pericolosa di quanto si ritenesse negli anni Ottanta e Novanta. Ma resta il problema dell’assenza di capacità di controllo, a livello scientifico, dell’emissione delle nanopolveri. Che non vengono monitorate. Si controllano le PM10 o i PM 2.5. Ma le nanopolveri, che presuppongono un sistema totalmente diverso di monitoraggio, vengono ignorate. Questo non ha a che vedere con la scienza, ma solo con la politica e il business dell’industria sporca.

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Così si è prodotto un inquinamento sanitario e ambientale che, in un circolo vizioso, saranno i cittadini danneggiati a dover pagare attraverso le bonifiche. Chi appoggia l’industria sporca necessariamente è un antidemocratico. Ma partiamo da una considerazione: se percorrere una strada più virtuosa dal punto di vista degli impatti sulla salute è nell’interesse generale, che senso ha regalare soldi alle multinazionali? Industrie i cui profitti finiscono nei paradisi fiscali e nei giochi delle Borse. Lasciando gli oneri, la bad company, alle comunità locali che, paradossalmente, sono chiamate a finanziare questi impianti attraverso


la bolletta energetica. I cittadini non ne possono più. Le multiutilities hanno imparato a fare impresa attraverso i finanziamenti della collettività. Il rischio d’impresa è zero con gli impianti di incenerimento. L’operazione in corso a Case Passerini, messa in campo da Hera - la più importante delle multiutilities italiane - lo dimostra. Il laboratorio dell’ex premier Renzi è stato la piana fiorentina. Gli accordi con Denis Verdini e soci sono stati stretti su quei territori. E l’operazione dell’incenerimento dei rifiuti denota l’approccio politico di tipo democraticoautoritario anteposto al funzionamento delle istituzioni. La questione dei rifiuti non è affatto una questione settoriale. Passiamo d un altro argomento caldo. Anzi caldissimo. Gli effetti dell’incenerimento dei rifiuti sulla salute… È inevitabile che bruciando rifiuti si producano diossine. Si potrà disquisire, tuttavia, sul rispetto delle soglie previste nelle normative dagli inquinanti prodotti. Ma queste soglie, di fatto, sono degli escamotage che non tutelano la salute. Nessun rischio è accettabile se è evitabile. Nessuna soglia è accettabile dal punto di vista sanitario. L’individuazione delle soglie è il prodotto di un approccio artificioso. Le diossine fanno male anche a bassissimi quantitativi. Come ha inciso lo Sblocca Italia sui nuovi impianti di termovalorizzazione? La pianificazione in materia

era precedentemente attribuita alle Regioni. L’articolo 35 dello Sblocca Italia, in realtà, ha stabilito una deroga. Producendo un vulnus al potere decisionale delle autonomie locali, ritenute importantissime dalla Costituzione. Quando la pianificazione punta sullo smaltimento attraverso l’impiantistica specializzata nel trattamento termico, tutto il core business si sposta sull’incenerimento. E non può essere altrimenti. Sono impianti costosissimi. Possono servire anche centinaia di milioni di euro per realizzare un impianto di incenerimento. Quando si punta a realizzare un impianto di questo tipo si portano avanti i cosiddetti project financing. Le banche sono disponibili a fornire i prestiti soltanto se c’è la garanzia politicoamministrativa che i rifiuti verranno trattati e bruciati in quell’impianto per almeno 25 anni. Quindi, in realtà, chiamati in causa in modo sleale e surrettizio i finanziatori sono gli ignari cittadini che attraverso la bolletta garantiscono le banche per il rispetto del project financing stesso. Un’operazione che lede alle radici la democrazia. E i decisori politici, le istituzioni che dovrebbero tutelare la sovranità popolare, vengono cooptati dalle multiutilities. Tenendo in considerazione gli 8 nuovi inceneritori previsti dallo Sblocca Italia, la produzione annua italiana di rifiuti basterebbe per alimentarli? O saremmo costretti ad importarli

dall’estero? Non abbiamo bisogno di inceneritori. Personalmente non ho mai preso in considerazione l’articolo 35 dello Sblocca Italia. Sanno benissimo che è spazzatura, non lo realizzeranno mai. Abbiamo curato dei ricorsi, ma mantengo un basso profilo. Oggi l’Italia è tra i Paesi europei che ricicla di più. Questo non certo grazie al governo centrale, ma alle infinite enclavi territoriali che, lottando contro discariche e inceneritori, hanno dimostrato che l’alternativa è il riciclo. Il caso della Campania e di Napoli fa scuola. La Campania vituperata batte la civilissima Toscana nella percentuale di raccolta differenziata. In Italia siamo al 50 per cento. Il governo centrale ha perseguito altri interessi. La vicenda di Taranto è emblematica. Una realtà che ci dimostra quanto il capitalismo industriale italiano equivalga all’industria sporca. E quanto spesso esso venga assistito dallo Stato. L’industria dell’acciaio, che ha in pugno gli inceneritori e le centrali a biomasse della Puglia, è dentro l’affare. L’articolo 35 dello Sblocca Italia è nato perché le multiutilities temono la “sindrome nordica”. In Nord Europa, infatti, i grandi impianti di incenerimento non hanno abbastanza rifiuti sul territorio nazionale e sono costretti a importarlo. La Germania importa milioni di tonnellate dall’Inghilterra. Fino a poco tempo Napoli spendeva meno imbarcando rifiuti via nave verso Rotterdam, anziché

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portandoli ad Acerra, a 15 chilometri di distanza. Per non correre questo rischio si è fatto ricorso all’articolo 35 dello Sblocca Italia. Un inceneritore costruito e attivato è per sempre. Per questo noi siamo ferocemente contrari. Non solo da un punto di vista sanitario e ambientale, ma soprattutto da quello funzionale. Se realizzi un inceneritore, ti impegni per venticinque anni ad alimentarlo. Se non hai abbastanza rifiuti, li devi importare. Oggi siamo assolutamente in grado di ridurre il ricorso alla discarica passando dal 50 al 65 per cento e infine al 70 per cento di raccolta differenziata, così come prevede la normativa europea. Se davvero vogliamo uscire dall’era delle discariche, non ci resta che passare all’era delle risorse e del riciclo. C’è chi sostiene l’incenerimento dei rifiuti come alternativa sostenibile alle discariche. Una tesi portata avanti dall’associazione Amici della Terra in un convegno svoltosi a Roma il 22 novembre scorso. Nell’agosto 2014, proprio lei - criticando le dichiarazioni di Paola Muraro, già presidente di Atia Iswa Italia, poi assessore all’Ambiente della Giunta Raggi poneva l’accento sulla destinazione delle ceneri degli inceneritori. Ma è vero che le discariche diminuiscono all’aumentare degli inceneritori? O, piuttosto, è vero il contrario?

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Soltanto public relation profumatamente pagate possono far credere che gli inceneritori siano un’alternativa alle discariche. Tutti sanno che per ogni inceneritore c’è bisogno di due siti da adibire a discarica. Uno per le ceneri di fondo contenute sotto le grate del forno - e un altro per quelle intercettate dai filtri della depurazione siti nel camino. Paradossalmente, più funziona la depurazione dei fumi e più pericolose e pestilenziali sono le polveri. Per questo sono considerate un rifiuto speciale pericoloso. A differenza di quel che accade per le ceneri di fondo, laddove la normativa prevede che venga verificato di volta in volta se siano da considerarsi o meno rifiuti speciali non pericolosi. Perché anche in queste ceneri è possibile trovare tracce di diossine o metalli pesanti tali da superare le soglie normative. Ceneri che, di fatto, resitono per migliaia di anni prima di essere ricondotte ai cicli naturali. In Germania e Austria sappiamo con certezza dove vengono stoccate tali ceneri, che subiscono lo stesso trattamento dei materiali radioattivi conservati nelle miniere di sale. Se la stessa domanda viene posta in Italia la risposta è incerta. Nonostante c’è chi dovrebbe curare la trasparenza informativa sui progetti degli impianti di incenerimento. In genere le ceneri nostrane finisco in discariche autorizzate. Rifiuti Zero non è favorevole alla realizzazione di nuove

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discariche, come pure si dice. Abbiamo pensato a un percorso che porterà nel giro di 10-15 anni al massimo ad azzerare i rifiuti. E, quindi, anche il fabbisogno di discariche. Ma nel frattempo c’è bisogno di siti ad interim, di transizione, dove andranno stoccati quantitativi di rifiuti sempre minori e sempre meno impattanti. La discarica è sostanzialmente un magazzino per uno stoccaggio provvisorio. Perché, con l’evoluzione rapidissima delle tecnologie, alcuni materiali che adesso non sono riciclabili potrebbero esserlo in futuro. Le strategie rifiuti zero prevedono il ricorso transitorio a discariche dove non vengono conferiti materiali putrescibili - che producono odori e percolato - e rifiuti pericolosi. Lì dove il sistema rifiuti zero manca la discarica è il luogo in cui si butta indifferentemente qualsiasi cosa. Gli stessi impianti TMB, che dovrebbero ridurre e aumentare la stabilizzazione della frazione organica, in genere funzionano da tritovagliatori. Riuscendo così a malapena ad ammortizzare l’impatto della frazione biogenica per limitare la produzione di percolato nelle discariche. Quindi, se davvero si vuole la riduzione delle discariche e degli inceneritori, si deve necessariamente sostenere il progetto e il modello rifiuti zero. Ma c’è anche chi sostiene che la valorizzazione energetica dei rifiuti completerebbe un ciclo


virtuoso di smaltimento che altrimenti non potrebbe concludersi, in quanto non sarebbe possibile recuperare e riciclare tutti i rifiuti. Eppure gli inceneritori, per poter funzionare, hanno necessità di moltissima materia da bruciare. È sostenibile una coesistenza tra l’incenerimento e la raccolta differenziata? O, in realtà, l’uno esclude l’altra? Quanti sono gli inceneritori, quanta massa di rifiuti bruciano annualmente e in quale rapporto con il totale prodotto? Partiamo da un presupposto. Il decisore politico elabora i piani preventivi e consuntivi della Tia o della Tari. L’inerzia nella gestione dei rifiuti, attuando il cosiddetto sistema di gestione integrata - che significa inceneritori con recupero di energia - crea un business protetto. Non c’è il rischio di impresa. Si investe solo dopo che i decisori politici

se si cambia approccio nella gestione dei rifiuti, comunque si pagherà come se fosse tutto destinato a incenerimento. Il presidente di Hera, di fatto, ha più potere di un qualunque sindaco. Nell’epoca dell’economia circolare ci sarebbe molto più interesse a perseguire strade diverse. Non c’è confronto alcuno con i posti di lavoro creati attraverso la raccolta differenziata porta a porta, la riparazione, il riuso e i sistemi di compostaggio. O, addirittura, un sistema rifiuti zero. Secondo l’Europa si uscirà dalla crisi quando i Paesi europei sapranno introdurre una moderna industria del riciclo. In questo momento, però, si persegue solo l’interesse di gruppi marginali di persone che in Italia ruotano intorno all’oligarchia industriale, al cui centro c’è sempre stata l’industria sporca, come nei casi di Moratti, Marcegaglia, Ansaldo. Oggi è troppo facile capire che chi promuove l’incenerimento

non esiste industria manifatturiera. Dovremmo iniziare a considerare il cassonetto come una sorta di miniera urbana. Le città dovrebbero diventare giacimenti urbani da cui estrarre metalli, fibre cellulosiche, vetro, polimeri plastici. Sin dagli anni Novanta sono state molteplici le inchieste che hanno dimostrato la longa manus della criminalità organizzata nella gestione dei rifiuti. Da Nord a Sud, indistintamente. L’interesse dei clan si è postato dalla gestione delle discariche al business dell’incenerimento? Gli interessi sporchi si concentrano lì dove c’è l’industria sporca. L’industria dello smaltimento dei rifiuti è oggettivamente un’industria sporca. Un caso di scuola è quello dell’inceneritore di Pietrasanta, in provincia di Lucca. L’Istituto Superiore di Sanità aveva partecipato

<<NON C’È CONFRONTO ALCUNO CON I POSTI DI LAVORO CREATI ATTRAVERSO LA RACCOLTA DIFFERENZIATA PORTA A PORTA, LA RIPARAZIONE, IL RIUSO E I SISTEMI DI COMPOSTAGGIO>> hanno imposto che per dieci anni la bolletta andrà a finanziare quel sistema di gestione dei rifiuti. È un investimento più che certo. Se l’inceneritore non si dovesse realizzare si rischia di pagare “il vuoto per il pieno”: quindi in sostanza anche

affossa ogni prospettiva che la stessa macroindustria manifatturiera italiana possa competere sul mercato internazionale. Basti pensare alle terre rare e ai metalli. Il 90 per cento delle terre rare è commercializzato dalla Cina. E senza terre rare,

agli incontri pubblici sostenendo, davanti a cittadini arrabbiati, che quello di Pietrasanta era uno degli inceneritori più controllati d’Europa. Una tesi che si basava sull’imposizione del controllo delle diossine in tempo reale su una linea.

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Ma, successivamente, una faida interna ha portato alla luce un’altra realtà. Una denuncia anonima ha fatto emergere che il sistema di monitoraggio delle emissioni riduceva del 90 per cento quanto veniva registrato. C’è stato un processo con condanne e gli inceneritori, in questa zona, sono stati messi al bando. Questi impianti favoriscono la mancanza di trasparenza. In Campania la camorra ha investito soprattutto nel trasporto e nella sepoltura dei rifiuti.

che è entrato in scena in questi anni in Campania è la società civile. E la società civile dimostra, invece, che la raccolta differenziata è possibile. Recuperando il cartone, il vetro, la plastica, si creano posti di lavoro. Lo dimostrano esperienze di varie parti del mondo, come i waste piquers, i recicladores, i cartoneros in Argentina. Oggi siamo in grado di produrre impianti, fabbriche dei materiali, piattaforme di riciclo: i RAEE sono una miniera a cielo aperto. Stiamo sotterrando,

presidenza della Giunta regionale Abruzzo, Mario Mazzocca, ha dichiarato che non ci sono state finora sanzioni. Ha notizie in merito? Probabilmente l’infrazione è solo una minaccia. Dal mio punto di vista è un dato irrilevante. Dobbiamo comunque attuare le buone pratiche, al di là del dibattito sulla permanenza nell’Ue. Per quanto riguarda la gestione ambientale abbiamo tutto da guadagnare a restare in Europa. Grazie alle

<<MAGGIORE È LA PARTECIPAZIONE POPOLARE, MAGGIORE È LA DENSITÀ DELLE BUONE PRATICHE, MINORE è L’INQUINAMENTO DEI TERRITORI. DOBBIAMO BONIFICARE IL NOSTRO PAESE>> Minore è la partecipazione popolare, tanto è più ampio il vuoto democratico. E maggiore è la pervasività della malavita. Perché insieme alle armi e alla droga, quello dei rifiuti è un vero e proprio business per i gruppi criminali. Maggiore è la partecipazione popolare, maggiore è la densità delle buone pratiche, minore è l’inquinamento dei territori. Dobbiamo bonificare il nostro paese. Dobbiamo far respirare la democrazia. Rifiuti Zero parla di educazione, democrazia dal basso, di un nuovo modello, di una nuova stagione. È la rivoluzione delle comunità. La vera bonifica dei territori. Il Sud del Paese è molto più sensibile del Nord. Qui le comunità hanno capito al volo. L’esperienza di Napoli l’ha dimostrato. L’elemento

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mettendo in discarica o bruciando un’immensa ricchezza. Nel febbraio scorso la Commissione europea ha inviato un ultimatum a sei regioni italiane: Abruzzo, Basilicata, Friuli Venezia Giulia, Piemonte, Sardegna e Sicilia, più la provincia autonoma di Bolzano. L’Europa intima di aggiornare i piani regionali di gestione dei rifiuti conformandoli alla direttiva 2008/98, la quale stabilisce che <<la priorità principale della gestione dei rifiuti dovrebbe essere la prevenzione, il riutilizzo e il riciclaggio di materiali>> da <<preferirsi alla valorizzazione energetica dei rifiuti>>. Il 19 giugno scorso il sottosegretario alla

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battaglie portate avanti dai movimenti oggi siamo superiori nella capacità di riciclo di Inghilterra, Francia e Spagna. Presto batteremo anche la Germania. Tutto questo deve diventare ragione di promozione di progetti di economie locali, di cooperativismo. Basterebbe smontare le schede madri dei computer per avere remunerazioni che vanno dai 5 mila ai 14 mila euro a tonnellata. L’Europa, dunque, boccia gli inceneritori? L’Europa è a trazione tedesco-francese e la locomotiva tedesca è inceneritorista. Il mondo tedesco, l’Austria, la Danimarca, l’Olanda, promuovono l’incenerimento. Juncker ha annacquato il pacchetto


dell’economia circolare, che precedentemente prevedeva la totale messa al bando degli inceneritori. Rimane naturalmente lo spirito della centralità economica. In questo l’Europa è credibile. Noi non abbiamo giacimenti naturali, la scarsità delle materie prime ci impone di estrarre dai cassonetti. Il Parlamento europeo è più lungimirante, ma poi il Consiglio europeo tende a frenare, condizionato dalle lobby. Questo fa sì che l’Europa sia un po’ambigua. Il Rapporto Onu del 2013 mette sullo stesso piano inceneritori e discariche. E qui si coglie l’ambiguità del messaggio europeo - che mette in fondo l’incenerimento, pur senza rinnegarlo del tutto e la linearità delle Nazioni Unite. Questo rapporto, l’ultimo pubblicato e quindi ancora vigente, cita il Centro di Ricerca del Comune di Capannori. Un importante riconoscimento che ci dà, ovviamente, soddisfazione. L’Europa non è contro gli inceneritori, la Germania non lo è. Nemmeno Greenpeace tedesca muove un dito contro l’incenerimento dei rifiuti. Probabilmente per non dar noia ai propri finanziatori. Il decreto legislativo n.507 del 5 novembre 1993 ha introdotto la Tarsu. Il decreto legislativo n.22 del 5 febbraio 1997, invece, la sostituisce con la Tariffa di igiene ambientale (Tia), che avrebbe dovuto consentire la realizzazione di un sistema nel quale il cittadino avrebbe pagato in base ai soli rifiuti

prodotti. Un meccanismo virtuoso, un incentivo a ridurre la produzione pro capite di rifiuti ed effettuare correttamente la raccolta differenziata. Con il decreto Salva Italia (n.206/2011) convertito con la legge n.214/2011 - il Governo Monti ha sostituito la Tia e la Tarsu con la Tares, imposta basata sulla superficie dell’immobile di riferimento (l’80 per cento della rendita catastale dell’immobile per le abitazioni private), il numero dei residenti, l’uso, la produzione media dei rifiuti. Obiettivo della Tares è coprire il 100 per cento del costo del servizio sostenuto dai Comuni per raccolta e smaltimento dei rifiuti, e i servizi indivisibili forniti: illuminazione pubblica, manutenzione delle strade, polizia locale, aree verdi. Ma così facendo non si è tornati indietro? È stato detto che l’applicazione alla Tia sarebbe avvenuta solo per una minima parte dei comuni italiani. Ci sono dati in merito? Oggi è comprovato che la raccolta differenziata porta a porta comporti questo aggravio economico? Recentemente c’è stato un decreto attuativo del ministero dell’Ambiente sulla Tia che non è stata abolita. Il passaggio più rivoluzionario del decreto Ronchi era quello inerente alla Tia puntuale, che obbligava al porta a porta. Fu poi superato con la legge n.152/2006. Ma tanti Comuni, intanto, erano già partiti in via

sperimentale. I Comuni con una tariffa puntuale sono all’incirca il 20 per cento. Tuttavia se il sistema non è patrimoniale deve essere applicato il principio del “chi inquina paga”. Ognuno deve pagare per quanto è effettivamente responsabile di aver sporcato. Più virtuoso sei, meno paghi. Oggi il 50 per cento della tariffa rimane purtroppo ancora patrimoniale, legata ai costi fissi. E ci sono stime presuntive che non corrispondono all’effettiva produzione di rifiuti. Ma alla finanza locale, che ha subito un drastico calo dei trasferimenti statali, fa buon gioco correlare l’illuminazione pubblica e la gestione dei rifiuti. Ragioni di cassa inficiano, quindi, provvedimenti che potrebbero essere decisivi per l’ambiente. Siamo ancora a metà del guado. Ma la decisione spetta ai Comuni. Anche dopo la legge n.152/2006 è stata lasciata in via sperimentale ai Comuni la possibilità di propendere per la Tia puntuale. Quindi un sindaco opportunamente sensibilizzato dai movimenti locali, che vuol tentare una buona raccolta differenziata porta a porta, lo può fare con la tariffa puntuale. La leggenda metropolitana che il porta a porta costa di più, non è vera. Ma lì dove il porta a porta viene bene organizzato, la raccolta differenziata non presenta costi aggiuntivi. Capannori è il Comune che paga meno in Toscana. E non c’è l’impianto di compostaggio. Se ci fosse, la raccolta dei rifiuti costerebbe ancora meno. Più pulito è il

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materiale, maggiore è la remunerazione. Laddove abbiamo dei decisori politici e delle associazioni che lavorano, i risultati sono eclatanti. La Lombardia, nel 2010, ha redatto uno studio in cui si certificava che il porta a porta è più economico. Il primo punto del decalogo Dieci passi verso Rifiuti Zero recita che <<La gestione dei rifiuti non è un problema tecnologico ma organizzativo, dove il valore aggiunto non è quindi la tecnologia, ma il coinvolgimento della comunità chiamata a collaborare in un passaggio chiave per attuare la sostenibilità ambientale>>. Il passaggio-chiave è proprio la raccolta differenziata. Come si articola l’intera strategia e quali sono le esperienze già presenti in Europa e nel nostro Paese? In Europa ci sono, grazie alla spinta italiana, circa 350 municipalità che adottano la strategia rifiuti zero. La prima

di rifiuti zero, adesso è un riferimento per tutti. In questo momento l’Italia probabilmente supera anche San Francisco. Abbiamo 270 comuni, con oltre 6 milioni di abitanti, che adottano ufficialmente la strategia rifiuti zero. Tutto questo al netto della città di Roma, che ha chiesto di far parte del percorso rifiuti zero. È in corso l’istruttoria. Nei recenti incontri con l’assessore Montanari abbiamo stabilito che a fine ottobre Zero Waste Italy e Europe garantiranno una task-force di supporto al percorso che il Comune di Roma e Ama hanno elaborato verso rifiuti zero. L’obiettivo è di arrivare al 70 per cento di raccolta differenziata entro il 2021. E, ovviamente, la riconversione dei Tmb in fabbriche di materiali per sottrarre allo smaltimento, e quindi anche alla combustione, quanto più rifiuto possibile. Se Roma facesse parte della strategia, il 15 per cento degli italiani si muoverebbe nella direzione rifiuti zero.

provincia di Lucca nel 1996. Non ci siamo limitati a dire di no, abbiamo proposto alternative valide. All’epoca la strategia adottata non si chiamava rifiuti zero, lo è diventata nel 2000. Oggi operiamo in una provincia che vanta quindici comuni che hanno già adottato la delibera rifiuti zero e hanno un tasso di raccolta differenziata del 70 per cento. Non c’è solo Treviso - che è un po’ la nostra San Francisco - con 600 mila abitanti e l’80 per cento di raccolta differenziata. Ci sono anche altre province virtuose. Qui al contrario di Treviso, dove forse vige un modello prevalentemente industriale, si è diffusa la cultura. È una cultura bottom up, dal basso verso l’alto, prevalentemente civica. Il civismo delle comunità fa la differenza. È in corso di svolgimento una rivoluzione che, probabilmente insieme a quella femminile è la più macroscopica e rilevante che sia avvenuta in Italia. Purtroppo questo i mass media, se non in

<<NON CI SIAMO LIMITATI A DIRE DI NO, ABBIAMO PROPOSTO ALTERNATIVE VALIDE. OPERIAMO IN UNA PROVINCIA CHE VANTA 15 COMUNI CHE HANNO GIà ADOTTATO LA DELIBERA “RIFIUTI ZERO“>> capitale europea è stata Lubiana. Rifiuti Zero parte in California alla fine degli anni Ottanta, si diffonde in Australia, poi in Nuova Zelanda. San Francisco, che dal 2000 con il 50 per cento di raccolta differenziata è andata verso l’adozione

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Quali sono le attività del Centro di ricerca Rifiuti Zero del Comune di Capannori? Capannori è la culla di rifiuti zero. Da qui siamo partiti impedendo la realizzazione dell’inceneritore in

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modo sporadico, non lo lasciano trapelare. Stiamo parlando di 9 milioni di italiani che si muovono nella direzione rifiuti zero. Questo è il dato. È il partito delle buone pratiche, quello più importante che c’è in Italia. Il partito


dell’industria sporca, trasversale, era sicuramente quello più forte, tuttora agguerrito, ben finanziato. Ma i movimenti locali e le comunità hanno guadagnato punti. Girando l’Italia, noto che c’è un circuito potentissimo, brulicante di buone idee. E lo dimostra anche l’Onu quando indica un centro come quello di Capannori come esempio positivo. E non i Politecnici di Torino o Milano. Un centro che in 6 anni ha avuto un budget di 20 mila euro. È la dimostrazione che il bottom up e la creatività sono elementi della contemporaneità. La modernità non consiste in grandi opere, cemento, concentrazione degli investimenti. È puntare sulla rete diffusa delle buone pratiche. Diamo importanza alle persone e non ai processi. “Non bruciamoci il futuro” è uno slogan nato dalle battaglie di Capannori. La prima grande opera è il coinvolgimento diffuso. Quando si promuove il porta a porta e le buone pratiche, si deve parlare in modo orizzontale alle persone. È il sindaco che deve farsi carico di parlare coi cittadini. Così la politica può ritrovare il volto umano che ha perduto. Rifiuti Zero non è una tecnocrazia contrapposta a quella dei politecnici e degli inceneritori. Il Centro Rifiuti Zero studia soprattutto i prodotti non riciclabili e non compostabili. Devono essere riprogettati, coinvolgendo i produttori. Noi cittadini risolviamo l’80-85 per cento del problema. La parte

restante deve essere risolta da chi immette sul mercato i prodotti usa e getta. Un patto che coinvolge comunità, decisori politici e produttori. Una volta instaurato questo patto si potrà guardare con minor pessimismo, e anche con positività e speranza, ai grandi problemi planetari. Nel 2014 sono state raccolte oltre 86 mila firme per la proposta di legge popolare Rifiuti Zero. Tre anni dopo, quale destino ha avuto l’iniziativa? La buona notizia è che tra le leggi di iniziativa popolare questa è stata la prima a essere discussa dal Parlamento. Siamo stati chiamati un paio di anni fa per presentarla in Commissione ambiente alla Camera. Abbiamo incontrato anche la presidente, Laura Boldrini. La cattiva notizia è che probabilmente nessuno ha interesse a portare avanti questo disegno di legge a livello politico. Sia che si tratti di partiti di governo, che di opposizione. Compreso il Movimento 5 Stelle, che ha poi fatto una proposta propria. È il problema italiano: i partiti spesso cadono in inutili faziosità. Personalmente non ho una visione negativa dei partiti, ce l’ho delle fazioni. Il fazioso promuove un’idea, ma il giorno dopo potrebbe cambiarla perché deve mantenere la propria identità di fazione. Nonostante il relatore in Commissione ambiente fosse De Menech, deputato del Partito Democratico ed ex sindaco del Comune riciclone di Ponte nelle Alpi, a dispetto degli incontri

e delle sollecitazioni, non abbiamo riscontrato alcun interesse. Non a caso è stato promosso l’articolo 35 dello Sblocca Italia. Complici anche le diatribe politiche, che rendono difficile trovare interlocuzioni a livello governativo e parlamentare. Siamo forti sui territori, ma non siamo come i No Tav che riescono a organizzare grandi manifestazioni a Roma. Noi non ci riusciamo. Ma torneremo alla carica. Davanti alla nuova emergenza rifiuti romana si è tornati a parlare dell’inceneritore di Colleferro. Qual è la situazione oggi? E soprattutto: quali interessi stanno spingendo per questo inceneritore? Chi ha le responsabilità di questa scelta e dell’attuale situazione romana? Non credo ci sarà il revamping di Colleferro. Che non è un vero e proprio revamping. Si è creato una sorta di equivoco dopo un articolo di un quotidiano nazionale che faceva riferimento al revamping. In realtà ci sarà una manutenzione ordinaria e straordinaria per il funzionamento della seconda linea. La prima linea funziona fino a 80 mila tonnellate, la seconda era ferma da tempo. Il 60 per cento è di proprietà della Regione Lazio, il 40 per cento di Ama. Quando era assessore Paola Muraro sembra che l’amministratore delegato, nominato dal Movimento 5 Stelle, avesse avallato la ricapitalizzazione di Ama. Pena il pagamento di una

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penale alla Regione di circa 15 milioni. Però l’assessore Muraro ci ha sottoposto i verbali. Qui nasce il giallo: sembra che il sindaco Raggi non fosse favorevole. La stessa amministratrice pare avesse ammesso di aver dato parere favorevole. Ma lo stanziamento dei fondi non avrebbe comunque avuto la sua firma. Sta di fatto che attualmente l’amministrazione Raggi non ha intenzione di concedere l’uso di questa seconda linea. La giunta

sarebbe trovato davanti le rovine del sistema precedente. Un sistema governato dall’ottavo re di Roma, Manlio Cerroni, con la discarica di Malagrotta. Cerroni è quello che ha “salvato” Roma dalle emergenze rifiuti in passato. Ma ha ricattato tutte le amministrazioni. Nessuna delle quali, da Rutelli a Veltroni, ha mai fatto decollare la raccolta differenziata. Nei ripetuti incontri con la nuova amministrazione, una volta

Comune amministrazioni anti-inceneritori, ma il territorio è vessato da industria sporca. Abbiamo da un lato il polo di Taranto, dall’altro Statte con un inceneritore sul modello di Pietrasanta. E a Massafra c’è Albanese, braccio destro di Marcegaglia, che fa di tutto non solo per raddoppiare l’inceneritore esistente ma anche per ottenere un impianto che bruci fanghi. L’impianto di Massafra nasce come impianto a biomasse -

<<LE COMUNITÀ LOCALI HANNO MANDATO IN COMUNE AMMINISTRAZIONI ANTI-INCENERITORI, MA IL TERRITORIO È VESSATO DA INDUSTRIA SPORCA. TARANTO, POI STATTE E INFINE MASSAFRA, DOVE C’È ALBANESE, BRACCIO DESTRO DI MARCEGAGLIA>> capitolina chiede alla Regione di investire i fondi, anche aggiuntivi, non per il revamping dell’impianto ma per riconvertirlo in fabbrica di materiali. Quindi non un impianto che produce CSS ma uno per l’estrazione di metalli, frazione cellulosica, stabilizzazione della frazione organica e produzione di manufatti che donino alla plastica una seconda vita. Questo al netto della guerra politica con il PD, che punta a mettere all’angolo l’amministrazione M5S. Durante l’incontro con l’amministrazione e il nuovo amministratore di Ama, Lorenzo Bagnacani, ci siamo confrontati sul nuovo piano che prevede la conversione dell’impianto di Colleferro a fabbrica di materiali. Quel che è certo è che chiunque avesse vinto le elezioni si

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ratificate le dimissioni dall’assessore Muraro, abbiamo trovato molti punti di collaborazione. Attualmente stiamo lavorando con Pinuccia Montanari, ex assessore a Reggio Emilia e a Genova, vicina al circuito rifiuti zero. Roma ha moltissime complessità. Non a caso la nostra task-force sarà formata dai migliori esperti a livello internazionale. Il 30 giugno scorso a Massafra si è tenuto un corteo dopo la sentenza del Consiglio di Stato favorevole alla costruzione di un secondo inceneritore. Quali sono le prospettive? Ho partecipato alla manifestazione. Devo dire che la situazione è double face. Le comunità locali hanno mandato in

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combustione di legno vergine - all’inizio del 2000. Una sorta di escamotage, diffuso in molti territori: richiedere le autorizzazioni per bruciare legna verde e poi passare di punto in bianco all’incenerimento. Come accade anche nei cementifici. È una sorta di pendolo: quando la termovalorizzazione è in crisi, i cementifici non bruciano; quando il prezzo del cemento cala, i cementifici bruciano. Così si lucra con il conferimento del CSS. Con gli impianti a biomasse accade lo stesso. A Monfalcone A2A ha rilevato un impianto di cogenerazione e vuole sostituire una linea a carbone con una a rifiuti. C’è poi tutta la partita delle piccole centrali da 1 megawatt termico - che comunque contrastiamo


perché la biomassa andrebbe restituita ai terreni che sono oggetto di desertificazione e perdita di fertilità - che non è possibile convertire a piccoli combustori di rifiuti. A Massafra servirebbe innanzitutto uno screening sanitario che attesti lo stato di salute della popolazione. Il Consiglio di Stato in teoria dà ad Albanese la possibilità di procedere ai lavori. Da qui l’appello delle associazioni che hanno incontrato la Commissione ambiente regionale per cercare cavilli normativi che blocchino l’inizio dei lavori. Il governatore pugliese, Michele Emiliano, telefonicamente mi ha assicurato di aver attivato un gruppo di lavoro legale perché dia attuazione alla volontà politica di non permettere il raddoppio dell’inceneritore. Viene chiesto di ripetere l’iter di rilascio dell’Aia, in quanto è stata rilasciata in tempi in cui la normativa regionale non era stata aggiornata. I pareri sull’Aia appaiono, quindi, anacronistici tanto più che emerge l’elevatissima vulnerabilità ambientale e sanitaria della zona. Tutt’uno con la realtà tarantina, c’è Grottaglie con una mega discarica e Statte con l’inceneritore. A Modugno, in provincia di Bari, è stata evitata la realizzazione della centrale a biomasse. Tuttavia l’impianto non realizzato a Modugno lo si vuole sostituire raddoppiando l’inceneritore di Massafra. Bypassando, in questo modo, la partenza iniziale della struttura come centrale a biomasse.

10 passi verso rifiuti zero 1. Separazione alla fonte: organizzare la raccolta differenziata. La gestione dei rifiuti non e’ un problema tecnologico, ma organizzativo, dove il valore aggiunto non e’ quindi la tecnologia, ma il coinvolgimento della comunità chiamata a collaborare in un passaggio chiave per attuare la sostenibilità ambientale. 2. Raccolta porta a porta: organizzare una raccolta differenziata “porta a porta”, che appare l’unico sistema efficace di RD in grado di raggiungere in poco tempo e su larga scala quote percentuali superiori al 70%. Quattro contenitori per organico, carta, multi materiale e residuo, il cui ritiro e’ previsto secondo un calendario settimanale prestabilito. 3. Compostaggio: realizzazione di un impianto di compostaggio da prevedere prevalentemente in aree rurali e quindi vicine ai luoghi di utilizzo da parte degli agricoltori. 4. Riciclaggio: realizzazione di piattaforme impiantistiche per il riciclaggio e il recupero dei materiali, finalizzato al reinserimento nella filiera produttiva. 5. Riduzione dei rifiuti: diffusione del compostaggio domestico, sostituzione delle stoviglie e bottiglie in plastica, utilizzo dell’acqua del rubinetto (più sana e controllata di quella in bottiglia), utilizzo dei pannolini lavabili, acquisto alla spina di latte, bevande, detergenti, prodotti alimentari, sostituzione degli shoppers in plastica con sporte riutilizzabili. 6. Riuso e riparazione: realizzazione di centri per la riparazione, il riuso e la decostruzione degli edifici, in cui beni durevoli, mobili, vestiti, infissi, sanitari, elettrodomestici, vengono riparati, riutilizzati e venduti. Questa tipologia di materiali, che costituisce circa il 3% del totale degli scarti, riveste però un grande valore economico, che può arricchire le imprese locali, con un’ottima resa occupazionale dimostrata da molte esperienze in Nord America e in Australia. 7. Tariffazione puntuale: introduzione di sistemi di tariffazione che facciano pagare le utenze sulla base della produzione effettiva di rifiuti non riciclabili da raccogliere. Questo meccanismo premia il comportamento virtuoso dei cittadini e li incoraggia ad acquisti piu’ consapevoli. 8. Recupero dei rifiuti: realizzazione di un impianto di recupero e selezione dei rifiuti, in modo da recuperare altri materiali riciclabili sfuggiti alla RD, impedire che rifiuti tossici possano essere inviati nella discarica pubblica transitoria e stabilizzare la frazione organica residua. 9. Centro di ricerca e riprogettazione: chiusura del ciclo e analisi del residuo a valle di RD, recupero, riutilizzo, riparazione, riciclaggio, finalizzata alla riprogettazione industriale degli oggetti non riciclabili, e alla fornitura di un feedback alle imprese (realizzando la Responsabilità Estesa del Produttore) e alla promozione di buone pratiche di acquisto, produzione e consumo. 10. Azzeramento rifiuti: raggiungimento entro il 2020 dell’ azzeramento dei rifiuti, ricordando che la strategia Rifiuti Zero si situa oltre il riciclaggio. In questo modo Rifiuti Zero, innescato dal “trampolino” del porta a porta, diviene a sua volta “trampolino” per un vasto percorso di sostenibilità, che in modo concreto ci permette di mettere a segno scelte a difesa del pianeta.

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I

RIFIUTI NELLA

TEBAIDE D’ITALIA

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DI DANIELA SPERA

In materia di gestione di rifiuti solidi urbani il Sud non brilla per scelte politiche andate oltre l’intervento legislativo pro tempore finalizzato ad una risoluzione definitiva. Si alimenta così, quella che per l’Italia è una vera emergenza nazionale in cui, a fare da contraltare ad illeciti e cattiva amministrazione, sono le battaglie di numerose associazioni e di singoli cittadini che difendono, da discariche e termovalorizzatori, il proprio territorio. Lotte che spesso non balzano agli onori della cronaca, proprio come quella portata avanti dal Comitato per la corretta gestione dei rifiuti di Massafra, in provincia di Taranto, nato per manifestare la propria contrarietà al raddoppio dell’inceneritore cittadino.


RIFIUTI CONNECTION

Chiamata anche Tebaide d’Italia, Massafra - nel Parco regionale Terra delle Gravine - vanta un passato fatto di insediamenti della civiltà rupestre. La vicinanza con Taranto Sito di interesse nazionale per la presenza di attività industriali inquinanti - nel 1990 le ha fatto guadagnare un posto all’interno dell’Area ad elevato rischio di crisi ambientale, come stabilito da un decreto del Consiglio dei ministri. Nonostante questo, nel 2003 entra in esercizio il primo impianto di produzione di energia elettrica da Combustibile derivato da rifiuti (Cdr). In sostanza un inceneritore. Un impianto gestito da Appia energy srl, costituita nel febbraio del 2000 da EuroEnergy group - azienda del gruppo Marcegaglia energy specializzata nello sviluppo, costruzione e gestione di impianti per la produzione di energia rinnovabile che ne detiene il 51 per cento e Cisa (con sede a Massafra) che seleziona e tratta rifiuti, trasformandoli in Cdr. Una decina di anni dopo la Appia energy formulava al Settore ecologia della Provincia di Taranto

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INCENERITORI, PI E VIOLAZIONI DEL un’istanza di procedura coordinata di Valutazione d’impatto ambientale ed autorizzazione ambientale, relativamente alla realizzazione della seconda linea della centrale termoelettrica di Massafra, alimentata a Cdr e biomasse (Protocollo provinciale n.0013993 del 16 febbraio 2012). LA RICHIESTA DI RADDOPPIARE L’INCENERIMENTO E LA CARENTE VALUTAZIONE D’IMPATTO AMBIENTALE In sostanza, Appia energy chiede di raddoppiare l’attività di incenerimento. Una minaccia per una cittadina che già vive nel timore di subire gli effetti nocivi delle attività inquinanti dell’Ilva, dell’Eni e degli inceneritori che insistono da tempo sul territorio tarantino. Ma niente paura, perché la missione dell’azienda è <<lo sfruttamento di combustibili più puliti, meno costosi e relativamente abbondanti nel nostro territorio: uno di questi è il Cdr. Contestualmente alla selezione e differenziazione, una volta separato tutto

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ciò che è riciclabile, è possibile trasformare i rifiuti in Cdr, combustibile dall’alto potere calorifico in grado di alimentare impianti per la produzione di energia. La ricaduta immediata sull’ambiente e sulla qualità della vita: una drastica riduzione delle emissioni di sostanze inquinanti e della quantità di rifiuti inutilizzabili avviati alle discariche. Il risultato a lungo termine: energia più pulita e meno costi per i cittadini e le aziende.>> Ma è davvero così? Secondo dati forniti dalla stessa azienda l’impianto è in funzione per 7.500 ore all’anno e brucia ogni anno 94 mila tonnellate di Combustibile derivato da rifiuti. Il nuovo impianto avrebbe identiche caratteristiche, con una produzione di energia che si andrebbe a sommare a quella già prodotta. L’originario iter autorizzativo dell’inceneritore è sempre stato pesantemente viziato da una carente Valutazione d’impatto ambientale. La questione, dai risvolti contorti e per lo più ignota, è spiegata per la prima volta nel


IANI REGOLATORI L DIRITTO COMUNITARIO 2012 dall’avvocato Giulio Mastrangelo, presidente dell’Archeogruppo di Massafra e cultore di Storia del diritto italiano presso l’Università degli studi di Bari. Lo fece in maniera esauriente con una nota inviata alla stampa. LE MODIFICHE AL PIANO REGOLATORE Tutto ha inizio l’11 agosto 2000, quando il Consiglio comunale di Massafra approva l’emendamento n.22 al Piano regolatore generale, con cui si destinava a zona D5, per depositi e impianti di rifiuti insalubri e pericolosi, un’area di 48 ettari dove poi è sorto l’ impianto di incenerimento Appia energy. Contro tale destinazione urbanistica si costituisce il Comitato per la qualità della vita: oltre 4 mila cittadini con l’obiettivo di promuovere un referendum popolare per l’annullamento delle delibere del Consiglio comunale che avevano approvato la costruzione dell’impianto di incenerimento, di preselezione e produzione di Cdr. Anche l’Archeogruppo

partecipa a questa battaglia approvando un dettagliato documento nel quale, <<premessa la già pesante situazione di inquinamento ambientale di Massafra e del territorio circostante a cui si voleva aggiungere tale impianto di incenerimento per bruciare, non solo e non tanto i rifiuti di Massafra, quanto piuttosto quelli di mezza Puglia che avrebbero richiesto lo smaltimento e la selezione in loco di oltre 700 tonnellate di Rsu al giorno per la produzione di Cdr>>, sottolineava che <<la costruzione di tale impianto non sarebbe stata compensata né dalla chiusura della discarica controllata esistente né dall’effettivo disinquinamento del sito della discarica illegale, sita nella stessa contrada Console in una attigua cava di tufo.>> Il documento fu inviato, il 5 ottobre dello stesso anno, a tutta la Giunta comunale, alla Commissione europea, al presidente del Consiglio dei ministri, ai ministri dell’Industria, dell’Ambiente, della Sanità, Ai beni e alle Attività culturali, al presidente

della Regione Puglia, al presidente della Provincia di Taranto, al prefetto di Taranto, alla locale Asl e all’Amiu, l’azienda municipalizzata igiene urbana. DIETROFRONT SUL PIANO REGOLATORE MA NON SULL’INCENERITORE. LA VIOLAZIONE DEL DIRITTO COMUNITARIO Dopo le numerose proteste la revoca dell’emendamento n.22 da parte del Consiglio comunale fu immediata. Ma l’inceneritore veniva comunque autorizzato e costruito. Solo la Direzione generale ambiente della Commissione europea dava riscontro all’esposto e, con una nota del 25 ottobre 2002, comunica che in data 16 ottobre 2002 la Commissione aveva deciso di inviare all’Italia una lettera di costituzione in mora in relazione al reclamo relativo alle discariche ed impianti di trattamento rifiuti di Massafra. Incassato un nulla di fatto, la Commissione - in data 5 agosto 2004 - presenta ricorso alla Corte di giustizia europea promuovendo una procedura di infrazione.

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Quasi due anni e mezzo dopo, il 23 novembre 2006, la Corte di Giustizia accoglie il ricorso della Commissione sancendo il venir meno, da parte dell’Italia, agli obblighi richiamati dalla direttiva 85/337/CEE. Al nostro Paese viene imputato di <<avere dispensato dalla procedura di impatto ambientale l’impianto sito in Massafra […] avente una capacità superiore a 100 tonnellate al giorno e rientrante nell’allegato I, punto 10, della direttiva del Consiglio 27 giugno 1985, 85/337/CEE, concernente la valutazione d’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati […]; di avere adottato una norma quale l’articolo 3, primo comma del decreto del presidente del Consiglio dei ministri 3 settembre 1999, […] la quale consente che i progetti di impianti di recupero di rifiuti pericolosi e i progetti di impianti di recupero di rifiuti non pericolosi con capacità superiore a 100 tonnellate al giorno […] siano sottratti alla procedura di Valutazione d’impatto ambientale prevista dagli articoli 2, n.1, e 4, n.1 della detta direttiva; di avere adottato una norma quale l’articolo 3 […] la quale, per stabilire se un progetto rientrante nell’allegato II della direttiva 85/337, come modificata dalla direttiva 97/11, debba essere sottoposto a Valutazione d’impatto ambientale, fissa un criterio inadeguato, in quanto questo può portare all’esclusione della detta valutazione di progetti che hanno rilevanti ripercussioni

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sull’ambiente.>> L’Italia, dunque, viene riconosciuta colpevole della violazione del diritto comunitario per aver autorizzato la costruzione dell’impianto di incenerimento di Massafra - con capacità superiore a 100 tonnellate al giorno - senza averlo sottoposto alla previa procedura di Valutazione d’impatto ambientale. <<Di conseguenza quell’impianto, privo di Via - specifica nella famosa nota l’avvocato Giulio Mastrangelo - era da considerare ed è illegale. Secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia europea, il diritto comunitario ha effetto diretto negli Stati membri e, inoltre ha la supremazia sulla legislazione nazionale (sentenza Costa, 1964) e ogni Stato membro è responsabile nei confronti dei singoli cittadini per i danni che siano stati loro causati dalla violazione del diritto comunitario da parte dello stesso Stato (sentenza Francovich e altri, 1991). Per effetto del principio della supremazia del diritto comunitario rispetto a quello nazionale, tutti gli atti amministrativi e negoziali in contrasto con norme comunitarie sono nulli e improduttivi di effetti in quanto emessi in violazione di norme imperative e gli enti che li hanno emanati hanno l’obbligo di revocarli e di provvedere alle determinazioni conseguenti. In base al principio della responsabilità degli Stati membri, ogni cittadino può agire in giudizio per

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ottenere il risarcimento dei danni contro lo Stato che violi una norma comunitaria.>> L’unica reazione politica a tale pronuncia fu quella dell’assessore all’Ecologia della Regione Puglia, Michele Losappio, che il 25 gennaio 2007 specifica di aver chiesto alla società che gestisce l’impianto <<di avviare, con la massima celerità, formale procedimento di Via per l’impianto termovalorizzatore di


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Massafra>>. Insomma, un contentino beffardo. Quale senso può avere effettuare la Via ad un impianto già in funzione e a completo regime produttivo? <<Tutto ciò - aggiunge l’avvocato Mastrangelo non avveniva in una landa deserta ma, in un’area fortemente antropizzata sin dalla più remota antichità, che mostrava chiaramente le vestigia di villaggi e necropoli di età preclassica e classica, insieme a monumenti

storici e artistici di epoca medievale, destinata a Parco archeologico […] e in un territorio, quale quello massafrese, che deteneva la esclusiva, insieme a pochi comuni limitrofi, della intera produzione agrumicola della Puglia nonché il primato nella produzione delle più pregiate varietà di uva da tavola: risorse queste, cioè quelle culturali turistiche e agricole, che venivano sempre più danneggiate e mortificate dall’alto rischio ambientale gravante sulla

zona.>> Sono anche queste le ragioni che spingono successivamente il Comitato per la corretta gestione dei rifiuti ad opporsi, con forza, al raddoppio dell’inceneritore richiesto dalla società Appia energy alla Provincia di Taranto che, successivamente, acquisiva, il parere di tutti gli organi amministrativi interessati agli iter autorizzativi. A conclusione del procedimento, il

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dirigente del nono settore ecologia dell’ente provinciale, il 7 settembre 2012, esprime parere complessivo favorevole con la determinazione n.93. L’atto, tuttavia, non viene notificato ai diretti interessati, né mai pubblicato sull’Albo pretorio della Provincia, a beneficio di potenziali soggetti interessati al fine di presentare osservazioni o di avanzare ricorso, come previsto dalla normativa.

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CARENZE AUTORIZZATIVE E RICORSI AL TAR Intanto, Giampiero Mancarelli, assessore provinciale all’ecologia - subentrato a Michele Conserva, dimissionario per questioni giudiziarie legate al processo Ambiente svenduto rileva una carenza nella procedura autorizzativa, in relazione al parere espresso dalla Regione Puglia “Servizio assetto del territorio e servizio urbanistica” (Protocollo

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n.0007731 del 20 luglio 2012) che dava parere negativo perché, essenzialmente, il progetto contrastava con le norme tecniche del Piano urbanistico territoriale tematico. Essendo un’opera di impatto significativo sul territorio, secondo l’ufficio regionale, la sua autorizzazione era soggetta a deroga da richiedere presso la Giunta regionale e sulla quale il Comune di Massafra doveva obbligatoriamente esprimere il proprio parere.


Il 7 gennaio 2013 la Provincia di Taranto emana una nuova determinazione con lo scopo di revocare quella precedente. Con questo atto il dirigente Angelo Raffaele Borgia riapre, di fatto, il procedimento autorizzativo <<al fine di acquisire l’attestazione paesaggistica rilasciata dalla Giunta, previo parere obbligatorio del Comune di Massafra>>. Appia energy riceve la notifica del provvedimento ma, anziché ottemperare, fa ricorso al Tar per <<eccesso

di potere, per malgoverno dei presupposti di fatto e di diritto, contraddittorietà e perplessità dell’azione amministrativa>>, nonché <<eccesso di potere per errore sui presupposti di fatto e di diritto, difetto di istruttoria e di motivazione.>> Il Tribunale amministrativo regionale dà ragione alla società, annullando l’atto con il quale veniva revocata la determinazione n.93, che chiudeva la Conferenza dei servizi con parere favorevole all’azienda e la richiesta della Regione di perfezionare il procedimento mediante l’acquisizione dell’attestazione di compatibilità paesaggistica. Nella sentenza, anche il Tar ricorda che <<la Provincia con memoria del 16 febbraio 2013 ha rilevato che la prima determinazione non è mai stata ritualmente notificata al gestore e non è mai stata pubblicata.>> Questa precisazione non viene però fatta oggetto di riflessione all’interno della sentenza e si procede assumendo, come dato di fatto, che la stessa sia stata adottata con tutti i crismi che la normativa prevede e, quindi, carica di tutte le implicanze giuridiche conseguenti. Una chiave di lettura che non va giù al Comitato per la corretta gestione dei rifiuti che, invece, è convinto che sia stata disatteso l’articolo 124 della legge 267/2000 - il Testo unico sugli enti locali - che dispone che tutte le deliberazioni degli enti locali debbano essere pubblicate all’Albo Pretorio. A nulla sono serviti i

successivi ricorsi depositati dalla Provincia di Taranto e dalla Regione Puglia al Consiglio di Stato che, con recente sentenza del 23 marzo 2017, ha respinto gli appelli degli enti ma anche la richiesta di risarcimento da parte della società Appia energy srl. L’iter, dunque, va avanti. GLI EFFETTI AMBIENTALI E SANITARI L’impianto è collocato in un territorio fragile dal punto di vista ambientale e con un’esposizione potenziale delle persone a rischi connessi ai carichi inquinanti provenienti da varie fonti. Nel febbraio del 2010 la gravità della situazione ambientale del territorio tarantino diventa di dominio pubblico, quando il presidente della Giunta regionale, Nichi Vendola, emana l’ordinanza n.176, recante <<Misure di precauzione a seguito di contaminazioni da Pcb e diossine nelle produzioni zootecniche in alcuni allevamenti della provincia di Taranto.>> Con l’ordinanza si stabilisce il divieto di consumare fegati ovi-caprini presenti negli allevamenti riconosciuti a rischio e ordina il divieto di pascolo su terreni non aventi destinazioni agricole e ricadenti entro un raggio di non meno di 20 chilometri attorno all’area industriale di Taranto. Il mese successivo il Comune di Massafra recepisce l’ordinanza regionale e ribadisce i divieti espressi, ordinando di predisporre idoneo servizio di vigilanza da

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parte del Corpo di polizia municipale in tali aree. E proprio in queste aree ricade la localizzazione dell’impianto della seconda linea della centrale termoelettrica. Nel rilasciare il suo parere favorevole, lo stesso responsabile del dipartimento di Prevenzione del Comune di Massafra, Luigi Mastronuzzi, getta le prime ombre sulla innocuità del progetto, quando definisce il primo termovalorizzatore - o

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inceneritore - <<impianto insalubre>>. Infatti, se le caratteristiche progettuali della seconda linea - per ammissione dello stesso proponente sono identiche alla prima, di conseguenza è identico il suo carico inquinante e, del tutto legittimo, definire <<insalubre>> anche il secondo impianto. IL SUPERAMENTO DELLA SOMMA DI DIOSSINE E PCB Il 16 dicembre 2013, a fugare ogni dubbio, ci pensa l’Arpa

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regionale. In una nota informativa inviata a tutte le autorità amministrative del territorio, compreso il sindaco di Massafra, comunica che il 3 settembre 2013 è stato superato il valore del tenore massimo, ovvero la <<somma di diossine e Pcb diossina simili>>, per un campione di latte bovino - prelevato nel mese di aprile dello stesso anno - presso un allevamento dell’azienda Chiarelli, sito in agro di Massafra.


Le successive analisi di conferma su ulteriori campioni di latte, nel mese di ottobre, evidenziano un esito ancor più sfavorevole. Nella stessa nota l’Arpa afferma che <<in riferimento all’istanza Via-Aia per la realizzazione della seconda linea della Centrale termoelettrica Appia energy srl alimentata a Cdr e biomasse, sita in contrada Console si osserva come il predetto impianto disti circa un chilometro dall’azienda Chiarelli e da

altre aziende zootecniche limitrofe. L’impianto in questione può essere considerato una potenziale sorgente di poli-cloro ma dibenzo-diossina e policloro-dibenzo-furani […]. È bene precisare, però, che anche in presenza di tassi deposimetrici bassi non è possibile escludere, in un arco temporale mediolungo, il superamento dei tenori massimi sopra citati […] da cui consegue la non tollerabilità di qualunque ulteriore ricaduta deposimetrica di PCDD/F e PCB per l’area in questione […]. Potrebbe non risultare ammissibile un aggravio del presente livello di rischio […]. Quindi si ritiene necessario dar seguito ad approfondimenti tecnicoambientali e sanitari al fine di definire l’assetto produttivo ottimale dell’impianto in oggetto e, cautelativamente, sospendere ove l’Autorità competente ne confermi la necessità, le attività autorizzative connesse al raddoppio produttivo […]>> E conclude, evidenziando <<che l’impianto produttivo in oggetto insiste in un’area ad elevato rischio di crisi ambientale in cui, peraltro, è stato già riscontrato un aggravio del preesistente livello di rischio con l’ovvia conseguenza che allo stato attuale risulta necessario sospendere le conclusioni dell’iter autorizzativo Via-Aia del raddoppio produttivo e procedere ad un contestuale riesame dell’ autorizzazione in essere.>> Insomma, il parere dell’Agenzia regionale non fa una piega e, ciò che è peggio, suona come un

implacabile monito. In sostanza, se l’impianto in oggetto non è evidentemente a impatto zero, ma il suo esercizio comporta una pressione ambientale aggiunta - pur rimanendo nei limiti di legge di emissioni - il suo esercizio determina un incremento dell’inquinamento rispetto al dato di partenza, cioè rispetto all’opzione zero, senza il raddoppio. Questo si configura quindi come un danno ambientale certo. Basta leggere cosa dice la Corte di Cassazione, pronunciandosi sul tema dei rifiuti, della tutela della salute e sul danno ambientale: <<ciò che rileva ai fini della configurabilità oggettiva del danno ambientale, non è il livello di inquinamento in senso assoluto, ma l’incremento dell’inquinamento rispetto alle condizioni originarie.>> L’ULTIMO ATTO: DA DUE A TRE INCENERITORI Il raddoppio dell’inceneritore sembra inevitabile ma il Comitato per la corretta gestione dei rifiuti chiede con forza un confronto. Mette in campo numerose iniziative che puntano ad informare i massafresi e a fare pressione sulle amministrazioni locali. Lo fa senza sosta. Ma, quando le forze sembrano acquisire nuovo vigore, si affaccia l’ombra di un’altra minaccia: la costruzione di un terzo inceneritore per lo smaltimento dei fanghi di depurazione. Questa volta la richiesta, avanzata nel 2012, parte dall’azienda STF Puglia srl, situata in

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contrada Forcellara San Sergio, proprio a Massafra, nella Tebaide d’Italia, culla di civiltà rupestri dove, per Appia energy, quel raddoppio “s’ha da fare” e per STF Puglia vale il detto “non c’è due senza tre”. L’iter autorizzativo va avanti, tra tavoli tecnici e Conferenze dei servizi. Il 24 agosto 2012 l’azienda incassa il parere favorevole, con prescrizioni, del Comune di Massafra, quando il sindaco, Martino Tamburrano - oggi presidente della Provincia di Taranto - mostra già una spiccata apertura nei confronti dei due progetti. L’Arpa, invece, comunica il proprio parere sfavorevole. A seguito poi delle controdeduzioni fornite dall’azienda circa il parere di Arpa Puglia - che successivamente ribatte smontando tali osservazioni - la Provincia, con provvedimento del 27 novembre 2014, esprime parere negativo di compatibilità ambientale. A questo punto l’azienda ricorre al Tar che si pronuncia obbligando la Provincia a riaprire il procedimento. Con una nuova Conferenza dei servizi, il 22 giugno 2015, l’ente acquisisce anche i pareri del ministero dei Beni culturali (favorevole), mentre l’Arpa ribadisce le criticità del progetto e chiede la Valutazione d‘impatto sanitario. Il 26 aprile 2017 il Comitato tecnico provinciale <<[…] esprime parere favorevole al progetto presentato, alle seguenti condizioni e prescrizioni: che venga redatto idoneo studio

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previsionale sugli impatti odorigeni […]; che sia puntualmente esplicitato il bilancio idrico delle acque di processo […]; che sia puntualmente esplicitato il bilancio dell’aria esausta proveniente dai capannoni e dalle aree di stoccaggio confinate>> e conclude auspicando che l’azienda preveda <<un sistema di recupero del fosforo sia dalle ceneri di combustione che dalle acque di drenaggio dei fanghi.>> Il settore Ecologia e Ambiente della Provincia di Taranto rimanda così ad una nuova Conferenza dei servizi invitando la società a fornire la documentazione richiesta. L’impianto tratterà fango disidratato proveniente da differenti impianti di trattamento delle acque reflue, per una quantità massima prevista pari a 80 mila tonnellate all’anno, e con un contenuto medio di sostanza secca pari a- 20-22 per cento, corrispondente quindi a 13 mila/17.600 tonnellate sostanza secca per anno. Lo stoccaggio del fango umido avverrà all’interno di due vasche interrate. Da qui i fanghi giungeranno al sistema di stoccaggio costituito da sei sili verticali. Da questi i fanghi saranno convogliati al sistema di essiccamento e quindi ad un reattore termico che infine li brucerà. Secondo l’azienda le ceneri prodotte verranno allontanate periodicamente per lo smaltimento in discarica o per la rivalorizzazione industriale. Le ceneri chimiche

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da trattamento fumi saranno invece smaltite in discarica per rifiuti speciali, o destinati alla rivalorizzazione industriale dei sali prodotti. Appare evidente che si tratta di un sistema di smaltimento che non fa altro che generare nuovi rifiuti e nuove emissioni e, dunque, ulteriore inquinamento. MASSAFRA VUOLE RESPIRARE Ma Massafra, ancora una volta, non ci sta. Nasce


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così un movimento più ampio. Un contenitore che raccoglie associazioni, comitati e liberi cittadini che si riconoscono sotto un’unica bandiera, portando avanti un solo messaggio, chiaro e forte: <<Massafra vuole respirare>>. Il 29 maggio viene convocata una nuova Conferenza dei servizi che, su richiesta del sindaco di Massafra, viene rinviata al 4 luglio per l’assenza di Arpa Puglia. Il nuovo primo cittadino, Fabrizio Quarto,

eletto nel 2016, ribalta subito il parere favorevole espresso dalla precedente amministrazione, bocciando il progetto con una delibera di Giunta. Considerando <<[…] il quadro normativo vigente, in particolare il Piano regionale di gestione dei rifiuti speciali (Prgrs), tra i criteri di localizzazione prescrive la necessità di realizzare i nuovi impianti ad una distanza sufficiente da quelli esistenti al fine di poter

distinguere e individuare il responsabile di un eventuale fenomeno di inquinamento e assicurare un’elevata protezione dell’ambiente e controlli efficaci, nel rispetto del principio comunitario “chi inquina paga” (articolo 178, commi 1 e 3, del decreto legislativo n.152/06). Appare evidente come la localizzazione proposta per la realizzazione dell’impianto in oggetto, contrasti con le prescrizioni contenute dal vigente

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Prgrs, in quanto porrebbe l’ulteriore impianto in stretta vicinanza con gli impianti già esistenti. Tale circostanza non renderebbe possibile escludere interferenze, nel caso di rilascio di sostanze inquinanti da uno di essi e non fornirebbe adeguata garanzia di protezione delle matrici ambientali e, quindi, della salute pubblica, in termini di tempestività di intervento e individuazione delle possibili cause. […]>> e in osservanza del Principio di precauzione, il Comune di Massafra esprime parere sfavorevole alla realizzazione dell’impianto, chiedendo <<[…] alla Provincia di Taranto […] di far rispettare le prescrizioni del vigente Piano di gestione dei rifiuti speciali […] di rigettare, quindi, la richiesta del proponente, concludendo l’Iter in corso con il diniego […]>> <<Siamo fiduciosi commenta il Comitato per la corretta gestione dei rifiuti - che i responsabili dell’iter amministrativo, il dirigente del settore ambiente e il presidente della Provincia, sapranno valutare con la dovuta attenzione questi due pareri pesantemente non favorevoli espressi da due organi, coinvolti a titoli diversi nel giudizio, ma con un carico di responsabilità determinante ai fini di una corretta decisione che una pubblica amministrazione deve prendere. […] L’Arpa, nell’ambito delle sue competenze, ha motivato, tra l’altro, il suo parere non favorevole a causa dei livelli di emissioni non compatibili, non in termini

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assoluti, poiché sono dichiarati livelli emissivi in linea con i valori ammessi, ma in termini relativi. Per l’Arpa le percentuali di emissioni devono essere sommate a quelle già presenti nel contesto del nostro territorio per la presenza di altre fonti inquinanti di cui non si può non tener conto nel bilancio globale. Sembra un ragionamento ovvio ma è la prima volta che viene espresso e fatto valere in sede di una conferenza dei servizi. In questo scenario il parere dell’Arpa diventa insormontabile e definitivo. Facendo un bilancio tra potenziali vantaggi e possibili rischi il risultato è che siamo di fronte a un impianto inutile e dannoso, e per dirla con Paul Connet: nessun rischio è accettabile se è evitabile.>> ARRIVA LA PROROGA AL RADDOPPIO DELL’INCENERITORE Mentre chiudevamo questo numero di Terre di frontiera è arrivata la notizia dell’accoglimento della richiesta della società Appia energy srl di prorogare la validità del provvedimento di Via-Aia relativo alla seconda linea della centrale termoelettrica di Massafra, alimentata a Cdr e biogas. Con determina dirigenziale n.81 del primo settembre 2017, infatti, il nono settore Ecologia e Ambiente della Provincia di Taranto ha prolungato le autorizzazioni ambientali fino al 23 agosto 2021. Di fronte a questa decisione, il movimento Massafra vuole respirare esprime tutta la sua

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contrarietà, commentando con amarezza la decisione dell’ente provinciale. <<Facciamo rilevare l’insolita celerità (appena cinque giorni lavorativi) con la quale la Provincia ha risposto all’istanza formulata da Appia energy. Sicuramente è da imputare alla fretta il fatto che l’ufficio competente non ha rilevato un dettaglio importante contenuto nella stessa richiesta. Infatti, Appia energy ha deliberatamente scelto di


© DANIELA SPERA

non dare l’avvio ai lavori, nonostante la sentenza favorevole di primo grado emessa dal Tar Lecce (la numero 978 del 30 aprile 2013), perché ha preferito attendere la sentenza del Consiglio di Stato che è stata prodotta poi, a distanza di quarantanove mesi, in data 11 maggio 2017. Ora, la società chiede inopportunamente di inserire nel computo dei mesi di proroga tale intervallo temporale.>> Nella determina si fa,

inoltre, riferimento a una recente sentenza del Tar di Lecce (la numero 601 del 18 aprile 2017), citata dagli stessi richiedenti a sostegno della propria posizione. Secondo il sodalizio di associazioni <<tale sentenza non costituisce un precedente valido né da un punto di vista formale, poiché si tratta di una sentenza appellabile in quanto emessa dal Tar, né da un punto di vista della sostanza perché nel

caso citato si trattava di sequestro giudiziario e, successivamente, di revoca dell’annullamento della revoca della determina della Provincia di Brindisi. Situazioni, quindi, non assimilabili né comparabili. Ma di questo, guarda caso, non si è accorto chi ha redatto la delibera.>>

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RIFIUTI CONNECTION

PERICULUM FENICE

DI NICOLA ABBIUSO, COMITATO DIRITTO ALLA SALUTE DI LAVELLO

Raccontiamo la breve storia dell’inceneritore Fenice, situato nella piana di San Nicola di Melfi, sul confine di tre regioni, in prossimità dell’Ofanto. Un fiume più volte contaminato da scarichi nocivi. È anche la storia di coltivazioni agricole e industrie di trasformazione - come la Barilla - messe a rischio. Il contesto in cui sorge l’inceneritore è quello dell’industria automobilistica nazionale e mondiale che oggi si trova ad un bivio, anche all’interno del modello di sviluppo italiano, con risvolti di natura ambientale che incombono minacciosamente sul futuro. Il “periculum Fenice” , in tale contesto, rappresenta un “credito ambientale”: i costi per sostenere il ripristino dei bisogni primari violati, tra i quali

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l’integrità di acqua, suolo e aria, non differibili senza un significativo danno patrimoniale e esistenziale. Rappresenta l’emblema di un modello consumistico incapace di innovare tecnologicamente e socialmente la produzione e la fabbrica, alle prese con la crisi, causato dallo sfruttamento delle fonti fossili, con una tecnologia che rischia nei prossimi decenni di diventare obsoleta e produrre danni ambientali ragguardevoli.

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GENESI E BREVE STORIA DELL’INCENERITORE FENICE L’inceneritore Fenice è ubicato nell’area industriale di San Nicola di Melfi, in prossimità dello stabilimento Fiat-Sata, a circa 5 chilometri dal centro abitato di Lavello, in provincia di Potenza. La Fiat, attraverso la sua controllata Fisia, realizzò l’inceneritore per bruciare i rifiuti prodotti dallo stabilimento automobilistico. Il progetto, presentato nel 1992 al ministero dell’Ambiente, una volta ottenute le autorizzazioni ambientali (decreto di Valutazione d’impatto ambientale n.1790/93), venne autorizzato, nel 2000, anche dalla Regione Basilicata, ma con il divieto di bruciare rifiuti provenienti da fuori regione. All’epoca, la Giunta regionale si preoccupò esclusivamente delle esigenze di Fiat, senza tenere conto delle perplessità delle comunità locali, espresse - fin dal


1992 - con una raccolta di firme contro l’inceneritore (oltre 15 mila) e diverse manifestazioni di protesta a cui aderirono migliaia di cittadini, scendendo in piazza anche con mezzi agricoli. Accadeva nell’ottobre del 1996 e nell’ottobre del 1997. L’iter procedurale del progetto Fenice, fin dagli albori, fu viziato da troppe incognite. La delibera di approvazione del progetto venne approvata quando il mandato della Giunta regionale era già scaduto. Infatti, la Giunta presieduta da Antonio Boccia - con delibera n.2202 del 2 maggio 1995 - autorizzò il termodistruttore Fenice ad attività istituzionale praticamente ferma, con il Consiglio regionale addirittura sciolto. Molte delle 22 prescrizioni contenute nel decreto Via, rilasciato dal ministero dell’Ambiente, furono disattese ma l’inceneritore entrò comunque in produzione. Vennero realizzati due

forni: uno <<rotante>>, con capacità di 35 mila tonnellate all’anno per i rifiuti industriali pericolosi; l’altro <<a griglia>>, con capacità di 30 mila tonnellate all’anno per i rifiuti solidi urbani ed assimilati. Fiat ricorse al Tar per impugnare il divieto di smaltimento di rifiuti provenienti da fuori regione e il 16 settembre 1997, il Tribunale amministrativo annullò il divieto imposto dalla Regione Basilicata, dando il via libera ai rifiuti provenienti da altre regioni. Nel 2001 Fiat, attraverso un’operazione oggetto di inchiesta da parte della Consob, cedette l’inceneritore alla francese Edf, in cambio di un pacchetto di azioni Montedison. Edf era partner di Fiat, alla quale forniva energia e servizi ambientali. GRAVI LACUNE Il 24 febbraio 2001 il Corriere della Sera pubblicò le dichiarazioni dell’allora ministro dell’Ambiente, Willer Bordon, in merito ad

una serie di ispezioni in atto presso alcuni insediamenti industriali. Su Fenice venivano rilevate <<carenze da parte dell’azienda per quanto riguarda la verifica della qualità dei dati prodotti dai sistemi di monitoraggio delle emissioni dell’azienda.>> Il 6 marzo 2003, un incendio interessò l’inceneritore, mentre l’assessore provinciale, Carlo Petrone, dichiarava che <<dall’ispezione fatta dall’unità direzione Ambiente e dalla Polizia provinciale è risultato che nel piazzale del forno rotante erano stati stoccati 70 metri cubi di rifiuti industriali pericolosi, in relazione a ciò si è proceduto a contestare l’abusivo stoccaggio di rifiuti al di fuori delle aree autorizzate e i responsabili dell’impianto sono stati deferiti alla competente autorità giudiziaria. Le azioni di monitoraggio devono essere quindi più efficaci e continuative al fine di offrire la garanzia

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L’INQUINAMENTO DELLE FALDE ACQUIFERE Nel marzo del 2009 il segretario dei Radicali lucani, Maurizio Bolognetti, denunciava pubblicamente di essere in possesso di alcune analisi dell’Agenzia regionale per la protezione ambientale della Basilicata (Arpab), dalle quali risultava un inquinamento delle falde acquifere sottostanti l’inceneritore. Nickel, manganese, mercurio, triclorometano, tricloroetilene, alcune delle sostanze inquinanti rilevate da Arpab nei nove pozzi di monitoraggio. Nel corso degli anni seguenti, nelle falde idriche vennero, infatti, rinvenuti anche cadmio, arsenico e cromo. Dopo qualche giorno dalla denuncia del radicale Bolognetti, l’Arpab inviò una comunicazione formale al sindaco di Melfi, Ernesto Navazio, informandolo dell’inquinamento presso l’inceneritore Fenice. Solo il 12 marzo 2009 i gestori dell’impianto produssero l’autodenuncia di inquinamento così come imposto dalla legge n.152/2006. Il 14 marzo 2009, il sindaco di Melfi emetteva ordinanza di divieto di utilizzo delle acque a valle dell’inceneritore. Ordinanza valida ancora oggi, e in essere. Negli stessi giorni il primo cittadino istituì una conferenza di servizio per affrontare il problema inquinamento. I soggetti seduti al tavolo erano il dipartimento Ambiente

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della Regione Basilicata, la Provincia di Potenza, l’Arpab, l’Azienda sanitaria locale, il Comune di Melfi e i gestori dell’impianto. Il 25 settembre 2009 l’Arpab, per voce del dirigente Bruno Bove ammise, in una intervista rilasciata a Valentina Dello Russo della testata Rai regionale, che <<già dal marzo del 2008 eravamo a conoscenza dei livelli preoccupanti di mercurio nella falda, ma non spettava al nostro Ente lanciare l’allarme per legge è Fenice a dover comunicare entro 24 ore il superamento della soglia.>>

© COMITATO DIRITTO ALLA SALUTE DI LAVELLO

assoluta sia per i cittadini che per i lavoratori dell’impianto>>.

PASSAGGI DI PROPRIETÀ Nel mese di ottobre 2010 l’inceneritore venne ceduto da Fenice spa a Fenice Ambiente srl, con 50 mila euro di capitale sociale, di cui solo 10 mila euro versati. LE MANIFESTAZIONE DEL COMITATO DIRITTO ALLA SALUTE La vicenda dell’inceneritore Fenice di Melfi, è stata seguita dal Comitato Diritto alla Salute di Lavello che, nel 2011, organizzò varie manifestazioni con il duplice obiettivo: da una parte, far conoscere la situazione alle popolazioni della zona Vulture-Alto Bradano e, dall’altra, sollecitare le Istituzioni ad intervenire, al fine di garantire la salvaguardia del territorio e la tutela della salute dei cittadini. Il 17 settembre 2012, il giorno dopo una delle manifestazioni davanti ai cancelli di Fenice, l’Arpab pubblicò sul proprio sito istituzionale alcune tabelle dei monitoraggi relativi

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alle falde acquifere, fino a quel momento occultate. Emerse una scioccante verità: Fenice-Edf inquinava almeno dal lontano 2002, scatenando diverse prese di posizione di politica ed informazione. L’allora governatore lucano, Vito De Filippo, si impegnò ad istituire <<un tavolo di trasparenza, una commissione d’inchiesta ed un tavolo di alta sorveglianza tecnicoscientifica.>>


L’INTERVENTO DELLA MAGISTRATURA Alcune settimane più tardi intervenne anche la Procura di Potenza che, avendo acquisito il fascicolo della Procura di Melfi, dispose gli arresti domiciliari per il direttore dell’Arpab, Vincenzo Sigillito e per il coordinatore dei monitoraggi dello stesso ente, Bruno Bove. Fu disposta, con grande sorpresa di tutti, anche la sospensione dell’attività di Fenice-Edf da parte della

Provincia di Potenza. Ma l’interruzione dei “forni” durò poco, per effetto dell’annullamento da parte del Tar Basilicata al quale il gestore si era appellato. INCIDENTI Nel mese di ottobre 2011, in piena notte, scoppiò l’ennesimo incendio sul piazzale antistante il forno rotante dell’impianto. Le operazioni di spegnimento, da parte dei Vigili del fuoco, durarono diverse ore, a dispetto delle

rassicuranti dichiarazioni dei gestori dell’impianto, i quali dichiararono che <<i fumi dell’incendio sono stati risucchiati dal forno rotante>>, lasciando intendere che non vi è stata dispersione nell’aria. Il giorno successivo sulla stampa locale vennero pubblicate le immagini eloquenti di una grande massa di fumo nero dispersa nell’aria.

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© VITO L’ERARIO

IL RILASCIO DELL’AUTORIZZAZIONE INTEGRATA AMBIENTALE Nel mese di aprile 2014, nonostante le vicissitudini giudiziarie ed il mancato avvio del procedimento di bonifica, la Giunta regionale presieduta da Marcello Pittella decise di rilasciare l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia), con l’illusione di poter controllare l’attività dell’inceneritore attraverso una serie di prescrizioni. A distanza di tre anni

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dal rilascio dell’Aia non sappiamo se le prescrizioni siano state ottemperate o meno, considerando che l’ente deputato al controllo, ossia l’Arpab, non è attrezzata per le analisi delle diossine. DAL FUMO NERO AL FUMO ROSSO Il 2 novembre 2014 dai camini dell’inceneritore fuoriuscì del fumo rossastro ben visibile. L’evento durò oltre tre ore. I tecnici dell’Arpab - intervenuti

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con i Vigili del fuoco non effettuarono alcun campionamento sulle ceneri, ma si limitarono a chiedere la documentazione cartacea. A distanza di mesi, e dopo l’ennesima battaglia a colpi di ricorsi al Tar, non è ancora nota la natura delle sostanze che hanno determinato il fenomeno. Il professore Onofrio Laricchiuta, consulente incaricato del Comune di Melfi, ritenne - da letteratura scientifica che a causare la fuoriuscita


le terapie radiologiche. Non sarà l’unico episodio. A distanza di tre anni, all’interno dell’inceneritore furono bloccati circa quaranta camion risultati radioattivi al test del portale radiometrico posto all’ingresso dell’inceneritore. Portale questo che viene gestito direttamente da Fenice. Arpab non ha alcun controllo esterno, così come quello di altri enti deputati alla certificazione dei controlli. LE DENUNCE DEI LAVORATORI A partire dal 2014 i lavoratori dell’inceneritore denunciarono più volte al Prefetto e alle autorità competenti <<carenze di sicurezza interna all’impianto>> che, secondo gli stessi, mettevano a rischio la loro incolumità.

di fumo rosso potrebbero essere stata la bruciatura di iodio. I CAMION RADIOATTIVI Il 16 dicembre 2014 - quasi un mese e mezzo dopo l’episodio del fumo rosso Fenice segnalò la presenza di materiale radioattivo in un camion che trasportava rifiuti urbani provenienti dalla discarica di Atella. L’unità del Centro regionale radioattività dell’Arpab di Matera determinò trattarsi di iodio-131, utilizzato per

dell’inquinamento delle falde: non è stata ancora definita l’area di estensione dell’inquinamento. Fenice sostiene di dover bonificare solo l’area entro il proprio perimetro. IL DISASTRO AMBIENTALE Iniziato nell’ottobre 2011, il processo che vede accusati sia i vertici di Fenice, che diversi funzionari regionali, dopo un anno produce i primi rinvii a giudizio. Coinvolti 36 imputati, per 25 capi d’accusa, tra cui quello di disastro ambientale. Al fine luglio 2017 l’ennesimo duro colpo alle popolazioni della zona con la sentenza di primo grado del Tribunale di Potenza che assolve i vertici di Fenice perché non viene confermata l’accusa di disastro ambientale.

PIANO DI BONIFICA Già all’inizio del 2012 Fenice presentò in conferenza di servizi il proprio piano di bonifica che - grazie alle osservazioni prodotte dal Comitato Diritto alla Salute di Lavello - venne bocciato dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), in quanto <<improcedibile>>, poiché carente. Nelle prime settimane di quest’anno è stato approvato il nuovo piano di bonifica che, vista la complessa situazione della falda acquifera, si basa su metodi sperimentali che prevedono una prima fase in laboratorio, per poi passare all’operatività su campo. Nel frattempo però, non si conosce ancora la portata Terre di frontiera / numero 11 anno 2 - settembre 2017 / www.terredifrontiera.info

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RIFIUTI CONNECTION

LA VALLE INQUINATA

DI ALBERTO VALLERIANI, RETE PER LA TUTELA DELLA VALLE DEL SACCO

Lo scorso 8 luglio circa 5 mila persone sono scese in piazza per chiedere la chiusura definitiva degli inceneritori di Colleferro. I cittadini della valle del Sacco hanno sfilato con una rabbia consapevole. Frutto di un passato intessuto di sacrifici, patologie diffuse in tutte le fasce d’età e decadimento sociale ed economico del territorio. Dopo la decisione della Regione Lazio - in accordo con la municipalizzata Ama spa - di ricostruire le due linee di incenerimento per far fronte all’emergenza rifiuti capitolina, la battaglia si preannuncia aspra.

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La valle del Sacco, a cavallo tra le province di Roma e Frosinone, ha già versato il proprio tributo in termini di inquinamento ambientale. Il suo recente passato parla di discariche e impianti di incenerimento di rifiuti. La città di Colleferro, da sola, ospita una discarica e due impianti di termovalorizzazione. Negli ultimi anni le comunità locali hanno assistito al tentativo di insediare ulteriori impianti per lo stoccaggio e il trattamento di rifiuti particolarmente inquinanti. Tentativo fallito solo grazie alla strenua resistenza organizzata da comitati e associazioni ambientaliste. Ma non è bastato. La proposta di ricostruire e riattivare le linee di incenerimento dei rifiuti ha infranto le speranze di quanti, dopo anni di inquinamento delle matrici ambientali, avevano creduto nelle promesse di bonifica e riconversione delle aree. Ormai da mesi gli inceneritori di Colleferro non sono in grado di

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funzionare. Alla proposta di chiusura e smantellamento definitivo degli impianti, si è presto sostituita quella di ricostruzione sostanziale delle due linee di incenerimento. A un costo di diverse decine di milioni di euro che, per essere ammortizzato e produrre effettivamente profitto, richiede che gli impianti restino in funzione per oltre vent’anni. Una vera e propria condanna per una popolazione che ha già vissuto il decadimento economico, sociale e demografico causato dalla mancata bonifica delle aree e dei siti inquinati. Colleferro, in particolare, ha pagato il prezzo più alto. LA VALLE DEL SACCO Le acque del fiume Sacco, che attraversa la città di Colleferro, sono dense di beta-esaclorocicloesano (beta-HCH). Un inquinante derivato dal lungo e inesorabile processo di industrializzazione forzata che la valle omonima, suo malgrado, ha subito.


Nel 1912 è stata realizzata una fabbrica di esplosivi da cui si sono sviluppate, negli anni, diverse filiere produttive. Nel secondo dopoguerra, poi, i finanziamenti della Cassa per il Mezzogiorno hanno contribuito a innescare un intenso processo di industrializzazione che si è arrestato bruscamente solo all’inizio degli anni Novanta. Lasciando un’eredità importante, fatta di inquinamento delle matrici ambientali. I dati sui livelli di inquinanti nel fiume parlano chiaro. E hanno portato, dopo alterne vicende amministrative, all’istituzione di un Sito di interesse nazionale (Sin) e a una ridefinizione complessiva dell’area in funzione del perimetro che comprende il fiume, le sue aree ripariali e di esondazione e le zone di insediamento industriale. Ciascuna caratterizzata da specifiche forme di inquinamento. Le amministrazioni compiacenti hanno

risposto alle esigenze di de-industrializzazione della valle del Sacco destinandola all’insediamento di impianti e discariche per il trattamento integrato dei rifiuti. CONVERGENZE PARALLELE L’articolo 35 del decretolegge Sblocca Italia (n.164/2014) dota gli impianti di incenerimento di un carattere strategico nel sistema della gestione integrata del ciclo dei rifiuti. A livello regionale, la giunta guidata da Nicola Zingaretti - che concluderà la legislatura tra un anno - non è stata in grado di elaborare un piano dei rifiuti alternativo a quello approvato dal precedente governo di centrodestra. Ci si è limitati a ridefinire il fabbisogno - quantità, qualità e distribuzione territoriale dei rifiuti prodotti annualmente nell’arco regionale - senza fare alcun salto in avanti. Si prevede l’incremento della raccolta differenziata senza un’indagine approfondita

sulle ragioni che hanno prodotto l’attuale difficoltà nella gestione dei rifiuti. Senza tentare di offrire risposte chiare, capillari, radicali a un’emergenza. Cosa si prevede? La rimessa in funzione degli inceneritori di Colleferro, la riattivazione dell’impianto di Malagrotta, la garanzia d’attività di quelli di San Vittore e, infine, l’insediamento di un nuovo inceneritore regionale. Così come chiede il ministro per l’Ambiente, Gian Luca Galletti. La convergenza tra istituzioni nazionali, regionali e locali sul tema dello smaltimento dei rifiuti nel Lazio, non sembra essersi incrinata. LA GESTIONE DEI RIFIUTI E IL BALLETTO DELLE SOCIETÀ La Regione Lazio interviene nell’organizzazione locale della gestione del ciclo integrato dei rifiuti tramite la società Lazio Ambiente spa. Proprietaria degli inceneritori della valle del Sacco - al 100 per cento nel

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primo caso, in comproprietà con la municipalizzata capitolina Ama al 60 per cento nel secondo - gestisce la raccolta dei rifiuti a Colleferro e in altri sedici Comuni. Nel 2011 la Regione ha avviato il percorso di costituzione della Lazio Ambiente spa per salvare dal fallimento il Consorzio Gaia spa. Una società a sua volta derivata dalla trasformazione, in chiave privata, di un consorzio pubblico istituito da oltre 50 comuni. Come da tradizione, l’operazione si è conclusa bollando il Consorzio Gaia come bad company e istituendo Lazio Ambiente spa per garantire la continuità del servizio e i livelli di occupazione. Quest’ultima rileva gran parte del pacchetto azionario del Consorzio Gaia il 1 agosto 2013. Completa l’acquisizione dell’inceneritore in comproprietà con Ama spa solo nel novembre 2015. In realtà le basi per la sopravvivenza della Lazio Ambiente spa erano fragili fin dall’inizio. Alla società non sono stati forniti i capitali necessari al rilancio aziendale e del settore. Non sono state avviate trattative partecipate in grado di ridefinire, in termini di efficienza, la gestione del ciclo dei rifiuti. In più, è cresciuto il numero dei Comuni che hanno deciso di appaltare ad altre società il servizio di raccolta e gestione dei rifiuti. Mentre le amministrazioni che avevano già causato in passato il fallimento del Consorzio Gaia spa non sono state obbligate a onorare i propri debiti.

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Con il risultato che i conti economici della nuova società risultano, a pochissimi anni dalla sua costituzione, in progressivo peggioramento. Una mancanza di decisione che può essere spiegata solo con la totale assenza di una strategia complessiva per la gestione del ciclo dei rifiuti sul piano regionale. Nel 2015 la Giunta regionale, sulla scorta della legge nazionale che impone il riordino delle partecipate, annuncia la messa in vendita della società. Nel 2016 vengono avviate tutte le pratiche necessarie per la formulazione di un bando che dovrebbe essere pubblicato a settembre di quest’anno. La decisione è quella di cedere le quote societarie interamente a un privato. Ma la vicenda inerente alla Lazio Ambiente spa è direttamente correlata alla scelta di rimettere in funzione gli inceneritori nella valle del Sacco. Il cuore economico della vendita è rappresentato proprio dagli impianti di termovalorizzazione. La cui ri-funzionalizzazione e messa in attività per i prossimi vent’anni garantirebbe all’acquirente privato notevoli soglie di profitto. Le crescenti difficoltà economiche di gestione degli impianti d’incenerimento in tutto il Paese fanno pensare che la Regione Lazio stia cercando finanziamenti dal ministero dello Sviluppo economico per invogliare i privati all’acquisto. Il piano industriale elaborato nel corso del 2015 prevedeva

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investimenti di 12,6 milioni di euro nel 2016 e di 22 milioni di euro nel 2017. Ma la Regione ha utilizzato i fondi previsti per l’anno 2016 per avviare una parziale ristrutturazione - light revamping - al fine di arrivare all’atto di vendita con gli impianti di incenerimento formalmente attivi. LE REAZIONI DEI MOVIMENTI I Comuni della valle del Sacco - quello di Colleferro


© MATTEO DI GIOVANNI

in primis - non hanno sviluppato un’iniziativa adeguata alla gravità della situazione. Una responsabilità che grava sulle spalle di chi non ha voluto rispondere alle sollecitazioni delle associazioni, in particolare la Rete per la tutela della Valle del Sacco (Retuvasa). La richiesta era quella di istituire un nuovo consorzio, previa definizione di un ambito o sub-ambito di competenza, nel quale organizzare il sistema

integrato di gestione dei rifiuti. Si sarebbe trattato di progettare un modello circolare di gestione fondato su riduzione, riciclo e recupero attraverso l’uso di tecnologie specifiche per la residua frazione indifferenziata. In tutta evidenza, un vero e proprio percorso di autodeterminazione che, per quanto si potesse ritagliare i suoi spazi nella normativa vigente, per affermarsi richiede che vengano apportate

importanti modifiche alla strategia regionale nel suo complesso. Reindirizzando, di fatto, anche i flussi di finanziamenti verso un’impiantistica di tipo differente. L’amministrazione di Colleferro, coadiuvata da una decina di Comuni limitrofi, sta lavorando con molto ritardo alla costituzione di un consorzio che non potrà comunque farsi carico della costruzione della nuova impiantistica. Potrà

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© MATTEO DI GIOVANNI

occuparsi essenzialmente della sola raccolta e relativa gestione. Va ricordato, poi, che il ciclo di rifiuti attualmente si chiude con la discarica locale. Nata provvisoria e resa solo successivamente definitiva, questo sito sembra aver esaurito le volumetrie disponibili. Potrebbe essere riattivato solo spostando i tralicci dell’alta tensione collocati all’interno del suo perimetro. La Regione Lazio afferma che la discarica

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dovrà essere chiusa entro il 2019. Tuttavia, pur di mantenere aperto uno spiraglio in caso di plausibili emergenze rifiuti, una quota dei finanziamenti stanziati per la ricapitalizzazione di Lazio Ambiente spa è destinata alla ri-funzionalizzazione del sito in questione. Si parla di circa 5,3 milioni di euro per il ramo discarica, di cui 500 mila previsti per lo spostamento dei tralicci. In tale contesto è chiaro che l’attuale emergenza

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capitolina, la gestione disastrosa del ciclo integrato dei rifiuti e la mancanza di autonomia impiantistica costituiscono delle minacce per l’intera regione. A distanza di un anno dal suo insediamento, la Giunta capitolina solo di recente ha prodotto delle linee guida e un progetto che attendono di tradursi in una pianificazione effettiva. Con la spada di Damocle inerente al finanziamento predisposto da Ama per il revamping di uno dei due


inceneritori. Le dichiarazioni di intenti successive hanno ulteriormente allarmato cittadini e attivisti. Che, di fronte all’ipotesi del light revamping, hanno reagito mobilitando le comunità locali. L’ASSEMBLEA PERMANENTE Chi governa la città di Roma ha la grande occasione di lanciare una campagna nazionale e internazionale per fare della Città eterna la capitale

dell’economia circolare. Una campagna politica e culturale necessaria per sconfiggere le strategie nazionali focalizzate sull’incenerimento dei rifiuti. Dopo oltre 25 anni segnati dalle privatizzazioni dei sevizi pubblici e dalla riduzione ai minimi termini delle risorse a disposizione delle amministrazioni, dovrebbe essere ormai chiaro che nessuno si salva da solo. Le amministrazioni dovrebbero fare gioco di squadra per favorire, insieme, un cambio di strategia radicale. Per mettere al centro una comunità che lotta per il proprio futuro e si governa attraverso una assemblea permanente. È quel che è accaduto all’indomani della manifestazione dell’8 luglio scorso. La radicalità dei contenuti, la determinazione e la dimensione della mobilitazione parlano chiaro. Non si tratta di un semplice episodio di protesta, ma di un embrione di carattere comunitario, di una presa di coscienza in cui si riconosce la stragrande maggioranza dei cittadini. L’adesione serrata dei commercianti, i drappi alle finestre, i numeri della manifestazione, sono segnali evidenti. Le singole associazioni hanno costituito un’assemblea permanente, luogo del confronto e della decisione, capace di utilizzare tutti gli strumenti di cui, dopo anni di mobilitazione, la cittadinanza attiva ha dovuto dotarsi. Dopo la manifestazione dell’8 luglio, la protesta si è

spostata davanti ai palazzi della giunta regionale. La necessità è quella di rivedere completamente la gestione del ciclo dei rifiuti. Per far percepire ai decisori politici il grado del dissenso. Per spingerli, in definitiva, a passare finalmente dalle parole ai fatti. Iniziando, innanzitutto, dal fermo definitivo degli inceneritori di Colleferro.

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DI ANTONIO BAVUSI E VITO L’ERARIO, CON IL CONTRIBUTO CONOSCITIVO DI GIUSEPPE COSENZA

<<Nel 2017, in Italia, quasi un terzo dell’intera superficie percorsa dal fuoco ha interessato aree di valore naturalistico e incluse nella Rete Natura 2000 e nei Parchi>>. Ad affermarlo è la Legambiente. Per la precisione sono 24.677 gli ettari di Zone di protezione speciale (Zps) per tutelare l’avifauna andate in fumo; 22.399 gli ettari di Siti di importanza comunitaria (Sic) e ben 21.204 gli ettari bruciati di parchi e aree protette, per un totale di 35 mila ettari. Le Regioni più colpite sono la Sicilia, la Campania, la Calabria e la Basilicata. Gli incendi, nel 2017, hanno coinvolto in Italia 87 Siti di importanza comunitaria (31 Sicilia, 24 Campania, 8 Calabria, 7 Puglia, 5 Lazio, 4 Liguria), 35 Zone di protezione speciale (10 Sicilia, 6 Campania, 5 Calabria, 5 Lazio, 3 Puglia, 1 Liguria) e 45 parchi e aree protette (12 Sicilia, 13 Campania, 5 Lazio, 4 Calabria, 4 Puglia, 1 Liguria), tra cui 9 parchi nazionali, 15 parchi regionali e 16 riserve naturali. Le regioni che hanno perso il patrimonio maggiore sono la Sicilia (11.817 ettari bruciati nei Sic, 8.610 nelle Zps e 5.851 nelle aree protette), la Campania (8.265 ettari nei Sic, 4.681 nelle Zps e 8.312 nelle aree protette), la Calabria (666 ettari nei Sic, 3.427 nelle Zps e 3.419 nelle aree protette), la Puglia (1.687 ettari nei SIC, 1.535 nelle Zps e 1.283 nelle aree protette), il Lazio (173 ettari nei Sic, 2.797 nelle Zps e 847 nelle aree protette) e la Liguria (1.083 ettari nei Sic, 325 nelle Zps e 300 nelle aree protette).


PANORAMI

L’emergenza incendi non conosce tregua e non risparmia neanche le aree di maggiore valore naturalistico, incluse quelle nella Rete Natura 2000. E i numeri lo dimostrano. Non c’è solo il Vesuvio, ma anche il Cilento e il Vallo di Diano, il Gargano, l’Alta Murgia, la Majella, la Sila, il Pollino, il Gran Sasso, la Riserva dello Zingaro in Sicilia. Sono troppe le aree di pregio del Centro-Sud finite in balìa di eco-criminali, piromani e incendiari. <<Il 2017 verrà ricordato, come lo furono il 2007 e il 1997, come un anno orribile per la devastazione prodotta dalle fiamme>>. Ad affermarlo è Stefano Ciafani, direttore generale di Legambiente, lamentando <<troppi ritardi ed errori. Ha pesato anche la burocrazia, la mancanza di un’efficace macchina organizzativa, di politiche di gestione forestale sostenibili come dimostra la situazione reale e il ritardo nell’aggiornamento dei piani Aib dei parchi e delle riserve naturali dello Stato. Allo stato attuale risultano 13 piani Aib vigenti, otto con l’iter non ancora concluso e

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2017, ANNO ORR FUOCO e DEVAST due Parchi (Stelvio e quello del Cilento e Vallo di Diano) con il piano antincendi recentemente scaduto e da aggiornare>>. Dati purtroppo ancora provvisori, destinati a crescere, in coincidenza con il lungo periodo di siccità, ma anche per l’effettodomino mediatico per un fenomeno che appare differenziato e frammentato per area geografica. Gran parte degli ettari andati in fumo sono ubicati nei parchi nazionali, soprattutto del Sud Italia. Un fenomeno aggravato, quest’anno, dall’assenza quasi completa di azioni di prevenzione, con l’eliminazione ope legis dell’importante ruolo di coordinamento svolto in passato dai Cta (Coordinamento territoriale ambiente) della Forestale, le cui attribuzioni - in base alla cosiddetta Riforma Madia della Pubblica amministrazione, e con il decreto legislativo n.177/2016 (articolo 8 e seguenti) - state trasferite ai Carabinieri.

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PIANI ANTINCENDIO BOSCHIVI SOLO SULLA CARTA, ED ADOTTATI IN RITARDO DAL MINISTERO DELL’AMBIENTE Analizzando i Piani antincendio boschivi (Aib) di Regioni ed Enti parco emerge un quadro del fenomeno degli incendi, e delle azioni previste per prevenirli e quelli di intervento/spegnimento, costituiti prevalentemente da dati statistici meteoclimatici e territoriali. I Piani evidenziano scarse risorse finanziare investite dai Parchi per le azioni concrete da attuare sui territori protetti. Centinaia di pagine - pur se utili ad inquadrare la problematica dal punto di vista teorico - al cui interno è spesso difficoltoso leggere le azioni concrete di prevenzione, avvistamento e spegnimento programmati, con l’indicazione chiara di uomini, mezzi e volontari coinvolti. Allorquando presenti, le azioni concrete - a partire da quest’anno - fanno prevalentemente riferimento, per le azioni di prevenzione, alle associazioni di volontariato chiamate a collaborare con altri organismi e con gli enti


RIBILE: TAZIONE Parco, con scarsi o assenti richiami all’importante funzione del coordinamento territoriale con altre strutture presenti, quali la Protezione civile e i Vigili del fuoco, svolto in passato dal Cta della Forestale distaccata nel parco. Solo il 26 luglio 2017, inoltre, il ministero dell’Ambiente ha adottato i piani Aib di alcuni parchi nazionali, come quelli del Pollino e del Gran Paradiso, non aggiornando nemmeno la relativa pagina sul sito ministeriale. IL CONTENUTO DI ALCUNI PIANI Per il Parco nazionale del Vesuvio il piano vigente ha previsto il coinvolgimento di sole 18 unità di personale della Regione Campania distaccati su Torre del Greco, con pochi mezzi adibiti allo spegnimento. Mentre per l’avvistamento fa riferimento a pochi mezzi e volontari (per lo più Legambiente) con 6 postazioni, di cui 3 fissemobili e 3 fisse. Per il Parco Nazionale del Pollino, agli inizi di luglio, il piano Aib non sembra riportare un quadro aggiornato della situazione dopo il passaggio Cta

a Ctac (Coordinamento territoriale ambiente dei Carabinieri), con le azioni di avvistamento e pattugliamento attribuito prevalentemente ai volontari. Il nuovo piano, adottato a fine luglio - ed in pieno periodo di allarme incendi - presenta lacune evidenti, ove si guardi alle azioni programmate ed attivate in ritardo sull’intero territorio dell’area protetta calabro-lucana. Per il Pollino, di oltre 170 mila ettari, il piano Aib è stato presentato solo l’11 luglio 2017 a Castrovillari. Il presidente del Parco, Domenico Pappaterra, ha annunciato il coinvolgimento delle associazioni di volontariato. Da quest’anno saranno 26 (17 in Calabria e 9 in Basilicata), per un totale di 1104 volontari operativi (601 in Calabria e 503 in Basilicata), con 10 mezzi pick-up dell’ente ai quali dovevano aggiungersi quelli in dotazione alle associazioni: 38 (7 in Calabria e 31 in Basilicata); 19 i fuoristrada (13 in Calabria e 6 in Basilicata). Annunciata anche la stipula di un Protocollo d’intesa con l’Istituto

penitenziario di Castrovillari e l’associazione Anas, per l’impiego di alcuni detenuti nella sorveglianza di alcune zone del territorio protetto dalla località Petrosa, di Castrovillari, con un totale di 40 punti di avvistamento ed il coinvolgimento di velivoli ultraleggeri e 2 droni di cui uno donato dal Club Rotary di Castrovillari. Il budget del piano Aib 2017 è di 240 mila euro. A testimoniare i ritardi con cui sono state attivate le azioni antincendio nel Parco nazionale del Pollino, solo il 18 luglio scorso - con deliberazione del Consiglio direttivo n.30 del 18 luglio 2017 – è stata ratificata la restituzione dal Ctac dei 10 automezzi antincendio, destinandoli, nell’ambito della campagna Aib del Parco, in assegnazione gratuita ai Vigili del fuoco e alle associazioni di volontariato di Protezione civile che hanno stipulato la convenzione con l’ente. Mentre, solo il 24 luglio - da segnalazioni provenienti dal territorio - venivano resi operativi i Direttori operazioni di spegnimento, con l’azione coordinata di mezzi, enti e volontari - pochi - sui luoghi degli

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incendi che nel parco, a fine luglio, si sono contati a decine non centinaia di ettari di foresta bruciati, compresa l’assenza della mappatura delle zone percorse dal fuoco, essenziali per l’apposizione dei vincoli di inedificabilità assoluta previsti dalla legge, prima che vengano cancellate dalle piogge autunnali. Gli incendi estivi - come denunciato da diverse associazioni ambientaliste - si combattono in inverno e primavera con la manutenzione ordinaria, la prevenzione e l’informazione, i sentieri spartifuoco con piani antincendio approvati non in estate e, soprattutto, con un coordinamento professionale di competenze, uomini e mezzi sul territorio. Per il Parco nazionale della Sila, l’Ente ha impegnato per il piano vigente 20162020, e aggiornato di recente, 200 mila euro per azioni di avvistamento, prevenzione ed intervento, affidato a 6 associazioni di volontari e unità lavorative facenti riferimento all’ex Cta di Cosenza. Situazione analoga per gran parte dei 20 Parchi nazionali, specialmente quelli del Sud. Pochi euro stanziati dai piani Aib per salvare un ettaro di bosco. Ma per gli speculatori e cementificatori valgono di più come terra bruciata, resa disponile per i più svariati utilizzi speculativi per fini edilizi ed energetici. Ed i roghi lo testimoniano.

LA CONTESA TRA ARMA DEI CARABINIERI E VIGILI DEL FUOCO PER L’ACCAPARRAMENTO DEI MEZZI ANTINCENDIO Una buona parte dei cosiddetti Dos (Direttori delle operazioni di spegnimento) avrebbero ampliato l’organico dei Carabinieri, mentre le indicazioni del Ministero dell’Interno sarebbero state quelle che i Vigili del fuoco avrebbero dovuto svolgere questo tipo di interventi. L’Arma - secondo quanto riferito dal Fatto Quotidiano a febbraio di quest’anno - si sarebbe lanciata <<in una strana campagna di accaparramento di mezzi per l’antincendio, contendendo ai Vigili del fuoco autopompe e altre

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attrezzature in dotazione della Forestale, e che i pompieri immaginavano di vedersi assegnare senza alcun bisogno di contrattazione. Spiega Gabriele Pettorelli, ex dirigente del sindacato autonomo dei Forestali e attuale coordinatore nazionale Forestali del Conapo (sindacato autonomo dei pompieri): all’inizio non capivamo il perché di queste bizzarre procedure, che di fatto creavano ambigue sovrapposizioni tra Vigili del fuoco e Carabinieri.>> Oltre ad aver generato disorganizzazione, quello che si presenterebbe come una contesa, rischia di far lievitare i costi per un servizio che invece la


LA TERRA BRUCIA La terra brucia anche quando ci si sente dire dal 1515 che per segnalare un incendio dal primo gennaio 2017 ci si deve rivolgere al 115 dei Vigili del fuoco, che non possono essere presidio permanente nei territori in <<tempi di pace>> dei comuni colpiti dai successivi ma evitabili roghi. Ci sono poi primi cittadini che, alla richiesta di inviare una ruspa per contenere l’avanzare del fuoco nei campi (le stoppie oltre ad essere innesco sono propagatori), fanno orecchie da mercante. Ma i sindaci sono anche “attori” principali nella lotta agli incendi boschivi: le ordinanze in materia di prevenzione incendi, in particolare l’obbligo per gli agricoltori di realizzare le “precese” (che sono comunque un deterrente all’avanzare delle fiamme) vengono rispettate? Chi controlla che gli agricoltori rispettino le leggi? La Polizia locale, in mancanza della Polizia provinciale, ed oggi degli agenti del Corpo forestale dello Stato, svolge questo compito? La terra brucia anche per questo, ma anche per altro. Le aree percorse dal fuoco in assenza di controlli restano solo terra bruciata.

cosiddetta Riforma Madia mirava a ridurre. In molte Regioni la formazione dei Dos è partita in ritardo, come avvenuto in Basilicata, già in piena stagione incendiaria. TERRA NUOVA E BUOI ROSSI: LA NUOVA FRONTIERA DELLA PRATICA DEL “DEBBIO” NEL SUD ITALIA In ricerca pubblicata postuma sulle origini e le pratiche dell’agricoltura europea - “Terra nuova e buoi rossi” (1981) Emilio Sereni, storico dell’agricoltura morto nel 1977, raccontava le trasformazioni del paesaggio attraverso la pratica del “debbio”, ovvero la bruciatura delle

foreste per far posto a nuove terre da dissodare. Un fenomeno presente soprattutto nel Sud dell’Italia, dove tale pratica viene ancora consentita dalle leggi regionali con il termine <<abbruciatura delle stoppie>>, stabilendo periodi in cui essa è consentita, senza poi esercitarne i controlli di rito (condizioni climatiche avverse o fasce protettive), perpetuando un retaggio della mentalità del passato, nonostante la meccanizzazione. Tale inutile e devastante pratica per la biodiversità sacrifica, oltre alle foreste, milioni di animali, insetti e piante utili all’agricoltura che vengono fatti sparire per far posto a deserti

aridi. Ma oggi la nuova frontiera del “debbio” per lo sfruttamento dei suoli coperti da foreste, apre inquietanti interrogativi sul ruolo della malavita specialmente al Sud Italia, ma anche quello delle multinazionali energetiche collegate agli interessi locali per il possesso o il diritto di concessione o bonifica dei territori bruciati, con l’agricoltura costretta a recitare un ruolo subalterno ai grandi interessi delle lobby energetiche private. DAL BOSCO CONTENITORE DI BIODIVERSITÀ AL BOSCO PRODUTTIVO La definizione di incendio boschivo, di cui all’articolo 2 della legge n.353/2000 in materia di incendi boschivi, si riferisce ad aree (boscate, cespugliate o arborate) più ampie di quelle richiamate nel comma 1 dell’articolo 10 della stessa legge che, invece, limita, l’applicazione di divieti, prescrizioni e sanzioni soltanto a <<zone boscate e pascoli i cui soprassuoli>>, percorsi dal fuoco: cioè un insieme di aree naturali e vegetali più delimitato. Ne deriva, di conseguenza, che il reato di incendio doloso e colposo è limitato solo se viene dimostrata la colpevolezza con una condanna da parte della magistratura. Nel 2016 sono state solo 16 condanne riferite a tale reato. Ecco allora emergere la terra bruciata. Si evidenzia non solo una contraddizione delle norme in materia di incendio boschivo, ma diventa condizione per rendere trasformabili

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ed infrastrutturali i territori in base al loro grado di degrado, ovvero declassificazione dei valori naturali. Nel clima arroventato di quest’estate, tra crisi climatica, crisi economica e roghi, c’è chi impone il modello di parco produttivo, forgiato dalla cosiddetta riforma della legge quadro sui parchi - in votazione finale al Senato - che prevede royalty pagate agli enti Parco dai privati interessati allo sfruttamento di suolo, sottosuolo e acqua. Un malcelato intento di voler asservire i gestori dei parchi dalla dipendenza economica di quanti sono interessati allo sfruttamento delle risorse naturali. Così come avviene nel Parco Nazionale del Pollino dove l’interesse per le biomasse della centrale del Mercure è stata sancita da una deliberazione della Giunta regionale della Basilicata, che ne stabilisce il prelievo nel raggio di 70 chilometri. Delibera che non chiarisce se i 70 chilometri, in base allo studio Enea, si calcolano partendo dal perimetro del parco nazionale o dall’area dove è localizzata la centrale. Nel contempo un’altra delibera (la n.882 del 31 luglio 2017) richiedeva al governo lo stato di emergenza a causa degli incendi. Oppure nel Parco della Sila dove, durante gli incendi, Carlo Tansi, responsabile della Protezione civile regionale, ha paventato dietro i roghi un interesse connesso alle biomasse per centrali elettriche. Sempre la nuova legge stabilisce

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un costo per ogni ettaro di bosco che assume valore economico solo se possiede la capacità di essere utilizzato come <<legna da ardere e pellet>> destinati a centrali a biomassa e caminetti. Tesi, queste, sostenute anche dalla Confederazione italiana agricoltura (Cia), che ha condannato gli interessi dietro i roghi. <<Occorre un piano nazionale di sviluppo dell’impresa boschiva - ha sottolineato Luca Brunelli, presidente Cia Toscana - con una strategia di valorizzazione della selvicoltura e dell’impresa, fondata su incentivi, agevolazioni fiscali (a partire dall’IVA sui combustibili legnosi), incentivi all’occupazione come mezzo di contrasto al lavoro nero. E poi semplificazione e sburocratizzazione.>> Chissà se si riferisse alla nuova legge sui parchi. TERRA BRUCIATA: MUTAZIONI GENETICHE E CONTROLLO DEL TERRITORIO Sulla nuova divisa dell’ex Corpo Forestale dello Stato spariscono i simboli delle foreste e delle aquile reali e, persino, il mimetico grigio viene sostituito dal marcato blu scuro. Il sito internet del Corpo forestale dello Stato - ancora per poco online - comunica il trasferimento dei contenuti, dal primo gennaio 2017, sul sito dei Carabinieri, in base al decreto legislativo n.177 del 19 agosto 2016, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 12 settembre 2016. La nuova organizzazione

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sembra assumere i caratteri di una vera e propria mutazione genetica per gli ex-agenti del Corpo forestale dello Stato, così come qualcuno l’ha definita, trasformandolo in un’Arma militarizzata. <<Ovvero - ha dichiarato a Greenreport Carlo Alberto Graziani, giurista e primo presidente del Parco Nazionale dei Monti Sibillini - il Corpo viene di fatto soppresso e i forestali (da non confondere con gli operai forestali regionali) vengono trasferiti nell’Arma dei Carabinieri, vengono cioè militarizzati. La militarizzazione riguarda pure il personale tecnico non in divisa e non armato, compresi i disabili e gli eventuali obiettori di coscienza (infatti solo ai forestali in divisa è richiesto di non essere obiettori di coscienza): questo personale costituisce circa l’11 per cento degli oltre 7.500 forestali. Vengono trasferite nell’Arma anche le strutture (tra cui le circa 1.000 le stazioni forestali) sparse in tutta Italia tranne che nelle cinque regioni a statuto speciale che dispongono di propri corpi forestali.>> Sempre Graziani aggiunge: <<Cessa infine, ed è gravissimo, quel regime di dipendenza funzionale dal ministero dell’Ambiente e dagli enti parco nazionali del personale del Corpo ivi dislocato che, seppure con alcuni limiti dimostrati dalla prassi soprattutto nei parchi, aveva permesso sia all’uno che agli altri di poter disporre con sufficiente autonomia di tale personale. D’ora in poi il personale dipenderà


COLDIRETTI CHIEDE LO SFRUTTAMENTO PRODUTTIVO DELLE FORESTE Per la Coldiretti gli incendiari sono piromani ed i boschi vanno sfruttati dagli agricoltori. Siamo forse di fronte ad una nuova richiesta di disboscamento delle foreste del Sud Italia, al fine di ricavare biomassa per alimentare i forni energetici di centrali a cippato e caminetti a pellet? Dopo il disboscamento selvaggio post unità d’Italia - che ha visto sacrificati milioni di ettari di bosco per farne traversine ferroviarie, arricchendo i “padroni del vapore” - è questa la nuova grande riforma della politica agricolo-alimentare del Belpaese? <<Nelle foreste andate a fuoco - sostiene la Coldiretti - saranno impedite anche tutte le attività umane tradizionali del bosco come la raccolta della legna, dei tartufi e dei piccoli frutti, ma anche quelle di natura hobbistica come i funghi che coinvolgono a settembre decine di migliaia di appassionati. Insieme alle disdette provocate in molti agriturismi, sono gravi anche i danni diretti registrati alle coltivazioni agricole, le perdite di animali con la distruzione di numerosi fabbricati rurali. Anche specialità alimentari tradizionali sono andate perse come vigneti, oliveti e pascoli. Un costo drammatico che l’Italia è costretta ad affrontare perché è mancata l’opera di prevenzione con 12 miliardi di alberi dei boschi italiani che, a causa dell’incuria e dell’abbandono, sono diventati infatti vere giungle ingovernabili in preda ai piromani. Siamo di fronte all’inarrestabile avanzata della foresta che senza alcun controllo si è impossessata dei terreni incolti e domina ormai più di un terzo della superficie nazionale con una densità che la rende del tutto impenetrabile ai necessari interventi di manutenzione, difesa e sorveglianza. È praticamente raddoppiata rispetto all’unità d’Italia la superficie coperta da boschi che oggi interessa 10,9 milioni di ettari, ma sono alla mercé dei piromani la maggioranza dei boschi italiani che, per effetto della chiusura delle aziende agricole, si trovano ora senza la presenza di un agricoltore che possa gestirle. Per difendere il bosco italiano occorre creare le condizioni affinché si contrasti l’allontanamento dalle campagne e si valorizzino quelle funzioni di sorveglianza, manutenzione e gestione del territorio svolte dagli imprenditori agricoli - ha affermato il presidente della Coldiretti, Roberto Moncalvo - nel sottolineare che occorre cogliere le opportunità offerte dalla legge di orientamento che invita le pubbliche amministrazioni a stipulare convenzioni con gli agricoltori per lo svolgimento di attività funzionali alla salvaguardia del paesaggio agrario e forestale.>>

sia gerarchicamente sia funzionalmente dal Comando unità per la tutela forestale, ambientale e agroalimentare dell’Arma istituito dall’articolo 8 del decreto. Secondo quanto stabilisce questo articolo, infatti, mentre per le materie afferenti alla sicurezza e alla tutela agroalimentare e forestale il Comando dipenderà funzionalmente dal ministro delle Politiche agricole alimentari e forestali, il ministro dell’Ambiente - che ha salutato con particolare enfasi l’approvazione dell’assorbimento - potrà solo avvalersi di tale struttura limitatamente allo svolgimento delle specifiche funzioni espressamente riconducibili alle attribuzioni del suo ministero. Limiti più angusti non si sarebbero potuti nemmeno immaginare: a conferma del disimpegno del governo per l’ambiente, la natura, le aree protette e per questo suo ministero, il quale, per una parte importante e strategica delle sue funzioni, finirà esso per dipendere di fatto dalle scelte dell’Arma dei Carabinieri.>> LE ECO-MAFIE NEI PARCHI A fronte della loro esiguità rispetto ad altri rami militarizzati dello Stato con poco più di 8.500 tra uomini e donne, ed oltre 1.000 presidi territoriali tra Cta e Comandi Stazione - l’assorbimento nei Carabinieri del Corpo forestale dello Stato rischia di cancellare esperienze maturate e valori riconosciuti della storia centenaria, che in


altri Paesi avrebbe, non solo costituito l’identità dello Stato, ma anche valori riconosciuti irrinunciabili da parte di tutti. Una <<mutazione genetica>> imposta con decreto che rischia di cancellare anche la <<tutela del patrimonio naturale e paesaggistico, la prevenzione e repressione dei reati in materia ambientale e agroalimentare assieme alla molteplicità dei compiti affidati alla Forestale che affonda le radici in una storia professionale dedicata alla difesa dei boschi, che si è evoluta nel tempo fino a comprendere ogni attività di salvaguardia delle risorse agroambientali, del patrimonio faunistico e naturalistico nazionale.>> Ma in Italia con l’etichetta di riforma è possibile, con decretazione, non solo cancellare i diritti costituzionali, ma mettere a rischio la sicurezza del territorio e delle comunità che lo abitano. Lo dimostrano decine di migliaia di controlli dei soli forestali impegnati in passato nei parchi nazionali che oggi non lo sono più, costituendo un deterrente nei confronti degli incendiari soprattutto nei Parchi nazionali del Sud Italia. Gli ex agenti del Corpo forestale sono oggi relegati al ruolo di segnalatori di incendio agli uffici dei Vigili del fuoco. I Cta dei parchi dovrebbero ritornare ad essere funzionalmente legati agli enti parco, costretti invece a non disporre più di una propria vigilanza, dovendosela

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pagare, anche in base alla nuova legge sui parchi, forse dalle royalty pagate dai privati o ricorrendo (a pagamento) a volontari o altre organizzazioni commerciali, i cui interessi spesso coincidono con quelli degli speculatori e dei cementificatori, ai quali fa comodo che si faccia terra bruciata. Non importa se poi la mano e gli interessi degli incendiari non sono gli stessi. IL BUSINESS DELLO SPEGNIMENTO DEI ROGHI È bastata una sola stagione per evidenziare come dalla prevenzione e dai controlli degli incendi boschivi effettuati prevalentemente dall’ex Corpo forestale dello Stato, affiancati da volontari e squadre antincendio locali - si sia passati, grazie alle nuove leggi in vigore, alla logica dello spegnimento dei roghi con compiti affidati a Vigili del fuoco e alla Protezione civile, con altri organismi di supporto che, di fatto, hanno privatizzato mezzi e uomini adibiti allo spegnimento dei roghi. Un business milionario, almeno a leggere alcune inchieste giornalistiche. Tra il primo gennaio e il 12 luglio 2017 sono state inoltrate ben 764 richieste al Centro operativo aereo unificato (Coau), di cui all’articolo 7 della legge n.353/200. A riportare questo numero è il dossier Incendi 2017 di Legambiente. Un record decennale quello fatto registrare al Coau, per l’intervento di 14 canadair, 3 elicotteri dei Vigili del fuoco e 3 elicotteri della Difesa, in uno scenario complessivo che vedrebbe anche

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un’indagine dell’Antitrust e della Guardia di finanza sui servizi di elisoccorso e anti-incendio boschivo aggiuntivi, in particolare sui ribassi a base d’asta imposti da un presunto cartello di imprese nel settore degli aeromobili ed elicotteri privati, interessati ad aggiudicarsi le gare per lo spegnimento dei roghi (Agcom, marzo 2017) NOSCORIE TRISAIA: TRA IL POLLINO CHE BRUCIA E L’ EMERGENZA SICCITÀ, LA GIUNTA REGIONALE DELLA BASILICATA DELIBERA IL TAGLIO DELLE BIOMASSE NEL PARCO In piena estate, mentre il Parco nazionale del Pollino perde circa 300 ettari, dopo altri numerosi incendi, in emergenza siccità e nel mezzo della discussione sui cambiamenti climatici che accapiglia i governanti di mezzo mondo, la Regione Basilicata delibera per la produzione di biomasse proprio nel Pollino, al fine di alimentare la centrale del Mercure in un raggio di 70 chilometri dall’impianto. La delibera - la n.750 del 19 luglio 2017 - parte da uno studio Enea, del 2016, sulla reperibilità di biomassa in Basilicata. Nello studio, però, non sembra essere stata contemplata la devastazione in atto, a seguito degli ultimi incendi del patrimonio forestale, la siccità permanente e il contributo della vegetazione alla riduzione di CO2. Temi a nostro giudizio in antitesi, e non meno importanti, della produzione di energia elettrica che può essere prodotta in mille modi


LA GEOGRAFIA DELLA PAURA E GLI EFFETTI DELLO “SPRAWL” INCENDIARIO Sarebbe la pratica del “fare”, causata dall’emergenza-disastri (naturali e non), vissuta in modo “deviato” come “opportunità”, che innescherebbe i roghi. Quest’anno gli incendi sono stati più devastanti, ingigantiti dalla siccità e dai cambiamenti climatici. Il “fare” si collega in modo diretto agli appetiti dei corruttori e dei corrotti, di quanti si fregano le mani per la contentezza di fronte alle sciagure, alle frane, ai terremoti e agli incendi di foreste secolari. L’innesco affaristico sarebbe dietro alle stesse calamità, facilitate dall’eliminazione con legge delle azioni di prevenzione e di controllo sul territorio, in un apparente efficientismo post moderno. Tale accanimento sarebbe favorito dallo “sprawl”, ovvero dal fenomeno della diffusione della città e del suo suburbio su una quantità sempre maggiore di terreni agricoli e forestali (Consumo di suoli e sprawl di identità, F. Vallerani, Università di Venezia Cà Foscari). La trasformazione forzata dei suoli causata dai disastri, in questa visione favorirebbe lo sfruttamento dello spazio (legname, acqua, terra, edilizia, mezzi antincendio). La Protezione civile deve intervenire per salvare prima gli abitanti, poi le case ed infine gli alberi, incrementando una protezione civile fai-da-te). Gli incendi inoltre funzionerebbero come un incentivo alla svendita del patrimonio pubblico o per i ripristini ambientali (rischio idrogeologico conseguente, frane) per la cui tutela lo Stato dichiara di non avere fondi. Questo fenomeno è stato studiato dal sociologo Mike Davis che ha, da tempo, definito il ruolo della paura come motore per lo sfruttamento spaziale, che però poi innesca un business indotto. Essa ha inghiottito intere regioni di patrimonio pubblico negli Stati Uniti. Davis ha contestualizzato anche i nuovi fenomeni criminali nei diversi scenari del mondo conurbano, capace di sottrarre in modo pianificato e distruttivo, nuovi spazi alla natura e al vissuto collettivo, per privatizzarli, ponendo attenzione ai rimedi attuati, spesso più inefficaci (ma costosi) delle stesse cause che scatenano le distruzioni. Gli scenari delle megalopoli, quello degli “Slum” (le nuove periferie povere del mondo) e delle prassi istituzionali finiscono per condizionare - secondo Davis - un <<cyber-fascismo che sta in agguato dietro l’orizzonte futuro fondato sulla paura>>. Le periferie non urbanizzate devastate dal fuoco finiscono per diventare un nuovo confine in cui ridefinire le nuove rendite ed i profitti da privatizzare, mentre la ricchezza si concentra nei paradisi fiscali della cripto-valuta.

senza tagliare gli alberi e la vegetazione per bruciarli come biomasse. Sarebbe stato opportuno, prima di deliberare, prendere in esame anche uno studio sulla desertificazione, sul rischio incendi, sul rischio idrogeologico ma, soprattutto, sull’impatto che il taglio degli alberi e della vegetazione avrà sugli ecosistemi del Pollino. Non dimentichiamoci, inoltre, che a novembre del 2015 l’Unesco ha inserito il Parco, che con i suoi 192 mila ettari è il più esteso d’Italia. Ovviamente i Comuni, l’Ente parco e le comunità ricadenti nei 70 chilometri dalla centrale del Mercure possono sempre ricorrere al Tar contro la delibera della Regione Basilicata, per tutelare i propri interessi, il proprio verde e il proprio territorio.


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ERUZIONE

DOLOSA


REPORTAGE DI PELLEGRINO TARANTINO

Viaggio nel cuore del Parco nazionale del Vesuvio, in Campania, devastato dal fuoco. A luglio, una vera e propria catastrofe di origine dolosa, ha interessato una delle aree protette più belle d’Italia.


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RIFIUTI CONNECTION

CENTRALE del GA PUNTO SUl DECO

DI GIULIA CASELLA

Il circolo Legambiente di Sessa Aurunca, in provincia di Caserta, fa il punto sul decomissioning dell’ex centrale nucleare del Garigliano. Una volta avviate le procedure per l’abbattimento controllato del camino, Sogin anticipa di ben quattro anni lo smantellamento del vessel, il “cuore” dell’ex sito nucleare. Ma le operazioni sperimentali previste dalla società destano preoccupazione alla luce della mancanza di un piano di emergenza aggiornato.

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Ad agosto è stato avviato l’abbattimento del camino dell’ex centrale del Garigliano. <<Una volta scarificate le pareti interne dalle polveri radioattive fino all’altezza dei primi 40 metri – su ca. 100 del totale – il materiale di risulta sarà un rifiuto convenzionale da conferire in un sito per inerti. Sito che non è presente sul territorio della provincia di Caserta>>. Ma il circolo Legambiente di Sessa Aurunca, da anni vero e proprio ente di monitoraggio e controllo sulle azioni svolte nel campo del decommissioning della centrale nucleare del Garigliano, continua a seguire passo passo le operazioni messe a punto dalla Sogin spa. Tentando di mantenere sempre viva l’attenzione sull’unico sito nucleare italiano ad essere chiuso ben prima del referendum del 1987. <<La novità più importante>>, prosegue Legambiente <<è rappresentata dallo smantellamento del vessel.

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Un’operazione anticipata di quattro anni – dal 2023 al 2019, previa autorizzazione dell’Ispra – che avrà una durata complessiva di nove anni, con una previsione di spesa di circa 100 milioni. Questa accelerazione è giustificata, per Sogin, da alcuni motivi tra cui i costi commisurati ai tempi e il know-how. Ma viene resa possibile, nei fatti, da una serie di operazioni ingegneristiche che prevedono un approccio sperimentale allo smantellamento del vessel in mancanza di riferimenti internazionali di rilievo.>> I CITTADINI DI SESSA AURUNCA SONO PREOCCUPATI Il vessel, il contenitore a pressione che in passato custodiva il nocciolo del reattore nucleare, è uno degli elementi di una centrale più complessi da smantellare. <<In questi diciotto anni trascorsi dalla sua costituzione – voluta da Pierluigi Bersani, ai tempi Ministro dell’Industria


ARIGLIANO: OMMISSIONING nel governo di Massimo D’Alema – Sogin ha rallentato le operazioni di decommissioning con costi che, pur senza utilizzare i fondi disponibili, non sempre giustificavano quelli utilizzati>>, si legge ancora nella nota di Legambiente. <<Luca Desiata – amministratore delegato Sogin – in un’audizione alla commissione Lavori pubblici del Senato, ha evidenziato che da quando si è insediato il nuovo consiglio di amministrazione ‘abbiamo trovato il decommissioning al 25 per cento come spese e costi effettuati ad oggi rispetto al piano a vita intera. Dietro a questo 25 per cento ci sono incertezze legate al fatto che le spese fatte sinora non corrispondono sempre a opere concrete e per così dire visibili’.>>

L’ALLUNGAMENTO DEI TEMPI HA COMPORTATO AUMENTI CONSIDEREVOLI NELLA PREVISIONE DI SPESA DELL’INTERO DECOMMISSIONING DEI SITI NUCLEARI ITALIANI <<Nel 2008>>, sottolinea ancora Legambiente <<la chiusura del ciclo era prevista per il 2019, con una spesa complessiva di 4,3 miliardi di euro. Nel 2012 Giuseppe Nucci, all’epoca amministratore delegato di Sogin, prevede una spesa di 5 miliardi, con uno slittamento al 2025. Nel 2013 il costo è lievitato a 6,3 miliardi. Nel 2014 si è previsto un ulteriore slittamento al 2032. Nel 2017, infine, Sogin prevede una spesa di 6,5 miliardi con uno slittamento al 2035. Sul Corriere della sera del 17 febbraio 2016 si apprende, poi, dell’escalation dei costi delle componenti dell’attività Sogin. Non solo di quelli “fissi”, inerenti a personale e sicurezza, ma anche di quelli del decommissioning vero e proprio. Parliamo in media

di oltre 100 milioni l’anno. Cifre tutte documentate nelle schede inviate all’Autorità per l’energia. C’è poi la gestione del combustibile. Che l’Italia ha deciso di “scambiare” a pagamento con il Regno Unito. Circa 5 mila metri cubi di rifiuti a bassa attività contro un metro cubo ad alta intensità. In caso di indisponibilità del Deposito nazionale, bisognerà pagare ogni anno 50-60 milioni di euro in penali al Paese che custodisce le scorie nostrane. Il contratto con la Francia scade nel 2025, mentre con il Regno Unito si sta negoziando il differimento – sempre a pagamento e questa volta inevitabile – dal 2019 al 2025.>> SI STIMA CHE UN RITARDO DI DIECI ANNI COMPORTEREBBE COSTI PER IL PAESE FINO A 1 MILARDO DI EURO. <<Poi ci vuole anche un po’ di memoria storica>>, rincara Legambiente.

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<<Non bisogna dimenticare che se la Sogin esiste dal 1999, negli anni precedenti gli italiani hanno versato in bolletta – componente A2 – fior di oneri per indennizzare l’Enel per l’uscita dal nucleare decisa nel 1987. Secondo qualche calcolo, i rimborsi per Enel e le imprese appaltatrici hanno toccato quasi 15 mila miliardi di lire – circa 7,5 miliardi di euro -. Il che fa sconsolatamente aumentare il conto dell’addio al nucleare a 20 miliardi di euro. Pagati centesimo su centesimo dai consumatori in bolletta. Dunque, la decisione di anticipare lo smantellamento del vessel di 4 anni, si deve a un accorciamento dei tempi che si tradurrebbe in una spesa più contenuta. Ma anche, e forse soprattutto, alla possibilità di acquisire un know-how che, a livello internazionale, farebbe salire vertiginosamente le quotazioni di Sogin. Cosa già accaduta in occasione della scarifica del camino dalle polveri radioattive. Un’operazione sperimentale portata avanti con tecnologie tutte italiane. Il vessel però è il “cuore” di una centrale nucleare. È il contenitore d’acciaio dove viene custodito il reattore, il punto più difficile da smantellare. Data la presenza di radiazioni, le operazioni saranno lente e complesse. Tuttavia, ancora una volta, l’ex centrale di Sessa Aurunca sarà teatro di operazioni sperimentali, tutt’altro che rassicuranti, in assenza di un piano di emergenza aggiornato.>>

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<<Per Desiata>>, rileva in conclusione Legambiente, <<l’ex sito del Garigliano è un obiettivo strategico dell’azienda che la rende credibile. Questo perché, alla luce della difficoltà ingegneristiche del cantiere non si deve girare attorno al problema, ma affrontarlo e farlo con un piano credibile dal punto di vista dell’ingegneria per procedere con un’attività via via più complessa. E allora, il piano è quello di smantellare almeno un vessel entro la loro consiliatura. Desiata ha poi ribadito che la parte più difficile è il vessel. In mancanza di riferimenti internazionali, quella parte di piano presenta forti incertezze. Un’incertezza di fondo che, finché non attacchiamo il vessel, resta ineliminabile. Insomma, noi abitanti del territorio saremo, ancora una volta, le cavie degli esperimenti condotti nella centrale del Garigliano. Si decide lo smantellamento del vessel, ma non si conoscono ancora le soluzioni ingegneristiche e ambientali. Anzi, viste le affermazioni di Desiata, non possiamo che far nostre le forti incertezze in mancanza di riferimenti internazionali.>>

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Š EMMA BARBARO Terre di frontiera / numero 11 anno 2 - settembre 2017 / www.terredifrontiera.info

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ORIENTAMENTI

V.I.A. LIBERA

DI ENZO CRIPEZZI

La Valutazione d’impatto ambientale - strumento cardine per prevenire i “guasti” ambientali nell’uso del territorio - umiliata dalla deregolamentazione all’italiana. Una brutta storia dalle pessime conseguenze, ma favorita da una procedura di infrazione da parte dell’Unione europea che stenta a concretizzarsi sulla cattiva applicazione della Valutazione d’incidenza.

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La Valutazione d’incidenza ambientale (Vinca) procedimento distinto dalla più nota Valutazione d’impatto ambientale (Via) - è una procedura specifica per valutare gli effetti di interventi, diretti o indiretti, sulla Rete Natura 2000, al fine di garantire il mantenimento della biodiversità per la quale i siti che la compongono sono stati individuati dallo Stato membro e, quindi, adottati in sede comunitaria. La Rete Natura 2000 è una rete ecologica diffusa su tutto il territorio europeo, istituita ai sensi della direttiva 92/43/CEE “Habitat” e costituita da Siti di interesse comunitario (Sic), Zone speciali di conservazione (Zsc) e Zone di protezione speciale (Zps). L’Italia ha recepito le direttive comunitarie in materia legiferando con il decreto del Presidente della Repubblica 357/97, per assicurare l’applicazione di questa valutazione preventiva, in gran parte per il tramite delle Regioni che,

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a loro volta, hanno emanato normative per disciplinare detto procedimento. Seguendo il cliché italiano, nel corso degli anni, i governi nazionali e regionali hanno trasformato troppo spesso questa importante procedura autorizzativa in una compilazione vuota di relazioni da parte del proponente, il cui vaglio delle autorità competenti si è caratterizzato per disattenzione, incapacità e superficialità. Con debite eccezioni di uffici virtuosi, ma a rischio sopravvivenza. Le conseguenze sugli ambienti naturali e seminaturali sono state più volte stigmatizzate dagli ambientalisti, tanto che nel 2013 Lipu e Wwf hanno prodotto un dossier sulla mancata o cattiva applicazione della Vinca, con tanto di immagini sugli effetti ex post, in palese contraddizione con gli obbiettivi comunitari volti ad arrestare la perdita di biodiversità e di servizi ecosistemici utili all’uomo. Il dossier faceva


seguito a circostanziate e numerose denunce presentate, appunto, in sede comunitaria. IL SISTEMA ITALIA E LA PROCEDURA D’INFRAZIONE L’Unione europea ha preso atto dei molteplici casi di evidente violazione delle disposizioni previste dalla direttiva “Habitat”, tanto da lasciare chiaramente presumere un problema sistematico nella gestione di tale procedura. È per tale ragione che veniva aperta la cosiddetta procedura “Eu Pilot” (6730/14/ENVI): una sorta di anticamera della più temibile procedura di infrazione, finalizzata a chiarire i fatti denunciati, adottare interventi concreti per prevenire una cattiva attuazione della Valutazione d’incidenza e arginarne le conseguenze. Venivano in proposito individuate una serie di criticità che spaziavano dalla mancanza di trasparenza e di evidenza pubblica allo scarso livello di studio delle relazioni a corredo della procedura,

dal conflitto di interessi del progettista incaricato rispetto al committente alla solita scappatoia di deroghe, al livello di competenza degli uffici o alla carenza sconcertante del sistema di controllo e sanzionatorio. In questo scenario sembrerebbero esserci tutti i tipici ingredienti del sistema Italia e l’ineludibile necessità di imporre un diverso approccio, pena la procedura d’infrazione. Ma, ai giorni nostri, malgrado le tergiversazioni dello Stato e, soprattutto, la nascita di nuovi casi di degrado ambientale legato alla cattiva applicazione della Vinca, la procedura “Ue Pilot” non sembra maturare in procedura d’infrazione. Appare più di un sospetto che la Ue - politicamente indebolita da atteggiamenti centrifughi degli Stati membri - proceda con maggiore cautela nei confronti di quei Paesi colpevoli di non applicare correttamente le direttive. Una visione miope, però,

che rischia di tradursi in un boomerang da parte di chi crede in quelle cose “buone” derivate dall’adesione all’Unione europea, come appunto le attenzioni in campo ambientale. Non è un caso che proprio una recente ipotesi di revisione strumentale - delle direttive europee “Habitat” e “Uccelli” (gli strumenti più importanti per la tutela della natura in Europa: biodiversità e Rete Natura 2000) abbia determinato una reazione ambientalista che, nel volgere di qualche mese, ha coinvolto oltre 500 mila europei, firmatari a sostegno delle direttive sopraccitate e contro il loro indebolimento. Un risultato straordinario. IL PRESSAPOCHISMO PER LE QUESTIONI AMBIENTALI In Italia, il rischio è che la perdurante mancanza di una concreta reazione comunitaria sulla questione Vinca possa minare l’effetto deterrente di una procedura d’infrazione

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PRIMA E DOPO DI UNO DEGLI INTERVENTI DENUN

che rimane ipotetica. Peraltro in un Paese dove il livello di disinteresse per il bene pubblico e le risorse collettive è noto. Tale constatazione ha tristemente fatto il paio proprio con la Valutazione d’mpatto ambientale, la cui tradizione di scarsa attenzione, carente trasparenza e coinvolgimento da parte delle istituzioni preposte ha destato proteste da parte di comitati e associazioni e che, ad opere compiute ed effetti palesi, ha rivelato tutto l’italico atteggiamento di pressapochismo per le questioni ambientali. Eppure lungo tutta la Penisola, dominata da

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incurie, disastri annunciati e incidenti ambientali, la Via - e poi la Vinca - avrebbero potuto determinare un momento di svolta. Tuttora rappresentano il discrimine per prevenire e mitigare effetti ambientali di progetti e opere, altrimenti destinate a presentare il conto negli anni a venire. LA MANOMISSIONE DELLA VIA È nel contesto di tardiva reazione della Ue sulla questione Vinca che va ad ascriversi la recente manomissione della normativa sulla Via da parte del governo guidato da Paolo Gentiloni. Ovviamente in chiave deregolamentare.

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In Italia la Valutazione d’impatto ambientale si è caratterizzata da sempre per modalità discutibili di applicazione, con criticità che trovano facile parallelismo proprio con quelle identificate nelle procedure di Vinca. Ad esempio, in base a una griglia di criteri tipologici e dimensionali, sottoporre molti progetti alla più blanda verifica di assoggettabilità a Via - il cosiddetto screening ambientale - ha determinato per molti anni la totale esclusione dalle procedure di evidenza pubblica, causando le ire delle comunità che conoscevano tali


NCIATI IN UN SIC E ZPS IN FRIULI VENEZIA GIULIA

progetti sono nelle fasi di realizzazione. Fino a quando tale lacuna è stata faticosamente colmata. Basti ricordare, inoltre, come per molti anni l’accessibilità ai progetti medesimi sia stata gravemente interdetta, malgrado la teorica garanzia di estrarne copia tramite internet come predicato dalla normativa. Nel recente passato la tecnica di aggiramento delle procedure di Valutazione in campo ambientale è sempre stata abbastanza sottile e raffinata. Da una parte con il mancato coinvolgimento delle popolazioni locali nelle procedure di Via e dall’altra

con l’indebolimento degli uffici preposti (sostituendo dirigenti) o delegando uffici “rachitici” (dalle Regioni alle Province), così da conseguire strutture prive di personale sufficiente ad assolvere le istanze di progetti o incapaci di gestire procedure complesse e importanti. Molte volte anche i pareri Via negativi sono stati rilasciati scarni di istruttoria e motivazioni, quasi ad invogliare i ricorsi al Tar, destinati ad essere vinti e ribaltare la decisione dell’ente coinvolto. Si consideri, ora, il valore esponenziale delle opere legate ai progetti che ogni anno un ufficio Via è

preposto a valutare, atteso anche il profitto che, nel tempo, deriverebbe dalla realizzazione di tali opere per il soggetto proponente, spesso in contrasto con gli interessi della collettività. Tale considerazione è ancor più evidente per l’ufficio Via del ministero dell’Ambiente, in cui convergono le istanze per progetti di portata nazionale e, quindi, con valori in gioco ancora più elevati e condizionanti. Sarà più chiara quale sia la pressione della lobby che bussa alle porte di tali uffici - e della politica preposta a normare il settore - e quanto importante e nevralgico sia questo snodo delle strutture istituzionali

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PRIMA E DOPO DI UN INTERVENTO DI CARATTERE URBANISTICO SU

che andrebbero irrobustite e qualificate per rispondere seriamente a compiti molto delicati. La Valutazione d’impatto ambientale dovrebbe essere una cosa maledettamente seria, da cui dipende l’armonia e l’equilibrio nell’insediamento di opere, attività, interventi antropici. Ma se prima era consuetudine che la politica ricorresse a opinabili stratagemmi per incrinare la rigorosità e le garanzie di tutela, a vantaggio del progetto di turno, ora quella stessa politica sembra aver gettato la maschera ricorrendo direttamente a una penosa deregolamentazione che

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umilia i caratteri fondanti della Via: proteggere la salute umana, contribuire con un migliore ambiente alla qualità della vita, provvedere al mantenimento delle specie e conservare la capacità di riproduzione dell’ecosistema in quanto risorsa essenziale per la vita. DEGRADO E MIMETISMO DELLE PROCEDURE Malgrado le contestazioni di numerosi sodalizi ambientalisti, il governo ha emanato il decreto legislativo n.104 del 16 giugno 2017, peggiorando gravemente il quadro normativo di riferimento,

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con la scusa di adeguarlo ai sopraggiunti aggiornamenti comunitari in materia (direttiva 2014/52/UE). La sintesi di tali modifiche sembra tagliata appositamente, in ossequio a decenni di speculazioni in campo edilizio, di inquinamento, degrado di habitat e “mimetismo” delle procedure. Le predette norme, in vigore dal 21 luglio scorso, riducono gli spazi di partecipazione della collettività (impedendo di intervenire in caso di modifica del progetto rispetto a quello presentato), semplificano le regole per il proponente favorendo una sorta


UL GARGANO, IN SIC E ZPS CARATTERIZZATI DA HABITAT STEPPICI

di contrattazione tra quest’ultimo e l’autorità competente (aumentando le maglie di progettualità che può scendere a un livello di mera fattibilità), favoriscono il controllo della politica sulle strutture tecnicamente preposte, come ad esempio aumentando l’agibilità del ministro nella scelta dei componenti della Commissione Via. Alcune non meglio precisate opere eccezionali sono esentate dalla Via. RITORNO AL PASSATO La Verifica di assoggettabilità a Via si caratterizza per un ritorno al passato, vanificando

decenni di lotte per pretendere trasparenza e partecipazione che, ora, sono sostanzialmente preclusi. L’azione sanzionatoria è indebolita, corredata da maglie così larghe da demolire qualsivoglia effetto deterrente per il rispetto della stessa legge o delle relative prescrizioni contenute nei pareri rilasciati. Viene introdotta la possibilità di attivare un procedimento dopo l’avvio di lavori che, quindi, sarebbero illegali, rafforzando il senso di impunità e favorendo effetti criminogeni, ancor più pericolosi in un Paese con aree ad alto tasso di

criminalità organizzata. Una simile normativa poco selettiva sulla qualità dei progetti - contribuisce a penalizzare eventuali imprese serie che volessero applicare analisi preventive puntuali e qualitativamente superiori. A parità di proposta di un’opera sul medesimo territorio, il progetto più semplificato avrebbe la meglio in termini di rapidità scalzando gli altri.

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GELA PROFONDA

GELA E IL NON LU A PROCEDERE

DI ROSARIO CAUCHI

In attesa delle motivazioni che verranno rese note dal giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Gela, con un <<non luogo a procedere>> sono cadute le accuse mosse nei confronti di tredici imputati, tutti ex manager del gruppo Eni, tecnici e responsabili dell’allora impianto cloro-soda della fabbrica di contrada Piana del Signore. E gli altri procedimenti aperti?

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Attivato nel 1971, e poi dismesso nel 1994, il reparto cloro-soda di Gela - battezzato <<impianto killer>> - ha mietuto vittime su vittime tra gli ex lavoratori. Tutti gli imputati erano accusati dell’omicidio colposo dell’operaio Salvatore Mili, morto dopo venticinque anni di servizio in raffineria e affetto da mieloma multiplo. Il giudice dell’udienza preliminare, Paolo Fiore, ha emesso il proprio verdetto che, in questo modo, non ha accolto le richieste giunte dai pm della Procura e dai legali della famiglia dell’operaio, che invece avevano spinto per il rinvio a giudizio. L’assoluzione è stata pronunciata nei confronti di Antonio Catanzariti, Giovanni La Ferla, Pasqualino Granozio, Gregorio Mirone, Giancarlo Fastame, Giorgio Clarizia, Ferdinando Lo Vullo, Giuseppe Genitori D’Arrigo, Francesco Cangialosi, Arturo Borntraeger, Giovanni Calatabiano,

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Giuseppe Farina e Salvatore Vitale. Per i magistrati della procura, avrebbero omesso di adottare tutte le misure idonee ad evitare l’esposizione di Mili, e degli altri dipendenti in servizio all’impianto cloro-soda, a pericolose esalazioni ma anche al mercurio, all’acido solforico, al cloro e al benzene. I figli e i nipoti di Salvatore Mili erano tutti costituiti parte civile con gli avvocati Joseph Donegani, Emanuele Maganuco e Dionisio Nastasi. Chiedevano un risarcimento di due milioni di euro ciascuno. UNA BATTAGLIA PER AVERE CERTEZZE GIUDIZIARIE Da anni, Orazio Mili, figlio dell’operaio morto, porta avanti la sua battaglia per cercare di avere certezze, soprattutto giudiziarie, rispetto alle cause che hanno portato alla morte del padre, avvenuta dopo una vera e propria via crucis sanitaria. Il giudice dell’udienza preliminare sembra aver escluso


UOGO

un collegamento tra la morte del lavoratore del cloro-soda e le posizioni ricoperte nel tempo dagli imputati. Un legame messo in discussione, invece, dai legali di difesa che hanno chiesto proprio il <<non luogo a procedere>>. La vicenda di Salvatore Mili è stata l’unica ad arrivare davanti al giudice dell’udienza preliminare dopo un lungo incidente probatorio che aveva, invece, riguardato anche altri ex lavoratori di quell’impianto, morti o comunque affetti da gravissime patologie. <<Su centoventi operai di quel maledetto impianto dice proprio Orazio Mili - ad oggi contiamo trentasei decessi. Chi è riuscito a sopravvivere, in molti casi, deve fare i conti con gravi patologie. Non conosciamo, inoltre, lo stato di alcuni ex operai che, oggi, non vivono più in città. Noi cercheremo comunque di arrivare alla verità. Leggeremo le motivazioni che verranno depositate dal giudice

dell’udienza preliminare, ma andremo avanti perché abbiamo atti e documenti che sono chiari.>> Orazio Mili è tra i fondatori del Comitato familiari vittime dell’impianto cloro-soda. Per anni è stato chiesto di fare luce su quanto accadeva ai lavoratori esposti a sostanze ed esalazioni pericolosissime. Un’azione, anche mediatica, che è servita sul fronte di una vasta indagine penale. Il verdetto del gup, però, non convince né la famiglia Mili né i legali che l’assistono. Una vasta indagine come quella alla base di un altro maxi procedimento penale, però al momento rimasto al palo. IL PROCESSO PER DISASTRO AMBIENTALE INNOMINATO Nel corso dell’udienza preliminare del processo contro ventitré tra manager e tecnici delle società Eni attive in città, è arrivato un brusco stop. Tra le accuse mosse c’è quella di disastro ambientale innominato. Gli atti, però, sono tornati

ai pubblici ministeri della Procura. Il giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Gela ha accolto le eccezioni sollevate dai difensori di tutti gli imputati. Sono risultate nulle, infatti, le notifiche degli avvisi di conclusione indagine con le relative richieste di rinvio a giudizio. Eccezioni che erano state sollevate proprio dai difensori degli imputati. Alla fine è risultata irregolare anche la notifica ai legali della società Raffineria di Gela spa. Le accuse vengono contestate a Giuseppe Ricci, Battista Grosso, Bernardo Casa, Pietro Caciuffo, Pietro Guarneri, Paolo Giraudi, Lorenzo Fiorillo, Antonino Galletta, Renato Maroli, Massimo Barbieri, Luca Pardo, Alfredo Barbaro, Settimio Guarrata, Michele Viglianisi, Rosario Orlando, Salvatore Losardo, Arturo Anania, Massimo Pessina, Enzo La Ferrera, Marcello Tarantino, Gaetano Golisano ed Emanuele Caiola. Quindi, si fa retromarcia e sarà

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necessaria una nuova fase di notifica dei relativi avvisi. Si tornerà davanti al gup il prossimo 11 ottobre. LE PARTI CIVILI: LAVORATORI DELL’INDOTTO E AGRICOLTORI Decine di parti civili avevano già depositato le rispettive richieste di costituzione. Oltre cinquanta lavoratori dell’indotto Eni, esponenti della sezione locale dell’Osservatorio nazionale amianto, hanno chiesto di costituirsi attraverso i legali Lucio Greco e Davide Ancona. Tra le parti civili che avrebbero subito danni dalle emissioni degli impianti Eni ci sono molti agricoltori, compresi quelli della vicina Niscemi, rappresentati dall’avvocato Francesco Spataro. Richieste di costituzione sono state depositate dai legali Joseph Donegani, Salvo Macrì e Antonino Ficarra nell’interesse delle associazioni Aria Nuova e Amici della Terra. Tra i danneggiati, inoltre, ci sono altri lavoratori e operatori agricoli, rappresentati dai legali Nicoletta Cauchi, Emanuele Maganuco, Tommaso Vespo, Enrico Aliotta, Giovanna Cassara, Maurizio Scicolone, Enrico Aliotta e Salvatore Vasta. Il Comune era in giudizio con l’avvocato Dionisio Nastasi. Regione e ministero dell’Ambiente, invece, puntavano alla costituzione con il legale Giuseppe Laspina. Ovviamente, data la nullità delle notifiche, anche le richieste di costituzione di parte civile decadano e dovranno essere eventualmente riformulate.

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Un passo falso inatteso, soprattutto perché questa viene ritenuta dai pm della Procura come la vera e propria indagine madre sui presunti danni ambientali causati dal gruppo Eni sull’intero territorio di Gela. La stessa multinazionale che, comunque, non sembra voler mollare il business in città. LA GREEN REFINERY Tra polemiche, posti di lavoro persi e tanta incertezza, sono in fase di avvio i cantieri della nuova <<green refinery>>, ultimo passaggio nella riconversione che porterà Eni a mutare - radicalmente - la linea produttiva, dando priorità a carburanti <<sostenibili>>. Il ministero dell’Ambiente ha rilasciato, con relativo decreto, tutte le autorizzazioni necessarie. I vertici di Eni ribadiscono che la conclusione dei lavori dovrebbe arrivare entro il mese di giugno del 2018. Claudio Descalzi, amministratore delegato della multinazionale di San Donato Milanese, davanti ai parlamentari della Commissione attività produttive della Camera dei deputati aveva comunicato che l’iter autorizzativo si sarebbe dovuto chiudere entro fine luglio. <<La firma del decreto è un elemento fondamentale per completare la trasformazione verde della raffineria - si legge in una nota ufficiale dell’azienda - e rappresenta un ulteriore passo avanti nella realizzazione delle attività previste nel Protocollo del 2014. La prima fase del progetto di riconversione

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della raffineria di Gela, che comprendeva le attività di adeguamento degli impianti esistenti era stata avviata nell’aprile 2016. La costruzione del nuovo impianto di produzione idrogeno Steam Reforming, per il quale sono state portate avanti tutte le attività preliminari, rappresenta la svolta per avviare la produzione entro il giugno 2018 e consentire entro il 2019, con il completamento anche del secondo nuovo impianto di pretrattamento delle biomasse, l’utilizzo delle materie prime di seconda generazione composte dagli scarti della produzione alimentare, che comunque sarà possibile lavorare in piccole percentuali anche nella prima fase.>> Da risolvere rimane soprattutto il buco occupazionale dell’indotto, che ha risentito di una lunga fase di stasi. A Gela, Eni, tra aule di tribunale, morti sospette e soldi da investire, continua a dettare la linea.


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ALLA CANNA DEL GAS

SISMICITÀ INDOTT LA SITUAZIONE IN

DI ENRICO DURANTI

Il 7 aprile 2017 i ministeri dell’Ambiente e dei Beni culturali hanno emanato il decreto di sovrappressione per lo stoccaggio sotterraneo di gas di Ripalta Cremasca, nel cremonese. Interessanti le prescrizioni imposte dai ministri Galletti e Franceschini, in particolare quella relativa al monitoraggio della sismicità indotta. Non è il primo caso e non sarà l’ultimo, considerando anche il relativo dibattito pubblico iniziato nel post terremoto dell’Emilia Romagna, nel 2012, e continuano nel post terremoto del CentroItalia.

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A Ripalta Cremasca viene prescritta la necessità di una rete microsismica e di una serie di accorgimenti. Infatti, nel relativo decreto sulla sovrappressione, si legge che <<qualora la microsismicità riconducibile alle attività di esercizio dello stoccaggio eguagli o superi la magnitudo Locale di 2.2, dovranno essere adottati dal soggetto gestore responsabile tutti gli accorgimenti opportuni atti a riportare la magnitudo locale massima dei sismi a valori inferiori a tale valore.>> In sostanza, i ministeri ammettono la possibilità che le attività antropiche possano determinare e causare terremoti indotti e che - con monitoraggio e operazioni correttive sia possibile mantenere la sismicità entro un certo limite. Questa è una prescrizione strana, e lascia il forte dubbio che con il semplice monitoraggio sia possibile controllare la sismicità indotta da attività antropiche.

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La stessa prescrizione è stata applicata per i progetti in sovrappressione dei campi di stoccaggio “Fiume Treste” in Abruzzo e “Minerbio” in Emilia Romagna, regione in cui - a seguito del sisma del 2012 sono scoppiati forti dibattiti e polemiche proprio sulla sismicità indotta. Spesso in un clima di grande confusione mediatica, che non ha favorito i comitati ambientalisti che hanno sempre denunciato i pericoli della sismicità antropica. Con il sisma che nel 2016 ha colpito Amatrice la situazione è peggiorata. In numerosi articoli sono state erroneamente attribuite al terremoto cause umane. Per queste ragioni è necessario fare chiarezza partendo dalla storia “dibattimentale” sulla sismicità indotta in corso anche nel mondo scientifico.


TA E INNESCATA: N ITALIA LA QUESTIONE DELLA SISMICITÀ INDOTTA NON È POI COSÌ RECENTE Pietro Caloi, ex presidente dell’Istituzione nazionale di geofisica, collegò il terremoto del 1951 di Lodi alle estrazioni di gas dal giacimento di Caviaga, nel lodigiano, denunciando una possibile sismicità indotta. Sempre Caloi, in una serie di articoli, attribuiva ad attività antropiche la sismicità registrata alla diga del Vajont prima della frana, la subsidenza del delta del Po anche in questo caso per le attività di estrazione di gas, i terremoti nelle aree minerarie di Cave del Predil, a Tarvisio, in Friuli Venezia Giulia. Mentre a livello mondiale si moltiplicavano gli studi e le ricerche sulla sismicità indotta, in Italia la questione rimaneva tabù. Nel 2012, a Mosca, nel corso dell’ultima Conferenza europea di sismologia sono stati presentati 14 lavori sulla sismicità indotta legata alla realizzazione

e sfruttamento di dighe, miniere, idrocarburi ed altre attività antropiche. L’Associazione sismologica internazionale ha un suo gruppo di lavoro dedicato solo alla sismicità indotta. Nel 2014, a Vienna, nel corso dell’Assemblea generale dell’Unione europea di geoscienze sono stati presentati 60 lavori in merito. In Italia, invece, in 48 anni sono stati solo 8 gli articoli pubblicati, nonostante l’esistenza di alcuni documenti ufficiali nei quali veniva citata la correlazione tra eventi antropico e terremoti. È il caso del Protocollo d’intesa sottoscritto nel 2010, precisamente il 22 febbraio, tra il ministero dello Sviluppo economico e la Regione Lombardia. Con l’articolo 2 del Protocollo (“Linee d’azione per lo stoccaggio di gas naturale nel sottosuolo”) viene richiesto di <<promuovere iniziative comuni per il controllo e valutazione sperimentale in tema

ambientale e di sicurezza degli stoccaggi e in particolare per quanto riguarda: il monitoraggio degli effetti sismici indotti dall’esercizio degli impianti di stoccaggio.>> Del resto possibilità di sismi indotti viene censita anche nei documenti prodotti dalla Stogit, la società di Snam attiva nello stoccaggio del gas naturale in Italia. Infatti, sempre nel 2010, negli incartamenti relativi all’istanza di Valutazione d’impatto ambientale per il campo di stoccaggio di Sergnano, in provincia di Cremona, si legge che << […] la metodologia di monitoraggio si basa sulla rilevazione di eventuali modifiche allo stato di stress causate dalla diminuzione (attività di erogazione) o dall’aumento (attività di iniezione) della pressione dei pori. Lo studio e il monitoraggio di una eventuale microsismicità associata all’esercizio dell’attività di stoccaggio può inoltre

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contribuire ad una migliore caratterizzazione del comportamento meccanico del reservoir.>> L’8 febbraio 2010 - quasi contemporaneamente al Protocollo stipulato tra il ministero dello Sviluppo economico e la Regione Lombardia - la Regione Emilia Romagna emanava un decreto di Giunta il cui contenuto sposava, di fatto, il parere tecnico di un pool di esperti, in merito alla pronuncia di compatibilità ambientale sul progetto di stoccaggio “Rivara”. Nell’allegato tecnico della delibera, si evidenziava che <<per sismicità indotta si intende solitamente la sismicità minore causata direttamente o indirettamente da varie attività antropiche, quali scavi minerari o tunnel, grandi laghi artificiali, estrazione di idrocarburi, o, infine, di campi idrotermali. Si può parlare in questi casi di sismicità realmente indotta e cioè di terremoti sostanzialmente di origine antropica, in quanto le tensioni crostali che generano i sismi è in gran parte attribuibile a cause non naturali (Eagar, 2006). Si tratta peraltro di terremoti piccoli, solitamente registrati solo dagli strumenti, i cui valori di magnitudo Richter variano da -2 a 3, per cui questa sismicità non è in grado di provocare danni alle costruzioni, anche se, con gli eventi più grandi, può arrecare disturbo alla vita dei residenti. Esiste però un altro tipo di sismicità indotta, dagli effetti molto più gravi, che è corretto chiamare sismicità attivata.

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In questo caso si tratta di sismi grandi e distruttivi, causati da stress tettonici accumulatisi in centinaia di anni, ai quali le attività antropiche danno l’ultima e decisiva spinta, scatenando la rottura catastrofica delle rocce crostali. Questi sono sismi che avverrebbero ineluttabilmente prima o poi, ma che, verificandosi in concomitanza temporale e spaziale con un’attività umana ben definita, sono ad essa direttamente riconducibili. Utilizzando un concetto storiografico, è possibile in questo caso parlare dell’attività tettonica naturale come causa remota del terremoto e dell’intervento antropico come causa prossima […] La sismicità attivata è l’espressione più pericolosa della sismicità indotta. Poiché essa si verifica a causa dell’attivazione di strutture tettoniche in cui la concentrazione di tensioni è già indipendentemente alta, essa può essere evitata solo escludendo ogni attività antropica potenzialmente sismogenica attorno ad esse […] Dal punto di vista degli interventi antropici che possono potenzialmente attivare la sismicità naturale, questo obbliga cautelativamente a mantenersi ad una distanza dalle strutture attive tale da potere escludere ogni interazione. In pratica, nel caso più comune al mondo e tipico di tutto il territorio italiano, in cui le strutture sismogeniche sono sepolte e non sono note con precisione, ogni perturbazione antropica allo stato di tensioni

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crostali che vada al di là dell’intervallo naturale di variazione o che comunque non faccia parte della storia pregressa del sistema ed abbia una ragionevole certezza di non sismogenicità, va valutata con estrema cautela.>> Dopo una seria analisi sul comportamento del sito di Rivara, oggetto di studio, il pool nelle conclusioni scrive che <<a fronte delle numerose e rilevanti incertezze appena descritte è indispensabile inoltre registrare il determinante grado di consapevolezza che emerge dalle elaborazioni progressivamente compiute per quanto riguarda le condizioni di criticità derivanti dalla presenza, nell’area interessata dal progetto, di strutture sismotettoniche attive, con le potenziali aggravanti conseguenze che ciò può comportare in termini di sismicità indotta.>> Il progetto ottenne parere negativo. GLI STUDI SULLA SISMICITÀ INDOTTA IN ITALIA Già dal 2010 si conosceva uno studio dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia sulla sismicità indotta in Val d’Agri, la valle del petrolio lucana. Lo studio, datato 2009, indagava gli eventi causati in Basilicata dalla reiniezione delle acque reflue di produzione petrolifera. Veniva, inoltre, affrontato il caso dell’Olanda, dove su quasi tutto il territorio nazionale la maggiore pericolosità sismica è data da eventi indotti e non tettonici derivanti


dai campi di giacimento on-shore (a terra) di Groninbergh. Il governo olandese ha condannato le multinazionali Shell ed Exxon a pagare ai cittadini un risarcimento pari a 1,2 miliardi di euro per i danni provocati ad oltre 30 mila case. È solo con il terremoto del 2012 in Emilia Romagna che la questione della sismicità indotta è divenuta di dominio pubblico. Dopo molti dubbi, accentuati dalle proteste delle popolazioni locali, il governo Monti nominò una Commissione di esperti internazionali denominata Ichese (International commission on hydrocarbon exploration and seismicity in the Emilia Region), per far luce sulle possibili cause del terremoto emiliano e il possibile collegamento con le attività antropiche. La commissione Ichese avrebbe dovuto rispondere, sostanzialmente, a due quesiti: 1) è possibile che la crisi emiliana sia stata innescata dalle ricerche nel sito di Rivara, effettuate in tempi recenti, in particolare nel caso siano state effettuate delle indagini conoscitive invasive, quali perforazioni profonde, immissioni di fluidi […]?; 2) è possibile che la crisi emiliana sia stata innescata da attività di sfruttamento o di utilizzo di reservoir, in tempi recenti e nelle immediate vicinanze della sequenza sismica del 2012? La storia della commissione Ichese - e della pubblicazione del rapporto - è alquanto grottesca, a causa di presunti conflitti di interesse e, soprattutto, per

il fatto che le conclusioni sono state tenute nascoste al pubblico, fino a quando il giornalista della rivista internazionale Science, Edwin Cartlidg, nell’aprile del 2014, pubblicò il rapporto la cui stesura era terminata due mesi prima. Edwin Cartlidg dichiarò di aver ricevuto pressioni per non pubblicare l’articolo. Lo stesso giornalista dichiarò di aver ricevuto pressioni per non pubblicare l’articolo. La commissione Ichese ritiene <<altamente improbabile che le attività di sfruttamento di idrocarburi a Mirandola e di fluidi geotermici a Casaglia possano aver prodotto una variazione di sforzo sufficiente a generare un evento sismico “indotto”. L’attuale stato delle conoscenze e l’interpretazione di tutte le informazioni raccolte ed elaborate non permettono di escludere, ma neanche di provare, la possibilità che le azioni inerenti lo sfruttamento di idrocarburi nella concessione di Mirandola possano aver contribuito a “innescare” l’attività sismica del 2012 in Emilia.>> Proprio nel <<non permettono di escludere, ma neanche di provare>> che sorge il più grande dilemma scientifico, dove si è innescato lo scontro tra compagnie petrolifere, tecnici, ambientalisti, comitati e comunità locali. È in questa fase che nasce la distinzione tra sismicità indotta e sismicità innescata (<<Un terremoto innescato è un particolare tipo di terremoto tettonico, nel quale piccoli effetti

prodotti da attività umane hanno anticipato il momento in cui il terremoto sarebbe avvenuto e pertanto è ancora più difficile da trattare. Più semplice è il caso della sismicità indotta, in quanto le azioni umane hanno una influenza significativa; pertanto possono essere studiate variazioni nelle metodologie operative utilizzabili per abbassare significativamente la probabilità di questi eventi.>>) e l’apertura ad una serie di suggerimenti operativi, come i <<sistemi di monitoraggio con livelli crescenti di allarme (i cosiddetti sistemi a semaforo) sono in effetti stati sviluppati e applicati solo per casi di sismicità indotta.>>; <<La sismicità indotta e innescata dalle attività umane è un campo di studio in rapido sviluppo, ma lo stato attuale delle conoscenze, e in particolare la mancanza di esperienza in Italia, non premette la elaborazione di protocolli di azione che possano essere di uso immediato per la gestione del rischio sismico. Ha quindi carattere prioritario lo sviluppo delle conoscenze attraverso l’acquisizione di dati dettagliati, alcuni dei quali devono essere forniti dagli operatori, e attraverso una ricerca che possa migliorare la conoscenza delle relazioni tra operazioni tecnologiche e sismicità innescata. Potrebbero essere studiati casi di sismicità nelle immediate vicinanze di campi di sfruttamento di idrocarburi, quali ad esempio quello di Caviaga (1951) e di Correggio

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(1987-2000) e probabilmente anche altri, eventualmente utilizzando le metodologie applicate in questo rapporto dalla Commissione. Sarebbe necessario analizzare in dettaglio sia la sismicità che i parametri di produzione, ed è essenziale avere informazioni su più di un caso per poter sviluppare strumenti utili alla gestione del rischio, quale ad esempio i sistemi a semaforo.>> Nel suggerire il sistema a semaforo la commissione Ichese indirizza anche sul modello di analisi del monitoraggio. Infatti, viene specificato che <<le attività di sfruttamento di idrocarburi e dell’energia geotermica, sia in atto che di nuova programmazione, devono essere accompagnate da reti di monitoraggio ad alta tecnologia finalizzate a seguire l’evoluzione nel tempo dei tre aspetti fondamentali: l’attività microsismica, le deformazioni del suolo e la pressione di poro.>> LO SCONTRO NEL MONDO SCIENTIFICO Le conclusione a cui giunse la commissione Ichese non furono validate dall’Ingv. L’Istituto, massimo ente di ricerca italiano in materia validò solo il modello, ma non i risultati finali. Su questo punto e sulla composizione della commissione formata da esperti internazionali pagati dall’Eni nacque lo scontro anche tra personalità di spicco del mondo scientifico, tra cui il sismologo Enzo Boschi - ex presidente, per

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22 anni, dell’Ingv ed ex membro della Commissione ministeriale Grandi Rischi - che affermò che <<ci trovavamo insomma nella classica situazione italiana di controllati che si controllano da soli per star sul sicuro>>, aggiungendo anche che <<non dimentichiamo mai che a causa dei terremoti del 2012 ci fu un considerevole numero di vittime. E che la successiva creazione della commissione Ichese, con tutto quello che ne seguì, servì soprattutto a distrarre l’attenzione da responsabilità politiche e scientifiche del tutto evidenti.>> Già subito dopo il terremoto emiliano, ancora in assenza della commissione Ichese, il ministero dell’Ambiente si adoperò per trovare soluzioni alla questione assai complessa della sismicità indotta e delle attività antropiche. Il 27 luglio 2012, appena due mesi dopo il sisma, la commissione ministeriale nazionale per la Valutazione d’impatto ambientale emanò parere per la concessione dello stoccaggio di Sergnano, in provincia di Cremona, per un aumento in sovrappressione al 105 per cento rispetto alla pressione statica di fondo del giacimento. In questo parere la commissione emanò la seguente prescrizione: <<qualora la sismicità indotta superi magnitudo 3,0 considerando l’epicentro all’interno di un’area definita di raggio uguale a dieci chilometri attorno alla tesa del pozzo, la pressione

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di esercizio massima e la frequenza del ciclo di iniezione e di estrazione dovranno essere ridefinite in modo da riportare le magnitudo al di sotto di tale valore.>> La prescrizione divenne parte integrante del decreto ministeriale del 15 ottobre 2012; decreto impugnato da comitati davanti al Tribunale amministrativo nel nome del Principio di precauzione. Anche la Regione Lombardia, il 19 dicembre 2014, emanò un decreto di Giunta contro l’ampliamento della capacità di stoccaggio di Sergnano: <<il diniego all’incremento della capacità di stoccaggio della concessione Sergnano è stato deciso in applicazione del principio generale di precauzione, considerate le elevate capacità di stoccaggio oggi presenti in Lombardia e, in particolare, nella provincia di Cremona, di assoluta rilevanza e tali da richiedere una particolare attenzione ai fini della valutazione degli effetti dell’attività nell’ambiente circostante relativamente alla sismicità indotta/ innescata>> e, inoltre, <<in base agli esiti dello studio condotto dalla commissione Ichese […] i terremoti si possono distinguere in indotti, nei quali uno sforzo esterno, prodotto da attività antropiche, è sufficientemente grande da produrre un evento sismico in una regione che non era necessariamente sottoposta a un campo di sforzi tale da poter generare un terremoto in un futuro ragionevolmente prossimo


(in senso geologico) e terremoti innescati, per i quali una piccola perturbazione generata dall’attività umana è sufficiente a spostare il sistema tettonico da uno stato quasi-critico ad uno stato instabile. La condizione necessaria perché questo meccanismo si attivi è la presenza di una faglia già carica per uno sforzo tettonico, vicina a un sito dove avvengono azioni antropiche, dove vicina può significare anche decine di chilometri di distanza, a seconda della durata e della natura dell’azione perturbante.>> Questa delibera regionale è stata un bel colpo all’intero sistema degli stoccaggi e una grande vittoria, seppur momentanea, per i comitati ambientalisti. Prescrizioni simili a quelle di Sergnano vennero applicate in tutti i decreti successivi per gli stoccaggi italiani, tra cui Bordolano in provincia di Cremona. Anche l’Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale (Ispra), nel giugno del 2014, ha redatto il “Rapporto sullo stato delle conoscenze riguardo alle possibili relazioni tra attività antropiche e sismicità indotta/innescata in Italia”, scaturito dal tavolo di lavoro composto - con la stessa Ispra - da dipartimento di Protezione civile, ministero dello Sviluppo economico, Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) e Istituto nazionale di oceanografia e geofisica sperimentale di Trieste (Ogs), istituito su suggerimento della commissione Ichese, con

decreto del ministero dello Sviluppo economico, datato 27 febbraio 2014. SISMICITÀ PROVOCATA DA ESTRAZIONE DI IDROCARBURI, ATTIVITÀ DI DIGHE, REINIEZIONI DI ACQUE REFLUE IN UNITÀ PROFONDE E GEOTERMIA Alcuni studi su episodi di sismicità indotta e sismicità innescata sono stati condotti in Italia, in passato, anche da ricercatori di enti pubblici o privati non partecipanti al tavolo di lavoro che ha redatto il Rapporto dell’Ispra. Un aspetto interessante emerso è l’accento posto sul ruolo del monitoraggio e delle banche dati disponibili. Viene infatti enunciato che <<a fronte della disponibilità di dati, informazioni prodotte e infrastrutture di monitoraggio e ricerca tecnologicamente avanzate, precedentemente elencati, resta irrisolto in Italia il problema della difficoltà di accesso ad alcune tipologie di informazioni legate alle attività di esercizio (volumi e pressioni di iniezione di fluidi, livelli di invaso) e del relativo monitoraggio effettuato con reti gestite dalle società. Talvolta tali dati sono addirittura impossibili da reperire in quanto dispersi o non preservati. Tali informazioni, fondamentali per consentire lo sviluppo di ricerche indipendenti sul tema della sismicità indotta e sismicità innescata da attività antropica, sono talvolta rese disponibili dai gestori solo nell’ambito di specifici progetti di monitoraggio

e/o ricerca. Appaiono quindi estremamente opportune azioni, incluse quelle di tipo normativo, volte a raccogliere, organizzare, preservare e rendere disponibili tali dati, come quelle previste nelle linee guida in via di definizione da parte del gruppo di lavoro “per la definizione di indirizzi e linee guida per il monitoraggio della microsismicità, delle deformazioni del suolo e della pressione di poro nell’ambito delle attività antropiche” istituito dal Ministero dello sviluppo economico.>> Il 24 novembre 2014 il gruppo di lavoro costituito nell’ambito della Commissione per gli idrocarburi e le risorse minerarie ha consegnato un documento contenente indirizzi e linee guida per il monitoraggio della microsismicità, delle deformazioni del suolo e della pressione di poro nell’ambito delle attività antropiche, predisposte in base ai più alti livelli di sviluppo e conoscenza attualmente disponibili. Le linee guida, sviluppate per il monitoraggio delle attività di coltivazione di idrocarburi e stoccaggio sotterraneo di gas naturale, potranno essere applicate, attraverso opportuni adattamenti, anche a tutte le attività antropiche che interessano grandi bacini artificiali, attività geotermiche, stoccaggio sotterraneo di CO2, estrazioni minerarie e più in generale attività di sottosuolo. Queste linee guida sono diventate parte integrante e strumento scientificamente provato

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con indirizzo direttorio del decreto-legge “Sblocca Italia”, nel marzo 2015. L’INDIRIZZO DELLE LINEE GUIDA Le linee guida <<hanno l’obiettivo di definire gli standard iniziali di osservazione degli effetti delle attività antropiche a seguito di operazioni di reiniezione di fluidi nel sottosuolo (acque di strato) e di estrazionestoccaggio di idrocarburi e, in particolare, di stabilire le procedure e i protocolli di monitoraggio, includendo tra questi le modalità di analisi dell’evoluzione spazio-temporale di alcuni parametri descrittivi della sismicità, della deformazione del suolo e della pressione di poro. Tali standard dovranno essere aggiornati e perfezionati mediante una fase sperimentale su casi pilota rappresentativi di diverse casistiche, prima di una loro applicazione generalizzata.>> Per quanto riguarda le finalità, invece, si evince che <<mediante il monitoraggio sismico si intende individuare e localizzare la sismicità in un volume circostante il luogo delle attività antropiche, con l’obiettivo di distinguere la sismicità naturale da quella eventualmente causata da tali attività. Il monitoraggio deve consentire di seguire l’evoluzione spazio-tempomagnitudo della sismicità al fine, ove occorra, di rimodulare o, nei casi previsti, di sospendere le attività stesse. Mediante il monitoraggio delle

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deformazioni del suolo si intende identificare eventuali fenomeni di deformazione superficiale legati alle attività in esame, per misurarne e analizzarne le variazioni spazio-temporali rispetto alle condizioni di fondo. Con il monitoraggio delle pressioni di poro (o di giacimento) si intende misurare la pressione a fondo pozzo ed effettuare eventuali prove di interferenza con pozzi limitrofi, allo scopo di verificare il modello fluidodinamico del sottosuolo interessato dalle attività antropiche e valutare l’evoluzione nello spazio e nel tempo delle pressioni.>> ATTIVITÀ ANTROPICHE ONSHORE Le linee guida sono state elaborate per attività antropiche onshore, come lo stoccaggio sotterraneo di gas, la reiniezione di fluidi e la coltivazione di idrocarburi, ma, come specifica il documento stesso, possono essere applicate anche per geotermia, invasi idrici, stoccaggio di CO2, scavi di tunnel ed estrazioni minerarie. Il monitoraggio viene diviso, invece, tra sismicità indotta e sismicità innescata e vengono creati dei domini di rilevazione della sismicità indotta. Un dominio interno di rilevazione per le attività di stoccaggio da misurare in un raggio di 2-3 chilometri attorno al giacimento, che diventano di 3 chilometri per le estrazioni e di 8 chilometri per la reiniezione di fluidi. Dopodiché c’è

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un dominio esteso di rilevazione per la sismicità innescata, dove per tutte le attività si chiede il monitoraggio di un ulteriore raggio dai 5 ai 10 chilometri. Questa definizione di domini discende da dati di letteratura scientifica: la maggior parte della sismicità indotta avviene attorno ai giacimenti. Importante per queste linee guida sono la caratterizzazione geologica, strutturale e sismotettonica dell’area di monitoraggio, dove devono essere previste sismiche 3D del sottosuolo, modelli stratigrafici 3D con profondità di almeno 3 volte i pozzi di produzione e iniezione, l’individuazione di eventuali faglie attive entro 3 chilometri o prossime entro 15 chilometri al giacimento, più molte altre prescrizioni geologiche. Le reti di monitoraggio previste devono avere una sensibilità elevata in grado di percepire sismi di magnitudo da 0 a 1 e con incertezza di localizzazione di ipocentro di alcune centinaia di metri. In base all’elaborazione di dati tra magnitudo registrate e parametri di iniezione e produzione, oltre ad altri dati geologici sulla deformazione del suolo e sulla pressione di poro, deve essere predisposto il famoso - e prescritto - “sistema a semaforo”, dove si passa dal livello 0 “ordinarietà” al livello 1 “attenzione”, al livello 2 “riduzione delle attività”, al livello 3 “sospensione delle attività”.


IL SISTEMA A SEMAFORO Ed è proprio il sistema decisionale del tipo a semaforo che prevede procedure volte a intraprendere delle azioni associate a diversi livelli di attivazione definiti sulla base di valori di soglia dei parametri monitorati. Ovviamente, cosa non del tutto chiara in termini di trasparenza dati e possibili conflitti di interesse, deve essere prevista una struttura preposta al monitoraggio che supporti il ministero dello Sviluppo economico nella gestione, nell’analisi e nell’utilizzo dei dati di monitoraggio. Non è del tutto chiaro il rapporto che debba instaurarsi tra la struttura preposta al monitoraggio e il gestore concessionario. Il sistema a semaforo prevede anche casi importanti da analizzare in termini

di rischi e competenze pubbliche. Infatti, nel caso in cui dovesse verificarsi un livello 2 del semaforo e questo - attraverso la riduzione delle attività non dovesse determinare una variazione dei livelli dei parametri compatibile con il livello inferiore, oltre alla sospensione delle attività, verrebbe attivata la fase 3, ovvero la gestione straordinaria di variazioni nei parametri monitorati. In tal caso l’operatore dovrebbe tempestivamente avvisare l’Unmig e la Regione. Il ministero dello Sviluppo economico, ricevuta immediata comunicazione dall’Unmig dovrebbe informare il dipartimento della Protezione civile nazionale, che attiva i propri organismi scientifici e operativi per i seguiti di competenza ai

sensi della legge n.225/1992. Tale caso rientra in quanto previsto dall’articolo 5. A tutti gli effetti viene prevista la possibilità di far scattare poteri di emergenza e di ordinanza di protezione civile a causa di attività antropiche che possono indurre o innescare terremoti. Questo sistema economico, con lo sfruttamento delle fonti fossili, preferisce il profitto con rischi inestimabili piuttosto che la precauzione e la ridiscussione di un modello di sviluppo economico ed energetico differente. Vale veramente la pena giocare con le forze della natura pur di stoccare gas per fare il famigerato hub e corridoio energetico sud europeo?

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CONTROCOLTURE

IL BUSINESS DELL’ORO ROSSO

DI NICO CATALANO

Dai primi arresti in applicazione della legge sul contrasto ai fenomeni del lavoro nero e del caporalato (la numero 199 del 2016), al caso dei lavoratori stagionali di Turi, in provincia di Bari. Un viaggio attraverso i mille volti del caporalato pugliese, tra i campi destinati alla raccolta di ciliegie.

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Sono sette le ordinanze di custodia cautelare emesse lo scorso giugno dalla Procura della Repubblica di Brindisi. Pedinamenti, intercettazioni ambientali e video dei Carabinieri svelano le dinamiche del caporalato in Puglia. Tra i reati contestati figura il concorso per intermediazione illecita e sfruttamento pluriaggravato del lavoro. Quattro delle persone arrestate sono accusate di aver organizzato il reclutamento illegale di manodopera per conto di un’impresa ortofrutticola di Turi, in provincia di Bari. Le lavoratrici, tutte brindisine e tarantine, accettavano di raccogliere ciliegie e uva da tavola lavorando nelle campagne del barese per tredici ore consecutive in cambio di una paga di 35 euro al giorno. Ben al di sotto di quella stabilita dal contratto provinciale. Gli altri tre arresti sono collegati a un’impresa agricola di Ostuni che recluta braccianti. Le donne erano costrette a lavorare

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per oltre dieci ore al giorno. Spesso dalle tre del mattino a mezzanotte nei campi di Polignano a Mare, in provincia di Bari. Obbligate persino a versare ai caporali 10 euro a testa per ogni giornata lavorativa, a titolo di rimborso spesa per il trasporto. LA PUGLIA DEI CAPORALI Nei fascicoli d’inchiesta emergono nitide le difficili condizioni di vita, la povertà e gli stenti delle braccianti. Sfruttate da individui senza scrupoli per via della loro fame di lavoro. Donne definite, dal giudice per le indagini preliminari, Maurizio Saso, <<vittime inermi e incapaci di reagire, costrette ad accettare le dure condizioni imposte dai caporali per il loro grave stato di indigenza>>. Manca un serio sistema di protezione sociale. Il ruolo della politica dovrebbe essere quello di individuare un piano strategico di lungo respiro, che veda coinvolte istituzioni pubbliche, imprese


O private e parti sociali per eliminare queste sacche di indigenza. Affinché nessuno debba essere più costretto, per vivere, ad accettare le imposizioni dei caporali. Poi c’è la legge n.199/2016 (“Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo”). Il provvedimento legislativo - varato dal governo Renzi nell’autunno 2016 dopo le pressioni dell’opinione pubblica, le manifestazioni sindacali e di una parte del mondo intellettuale che dovrebbe contrastare il caporalato in maniera efficace. <<La nuova legge - ha dichiarato alla stampa il sostituto procuratore di Brindisi, Raffaele Casto ha segnato un’autentica svolta nella repressione del caporalato. Grazie all’uso di intercettazioni telefoniche e ambientali nelle attività investigative, stiamo arrivando a risultati

ottimali. A ciò va aggiunta la previsione di pene severe, come nei casi in questione. Si va dai sette anni e sei mesi fino ai dodici di reclusione>>. Il dispositivo, tuttavia, è stato utilizzato a più riprese come pretesto per cavalcare il malcontento dei piccoli produttori agricoli. Da anni strozzati, a loro volta, da azioni internazionali di dumping speculativo. In primis, sui prezzi dei prodotti agricoli e delle materie prime nel mercato globale. Una guerra degli ultimi contro i penultimi. Con i produttori che rispondono ai bassissimi prezzi “alla pianta” imposti dalla grande distribuzione - generando reddito attraverso una compressione del fattore lavoro. E delle relative garanzie. FLASH DALLA TENDOPOLI DI TURI È sera presso la tendopoli di Turi, in provincia di Bari. Una decina di tende da campeggio, distribuite

nei pressi del cimitero per scelta dell’amministrazione e delle istituzioni responsabili di sicurezza, igiene e ordine pubblico, circondano le quattro canadesi trasportate fin qui dalla Protezione civile regionale. Insieme ai bagni chimici. Qui vivono stipati i lavoratori stagionali. Qui, ogni anno, i braccianti si piegano alle regole imposte dal business delle ciliegie. Il business dell’oro rosso. <<Dormiamo in dodici in una tenda grande e in cinque o sei in una di quelle piccole. Non si può vivere così. Ma qui stiamo bene, meglio che a Foggia. Lì tutto è più brutto. E più pericoloso>>. Assad è un giovane tunisino che da anni vive e risiede in Campania. Accanto a lui, Mohammed aggiunge: <<Ho moglie e tre figli ancora minorenni. Il più grande gioca a calcio negli allievi del Sassuolo. È una giovane promessa. Per mantenerli faccio il bracciante stagionale. A fine marzo comincio con la raccolta

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delle arance in Calabria. Poi le ciliegie, le angurie e i pomodori a Nardò. Poi ancora i pomodori a Foggia e a Palazzo San Gervasio, in Basilicata. Per poi tornare in Puglia a raccogliere l’uva a Noicattaro. A novembre, dopo aver finito la raccolta delle olive a Terlizzi, torno dalla mia famiglia a Modena. E cerco un lavoro per l’inverno>>. Mohammed si è trasferito in Italia quindici anni fa. Ha lasciato il Marocco alla ricerca di un riscatto, per sé e per la propria famiglia. <<Prima di essere licenziato - ricorda - lavoravo in un’azienda metalmeccanica di Formigine, in provincia di Modena. Lì ancora vivo con la mia famiglia. Stavo bene, avevo una paga fissa mensile. Riuscivamo a vivere, con qualche sacrificio. Poi è arrivata la crisi. Ora sono un bracciante, come gli altri>>. Spaccati di barbarie. Storie di lavoro, di sacrifici, di miseria. Come quella di Karim. <<Prendo 40 euro per sette ore di lavoro al mattino. Più 18 euro per tre ore nel pomeriggio. Questi soldi mi servono. In Marocco ho la mia famiglia e mia madre ha bisogno di cure. Ma non voglio che a casa sappiano che qui vivo come un animale. Che mangio e dormo a terra, in una tenda. >> Ibrahim, invece, sventola orgoglioso il suo documento d’identità. È un cittadino italiano a tutti gli effetti. <<Ho 19 anni. I miei si sono trasferiti in provincia di Taranto più di vent’anni fa. Oggi faccio il bracciante perché non riesco a trovare lavoro in altri

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settori. Spesso mi capita di discutere con gli italiani e di spiegare loro che non sono un profugo, bensì uno stagionale. Sono uno di loro. Un lavoratore che contribuisce ad aumentare il prodotto interno lordo pugliese e che come tale merita rispetto.>> Turi conta oltre 13 mila abitanti. Ed è il principale centro cerasicolo del sudest della provincia di Bari. Considerato la capitale italiana della ciliegia, con oltre 3.800 ettari occupati da questa coltivazione, e con una produzione stimata attorno alle 15 tonnellate l’anno. Tutta in gran parte destinata all’esportazione estera, Germania in testa. Il business si sviluppa a partire dai primi giorni di giugno. Ogni anno, sempre uguale. Ciliegie pagate al produttore intorno ai 2 euro al chilo - se tutto va bene - vengono rivendute nei mercati dell’Italia settentrionale o dell’Europa, fino a 12 euro al chilo. Polverizzazione e dispersione con conseguente frammentazione dell’offerta. Abbinata a uno spiccato individualismo. Tutti fenomeni che non hanno mai favorito nel tempo la nascita, in loco, di associazioni o cooperative di settore. L’ORO ROSSO DEL SUD-EST BARESE Quasi il 60 per cento della superficie pugliese viene coltivata a ciliegio. Circa 17 mila ettari, con una produzione pari al 35 per cento sulla media nazionale. Con 8 mila imprese cerasicole su un

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totale di 25 mila insediate in tutta Italia. Il cuore della roccaforte pugliese della ciliegia è il comprensorio di Turi, Conversano, Sammichele di Bari, Casamassima e Castellana Grotte. La cultivar che la caratterizza è la “Ferrovia”. Ritenuta - secondo alcune ricerche condotte negli anni Sessanta dal professore Giacinto Donno della Facoltà di Agraria di Bari - originaria proprio di Turi. La denominazione di eccellenza “Ciliegia Ferrovia di Turi” compare fin dagli anni Settanta. Oggi viene considerata l’oro rosso pugliese. Un vero e proprio fiore all’occhiello per le multinazionali di settore. LA LONGA MANUS DELLE MULTINAZIONALI Il fenomeno del parttime farming prevede che i conduttori/proprietari dei terreni - che spesso gestiscono aziende ereditate da nonni e genitori - non risultino coltivatori diretti a titolo principale, bensì semplici impiegati in altri settori produttivi. Il meccanismo, ormai dilagante, serve per ottenere un reddito che integri quello percepito dall’occupazione principale. Questi produttori - a differenza di quelli occupati in full-time farming agiscono sul mercato per ottenere il massimo risultato economico con il minimo impegno. E quindi preferiscono accettare i disciplinari di elaborazione, trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli preparati da aziende private legate


alle multinazionali della grande distribuzione organizzata. Una volta creato il contatto, il prodotto viene conferito alle condizioni di prezzo da queste stabilite. Il contratto provinciale di lavoro agricolo - firmato presso la Prefettura di Bari dalle organizzazioni datoriali e dai sindacati dei lavoratori - all’articolo 24 stabilisce che è dovere del datore di lavoro trovare alloggio ai lavoratori stagionali che risiedono in luoghi distanti dai campi. Ma questo non si verifica quasi mai. E sono le istituzioni locali a doversi fare carico di dare un alloggio dignitoso a diverse decine di braccianti stagionali. TURI MON AMOUR Le dinamiche del lavoro stagionale dovrebbero essere gestite a livello centrale e periferico. È difficile per un ente locale - penalizzato dai pareggi di bilancio e dai tagli imposti dalle politiche di austerità - risolvere in solitudine un problema di tale portata senza una programmazione regionale in materia. Il caso di Turi, perno portante della cerasicoltura pugliese, è eclatante. <<Le persone che vengono qui per lavorare sono bene accette, a prescindere dal colore della pelle. Dalle nostre parti la manodopera scarseggia e gli stagionali sono ottimi lavoratori>>. A parlare è Angelo Palmisano, giovane e valente produttore turese, proprietario di decine di ettari di terreno coltivati a ciliegio. Che cura

direttamente, con l’ausilio di manodopera stagionale. Ed è l’ex assessore all’Agricoltura al Comune di Turi. <<Personalmente ritengo che i proprietari di terreni dovrebbero garantire ai lavoratori stagionali almeno l’alloggio. Così come prevede il contratto provinciale del lavoro. Anche in cambio di un affitto moderato. Io lo faccio con piacere per coloro i quali lavorano con me. In generale c’è molta diffidenza. Si arriva facilmente a situazioni emergenziali agevolate da mancanza di organizzazione e di gestione di un fenomeno atavico. Come nel caso della tendopoli d’emergenza allestita quest’anno nei pressi del cimitero. Con gente che dorme, mangia e vive in una tenda>>. Per Lavinia Orlando, vicesindaco del Comune di Turi, la soluzione della tendopoli resta ottimale e migliorativa rispetto agli anni precedenti. Quando <<i lavoratori stagionali dormivano, mangiavano e si lavavano per strada. E gli episodi di intolleranza erano all’ordine del giorno. Oltre alle conclamate problematiche igienicosanitarie. Oggi è stata allestita una tendopoli con il supporto della Protezione civile. Certo, c’è ancora tanto da fare. Ma purtroppo questo è un problema che va al di là delle possibilità di gestione di un ente locale. La verità è che siamo stati lasciati soli. Sia dai datori di lavoro e produttori, sia dalla politica che conta>>. Quella regionale, s’intende. Che dovrebbe

entrare nell’ottica che quello del lavoro stagionale è un fenomeno ciclico. Ma soprattutto è fondamentale per la tenuta dell’economia regionale. <<Questi lavoratori hanno almeno un posto in cui dormire. Delle tende e delle brandine. E la possibilità di utilizzare gratis l’acqua potabile per bere e lavarsi, di accedere ai servizi elementari. L’amministrazione dichiara ancora il vicesindaco Orlando - si è dovuta sostituire a chi per contratto ha l’obbligo di fornire un alloggio. In primis, alla Regione Puglia che anche quest’anno ha affrontato il fenomeno con un certo lassismo, nonostante le nostre sollecitazioni. Già dall’ottobre del 2016 chiedevamo all’istituzione regionale di implementare un serio piano di programmazione per gestire il fenomeno. La Regione ci ha detto che verserà un contributo di 10 mila euro a fronte di un parziale rimborso per le spese sostenute. Come se una cifra simile potesse di per sé risolvere il problema>>. Ma chi dovrebbe garantire che i contratti di lavoro vengano rispettati? E a vantaggio di chi va il disinteresse dei datori di lavoro per il rispetto degli obblighi contrattuali nei confronti degli stagionali? Attualmente i costi di gestione del fenomeno ricadono sulla collettività. La politica che conta è sempre più lontana dalle realtà locali. Persino da quei territori in cui le dinamiche del lavoro stagionale sono conclamate.

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MULTINAZIONALI

L’AUTUNNO CALD DEL CETA

DI FRANCESCO PANIÉ

Come una tregua forzata, l’estate è intervenuta a rallentare la corsa del Parlamento italiano alla ratifica del Ceta (Comprehensive economic and trade agreement), il trattato di libero scambio tra Canada e Unione europea. Un “cessate il fuoco” strappato dalle organizzazioni della società civile con intense pressioni su deputati e senatori. Dopo l’entrata in vigore provvisoria del 21 settembre, il Senato ha rinviato a data da destinarsi la ratifica del trattato.

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I promotori del Ceta stanno raccogliendo le forze per un nuovo assalto da lanciare entro novembre. L’autunno, infatti, rappresenta l’ultima finestra utile per inserire il trattato CanadaUe all’ordine del giorno, almeno in Senato, dove a luglio è stato bloccato in extremis con una sollevazione popolare e due mobilitazioni a Roma. Una mezza sconfitta per il governo che, con la benedizione del presidente della Repubblica, sperava di ottenere subito la ratifica del trattato commerciale almeno in uno dei due rami del Parlamento. Decisione che non è ancora arrivata nemmeno nel mese di settembre. Il Senato, infatti, ha posticipato a data da destinarsi l’approvazione del Ceta. Solo Lettonia, Danimarca e Spagna hanno completato l’iter di un accordo approvato a febbraio al Parlamento europeo. Francia e Germania, invece, stanno prendendo tempo: il premier francese Emmanuel

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Macron ha dovuto affidare ad un gruppo di esperti la valutazione di sostenibilità dell’accordo, mentre la cancelliera tedesca Angela Merkel non ha alcuna intenzione di forzare la mano su un argomento tanto controverso con le elezioni alle porte. L’ITALIA HA PROVATO L’ACCELERAZIONE A questo punto la testa sul ceppo del libero scambio ha deciso di metterla l’Italia, per dare al Canada un segnale della buona volontà dell’Unione europea di portare a termine quanto prima l’accordo. Per ora il tentativo non è riuscito: una coalizione di oltre 200 organizzazioni - la Campagna Stop TTIP Italia - insieme a Cgil e Coldiretti è riuscita a spaccare il fronte dei favorevoli, che coincide con la maggioranza parlamentare. Per non rischiare un voto troppo incerto il Senato ha deciso di fermare tutto e far passare l’estate. Il Ceta, comunque, dovrebbe


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entrare in vigore in applicazione provvisoria il 21 settembre: ciò significa che verranno implementati solo quei capitoli di competenza esclusiva dell’Europa. Il 98 per cento delle linee tariffarie cadrà (oggi solo il 25 per cento è duty free), mentre su altri punti chiave, di competenza concorrente tra Ue e Stati membri, bisognerà aspettare tutte le ratifiche nazionali. IL CASO DELLA CORTE PER GLI INVESTIMENTI (ICS) Quello della Corte per gli investimenti è un caso opaco. Alla ICS possono adire le imprese estere quando ritengono ingiuste le misure varate da uno Stato. Il sistema interferisce pesantemente con i sistemi giuridici nazionali, permettendo agli investitori esteri di aggirarli e ricorrere direttamente alla ICS, inoltrando richieste di compensazioni virtualmente illimitate. Dato l’impatto democratico di un simile dispositivo,

sarà necessario l’avallo dei parlamenti nazionali per renderlo effettivo. Dato l’utilizzo pretestuoso di meccanismi di arbitrato simili all’ICS negli ultimi 20 anni, l’opinione pubblica in Europa è fortemente critica rispetto al loro inserimento negli accordi di libero scambio. La scarsa trasparenza e i conclamati conflitti di interessi dei giudici, insieme allo sbilanciamento del sistema (gli Stati possono comparire solo come imputati), rappresentano motivo di preoccupazione circa l’equità delle sentenze. Se il reddito del giudice dipende dal numero di cause che dirime, e se queste cause possono essere intentate soltanto dal privato, non è dietrologico notare che vi sono tutti i presupposti affinché le aziende ottengano un trattamento di favore. Il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, ha sempre minimizzato la portata di questi rischi, sostenendo che dal Ceta

l’Italia e l’Europa avranno grandi benefici. Concorda con lui il ministro delle Politiche agricole, Maurizio Martina, sebbene buona parte degli agricoltori italiani siano sulle barricate. La spietatezza della matematica non aiuta i promotori del trattato: le stime della Commissione europea calcolano un aumento del Prodotto interno lordo grazie al Ceta pari allo 0,1 per cento in otto-dieci anni. Un dato che parla da solo. Ricerche indipendenti, che utilizzano il modello macroeconomico adottato dall’Onu, giungono a conclusioni ancora più preoccupanti: profetizzano la perdita di 200 mila posti di lavoro in Europa (42 mila in Italia), con un aumento della compressione dei salari. Le piccole e medie imprese, agricole e non che secondo i promotori dovrebbero aumentare le esportazioni grazie all’accordo con il Canada - per il momento non esistono: solo 13 mila

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imprese italiane su 4,2 milioni vendono oggi le loro merci oltreoceano, e le cifre presentate poco sopra, non sembrano delineare un futuro roseo per le piccole e medie imprese italiane, già in difficoltà per la concorrenza di aziende europee che operano nel mercato unico. In pochi hanno una gittata in grado di superare l’oceano, e l’avevano anche prima del Ceta. LE QUOTE DI IMPORTAZIONE DEL GRANO Il trattato ridefinisce anche le quote di importazione per alcune commodities, come il grano. Le 38 mila tonnellate annue che arrivano in Ue a dazio zero diventeranno 100 mila, con un potenziale tracollo dei produttori del Sud Italia. Sulla salubrità del grano canadese, inoltre, sono state sollevate critiche, vista la diffusione di una pratica proibita nel vecchio continente come il trattamento con glifosato in pre-raccolta per accelerare l’asciugatura delle spighe. Di fronte all’aumento della concorrenza di prodotti canadesi a basso costo e di bassa qualità, l’Ue non ha negoziato protezioni sufficienti: solo 173 indicazioni geografiche su circa 1.500 sono state inserite nell’accordo. L’Italia, che ne conta quasi 300, ha ottenuto tutela dalle copie canadesi solo per 41 di esse. Ma il Ceta è un argine piuttosto debole, perché consente ai produttori che già commercializzavano marchi italian sounding prima del 2013 di continuare a farlo indisturbati.

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OGM E PESTICIDI La stessa scarsa cautela si riscontra nel capitolo dell’accordo che contiene le disposizioni per la sostanziale equivalenza delle misure sanitarie e fitosanitarie, cioè, a voler sintetizzare, Organismi geneticamente modificati e pesticidi. Stando al Ceta, un prodotto potrà evitare di essere ricontrollato nel paese di destinazione se verrà dimostrata la sostanziale equivalenza con quelli commercializzati dalla controparte. Ma tale equivalenza deve essere valutato in base a criteri e linee guida che <<verranno definiti in un secondo momento>>, come si legge all’allegato 5D. Da chi e in che modo non è dato sapere. Un fatto che mina decisamente il principio di tolleranza zero in vigore nell’Ue sulle importazioni di Ogm per il consumo umano. LA LIBERALIZZAZIONE DEI SERVIZI PUBBLICI Con il Ceta si apre anche un nuovo fronte di liberalizzazione su scala internazionale dei servizi pubblici, perché quello tra Ue e Canada è il primo accordo in cui prevale l’approccio del cosiddetto <<elenco negativo>>: tutti i servizi, se non esplicitamente esclusi dai governi, saranno da considerarsi aperti a gara. Le esclusioni negoziate dall’Ue all’interno del Ceta, ad esempio, non tutelano completamente il servizio idrico.

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QUALI SONO I BENEFICI DEL CETA? MA, SOPRATTUTTO, SARANNO MAI IN GRADO DI COMPENSARE I RISCHI? Nonostante i promotori del trattato sostengano che non esista un partner migliore del Canada, è opportuno andare a fondo del testo. Il Paese nordamericano è stato oggetto di una recente ispezione dell’Onu per il mancato rispetto dei diritti dei popoli nativi a seguito delle operazioni minerarie. Inoltre, è ben lontano dai suoi obiettivi sul clima e non ha ancora ratificato le convenzioni numero 98 dell’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO) sul diritto di contrattazione collettiva, numero 138 sull’età minima per l’assunzione all’impiego e numero 155 su salute e sicurezza dei lavoratori.


TERRE DI MIGRANTI

L’ITALIA DI CHI VA E DI CHI VIENE

NON TORNARE DI LEONARDO PALMISANO

ASMA, UN MEDICO OLTRE LA FRONTIERA Asma è una giovane medico siriana. Il suo obiettivo, nella vita, è sempre stato quello di curare gli altri e di essere da esempio per le donne di Aleppo, la sua città. <<Ma ormai è tutto finito. Tutto finito>>, dice sommessamente, quasi in lacrime. Il suo presente è secco, lontano dalle sue ambizioni. <<Il viaggio mi ha alleggerito. Non ho più una missione, ma soltanto rimorsi e rimpianti.>> <<Perché?>>, le domando mentre passeggiamo per le strade assolate di un comune ligure. Asma è arrivata in Italia con la famiglia. O meglio, con quel che Assad ha lasciato in vita della sua famiglia. Gli altri sono sotto le macerie di Aleppo, con le mani artigliate ai calcinacci delle loro case crollate. <<Perché l’Italia è tanto strana. Sembra che nessuno mi voglia far fare il medico. Eppure non mi pare che la

vostra sanità stia messa bene.>> Annuisco. Questa giovane donna musulmana, con tanto di velo e timidezza mediorientale, ha imparato a sue spese quali sono le contraddizioni di questo Paese. Avere a disposizione una risorsa già formata e rifiutarne l’aiuto. <<Non si fa così. Il destino non può consentire tutto questo spreco!>>, esclama. <<Non parlare di destino agli italiani>>, la correggo. <<Noi ce l’abbiamo dentro il dna di non riconoscere quello che è ovvio. Ci dobbiamo sempre reinventare, ma per farlo dobbiamo aver toccato il fondo.>> Mi guarda, poi prende un quadernetto che porta sempre con sé e comincia e leggermi in arabo il giuramento di Ippocrate. <<Sai perché te l’ho letto nella mia lingua? Così capisci che la medicina è universale, è come la fede. A me sembra che l’Italia ha smesso di curarsi, perché non ha fede nella

medicina.>> <<Ha smesso di prendersi cura di sé, questo vuoi dire.>> Mi fa di sì con la testa. Di donne come lei, avremmo bisogno negli ospedali per vincere la diffidenza tra italiani e stranieri, in ogni direzione. Perché Asma potrebbe parlare nella sua lingua a tanti pazienti. Perché così facendo restituirebbe agli ammalati l’immagine di una sanità che accoglie. Non di un apparato che raccoglie ammalati come rifiuti per rovesciarli in corsie discarica di ospedale. <<Dovrò andarmene, per fare il medico. Ma non voglio, perché qui si può vivere bene. Voi non sapete come si sta dove c’è la guerra…>> La fermo, dicendole che la generazione di mio nonno sa cos’è la guerra. Ha conosciuto la dittatura quando aveva più o meno la sua età. <<Fammelo conoscere!>>, esclama festosa. Quasi mi commuove, con

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quel suo innato senso della vita. <<Ci proverò. Dovrai scendere in Puglia.>> E lei mi risponde che non è un problema. <<Vi vedo a parlare insieme…>> E mi fermo a riflettere. Forse anche questo, un racconto reciproco di quel che accadde e che sta accadendo, può essere un altro metodo per far sentire gli italiani meno lontani da tutte le Asma del mondo. Raccontarsi le tragedie per superarle. Perché in fondo è nella tragedia che l’umanità si è sempre riconosciuta. <<Mio nonno è molto malato>>, dico, e lei professionalmente mi domanda cos’ha e quanti anni ha. <<Tuo nonno deve aver lavorato molto, se sta così male.>> È così, infatti. Ha lavorato come un ciuccio. Ha sudato per mettere su una famiglia, quando al sudore corrispondeva un futuro, una prospettiva di certezza. <<Lavorerò anch’io come tuo nonno. Invecchierò e mi ammalerò, ma sarò soddisfatta perché avrò salvato tante vite>>, chiude molto sicura di sé. Sicura quanto mio nonno quando era ancora in piena salute. <<Ma non torneresti in Siria per fare il medico?>> <<Lo farei anche adesso, ma finché c’è Assad nessuno di noi tornerà. Lui promette amnistie e perdoni. Ma io cosa devo farmi perdonare, me lo spieghi? La mia sola colpa è stata di nascere in Siria, di avere un cervello e di studiare medicina>>, afferma con rabbia,

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stringendo i pugni. Annuisco comprensivo. Il suo è un pensiero che la accomuna a tanti italiani. Anche a tanti medici italiani. MARIA, SPECIALIZZANDA IN FRANCIA <<Ho scelto di specializzarmi in Francia perché pensavo che lì fosse diverso. Invece me ne pento.>> <<Prenderesti la specializzazione in Italia?>> <<Mai e poi mai. Lo farei in Canada. Lì sì che sanno come trattare gli specializzandi!>> Maria, giovane laureata in medicina, se n’è andata con l’intenzione di non tornare. Terminerà gli studi oltralpe… <<Dopo, si vedrà…>>, dice. Maria ha iniziato una specializzazione in anestesia infantile. Per farla in Italia avrebbe dovuto superare il filtro del numero chiuso e aspettare un numero imprecisato di anni. Ma soprattutto avrebbe dovuto sottostare al ricatto baronale dell’apparato medico universitario di Bari. <<Mi avrebbero fatto fare cose insensate. Io voglio fare il medico. Se volevo imparare a produrre scartoffie, facevo scienze politiche!>> E non ha torto. Quindi ha deciso di provare all’estero e, appena ricevuta una proposta dalla Francia, l’ha accettata. <<La Francia è un po’ più chiusa di come me l’aspettavo, ma mi ci adeguo. Non mi devo lamentare, perché ce la devo fare. Il solo modo per farcela è stringere i denti e

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andare avanti.>> <<Anche in Italia>>, provo a replicare. Sorride. <<In Italia? Hai capito che in Italia stanno smantellando la sanità pubblica? E chi ci andrà a lavorare nel privato? Amanti e figli, incapaci. Poveri italiani, che destino che li aspetta. Pagherete un sacco di soldi per una sanità privata che non funzionerà per niente.>> Le parole di Maria sono la copia fotostatica di un pezzo del dibattito pubblico nazionale. La tendenza a privatizzare la sanità è in atto, ma non si trova ancora una direzione che ponga equilibrio nel sistema. La sanità è tenuta sotto ricatto dal sistema universitario e da quello politico delle Regioni. Un assurdo connubio che devasta le risorse finanziare ed umane. È un gioco perverso che spinge i giovani aspiranti medici a scappare, a trasferirsi all’estero o, addirittura, a cambiare mestiere. <<Un mio amico, gastroenterologo molto bravo, ha mollato il Gemelli per andare a lavorare da una multinazionale. Gestisce le vendite dei farmaci. Che roba è questa? Come si può tollerare?>> Non si può, infatti. Non lo si può accettare. Ma chi è a conoscenza di questo disinvestimento nella sanità pubblica? Pochi italiani hanno capito a cosa stiamo andando incontro, mentre gli apparati medici e quelli finanziari cominciano a fregarsi le mani di fronte alla tendenza all’assicurazione privata.


<<C’è una cosa che funziona sempre, in Francia. Le regole. Loro hanno delle regole e le rispettano. E chi sbaglia, paga. In Italia hai i baroni che non entrano in corsia, le caposala che si sentono medici, i portantini che toccano materiale organico. Siamo a rischio infettivo ogni giorno. In Francia queste cose non accadono. Perché sono più bravi, c’è poco da fare. Sono più civili. E più sensibili alla malattia…>> <<Ma dalla Francia tu te ne vuoi andare.>> <<Perché in Canada c’è una medicina sperimentale che mi affascina. E per fortuna posso ancora scegliere dove andare e cosa fare.>> E dove non tornare: in Italia.

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DA “IL GIORNO DELLA CIVETTA” Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia... A me è venuta una fantasia, leggendo sui giornali gli scandali di quel governo regionale: gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno... La linea della palma... Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato... E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già, oltre Roma... LEONARDO SCIASCIA, 1961

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