Terre di frontiera / Gennaio 2017 - Numero 9 Anno 1

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Giungere alla conclusione che non ci sono differenze tra colpevole e vittima significa perdere ogni speranza. Ăˆ questo che si chiama inferno?

Milan Kundera

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l’editoriale

LA CURA DI PIETRO DOMMARCO

Il primo di anno di Terre di frontiera non si è ancora concluso. Il numero che state sfogliando è il penultimo delle prime dieci edizioni. In compenso, con alti e bassi, abbiamo già un 2016 da raccontare. Intanto, una vittoria l’abbiamo ottenuta: continuare ad esserci in questo 2017. Non era così scontato. Perché parlare di ambiente e di Sud non è facile. Soprattutto attraverso gli strumenti dell’approfondimento e dell’inchiesta giornalistica. Affrontando temi che troppo spesso non accomunano per sensibilità, sostegno ed interesse, in un particolare contesto storico, culturale e di comunità che ci divide, più di quanto dovrebbe unirci. Un panorama informativo, frammentario, particolarmente dedito a non calpestare i piedi

anziché metterli uno davanti l’altro per imboccare la strada della denuncia. Abbiamo raccontato, senza alcuna vergogna, un Mezzogiorno d’Italia svenduto ed avvelenato. Ma con la voglia di reagire. Abbiamo incontrato pochissima rassegnazione e, al tempo stesso, tantissima usurpazione. Di diritti negati, di democrazie tradite, di istituzioni latitanti, di domande senza alcuna risposta. Voler bene alla propria terra non significa solo raccontarne la bellezza patinata che distrae. Narrare, con metafore, di rivalsa e riscatto eterno. Amare la propria terra significa anche raccontarne gli aspetti più dolorosi. Le ferite. E fare in modo che abbiano una cura. Abbiamo perseguito la verità. Senza la presunzione di essere gli unici a farlo. Faremo lo stesso in questo

nuovo anno, partendo da quello che abbiamo definito il girone dei veleni. Che non è solo nella valle del Sabato, in Campania, ma in tante altre valli e regioni, lungo i fiumi, nei parchi, nei processi di integrazione, nelle aree industriali e nei siti di interesse nazionale in attesa di bonifica che, progressivamente, hanno inghiottito le economie locali ed il territorio pulito sotto le mentite spoglie della ricchezza e del benessere. Grazie ai tantissimi lettori e simpatizzanti (che, mai paghi, continuano a sostenerci) noi siamo ancora qui. Curiosi e con il fuoco dentro.


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IL REPORTAGE

NEL GIRONE DEI VELENI

L’INTERVISTA DEL MESE

MARCO ZAPPA

Direttore dell’Osservatorio nazionale screening (Ons)

8 47 52 57 58

FOCUS

LUCI E OMBRE DEL TESTO UNICO SULL’AMIANTO GELA PROFONDA

IL MARKETING E LA BONIFICA TERRITORI

TERAMANO, È EMERGENZA IDRICA TERRE DI MIGRANTI

ANA, BRASILIANA SENZA SAUDADE TERRE DI MIGRANTI

MARIO, IL CUOCO LONDINESE

Terre di f Direttore responsabile Pietro Dommarco / twitter @pietrodommarco Caporedattrice Emma Barbaro

mensile indipendente

numero 9 anno 1 / gennaio 2017

Un progetto di Associazione Culturale Ossopensante Codice Fiscale 97870810583 Sede legale: Via Montello 30 - 00195 Roma www.ossopensante.org

Terre di frontiera Testata registrata il 23 dicembre 2015 al n.359 del registro della Stampa del Tribunale di Milano www.terredifrontiera.info

Hanno collaborato Rosario Cauchi Stefania Divertito / twitter @sdivertito Alessio Di Florio / twitter @diflorioalessio Leonardo Palmisano / twitter @LPalmisano Gianmario Pugliese / twitter @Tripolino00 Giorgio Santoriello / twitter @PuntoebastaBas Daniela Spera / twitter @Spera_Daniela Pellegrino Tarantino / twitter @PasqualeStiglia Roberto Todisco / twitter @RobTodisco


in questo numero

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RIFIUTI CONNECTION

UN FIUME IN AGONIA

I DANNEGGIATI

LA BATTAGLIA SILENZIOSA I DANNEGGIATI

PECORINO AL PETROLIO

TERRE DI MIGRANTI

MASCUUD

MERIDIANO / RACCONTI

SEMI

MERIDIANO / RECENSIONI

IL CAMMINO DI PUGLIA MERIDIANO / LIBRI

I CONSIGLI DEI LETTORI ULTIMA PAGINA / MOSTRA PERMANENTE

LA FOTO DEL MESE

frontiera Foto di copertina Lo Stir di Pianodardine, Campania Pellegrino Tarantino Impaginazione Ossopensante Lab

Per informazioni, richieste e collaborazioni redazione@terredifrontiera.info Per inviare articoli articoli@terredifrontiera.info Twitter @terre_frontiera Facebook /ossopensante


Pascoli e industria a Corleto Perticara (Basilicata), 2015 / Foto di Rocco Toce


fotoinchiesta


focus

LUCI E OMBRE D UNICO SULL’AM DI STEFANIA DIVERTITO

Ha quasi 25 anni la legge nazionale sull’amianto. Li compirà il 13 aprile, ma ci sarà ben poco da festeggiare. Se nel 1992 l’Italia fu all’avanguardia in Europa nel proporre una legge per mettere al bando l’amianto, ancora oggi facciamo i conti non solo con i suoi effetti, ma con la sua insinuante, pericolosa, eterna presenza sul nostro territorio. Un bel modo per dare slancio alla lotta contro il minerale killer - che ogni anno provoca circa 4 mila vittime solo in Italia - sarebbe discutere e far approvare finalmente il testo unico sull’amianto. Ma visti i temi da pachiderma della classe politica, c’è poco da sperare.

Otto titoli e 128 articoli: è il testo unico dell’amianto che, atteso da anni, annunciato per giugno 2016, è stato presentato a novembre dal governo nell’ambito della seconda conferenza nazionale amianto. Bisogna intanto sottolineare è che una legge delega, e che da novembre sembra essersi inabissata nuovamente come un fiume carsico. Il testo contiene luci e ombre ma ha sicuramente il pregio di unire tutta la farraginosa normativa in tema di amianto in un corpo unico che possa essere riferimento per le generazioni a venire. Il ddl è il frutto delle conclusioni raggiunte dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno degli infortuni e delle malattie professionali con la collaborazione dell’Università degli Studi di Milano e ne porta come prima firma quella della presidente della Commissione, la senatrice Camilla Fabbri. Il testo prevede bonifiche, smaltimento, sorveglianza sanitaria per gli esposti (finalmente), sportelli amianto sul territorio, allungamento dei tempi di prescrizione e il gratuito patrocinio dello stato. Ma se questi 128 articoli non diventano legge resta un libro dei sogni.


DEL TESTO MIANTO UN LIBRO DEI SOGNI CON QUALE INCUBO

Ad esempio quello rappresentato dall’articolo 54 che fissa, ancora una volta, il limite minimo di 100 fibre litro respirate in media dal lavoratore per dieci anni, al fine di potersi considerare esposto. «Si perpetua una violazione della norma costituzionale di tutela della salute», arringa l’avvocato Ezio Bonanni, presidente dell’Osservatorio nazionale amianto. <<La scienza ci dice da tempo che non esiste una soglia minima – precisa – e che anche una fibra può essere letale. A che serve stabilire un limite così preciso?>> Per le associazioni di tutela delle vittime riunite nella sigla Coordinamento nazionale amianto (da Medici per l’ambiente ad Afeva a Medicina Democratica, ad Associazione nazionale esposti amianto all’associazione per la tutela e la sicurezza dei posti di lavoro) questo limite semmai avrebbe dovuto costituire un aggravante, ma non la conditio sine qua non a ottenere lo status di lavoratore esposto e quindi i relativi benefici previdenziali e risarcimenti. <<Non esiste alcun valore limite per far sentire salvo il lavoratore che ha respirato amianto>>, sottolineano.

GLI ALTRI LIMITI DEL TESTO

È sicuramente una buona notizia l’aver previsto la nascita di sportelli amianto sul territorio e la creazione dell’Agenzia nazionale amianto. <<Ma a che serve - continua il coordinamento - non avrà fondi in quanto non possono essere previste “nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”? Quante vote ci siamo sentiti dire che la tale ispezione non si poteva fare, o bonifica o rimozione o monitoraggio perché non c’erano fondi? Non ci sembra che la situazione possa cambiare.>> L’Osservatorio nazionale amianto punta il dito su un altro articolo a suo avviso dannoso, il numero 72. <<Si prevede una riduzione – spiega Bonanni - dei benefici contributivi per esposizione ad amianto. Attualmente il coefficiente moltiplicatore per ottenere i benefici è pari all’1,5 che con la nuova legge passerà all’1,25 per cento. Inoltre il beneficio è valido ai soli fini della determinazione dell’importo del trattamento pensionistico. Significa che il lavoratore deve raggiungere l’età pensionabile stabilita con la legge Fornero e cioè la soglia dei 70 anni, che è un vero record per il lavoratore esposto ad amianto.>>

Altrettanto importante sarebbe stato dirimere conflitto di interessi fra chi riconosce le malattie asbesto correlate e chi eroga le relative provvidenze. Sono le istituzioni sanitarie proposta alla Sorveglianza Sanitaria, che devono giudicare le malattie e i disagi e non l’Inail che è anche l’ente assicuratore. Infine, non c’è traccia dell’auspicata procura nazionale sulla salute e sicurezza del lavoro che potrebbe - così come più volte immaginato dall’ex procuratore di Torino Raffaele Guariniello - riunire i procedimenti e le competenze su questo minerale che è presente ancora su tetti, mura, in discariche abusive, abbandonato ai lati delle strade o in campagna e addirittura nelle scuole: secondo i dati forniti dallo stesso ministero sono circa 2400 le scuole che sono contaminate in Italia. Un pericolo che investe circa 300 mila tra studenti e lavoratori. Bidelli, personale amministrativo e insegnanti che, secondo questa legge, non potranno mai essere considerati come lavoratori esposti.

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Gasolio nel fiume Pescara / Foto di Augusto De Sanctis

UN FIUME IN AGONIA 10

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DI ALESSIO DI FLORIO Si chiama Panta Rei l’ultima maxi operazione condotta dal Corpo forestale dello Stato di Chieti e Pescara, coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia dell’Aquila, che ha posto l’attenzione sull’irregolare gestione del depuratore di Chieti. Sotto accusa il Consorzio di Bonifica Centro. Si ipotizza lo sversamento di rifiuti nel fiume Pescara, sempre più agonizzante.


Panta Rei. Di tutto scorre nel fiume Pescara. Dice questo l’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia dell’Aquila, balzani agli onori della cronaca nell’ottobre scorso. Posti sotto sequestro il depuratore gestito dal Consorzio di Bonifica Centro di Chieti e del vicino impianto Salvaiezzi. I reati contestati sono di traffico illecito di rifiuti, inquinamento ambientale, truffa ai danni dello Stato, peculato e abuso d’ufficio. Tra gli indagati Roberto Roberti, presidente del Consorzio Bonifica Centro; Tommaso Valerio, direttore tecnico e responsabile dell’impianto di depurazione; Andrea De Luca, capo del settore ecologia e ambiente dello stesso impianto; Stefano Storto, amministratore del laboratorio analisi Dace srl. A seguito dell’inchiesta Roberto Roberti ha rassegnato le proprie dimissioni da tutte le cariche. Andrea Colantonio, amministratore giudiziario del Consorzio, ha invece sospeso dal servizio il De Luca e il Valerio. Coinvolti, a vario titolo, anche Nicola Levorato, amministratore della Depuracque srl; Angelo De Cesaris, amministratore della Angelo De Cesaris srl; Corrado Sorgentone, dipendente della Angelo De Cesaris srl; Fabrizio Mennilli, imprenditore nel settore idraulico; Giustino Angeloni, consulente del Consorzio.

RIFIUTI DALLA TOSCANA

Le indagini hanno restituito uno scenario preoccupante. Sarebbero state alterate le analisi e smaltiti irregolarmente fanghi e altri rifiuti provenienti dalla discarica Bulera di Pomarance, in provincia di Pisa. Solo tra i mesi di ottobre e novembre del 2015 sarebbero

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stati 37 i viaggi di percolato, per un totale di 1090,45 tonnellate. Perlopiù contenenti elevate concentrazioni di arsenico. Tutte accolte senza le necessarie analisi sulla composizione. A peggiorare la situazione le gravi problematiche strutturali e manutentive degli impianti, più volte nel mirino dell’Agenzia regionale per la tutela dell’ambiente (Arta). Le vasche di trattamento, infatti, presentavano falle attraverso le quali sono confluiti nel sottosuolo reflui e fanghi inquinati. Il pubblico ministero Antonietta Picardi ha sottolineato che <<le indagini sono nate anche grazie a segnalazioni anonime, e non, di cittadini di Chieti scalo che si lamentavano dell’impossibilità di una vita quotidiana normale a causa degli odori nauseabondi che il Consorzio emanava.>>

L’INGIUSTO PROFITTO

Secondo il dispositivo del giudice per le indagini preliminari <<al fine di conseguire un ingiusto profitto>> sarebbe stata allestita <<un’attività organizzata finalizzata al traffico illecito di rifiuti>>, miscelando <<in maniera del tutto arbitraria ed illecita>> fanghi con due diversi codici CER, avviandoli a smaltimento <<attribuendo un unico codice CER>>. L’operazione sarebbe stata occultata <<falsificando sia i formulari che i registri di carico e scarico rifiuti.>> Ricapitolando, il Consorzio di Bonifica Centro avrebbe accettato percolato <<senza effettuare la prescritta omologa del rifiuto>> e <<contenente alti valori di arsenico (valore medio dei conferimenti superiore di 1000 volte il limite autorizzativo

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di scarico dell’impianto consortile)>>, conferito <<senza porre in essere alcuna specifica campagna di abbattimento di tale metallo pesante.>> Inoltre, tra il 2013 e il 2015 <<ingenti quantitativi>> di percolato di discarica sarebbero stati conferiti nonostante un <<alto valore di azoto ammoniacale (con un valore medio dei conferimenti superiore di 5 volte i limiti allo scarico indicati nell’AIA) pur essendo a conoscenza dell’inadeguatezza dell’impianto.>> Il comportamento in dolo del Consorzio - secondo le stime


Rifiuti abbandonati sul fiume Pescara / Foto di Augusto De Sanctis

della Procura della Repubblica dell’Aquila - ha portato ad un risparmio di 300 mila euro nei confronti del Comune di Chieti, con il quale è stato stipulato un Accordo di Programma, ed un <<ingiusto profitto>> di 17.793,27 euro nei confronti della società Chimica Larderello spa, gestore della discarica Bulera. Nel mirino dell’inchiesta anche gli affidamenti di trasporto e smaltimento dei fanghi da parte del Consorzio alla Depuracque (2014 e 2015) e alla De Cesaris srl (2014), che <<violavano le norme di legge relative alle procedure

di evidenza pubblica previste dal decreto legislativo n.163/2006>>, procuravano <<intenzionalmente un ingiusto vantaggio patrimoniale>> alle due società, e arrecavano <<danno certo al Consorzio di Bonifica Centro che non poteva usufruire delle economie derivanti dai ribassi che vi sarebbero stati in caso di normale gara di evidenza pubblica.>>

SMALTIMENTO, DEPURAZIONE, QUALITÀ DELLE ACQUE

Secondo il pubblico ministero

David Mancini <<le indagini hanno svelato un’attività sistematicamente illecita attraverso diversi strumenti, dalla falsificazione dei codici di ingresso dei rifiuti liquidi, ai quantitativi incompatibili, fino allo sversamento dei rifiuti stessi nel fiume Pescara, e dunque nel Mare Adriatico.>> L’accusa è di esser arrivati a sversare oltre mille tonnellate di reflui contaminati da arsenico. Nel dispositivo del giudice per le indagini preliminari si legge che le <<attività illecite nella gestione dei rifiuti>> sono

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fiume Pescara, nonostante lo stato di emergenza dichiarato il 9 marzo 2006 con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, continua a vivere una situazione da horror ambientale, che non sembra incontrare argini. Questo nonostante le denunce decennali di Abruzzo Social Forum, Rifondazione Comunista, WWF e lo scandalo della megadiscarica di Bussi, mai bonificata, che continua a rappresentare una minaccia anche per il fiume Pescara. Una relazione dell’Arta Abruzzo, datata febbraio

Il fiume Pescara / Foto di Augusto De Sanctis

avvenute <<a totale discapito della salubrità dell’ambiente circostante, nel quale vengono immesse, attraverso lo scarico nel fiume Pescara o fuoriuscite dalle vasche di depurazione, importanti quantità di sostanze inquinanti.>> Le risultanze dell’inchiesta fanno rimarcare agli inquirenti quanto sia inutile interrogarsi circa le cause della ricorrente non balneabilità del mare o di odori nauseabondi dei fiumi o di ripercussioni negative sulla fauna ittica. Un durissimo atto di accusa nei confronti di pubblici amministratori. Il

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2016, documenta nero su bianco che l’inquinamento continua: prelievi di acque superficiali e profonde di falda hanno riscontrato in vari tratti superamenti per il tetracloroetilene oltre 160 volte i limiti di legge. <<Diversi superamenti per solventi clorurati con notevole incremento delle concentrazioni>> o esacloroetano concentrato 2372 volte più del consentito dalla legge. Il 29 ottobre scorso il Forum abruzzese dei movimenti per l’acqua pubblica ha reso noto uno studio dell’Istituto


Zooprofilattico di Teramo. Lo studio ha campionato <<35 esemplari di pesci: n.11 trote fario, n.15 cavedani, n.3 rovelle, n.6 barbi comuni. Complessivamente 17 pesci a monte di Bussi (Molina Aterno 14 e Vittorito 3) e 18 a valle (Bussi 3 e Manoppello 15)>>, riscontrando che <<6 pesci sui 18 che sono stati campionati a valle della discarica hanno superato i limiti di legge per il Mercurio (1 su 3 pesci catturati a Bussi e 5 su 15 catturati a Manoppello) pari al 33% del totale (addirittura 5 barbi su 6).>> L’Istituto

Zooprofilattico scrive nella relazione che <<il benessere dei Pesci è minacciato, soprattutto a Bussi Officine e Manoppello, come dimostrano la presenza di micronuclei (danni genetici) negli eritrociti, dovuta all’esposizione a sostanze mutagene, e le maggiori concentrazioni di piombo, cromo e soprattutto mercurio (oltre i limiti di legge per l’umano consumo)>> e che <<la concentrazione di arsenico è rilevante in tutti i punti di campionamento ed è quindi necessario approfondire l’origine della contaminazione, soprattutto nella sua forma più tossica di arsenico inorganico.>> Inoltre, l’Istituto rileva che <<l’esposizione alle sostanze tossiche è cronica, poiché la presenza dei micronuclei non si manifesta più dopo la depurazione, e quindi potrebbe derivare o dalla falda inquinata o da scarichi non trattati ancora attivi con continuità.>> L’Istituto sottolinea, inoltre, che <<la presenza di sostanze tossiche nei Pesci rappresenta un problema per l’umano consumo e quindi sarebbe necessario vietare la pesca almeno da Bussi Officine in poi o consentire solo la pratica del catch and release.>> Praticamente i pesci catturati andrebbero rilasciati in acqua. A seguito della diffusione dello studio, la Regione Abruzzo ha chiesto ai Comuni della Val Pescara di emanare ordinanze per vietare la pesca ad uso alimentare lungo tutto il fiume Pescara, da Bussi fino alla foce. La Conferenza dei servizi del 30 novembre 2016 su Bussi e la Val Pescara è stata la dimostrazione dell’incredibile situazione di ritardi, confusione e veri e propri fallimenti istituzionali. Durante la

conferenza - come denunciato dal Forum abruzzese dei movimenti per l’acqua pubblica - il ministero dell’Ambiente <<ha sostenuto che è difficile reperire la documentazione, perché in larga parte cartacea e solo in parte elettronica>> e di essere venuto <<in possesso della caratterizzazione sulla discarica Tremonti, pagata dal Commissario delegato 980.000 euro, il 28 novembre 2016>>, <<non erano ancora ben chiare le aree da sottoporre a caratterizzazione (c’era una difformità non da poco tra quanto proiettato con slide dal Ministero e quanto sembrava aver previsto la Regione)>>, <<nei pozzi spia a valle del trattamento delle acque di falda contaminate che sono sotto l’area industriale, ci sono limitati superamenti per il cloruro di vinile.>>, definito dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro <<cancerogeno accertato per l’uomo.>> La Conferenza ha visto la partecipazione di Regione e Comune di Bussi. Assenti, invece, i Comuni di Chieti, Castiglione a Casauria, Cepagatti, Alanno, Tocco da Casauria, Torre de’ Passeri, Popoli, Rosciano, Scafa, Manoppello e la Provincia di Pescara. Presenze totali peri al 21,43 per cento. INCHIESTE INCROCIATE L’inchiesta Panta Rei è giunta a pochi mesi da un’altra importante inchiesta, quella sul centro oli Eni di Viggiano e sul giacimento Tempa Rossa di Corleto Perticara, in Basilicata, balzata agli onori della cronaca nazionale per il coinvolgimento dell’ex ministro allo Sviluppo economico, Federica Guidi. Secondo il pubblico ministero David Mancini <<è possibile che ci saranno in futuro ulteriori

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sviluppi di indagine>> anche in quella direzione. Secondo l’inchiesta lucana tra il 2013 e il 2014 in Abruzzo sarebbero state conferite nell’impianto della Depuracque a Chieti Scalo 13.482,42 tonnellate di rifiuti liquidi provenienti dalle attività di estrazione (per essere precisi 273,3 nel 2013 e 13209,12 l’anno successivo). Conferimenti finiti nel mirino della magistratura. I rifiuti sarebbe stati classificati <<non pericolosi>>, considerati <<miscugli di rifiuti delle camere a sabbia e dei prodotti di separazione acqua/olio.>> Mentre, secondo una perizia commissionata dalla Procura di Potenza lo erano, in quanto da considerare <<miscugli di rifiuti contenenti almeno un rifiuto pericoloso.>> L’inchiesta della Procura di Potenza s’incrocia con un’altra indagine, resa nota nel dicembre scorso, che ipotizza i reati di traffico illecito di rifiuti e disastro ambientale. Una serie di perquisizioni del Corpo forestale dello Stato hanno portato al prelievo di una trentina di faldoni di documenti e alcuni campioni di rifiuti e fanghi. L’accusa è quella di aver sversato direttamente nel fiume fanghi e altre sostanze. Secondo la Procura <<pur essendo a conoscenza dell’inquinamento che provocano le acque reflue rilasciate dall’impianto di depurazione consortile di San Maretino>>, gli indagati sversavano <<dolosamente>> liquidi <<inquinanti interessando, oltre le acque superficiali, anche le acque sotterranee e persino l’interramento dei fanghi.>>


Il fiume Pescara / Foto di Augusto De Sanctis Terre di frontiera / numero 9 anno 1 - gennaio 2017 / www.terredifrontiera.info

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SCREENING ONCOLOGICO. L’ITALIA A DUE VELOCITÀ

DI PIETRO DOMMARCO

Intervista al dottor Marco Zappa, direttore dell’Osservatorio nazionale screening (Ons).

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L’Osservatorio nazionale screening (Ons) nasce nel 2001 con il nome di Osservatorio nazionale per la prevenzione dei tumori femminili. Una rete nazionale dei centri di screening, creata grazie al supporto economico della Lega italiana per la lotta contro i tumori (Lilt). Nel 2004, a seguito dell’approvazione del decreto del ministero della Salute del 25 novembre (articolo 2 bis della legge n.138/2004), l’Ons viene riconosciuto come strumento tecnico a supporto di Regioni – per l’attuazione dei programmi di screening – e ministero della Salute, per la definizione delle modalità operative, il monitoraggio allo sviluppo e la valutazione dei programmi di screening in Italia. Fin dalla sua costituzione, all’Osservatorio nazionale screening hanno aderito il Gruppo italiano screening mammografico (Gisma), il Gruppo italiano per il cervicocarcinoma (Gisci) e, più di recente, il Gruppo italiano screening colorettale (Giscor).

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Per approfondire meglio ruoli, competenze e i dati diffusi dall’ultimo Rapporto nazionale screening ci siamo confrontati con il dottor Marco Zappa, direttore dell’Ons (www. osservatorionazionalescreening. it). Dottor Zappa, per introdurre i nostri lettori alle attività che svolgete quotidianamente, le chiedo di aggiornarci sullo stato dell’arte del vostro progetto. Il nostro progetto va avanti da ormai 15 anni. In questo lasso di tempo per i programmi di screening è aumentata la diffusione, anche se rimangono differenze di estensione e qualità significative. Ogni anno vengono prodotte le survey di valutazione, discusse con gli operatori dei programmi in riunioni nazionali e regionali, e messe a disposizioni di tutti sul sito dell’Osservatorio. L’Ons sta valutando alcune importanti innovazioni in campo di diagnosi precoce, come il passaggio al test HOV come


l’intervista del mese

test primario per la prevenzione del cervicocarcinoma ed il ruolo della Tomosintesi nello screening mammografico. Il 30 luglio 2015, la Conferenza Stato-Regioni – con l’atto n.126 - ha definito, fra le altre cose, le funzioni dell’Ons, che vanno dal supporto scientifico alla pianificazione nazionale e alla programmazione regionale e supporto al miglioramento della qualità dei programmi di screening mediante il monitoraggio e la valutazione dei programmi attivati a livello regionale; dall’attività di formazione di alto livello in ambito regionale e nazionale all’attività di sitevisit (visite di verifica della qualità dell’erogazione a livello aziendale); dalla promozione della ricerca in ambito di screening allo sviluppo della qualità dell’informazione e della comunicazione e rendicontazione dei risultati.

Oltre al ministero della Salute, a chi si rivolge l’Ons e con quali strutture operate in sinergia? Sostanzialmente operiamo in sinergia con i Referenti regionali dei Programmi di Screening locali. Quali le principali norme che regolano questo ambito? L’intesa fra Stato e Regioni definita come Patto della Salute 2014 -2016 definisce dal punto di vista teorico le modalità di sostentamento dell’Ons. L’articolo 17, secondo paragrafo, dell’Intesa stabilisce che: <<il 5 per mille sulla quota vincolata per il Piano nazionale prevenzione venga destinato a una linea progettuale per lo svolgimento di attività di supporto al Piano nazionale della prevenzione da parte dei network regionali dell’Osservatorio Nazionale Screening, l’Evidence-based prevention e l’Associazione italiana registri tumori.>> L’elemento caratterizzante è l’azione consolidata di questi

organismi come network regionali. In altre parole le Regioni italiane dichiarano di rinunciare a una piccola parte di risorse a loro destinate nel Piano nazionale della prevenzione per sostenere l’attività di Centri nazionali che a loro volta lavorano come network regionali. Purtroppo al momento attuale la modalità di finanziamento prevista non si è ancora concretizzata, limitando le capacità operative dell’Ons. Arriviamo all’ultimo Rapporto nazionale screening (2016). Viene illustrata una fotografia di un’Italia che, come accade in altri settori, viaggia a due velocità. Da una parte il Centro-Nord, dall’altra il Sud. Nel Mezzogiorno d’Italia si registra, per quanto riguarda la copertura, una costante flessione nel 2014 e nel 2015 rispetto al biennio 2012-2013. Può farci capire meglio il problema? In generale possiamo dire che nel corso del 2015 abbiamo assistito ad alcuni

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miglioramenti dei programmi, il che ci ha fatto affermare che questa volta il bicchiere è un po’ meno. In sintesi possiamo dire che per lo screening mammografico, nel 2015, si è avuto un marcato miglioramento della copertura (superiore all’80 per cento). La copertura è intesa come proporzione della popolazione target raggiunta effettivamente da un invito attivo. Parliamo di oltre 3 milioni di inviti, con un aumento di quasi 400 mila inviti rispetto agli anni precedenti. La copertura riguarda più di 9 donne su 10 (praticamente tutte) al Nord. Poco meno di 9 su 10 al Centro e quasi 6 ogni 10 al Sud, con un netto miglioramento rispetto agli anni precedenti. Per lo screening cervicale, invece, nel 2015 si osserva un aumento della copertura rispetto all’anno precedente (+ 4 per cento) con modesti cambiamenti nelle singole macroaree. L’aumento più marcato è per il Centro. Risultano invitate più di 4 milioni di donne (4.079.264). È interessante notare che oltre 650 mila di questi inviti (il 16 per cento del totale) sono ad effettuare il test HPV, che offre una copertura di 5 anni (e non più di 3). In realtà, dunque, la copertura effettiva del Paese è più alta. Per lo screening colorettale, infine, nel 2015 sono stati invitati più di 5 milioni di cittadini (5.394.492) di età compresa tra i 50 e i 69 anni a eseguire il test di screening. Di questi circa 50 mila ad eseguire la rettosigmoidoscopia. Lo screening colorettale prevede in quasi tutta l’Italia la ricerca del sangue occulto nelle feci, mentre il Piemonte vede la proposta della rettosigmoidoscopia una volta nella vita a 58 anni di età e la ricerca del sangue occulto

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per coloro che non accettano la rettosigmoidoscopia. C’è stato quindi un forte aumento rispetto all’anno precedente: quasi 500 mila inviti in più). Al Nord siamo sostanzialmente alla copertura completa (oltre il 90 per cento), al Centro siamo sopra l’80 per cento, mentre al Sud si arriva soltanto a poco più del 40 per cento, anche se con una costante tendenza all’aumento. In quali regioni del Sud sono stati registrati i dati più preoccupanti? Quelle in cui si riscontrano maggiori difficoltà sono probabilmente la Campania e la Calabria. Secondo lei quali sono i motivi che muovono il “rifiuto della prevenzione” nelle regioni del Sud rispetto al resto del Paese? È solo un problema di sensibilità, attenzione, comunicazione, di risorse, di investimenti, di modalità di attuazione del programma di screening? È un problema assai complesso con molte dimensioni. Il principale ostacolo credo vada ricondotto alla relativa mancanza di fiducia delle popolazioni meridionali nella struttura pubblica della Sanità. Un programma di screening è uno dei pochi esempi diffusi di sanità di iniziativa. Se manca la fiducia nell’istituzionestruttura che promuove gli screening è evidente che la partecipazione sarà carente. D’altra parte, spesso, al Sud la qualità dell’offerta è minore e anche questo favorisce la scarsa partecipazione. Inoltre, più spesso invece, la Comunità medica locale - o parte di essa - non ha un atteggiamento favorevole rispetto agli screening organizzati e la

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sanità privata è più diffusa. Non credo che la carenza di risorse giochi un ruolo decisivo. Piuttosto pesa una maggiore difficoltà organizzativa a creare dei percorsi in modo da utilizzare in modo efficiente le risorse e le capacità disponibili. Quanto incide l’adesione a screening e prevenzione su diagnosi e guarigione? Una donna che partecipa regolarmente ad un programma di screening mammografico, ad esempio, riduce del 3540 per cento la propria mortalità per tumore della mammella. Una partecipazione regolare allo screening cervicale (specie quello con HPV) rende molto bassa la probabilità di sviluppare un tumore della cervice. Nello screening colorettale ci aspettiamo vantaggi sia per quanto riguarda la riduzione di incidenza (almeno il 20 per cento), sia per quanto riguarda la mortalità (riduzione almeno del 30 per cento). Come classifica, in relazione al vostro compito, l’inesistenza o l’incompleta attuazione dei Registri Tumori regionali, anche a livello di informazione della popolazione? I registri Tumori sono una fonte indispensabile per una valutazione dell’impatto degli screening organizzati. Al momento i Registri Tumori accreditati meno del 60 per cento del territorio nazionale, ma si stanno espandendo. Un’ultima domanda: quella italiana è una popolazione che continua ad ammalarsi. Qual è l’incidenza delle principali patologie tumorali e quale il tumore più frequente che avete “incontrato”?


Secondo i dati dell’Associazione italiana registri tumori (Airtum) si stima che in Italia, nel 2016, siano stati diagnosticati poco più di 365 mila nuovi casi di tumore maligno, di cui circa 190 mila (54 per cento) negli uomini e 175 mila (46 per cento), nelle donne. Complessivamente, ogni giorno, circa 1000 persone ricevono una nuova diagnosi di tumore maligno infiltrante. Escludendo i tumori della cute (non melanomi), negli uomini prevale il tumore della prostata che rappresenta il 19 per cento di tutti i tumori diagnosticati. Seguono il tumore del polmone (15 per cento), il tumore del colon-retto (13 per cento), della vescica (11 per cento) e dello stomaco (4 per cento). Tra le donne il tumore della mammella rappresenta il 30 per cento delle neoplasie femminili, seguito dai tumori del colon-retto (13 per cento), del polmone (6 per cento), della tiroide (5 per cento) e del corpo dell’utero (5 per cento). I dati dell’Istituto nazionale di statistica (Istat) indicano per il 2013 (ultimo anno al momento disponibile) poco più di 176 mila decessi attribuibili a tumore, 1000 in meno rispetto al 2012, tra gli oltre 600 mila decessi verificatisi in quell’anno. I tumori sono la seconda causa di morte (29 per cento di tutti i decessi) dopo le malattie cardiocircolatorie (37 per cento). Nel sesso maschile, tumori e malattie cardio-circolatorie causano approssimativamente lo stesso numero di decessi (34 per cento), mentre nel sesso femminile il peso delle malattie cardio-circolatorie è più rilevante rispetto ai tumori (40 per cento contro 25 per cento).

i danneggiati

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LA BATTAGLIA SILENZIOS DI UN EX OPERAIO ILVA DI DANIELA SPERA

<<L’Ilva per me è stata come una famiglia. Ognuno ha sempre insegnato agli altri e ci siamo sempre coperti e aiutati.>>. Queste sono le parole di Vincenzo Pignatelli, ex operaio Ilva, riportate nel romanzo “Veleno” di Cristina Zagaria. La storia di Vincenzo è nota a chi ricerca testimonianze che parlano di malattia e sofferenza, racconti che suscitano rabbia e rassegnazione. Ma Vincenzo, nonostante il suo calvario, non si è mai rassegnato. Ecco come un ex operaio Ilva, dopo aver vinto la battaglia per la vita, ha poi deciso di affrontare un lungo percorso giudiziario per il riconoscimento del danno biologico.

Vincenzo Pignatelli, oggi, ha 63 anni. Ed è l’unico della sua squadra, nel reparto sottoprodotti, ad essere sopravvissuto e a poter raccontare. Tutti i suoi compagni sono deceduti per la leucemia. Vincenzo è stato colpito da una forma più rara della stessa malattia, la leucemia mieloide acuta. Una neoplasia delle cellule del sangue caratterizzata dalla rapida crescita di globuli bianchi anormali che si accumulano nel midollo osseo e interferiscono con la produzione di cellule del sangue normali. Solo un trapianto di midollo - donatogli da sua sorella - ha restituito a Vincenzo la speranza di continuare a vivere. La malattia, i cicli di chemioterapia e di radioterapia, hanno profondamente segnato il suo corpo, ma dopo la guarigione ha voluto vederci chiaro per individuare le responsabilità e per il riconoscimento della malattia professionale e del danno biologico.

LA BATTAGLIA SILENTE

Nel 2009 comincia la sua battaglia giudiziaria. Silente. Vuole farlo per sé, ma anche per i suoi compagni che non ce l’hanno fatta. Tutto ha inizio quando Vincenzo Pignatelli presenta all’Istituto nazionale assicurazione infortuni sul

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lavoro (Inail) la richiesta per il riconoscimento del danno biologico, avendo lavorato per diversi anni all’interno di reparti - in particolare quello denominato “sottoprodotti” - nei quali ha manipolato e respirato ingenti quantitativi di benzene e benzolo. Sostanze chimiche cancerogene. <<In quei reparti - dice Vincenzo - le analisi per la diossina erano previste solo quando si verificavano incidenti agli impianti, e il PCB, l’apirolio, utilizzato nei trasformatori elettrici per il raffreddamento e la lubrificazione, non essendo infiammabile a differenza del suo sostituto olio minerale, noi lo usavamo per lavarci le mani, come sgrassante. Nessuno di noi sapeva quali fossero i rischi a cui ci esponevano.>> Ma gli agenti chimici a cui questi operai sono stati esposti erano innumerevoli. <<Mi sentivo sempre debole e avevo spesso la febbre, non riuscivo a svolgere le attività quotidiane più normali e le mie condizioni andavano peggiorando>>, racconta ancora Vincenzo, che abita nel quartiere Paolo VI di Taranto, il più esposto ai fumi dell’Ilva, insieme al rione Tamburi. I suoi amici sono morti tutti: uno a 47 anni, uno a 52 e l’altro a 60 anni. Vincenzo lavorava nel reparto sottoprodotti a venti metri dalla cokeria. Aveva sempre la


SA a idrocarburi aromatici mononucleari (benzene e derivati). Ma per l’Inail la domanda di Vincenzo non può essere accolta perché non c’è alcun nesso di causalità. Secondo l’Inail ad essere caratterizzati dall’esposizione a benzene erano ben altri reparti e non quelli frequentati per anni dall’ex operaio. Della stessa opinione è l’azienda, l’Ilva, che ovviamente sostiene

in toto la posizione dell’Inail.

IL RICORSO AL GIUDICE DEL LAVORO

È a questo punto che Vincenzo Pignatelli decide di presentare ricorso presso il giudice del lavoro del Tribunale di Taranto. Dopo sessanta giorni dal mancato accoglimento della sua domanda da parte dell’Inail. L’iter giudiziario ha inizio con la nomina del CTU, Ennio

Vincenzo Pignatelli / Foto di Daniela Spera

visiera, i guanti di amianto per proteggersi dal fuoco, ma non sapeva che l’aria che respirava lo stava uccidendo. Nelle tabelle delle malattie professionali nell’industria - di cui all’art. 3 del decreto del Presidente della Repubblica n.1124/1965 e successive modifiche e integrazioni (allegato numero 4) - la leucemia mieloide acuta è proprio causata dall’esposizione

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Pavone, che subito conferma la perizia di parte dell’ematologo Patrizio Mazza che certifica, in maniera inequivocabile, che il danno biologico è senz’altro dovuto al contatto prolungato con i derivati del benzene, ai quali l’operaio è stato esposto per anni. Successivamente il giudice chiede chiarimenti in merito al parere presentato dal CTU nominato che, inaspettatamente, cambia le carte in tavola presentando un parere completamente opposto a quello del dottor Patrizio Mazza. Per Vincenzo è un brutto colpo e chiede al suo avvocato, Bruno Semeraro, di avanzare richiesta di nomina di un nuovo CTU. Il giudice, accogliendo la richiesta, nomina il dottor D’Elia, il quale si allinea al parere del perito di parte.

IL RICONOSCIMENTO DEL DANNO BIOLOGICO

tenacia gli hanno fatto vincere due battaglie: una per la vita, una per la giustizia. Nell’Ilva gli operai sono considerati come dei numeri. Svolgono le proprie mansioni con rassegnazione, sperando di non essere i prossimi a doversi ammalare e morire.

PECORINO AL PETROLIO DI GIORGIO SANTORIELLO

Quando l’industria arriva a mille metri di quota tra zootecnia ed agriturismo.

Tra alti e bassi, Vincenzo non molla, e finalmente il 16 dicembre 2015 si arriva a sentenza. Una sentenza esemplare. L’Inail è costretta a riconoscere una rendita di malattia e il danno biologico. Tradotto in cifre, l’ente ha dovuto versare sul conto dell’ex operaio ben 190 mila euro ed una rendita di malattia pari a 2.400 euro al mese per il resto dei suoi giorni. Si tratta di una sentenza importante. Un modello da seguire per molti altri operai. Il percorso giudiziario di Vincenzo e il risultato ottenuto non hanno fatto notizia. Noi ve lo abbiamo raccontato per la prima volta. Certo, Vincenzo non potrà mai essere ripagato per gli anni di vita trascorsi a lottare contro un male che, sebbene sia riuscito a sconfiggere, lo ha trasformato in un vecchio. Ma ce l’ha fatta. Il suo attaccamento alla vita e la sua

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Lo chiamiamo Giuseppe, uno pseudonimo per tutelare un uomo che con la sua famiglia e l’avvocato, combatte contro la prima multinazionale dell’area euro, la Total. Giuseppe allevava vicino il pozzo petrolifero “Tempa Rossa 1”. Alcuni anni fa iniziò ad avere frequenti morie negli ovini: necrosi, disturbi nervosi, aborti. Il copione era sempre lo stesso. Morte dell’animale, dubbi, preoccupazioni, visite del veterinario dell’Azienda Sanitaria di Potenza. Il ciclo proseguiva senza che Giuseppe avesse mai dall’Asp un’analisi chimica sulle sue carcasse. Al tempo stesso, oltre alle morie, arrivano altre strani eventi, fino ad allora sconosciuti nella zona: folate improvvise di gas e persistente olezzo di uova marce, allarmi sonori nella zona pozzo, traffico pesante che frantumava le gracili vie di montagna, fusti di fluidi da perforazione abbandonati nei rovi ed il Comune di Corleto, che sembrava più comprensivo verso le ragioni


i danneggiati

di Total piuttosto che in quelle di Giuseppe, corletano doc da generazioni. Appena informati della storia di Giuseppe, gli attivisti dell’associazione “Cova contro” lo invitano a reagire, carte alla mano. Effettuano analisi su falda (pozzo di abbeveraggio degli animali), tessuti animali e latte ovino. <<Non ho mai visto tutti questi metalli in un animale.>> Queste le parole di un dipendente di un laboratorio pugliese che ha condotto le analisi. Infatti, fu difficile trovare raffronti nella letteratura scientifica e, ancora oggi, non si trova chi supera le contaminazioni rinvenute a Corleto Perticara nelle pecore di Giuseppe: cuore, 3,32 mg/ kg di piombo (oltre sei volte la soglia di legge); fegato, 13,1 di piombo ed 1,5 di cadmio; reni, 542 mg/kg di piombo (oltre mille volte la soglia di legge UE) ed 1,4 mg/kg di cadmio. Lo stesso nel latte ovino, dove il piombo era a 0,043 mg/kg, a fronte di un limite di legge di 0,02. In tutte queste matrici

sono stati rinvenuti tanti altri metalli non normati in abbondanza, sulla cui presenza ed eventuale pericolosità sanitaria nessuno si è mai espresso. Nell’acqua del pozzo di Giuseppe comparivano pesanti contaminazioni da solfati, piombo, alluminio, ferro, manganese e tracce di idrocarburi, 273 mcg/l, a fronte dei 350 previsti per legge (la n.152/06). Il nesso sembrerebbe chiaro ma, ad oggi, mentre nessun Ente pubblico sancisce la conformazione delle falde o la migrazione della contaminazione dell’area del pozzo “Tempa Rossa 1”, a Giuseppe non rimane che l’onere di stabilire, a sue spese, anche il nesso di causalità, in una regione – la Basilicata - dove con i soldi pubblici e le royalties petrolifere si finanzia di tutto. Intanto manca il “bianco ambientale” e la documentazione sul pozzo petrolifero in questione è custodita dall’Ufficio nazionale minerario per gli idrocarburi

e le georisorse (Unmig), che concede la consultazione dei fascicoli sulla vita dei pozzi solo dietro autorizzazione della compagnia petrolifera proprietaria. Oggi Giuseppe attende giustizia. E l’attesa forse sarà ancora lunga perché pare che nessun CTU voglia assumersi l’incarico. Ma oggi Giuseppe sa, grazie all’aiuto di altri cittadini e non delle Istituzioni, che in quella zona è meglio non allevare. Perché l’acqua che ha usato, non interdetta da alcuna ordinanza, la carne ed il latte prodotti, erano avvelenati. Per questo ha spostato il suo pascolo per far spazio ad una multinazionale e a dirigenti che lo considerano <<gente del terzo mondo>>.

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Acqua prelevata da pozzo di abbeveraggio vicino “Tempa Rossa 1� / Foto di Giorgio Santoriello


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L’ingresso nel girone dei veleni / Foto di Pellegrino Tarantino

il reportage

NEL GIRONE DEI VELENI 28

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DI EMMA BARBARO Il nostro viaggio inizia nella periferia di una cittadina campana che di metropolitano vanta solo il traffico e il filare di piloni di una metro leggera che non passa e, forse, non passerà mai. Siamo a pochi passi da Avellino, a Borgo Ferrovia. In Campania. In termini di orografia e insediamenti questa parte del territorio è in continuità con l’area urbana della città. In termini reali, il distacco tra questa periferia e le pretese radical chic metropolitane non potrebbe essere più marcato. È da qui in poi che prende forma la valle del Sabato, seguendo il corso dell’omonimo fiume che la attraversa.


Campania. Nei primi anni Sessanta, lungo le secche del fiume Sabato, è stato edificato il monumento a un progresso che non c’è stato. L’area industriale di Pianodardine non ha portato il benessere atteso. Non ha dato risposta alla fame di lavoro. Persino il treno qui si è fermato e non è più ripartito. È rimasto solo l’ambiente martoriato. Cristallizzato in un’aria irrespirabile e in un fiume violentato dall’industria e dall’incuria.

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La valle del Sabato è un cumulo di criticità ambientali. Guazzabuglio intricato di vertenze che si innestano e si sovrappongono tra loro. È sede dell’ex Isochimica spa, la celebre fabbrica dei veleni in cui gli operai scoibentavano a mani nude, e senza alcuna protezione, le carrozze ferroviarie di amianto, provenienti dalle officine delle Ferrovie dello Stato. È luogo di numerosi stabilimenti industriali che sversano impuniti nelle acque del fiume Sabato. È l’area in cui le indagini avviate dall’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente della Campania (Arpac) hanno già mostrato valori di manganese e tetraclorometano nelle acque sotterranee esterne allo Stir, che superano le Csr. È il territorio al quale l’emergenza rifiuti ha regalato uno stabilimento di tritovagliatura nuovo di zecca, 28 mila ecoballe stoccate in via “temporanea” e, oggi, l’ampliamento dello Stir. È un Sud che non vorremmo raccontare ma che torna, vivido e sempre più reale. È il Sud del gioco al ribasso, quello che subisce le scelte e non vi partecipa. Quello per cui tutto fa brodo, tutto è progresso. In cui troppo spesso i sindaci vagano incerti come ombre dei propri mandati, in attesa del santo protettore di turno o della manna dal cielo. Nella valle del Sabato non è arrivato né l’uno, né l’altro. Il concetto di area vasta è pura fantascienza. Di vasto qui c’è solo il senso dell’abbandono. Che ti resta attaccato addosso assieme all’olezzo silenzioso del fiume, con le sue venature di putrido e stantìo. Miasmi così, si lasciano ricordare a lungo.

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LO STIR

Gli anni dell’emergenza rifiuti in Campania hanno lasciato ovunque un’eredità enorme. Tutte le province campane hanno dovuto piegarsi, loro malgrado, sotto il peso dell’indifferibilità e dell’urgenza. Il cuore della valle del Sabato è sede dello Stir di Pianodardine. Il progetto dello stabilimento di tritovagliatura, seguendo il comune destino degli altri impianti commissariali, viene approvato con l’ordinanza n.141 del 16 maggio 2000. La firma in calce è quella dell’allora


firma la convalida definitiva del progetto. Ma l’emergenza detta i tempi. E le modalità. Sono sette gli Stir autorizzati nel territorio campano: Tufino, Giugliano, Battipaglia, Caivano, Santa Maria Capua Vetere, Casalduni, Pianodardine. Nei siti, in genere, viene effettuata una separazione del Rifiuto urbano residuo (Rur) in due frazioni principali: una umida, denominata Futs (Frazione umida tritovagliata stabilizzata), da destinare a discarica; una secca, denominata Fsts

(Frazione secca tritovagliata stabilizzata), da destinare alla termovalorizzazione, fatta salva una minima quantità di scarti. Nel territorio irpino, a gestire il ciclo integrato dei rifiuti è la società Irpiniambiente spa. Un’impresa, costituita nel 2009, interamente partecipata dalla Provincia di Avellino.

SI ACCENDONO I RIFLETTORI

Ad accendere i riflettori sulla valle del Sabato, e sui più recenti progetti di ampliamento dello Stir di Pianodardine, sono stati i cittadini. Allarmati da

Lo Stir di Pianodardine / Foto di Pellegrino Tarantino

governatore della Campania, nonché Commissario delegato all’emergenza rifiuti, Antonio Bassolino. La commissione di collaudo dell’impianto - composta dal preside della Facoltà di Architettura “Federico II” di Napoli, professor Arcangelo Cesarano, dall’ingegner Samuele Sandoli e dal dirigente della Regione Campania Giuseppe Catenacci – nominata solo due mesi prima, ha appena il tempo di effettuare un collaudo provvisorio. Svoltosi, caso strano, nello stesso giorno in cui il Commissario Bassolino

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analisi e rilievi sulle matrici ambientali che, altrimenti, avrebbero rischiato di passare ancora per molto tempo sotto traccia. Nelle acque sotterranee esterne allo Stir i rilievi Arpac parlano di parametri di manganese e tetraclorometano che superano i valori delle Csr. Questo significa che, al netto del piano di caratterizzazione, il sito deve essere messo in sicurezza e cinturato per evitare ulteriori contaminazioni delle matrici ambientali. È quello che chiede il comitato “Salviamo la nostra valle del Sabato”. Opponendosi, di contro, a qualsiasi forma di ampliamento dello Stir. <<La nostra prima battaglia è contro l’indifferenza>>, dice il presidente del comitato e membro dell’Isde Avellino, dottor Franco Mazza. <<Non siamo la Terra dei Fuochi, non prendiamoci in giro. Ma questo non significa che vogliamo diventarlo. In questi primi mesi abbiamo cercato di sensibilizzare innanzitutto la popolazione residente nella valle del Sabato. Molti di loro vivono e muoiono con la paura di esporsi. I rilievi Arpac del 2005 e del 2007 hanno già identificato i superamenti di alcuni inquinanti nelle matrici acqua, suolo e aria. Gli studi di diffusione condotti dal Cnr nel 2011, allo stesso modo, hanno analizzato gli impatti di alcune fabbriche operanti nel nucleo industriale di Pianodardine sulla qualità dell’aria. I risultati sono sconcertanti. Ma nessuno ha mosso un dito. La verità è che senza la sensibilizzazione del comitato, anche la questione dello Stir sarebbe passata sotto silenzio. È arrivato il momento di dire basta, con tutte le nostre forze. Quello che è emerso in questi mesi è che c’è un interesse

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molto forte, sia da parte della Provincia che della Regione Campania, alla realizzazione dell’ampliamento dello Stir.>> A onor del vero, parlare di ampliamento dello Stir di Pianodardine è improprio. I tecnici regionali che recentemente – con decreto dirigenziale n.321 del 20 dicembre 2016 - hanno rilasciato parere favorevole di compatibilità ambientale, si sono confrontati su una variante sostanziale del progetto originario. Subordinando, per altro, il rilascio del parere favorevole a un obbligo da parte della società Irpiniambiente spa di <<provvedere alla messa in sicurezza operativa con la previsione di cinturare il sito rispetto all’afflusso delle acque sotterranee risultate contaminate e nel riportare a valori Csc nei punti di conformità gli analiti manganese e tetraclorometano - che hanno superato le Csr, fermo restando la prosecuzione serrata delle indagini già avviate dalla Provincia di Avellino con la collaborazione dell’Arpac e degli altri Enti.>> Ma andiamo con ordine. Il 12 agosto scorso, mentre le Conferenze di servizi sull’ampliamento dello Stir sono ancora in corso, il presidente della Provincia di Avellino, Domenico Gambacorta, firma un’ordinanza con la quale <<autorizza in via temporanea all’esercizio della trasferenza e dello stoccaggio della frazione organica – codice Cer 20.01.08 – nell’impianto Stir di Pianodardine con conduzione della società Irpiniambiente spa.>> La Provincia gioca in casa la propria partita. Del resto Irpiniambiente è una partecipata provinciale. E l’impianto Stir di Pianodardine

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Gli scarti della Novolegno / Foto di Pellegrino Tarantino Terre di frontiera / numero 9 anno 1 - gennaio 2017 / www.terredifrontiera.info

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è divenuto definitivamente una proprietà della Provincia il 20 luglio 2016. La seconda ordinanza di reiterazione della precedente viene firmata dal presidente Gambacorta il 29 settembre scorso. La terza arriva a ridosso della Conferenza dei servizi del 9 novembre 2016. La proroga stavolta è di 90 giorni. Ma nel frattempo, la Regione Campania si è espressa concedendo il suo nulla osta con prescrizioni.

MO’ BASTA

Scarichi in torrente del fiume Sabato / Foto di Pellegrino Tarantino

Il comitato “Salviamo la nostra valle del Sabato” non

è rimasto a guardare. Tramite l’avvocato Giovanna Bellizzi ha presentato un esposto indirizzato congiuntamente agli organi della magistratura e al ministero per l’Ambiente. <<L’esposto si compone di due iniziative – spiega l’avvocato Bellizzi - una rivolta al Ministero e l’altra agli organi giudiziari che dovranno accertare le eventuali violazioni della legge compiute e i responsabili. Di ipotesi di reato in questo momento non si può parlare. Sarà la Procura a vagliare la documentazione che abbiamo presentato. Quel

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che posso dire è che abbiamo ricostruito la vicenda, quella in particolar modo inerente allo Stir, segnalando al contempo tutte le criticità ambientali. Nello specifico ci siamo soffermati sull’ordinanza che la Provincia di Avellino ha emesso il 12 agosto scorso. Su questo impianto ci sono già delle criticità, è in corso un piano di caratterizzazione, è stato individuato il superamento di alcuni parametri tale da rendere necessario un piano per la tutela e la sicurezza dei cittadini. E tutti gli enti – prosegue - sono consapevoli


di quel che accade, in quanto partecipano alle Conferenze dei servizi. Nelle more del rinvio della conferenza dei servizi per valutare le dichiarazioni della società che gestisce l’impianto, si inserisce questa ordinanza del Presidente della Provincia di Avellino. La vicenda va chiarita. Al ministero e alle Procure diciamo: se c’è una contaminazione deve scattare anche l’indisponibilità del sito e si dovrebbe a nostro parere configurare una limitazione d’uso. Come è possibile procedere alla caratterizzazione e poi alla bonifica dell’impianto

se lo Stir non solo continua a svolgere le sue funzioni ma addirittura, in via eccezionale, si configura anche lo stoccaggio dei rifiuti? Al ministero chiediamo di adottare in via precauzionale provvedimenti urgenti. In tal modo rendiamo le Istituzioni consapevoli della questione. E per disposizione del legislatore, hanno l’obbligo di intervenire. Se invece il ministero, recepita questa segnalazione dell’associazione, non dovesse intervenire, allora i cittadini e il comitato avranno facoltà di innescare tutte le azioni giudiziarie del caso.>>

RICORRERE AL TAR

Tra le azioni giudiziarie da innescare c’è di sicuro il ricorso al Tar. Ma i sindaci della valle del Sabato non sembrano propensi. Si riuniscono, minacciano opposizioni, inviano note alla stampa per rendere manifesto il proprio dissenso. Ma nella sostanza, non si impegnano a firmare un documento condiviso che metta nero su bianco la volontà di stanziare fondi, congiuntamente, per un ricorso al Tar. Del resto non tutti hanno partecipato alle Conferenze dei servizi. Il comitato chiede loro di superare i particolarismi e di schierarsi esplicitamente dalla parte degli interessi dei cittadini. Pressioni che sembrano cadere nel vuoto sotto la scure del disinteresse. <<Le ragioni per ricorrere al Tar sono molteplici>>, dichiara ancora l’avvocato Bellizzi. <<Innanzitutto perché per la zona, segnalata come contaminata, è stato necessario elaborare un piano di caratterizzazione. Con la caratterizzazione si ricostruisce il fatto, si elaborano dei piani di indagine, ma poi si devono elaborare anche della analisi

di rischio. È una procedura, insomma, che poi deve evolvere necessariamente in più fasi, ultima fra le quali la bonifica e il ripristino ambientale. Ma come è possibile il ripristino se il sito viene destinato addirittura ad altri scopi? I comuni hanno un obbligo. Tutti i sindaci sono autorità sanitarie e hanno il dovere di tutelare la salute dei cittadini e prevenire qualsiasi potenziale pericolo in tal senso. Se i comuni della valle del Sabato dovessero individuare in questo impianto o nei suoi diversi usi un pericolo per la salute e l’incolumità dei cittadini devono adottare delle ordinanze per inibire il prosieguo di questa attività. Se, invece, non ritengono di voler o poter emettere queste ordinanze, dovrebbero quanto meno fare ricorso al Tar cercando di individuare più strade percorribili. Ricordo una cosa: il principio di precauzione, nel nostro ordinamento, non dice che i cittadini devono dimostrare che un impianto è pericoloso. Dice esattamente il contrario. Chi intende gestire gli impianti industriali deve dimostrare che la propria attività non è pericolosa. La questione, anche da un punto di vista probatorio, è completamente ribaltata. Se i comuni dovessero decidere di fare ricorso al Tar, i comitati potrebbero intervenire ad adiuvandum. Ma in queste valutazioni – sottolinea subentrano una serie di fattori di opportunità, di fattibilità e non ultimo di capacità dei comuni di fronteggiare le spese per un ricorso. Nel caso specifico potrebbe essere elaborato un Protocollo d’Intesa impegnandosi congiuntamente a fare ricorso. Anche perché le criticità della valle del

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Lo Stir di Pianorardine tra rifiuti e pastorizia / Foto di Pellegrino Tarantino

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Sabato non sono legate unicamente allo Stir. Nessuno finora ha minimamente preso in considerazione l’effetto cumulo. In questa fase un ruolo molto importante lo giocano i comitati e i cittadini. Se non decideranno di ricorrere al Tar i singoli comuni, potranno essere i cittadini a farsi carico di una simile iniziativa. Con tutte le difficoltà che questo comporta. Ma è una strada che non dovrebbe essere esclusa a priori.>>

I VELENI DELLA VALLE DEL SABATO

È il 16 luglio 2014 quando l’Arpac comunica alla Provincia di Avellino i dati sui superamenti delle concentrazioni di manganese nei campioni prelevati dai pozzi spia a monte e a valle dell’impianto Stir. Il 20 agosto l’ente effettua nuovi campionamenti delle acque sotterranee coadiuvata dal Noe di Salerno e dai Carabinieri di Montefredane. I risultati parlano del persistere dei superamenti delle Csc per il manganese, cloroformi fecali, batteri cloroformi totali, enterococchi intestinali, boro e azoto ammoniacale. A settembre la Regione Campania diffida la società Irpiniambiente, in quanto soggetto gestore dell’impianto Stir, <<ad adottare entro 30 giorni idonee e congrue misure atte a eliminare il superamento dei parametri derivanti dai monitoraggi Arpac.>> Il piano di caratterizzazione dello Stir viene presentato da Irpiniambiente il 30 settembre 2014. Nelle Conferenze dei servizi successive la Provincia, l’Asi e l’Arpac propongono di monitorare le aree in corrispondenza delle vasche di raccolta del percolato. La

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Regione Campania approva il piano di caratterizzazione con il decreto n.34 del febbraio 2015. Intanto le analisi del 2014 vanno a sommarsi a quelle già espletate dall’Arpac nelle campagne di monitoraggio del 2005 e del 2007 sul territorio della valle del Sabato. Nel 2005 l’Arpac accerta la presenza di Pcb in concentrazione superiore ai limiti di legge nel suolo, segnalando altresì la presenza di rame, piombo, stagno, berillio, vanadio e tallio. Nelle acque superficiali del fiume Sabato viene monitorata la presenza di ammoniaca totale, fosforo totale e tensioattivi anionici ancora una volta superiori ai parametri legislativi. I campioni prelevati invece nelle acque sotterranee evidenziano una concentrazione elevata di cloruri, ammonio, manganese, ferro e idrocarburi. Per ciò che concerne l’aria, va precisato che l’unica centralina di monitoraggio dell’area industriale è quella sita in prossimità dello Stir. Per i controlli sulle emissioni dei comparti industriali operanti sull’intero tessuto dell’area della valle del Sabato, ci si affida agli autocontrolli delle fabbriche. Nel comune di Atripalda viene registrato un aumento di ozono, ossidi di azoto e Ipa nell’aria. In prossimità di Arcella – frazione del comune di Montefredane – c’è persino il toluene. Ma il dato più allarmante si registra tra Montefredane, Pratola Serra e Prata di Principato Ultra: i valori di monossido di carbonio, ozono e delle PM10 superano i parametri di legge. Nel 2007 il dato diviene ancora più angosciante. Oltre alla conferma sui metalli e Pcb nei suoli, la

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concentrazione dei livelli di ferro e manganese nelle acque sotterranee è da 3 a 10 volte superiore ai monitoraggi precedenti. Nell’aria, inoltre, persistono i livelli allarmanti di PM10. Si trovano persino tracce di formaldeide. Nel luglio 2011 viene presentato uno studio del Cnr sul trasporto, dispersione e ricaduta al suolo degli inquinanti emessi nel nucleo industriale di Pianodardine. La firma in calce è degli esperti del Cnr Cristina Mangia e Marco Cervino con la collaborazione esterna di Ruggero Gallimbeni.


I fumi Aurubis / Foto di Pellegrino Tarantino

L’attenzione del Cnr si concentra in particolare sulle emissioni di alcuni impianti: Novolegno spa, Fma, Aurubis Italia srl, Denso Thermal Systems spa e Co.bi.em sas. Ma, come è ovvio, i valori delle emissioni derivano unicamente dagli autocontrolli che le società hanno fatto e certificato. Per la Novolegno si parla di autocontrolli del 2004 e del 2008. Per la Fma addirittura del 2006. Nessun autocontrollo disponibile per la Aurubis, per cui si dovrà fare unicamente affidamento sull’Aia (Autorizzazione

integrata ambientale). Mentre per Denso e Co.bi. em ci si basa su due relazioni tecniche rispettivamente del 2008 e del 1999. Lo studio dimostra che l’aria della valle del Sabato è densa di ossido di azoto, ozono, PM10, e Ipa con particolare attenzione al benzo(a)pirene. <<L’ozono in particolare – si legge nella relazione conclusiva - è comunque un inquinante da tenere sotto controllo in quanto prodotto da reazioni fotochimiche che coinvolgono, tra gli altri, gli ossidi di azoto e i composti organici volatili,

entrambe classi di inquinanti presenti nell’area.>> Il Cnr aggiunge la necessità che il monitoraggio dei parametri degli inquinanti in atmosfera sia costante. Che venga circostanziato a tutti gli impianti industriali operanti nel contesto della valle del Sabato. Ma quell’unica centralina Arpac, sita in prossimità dello Stir – le cui emissioni non vengono prese in considerazione nello studio del Cnr – negli ultimi mesi del 2016 ha smesso di funzionare. Le buone intenzioni, sono rimaste nel cassetto.

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I RIFIUTI DALLA CALABRIA

Quel che buona parte dei cittadini ignora, tuttavia, è che nell’agosto del 2016 la Regione Campania ha firmato un accordo con la Regione Calabria per il conferimento nel territorio campano dei rifiuti calabresi. La richiesta per un nuovo accordo interregionale è stata protocollata dalla Calabria già nei primi di giugno. Gli impianti attivi nel territorio calabrese non riescono a trattare le circa 2000 tonnellate di rifiuti che quotidianamente vengono conferite in discarica. Durante i mesi estivi, la difficoltà rischia di trasformarsi in emergenza. I calabresi tendono la mano alla Campania che, calorosamente, la stringe. L’accordo c’è. La trasparenza un po’ meno. Le società provinciali attive nell’arco campano – Samte Benevento, Ecoambiente Salerno, Gisec Caserta, Sap. na. Napoli e Irpiniambiente Avellino – danno la disponibilità tecnica a poter trattare i rifiuti provenienti dalla Calabria nei rispettivi impianti Stir. Del resto anche la Campania, durante il 2015, aveva chiesto una mano alla Calabria per lo smaltimento dei rifiuti provenienti dallo Stir di Battipaglia. È il più classico dei “do ut des”. Fino al 31 dicembre scorso sono stati accolti presso ciascun impianto Stir campano 400 tonnellate al giorno di rifiuti urbani calabresi identificati con codice CER 20.03.01. Nell’accordo ufficiale – pubblicato sul Burc n.94 del 16 settembre 2016 – si legge che i rifiuti provengono <<dai due impianti TMB di Lamezia Terme e Catanzaro – gestiti dalla società Daneco Impianti spa – e Rossano, Crotone, Siderno, Gioia Tauro e Reggio Calabria

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– gestiti dalla società Ecologia Oggi spa – mediante attività di trasferenza in un capannone, per il successivo carico su mezzi con capacità superiore per il trasporto in Campania. Resta intatta la possibilità, per i comuni posti nella zona nord della Calabria, di conferire direttamente negli impianti campani, mediante propri auto compattatori, previa certificazione dell’Arpa Calabria della corrispondenza del CER 20.03.01.>> I costi dei conferimenti sono stati pattuiti direttamente tra i gestori degli impianti campani e la Regione Calabria. A monitorare il viaggio dei rifiuti dalla Calabria alla Campania, ci sono rispettivamente le due Arpa regionali. Per conoscenza, l’accordo è stato inviato alle Province nelle quali si trovano gli impianti disponibili ai nuovi conferimenti, nonché alle società provinciali e agli enti gestori degli stabilimenti in questione. Nel caso irpino, dunque, alla Provincia di Avellino e a Irpiniambiente spa. Proprio nei mesi in cui la centralina di monitoraggio Arpac sita nei pressi dello Stir di Pianodardine ha smesso di funzionare, sarebbero arrivate circa 400 tonnellate al giorno di rifiuti dalla Calabria. Rifiuti, va chiarito, con un codice CER diverso da quello per il quale, negli stessi mesi, il presidente della Provincia Gambacorta si è affrettato a diramare più ordinanze per l’autorizzazione alla trasferenza e allo stoccaggio della frazione organica dei rifiuti presso lo Stir di Pianodardine. Ma l’atteggiamento poco nitido delle istituzioni resta.

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Cemento amianto abbandonato / Foto di Pellegrino Tarantino


L’INDUSTRIA Siamo a una manciata di chilometri da Sessa FANTASMA La valle delin Sabato non èdi Aurunca, provincia solo lo Stir. La compresenza Caserta. Imbocco la via di un nugolo di industrie Appia. La cerco con lo non va sottovalutata. L’areaAd sguardo e non la trovo. industriale Asi di Pianodardine un tratto appare un lungo è tra le prime realizzate filare di alberi e un cartello in provincia di Avellino in piccolo. piccolo virtù dellaTroppo legge n.634/1957. rispetto alla grandezza Nel disegno originario del di quello chel’obiettivo indica. Eccola legislatore era quello lì. La centrale nucleare di agevolare la promozionedel Garigliano. di nuove iniziative La sua produttive sfera nel Mezzogiorno mediante possente e quel caminola creazione di areesputava di sviluppo che un tempo industriali infrastrutturate all’esterno i radionuclidi in prossimità deifissione principali prodotti dalla assi viari. Nel caso specifico, controllata. Non sembra in prossimità dell’ingresso scalfita dal tempo. In autostradale A16 Napoli-Bari, verità è magnifica vista da del raccordo Salerno-Avellino una certa distanza. Meno e della superstrada Ofantina, magnifico è il vigilante che che consente il collegamento mi intima di andare via, di con l’Alta Irpinia. I comuni non scattare interessati dagli foto. insediamenti Perché? industriali questione sono Cosa c’è diinmale nel voler quelli di Avellino, Grottolella, immortalare un pezzo Manocalzati, abbastanza Montefredane, consistente Prata di Principato Ultra, della storia energetica Pratola Serra e Atripalda. italiana? Quali segreti si L’area è fornita di un solo pensa possa ancora celare impianto per il trattamento quell’insieme di utilizzabili lamiere delle acque reflue e cemento destinato al a scopi industriali. Manca, decommissioning non soprattutto, un sistema appena sarà individuato efficiente di smaltimento deiun cimitero rifiuti e di per servizi scorie di supporto capace alle aziende e ailelavoratori. di custodirne tristi Sono tre gli stabilimenti iscritti spoglie? alla tabella delle Aia regionali: Aurubis Italia srl, Novolegno spa e, ovviamente, lo Stir di Pianodardine. L’autorizzazione integrata ambientale è un provvedimento che autorizza l’esercizio dell’impianto, o parte di esso, in condizioni tali da poterlo uniformare alla prevenzione e alla riduzione dell’inquinamento. Un aspetto fondamentale del decreto Aia è il piano di monitoraggio e di controllo. Che prevede, come parametro

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cardine, la comunicazione all’autorità competente dei dati necessari a verificare la conformità dell’impianto ai parametri ambientali fissati dall’Aia. Ma come si è potuto costatare nel caso dello studio sulle emissioni portato a termine dal Cnr, non sempre le comunicazioni sono state pubblicizzate a dovere. Nel cuore del nucleo industriale, per altro, insistono una serie di piccoli insediamenti urbani. Tra le altre, la frazione Ponte Sabato di Prata di Principato Ultra risulta praticamente cinta d’assedio da una serie di aziende e di criticità ambientali: Novolegno spa, l’impresa del gruppo Fantoni si occupa di fabbricazione di fogli da impiallacciatura e di produzione di pannelli a base di legno; Fma, che produce motori a combustione interna per automobili; Dentice Pantaleone, specializzata nello smaltimento di rifiuti solidi industriali, nella raccolta e trattamento di materiali ferrosi e nella lavorazione della plastica; la centrale elettrica e le acque stagnanti del fiume Sabato. Ma non è la sola. Discorso analogo vale per i nuclei abitativi di Pianodardine e per la frazione di Montefredane, Arcella. Secondo il consorzio Asi di Avellino, su 371 ettari disponibili solo 180 risultano oggi occupati da attività industriali. Ancora meno sono gli ettari effettivamente infrastrutturati e pronti a ospitare una qualsiasi attività industriale. Per altro, su innumerevoli lotti gravano curatele fallimentari. Molti capannoni risultano abbandonati da anni. Come se lo sviluppo avesse attraversato solo di striscio questa parte del territorio lasciandosi alle spalle uno stuolo di cattedrali

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nel deserto. È il caso, solo per fare alcuni esempi, dell’ex Fim Sud spa, dell’ex Isochimica spa, dell’El.Ital. spa, dell’Amuco International spa.

L’EX ISOCHIMICA

L’ex Isochimica spa, tuttavia, merita una menzione a parte. È il 1982 quando il consorzio Asi di Avellino assegna alla società Isochimica un lotto di poco più di 30 mila metri quadri nell’area industriale di Pianodardine. L’anno successivo il Comune di Avellino rilascia la concessione per la realizzazione dell’opificio industriale


I camini spenti della Novolegno / Foto di Pellegrino Tarantino

all’interno del quale approdano le carrozze delle Ferrovie dello Stato per essere scoibentate e ricoibentate. Nel 1985 il lotto di concessione viene ampliato. Sono gli anni in cui, come riporta la giornalista Rossella Fierro, lucida testimone della vertenza, <<l’allora ricchissimo e ben voluto imprenditore Elio Graziano portò lavoro nell’Irpinia piegata dal sisma; l’uomo che conquistò politici locali e nazionali, che acquistò la squadra di calcio che all’epoca se la giocava sui campi nazionali della massima serie riuscendo così

a diventare l’idolo indiscusso dei tifosi biancoverdi.>> Furono assunti 333 operai. Molti hanno raccontato nel tempo di aver scrostato l’amianto dalle carrozze a mani nude e senza alcuna forma di protezione. Di aver saputo solo dopo che quella polvere bianca e sottile li avrebbe condotti a una lenta e inesorabile agonia. Di aver interrato le oltre duemila tonnellate di amianto rimosso in almeno tre – gli ex operai parlano di quattro – fosse nel terreno. In ventitré, come scrive ancora la Fierro, ci sono già morti. Gli altri si portano

sulle spalle, come un fardello, una carrellata di problemi respiratori e di malattie asbesto correlate. Nel luglio 2016 il gup della Corte d’Assise del Tribunale di Avellino, Fabrizio Ciccone, dispone il rinvio a giudizio per 27 dei 29 indagati nel processo Isochimica. Una sentenza storica, che poggia le basi su un’inchiesta aperta nel 2011 e che ha portato, due anni dopo, al sequestro della fabbrica killer. Le ipotesi di reato parlano di omicidio colposo plurimo, lesioni dolose, omissione in atti

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d’ufficio e disastro ambientale continuato. Una tragedia “pulita” consumatasi all’ombra del quartiere di Borgo Ferrovia, alle spalle di un campetto in cui giocano le squadre di calcio locali, a meno di 200 metri da una scuola elementare e da un ex asilo infantile. <<Quegli operai con i loro corpi contaminati dall’amianto – scrive ancora la Fierro sulle pagine de Il Ciriaco – con le loro morti sono riusciti, per citare il professore Antonello Petrillo autore de “Il silenzio della polvere”, a far entrare questa storia nel discorso pubblico. Una storia che adesso pretende di trovare verità nell’aula del tribunale di Avellino>>. Il 9 dicembre scorso il processo ha subito un rinvio. La nuova udienza si svolgerà il 24 febbraio 2017.


Montefredane / Foto di Pellegrino Tarantino Terre di frontiera / numero 9 anno 1 - gennaio 2017 / www.terredifrontiera.info

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gela profonda

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IL MARKETING E LA BONIFICA DI ROSARIO CAUCHI

Il 14 dicembre, davanti al giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Gela, si è aperto il procedimento penale nei confronti di ventidue imputati, tra vertici delle aziende del gruppo Eni e tecnici, accusati di disastro ambientale innominato. Intanto l’azienda intensifica la presenza in città finanziando progetti culturali e di formazione, mentre la bonifica dell’ex area Isaf è avvolta da tanti dubbi.

<<L’Eni, in questa città, sta facendo una rivoluzione.>> Lo ha spiegato l’attore e scrittore Jacopo Fo, figlio del premio Nobel Dario Fo e di Franca Rame, a margine di una conferenza stampa organizzata a Gela. Il riferimento è alla fase di riconversione a “green” della Raffineria di contrada Piana del Signore. Proprio Jacopo Fo e Bruno Patierno del gruppo Atlantide - hanno lanciato il progetto “Gela: le radici del futuro”. Una sorta di “modulo zero”, nel tentativo di raccogliere idee e progetti da destinare al rilancio economico locale, attraverso il perno della storia locale e della cultura classica. Tutto con il patrocinio di Eni. Tra i partner c’è anche l’agenzia “Martini 6” che, in più occasioni, ha organizzato eventi, campagne di comunicazione per Eni. Può un progetto di rilancio culturale e turistico fondarsi sull’appoggio di Eni che, da decenni, viene considerato uno dei punti più bui delle vicende cittadine, segnate da morti e gravissime patologie? <<Non possiamo continuare a piangerci addosso>>, dice il vicesindaco di Gela, Simone Siciliano. <<Quello proposto da Jacopo Fo e Bruno Patierno è un progetto a cui la nostra giunta pensava da mesi. Abbiamo un patrimonio immenso da sfruttare e

dobbiamo farlo. Perché, in altre città italiane o estere, basta poco per imbastire una vera e propria economia basata sulla storia e sulla cultura mentre in questa città bisogna sempre rivangare un passato fatto di mafia e industria? Abbiamo la consapevolezza che i danni causati vanno riparati e ci battiamo proprio per andare incontro alla tutela dei cittadini. Non bisogna trascurare, allo stesso tempo, che le sorti future della città non possono più basarsi solo sull’industria. Ci vuole ben altro. Il rilancio turistico non arriva dal cielo, bisogna lavorare per portare sviluppo. Ci è stata proposta una piattaforma di tante idee. Potremmo sfruttare la leggenda del gigante Manfrino ma anche le tradizioni della Madonna dell’Alemanna, senza dimenticare la storia greca e classica. Perché non pensare ad una Disneyland della tradizione greca di questa terra? Noi continueremo a lavorarci, con o senza Eni. Bisogna prendere atto, comunque, che proprio Eni ha ormai cambiato il tipo di approccio verso il territorio. Pensiamo al progetto di alternanza Scuola-Lavoro, alla riconversione green, ad alcuni interventi finanziati anche a livello sanitario. È un’occasione da sfruttare. Neanche i manager di Eni

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I MUGUGNI E IL PROCESSO

Molti hanno storto il naso, soprattutto tra i familiari di chi è morto per patologie riconducibili alla presenza industriale. Il 14 dicembre, davanti al giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Gela, si è aperto il procedimento penale nei confronti di ventidue imputati, tra vertici delle aziende del gruppo Eni e tecnici, sono accusati di disastro ambientale innominato. I legali di difesa hanno subito provveduto ad avanzare un’istanza di ricusazione nei confronti del giudice dell’udienza preliminare Paolo Fiore che, in passato, si sarebbe già pronunciato rispetto ad uno dei fatti al centro delle accuse. Così hanno chiesto che a trattare il procedimento sia un diverso gup. Deciderà la Corte di appello di Caltanissetta.

LA BONIFICA ISAF

Potrebbe essere una coincidenza ma, soprattutto negli ultimi mesi, i manager del “Cane a sei zampe” hanno scelto di avviare in città una serie di progetti che aprono, non solo al mondo della scuola, ma anche ad una dimensione sociale molto più ampia. Tutto questo, contornato dall’inaugurazione, attesa da anni, dei cantieri per la bonifica dell’ex area Isaf. Un vasto territorio, nei decenni scorsi utilizzato per ospitare attività produttive e impianti altamente pericolosi. Al taglio del nastro c’erano

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il presidente della Regione Sicilia, Rosario Crocetta, il prefetto di Caltanissetta Maria Teresa Cucinotta, lo stato maggiore di Eni e lo stesso vicesindaco Simone Siciliano. Ma a che punto sono i processi di bonifica in un territorio, da anni classificato come Sito di interesse nazionale (Sin), proprio a causa della presenza industriale? <<Mi spiace constatare – spiega il presidente della Commissione comunale Ambiente e Sanità, Virginia Farruggia - che l’assessore e vicesindaco Simone Siciliano, pronto, a suo dire, a dialogare con tutti i consiglieri comunali, non si sia neanche degnato di rispondere alle richieste della nostra commissione. Le uniche risposte – continua il presidente Farruggia – le abbiamo avute dalla funzionaria dell’ex Provincia di Caltanissetta che, da anni, segue l’iter. Peraltro, i dati a sua disposizione mettevano in luce l’assenza di richieste di certificazione rispetto a possibili procedimenti di bonifica già conclusi, segno insomma che la situazione è praticamente ferma al palo. Dalla giunta non sono arrivate repliche di alcun genere.>> Peraltro, l’esponente del Movimento Cinquestelle rincara la dose anche rispetto ai cantieri nell’ex area Isaf. <<C’è la necessità di capire se questi lavori, come spero – dice – riguardino l’intera bonifica dei suoli, altrimenti saranno attività solo parziali.>> Davanti a tante perplessità i manager del gruppo Eni confermano di rispettare tutti gli accordi assunti. <<Particolarmente rilevante è l’impegno economico e occupazionale per l’area di Gela – si legge in una nota

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ufficiale rilasciata da Eni l’intervento di decommissioning dell’impianto Acido fosforico prevede un picco massimo di circa 80 persone impiegate nel cantiere e un investimento complessivo di 50 milioni di euro. Per quanto concerne il risanamento ambientale, Eni ricorda che tutte le attività di bonifica autorizzate sul territorio di Gela per Syndial, Isaf, RaGe ed Enimed sono concluse o in corso di realizzazione. Sino ad oggi sono stati avviati 32 cantieri di cui 14 completati, per un impegno economico di circa 76 milioni

Crocetta inaugura i cantieri Isaf / Foto di Rosario Cauchi

avrebbero pensato che, un giorno, si sarebbero trovati a sostenere progetti avviati da una personalità tanto distante da loro come quella di Jacopo Fo.>>


di euro. Tali operazioni, per le quali sono state utilizzate le migliori tecnologie disponibili, hanno visto nell’anno in corso mediamente l’impiego di circa 220 risorse dell’indotto locale. Eni, inoltre, svolge costantemente attività di prevenzione attraverso ispezioni periodiche di tubazioni ed apparecchiature e manutenzione degli impianti, al fine di garantirne l’affidabilità e l’integrità tecnica, con benefici per l’ambiente e a tutela del territorio. I costi sostenuti sino ad oggi per tali attività hanno superato i 90 milioni

di euro. Grazie all’impegno di Eni e Syndial, l’area di Gela rappresenta un modello positivo di risanamento di un sito industriale in cui si coniugano il recupero ambientale e la creazione di opportunità di sviluppo del territorio. In conclusione, i progetti e le attività già intraprese da parte di Eni e Syndial sottolineano l’attenzione continua verso il territorio di Gela nonché il mantenimento degli impegni sottoscritti nel Protocollo del 2014.>>

PARLA EMILIO GIUDICE, RESPONSABILE DELLA RISERVA ORIENTATA BIVIERE

<<L’area ex Isaf non potrà mai essere bonificata. Al massimo, i cantieri serviranno a metterla in sicurezza. Una cosa è certa, è stato consentito ad Eni di far morire una vasta area che non potrà mai più essere utilizzata.>> Emilio Giudice, tra i responsabili locali della Riserva Biviere e della Lipu, esclude che i lavori appena inaugurati da Eni possano essere ricondotti tra le attività di bonifica. <<Chi parla di bonifica –

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continua – sa di mentire. In quell’area, sono state realizzate attività che l’hanno definitivamente compromessa. Chi ha governato la città in passato ma anche chi lo sta facendo adesso, ha ratificato la morte di un’area, senza peraltro richiedere alcuna compensazione. Invece, proprio quelle ambientali e di risanamento di un territorio martoriato dovrebbero essere le vere compensazioni. Invece, si preferisce far passare per compensazioni interventi che servono solo e soltanto ad Eni, ad iniziare dal porto rifugio.>> Per Giudice, che da anni segue l’intero iter dei processi di bonifica, quanto sta accadendo è in contrasto con il contenuto di protocolli molto importanti. <<Questi interventi – continua – non si sposano affatto con quanto previsto da Rete Natura 2000, anche a livello europeo. Ci sono le biodiversità da tutelare e non gli interessi di Eni e di chi sta intorno all’azienda. In tutto questo, la città continua a perdere il treno del rilancio turistico, assumendo sempre più le fattezze di una città post bellica.>>


territori

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TERAMANO, È EMERGENZA IDRICA DI ALESSIO DI FLORIO

Il 16 dicembre scorso la Regione Abruzzo dichiara lo stato di emergenza idrica nel teramano. Fino al 15 aprile 2017. Nelle more del provvedimento varato dalla Giunta regionale si autorizza l’approvvigionamento idrico di emergenza <<dopo la disposizione cautelativa emessa dall’Asl di Teramo per le acque provenienti dai laboratori del Gran Sasso>>. La disponibilità idrica della sorgente del traforo non è più in grado di garantire i volumi necessari per l’acqua potabile. Un problema questo, che riguarda l’intero territorio abruzzese.

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Ma c’è di più. L’emergenza idrica è scattata perché nelle acque provenienti dalla condotta del Gran Sasso sono state trovate tracce di diclorometano. È la Ruzzo Reti spa – società che gestisce il servizio idrico in provincia di Teramo – a metterlo nero su bianco il 17 dicembre, a poche ore dal provvedimento regionale. <<Nelle captazioni del versante aquilano – si legge nel documento – sono state rilevate tracce di diclorometano, seppur ampiamente sotto i parametri di legge […]. Prudenzialmente, sia Ruzzo Reti che il Sian – Servizio di Igiene degli Alimenti e della Nutrizione – della Asl di Teramo hanno effettuato analisi sul pozzetto di derivazione situato in prossimità del Laboratorio di Fisica Nucleare del Gran Sasso. Tali analisi hanno confermato che non ci sono superamenti dei parametri di legge. Ma, avendo evidenziato qualche lieve anomalia, lo stesso Sian ne ha disposto il non utilizzo fino a nuovo provvedimento. A valle di tale episodio Ruzzo Reti ha inevitabilmente dovuto integrare il mancato prelievo dal Gran Sasso – circa 100 l/s – continuando a utilizzare l’acqua potabilizzata nell’impianto di Montorio al Vomano che, al contrario, in questo periodo dell’anno viene chiuso per effettuare le manutenzioni

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periodiche>>. Intanto la Ruzzo Reti spa ha avanzato istanza risarcitoria nei confronti dei Laboratori di Fisica Nucleare in ragione dei maggiori costi sopportati nel processo di potabilizzazione. Di contro, i Laboratori ribattono di non aver più riscontrato tracce del solvente già nei giorni successivi alla segnalazione della Asl.

I FATTI

In occasione del monitoraggio del 30 agosto 2016, in un campione d’acqua viene rilevata la presenza di diclorometano. Una sostanza classificata dallo Iarc come nociva e potenzialmente cancerogena per l’uomo. Il 2 e il 7 settembre la Asl effettua due ispezioni nei Laboratori del Gran Sasso. Il 10 ottobre l’Asl chiede un parere all’Istituto Superiore di Sanità. Fino a questo momento, la questione non è ancora di dominio pubblico. Nei giorni successivi alla dichiarazione della “nuova emergenza”, il direttore dei Laboratori di fisica nucleare, Stefano Ragazzi, dichiara che <<non c’è stato sversamento, ma solo evaporazione da un contenitore della grandezza di un bicchiere. Le tracce in acqua sono frazioni di parti per miliardo. Tuttavia manca qualche informazione sul sistema di raccolta delle acque che non


panorami

mi è concretamente possibile ottenere. Come ha fatto la sostanza a finire nell’acqua della vasca? Il vapore ci può finire, ma deve esserci un contatto tra aria e acqua. Non può succedere se l’acqua scorre in un tubo chiuso>>.

LA STUAZIONE È COMPLICATISSIMA

<<Dopo diversi controlli, nelle acque del Gran Sasso è stata rilevata la presenza di cloroformio ben oltre i limiti stabiliti dalle leggi sulle acque sotterranee>>, denuncia il Forum abruzzese dei movimenti per l’acqua pubblica. Dalla documentazione pubblicata online dall’Asl si evince che il cloroformio è stato trovato sia presso i Laboratori che a Casale San Nicola già durante il monitoraggio del 7 novembre 2016. A distanza di soli tre giorni, il 10 novembre, non vengono prelevati campioni nei Laboratori. Ma a Casale San Nicola il cloroformio ha raggiunto valori di 0,3 microgrammi/litro, circa il doppio del limite di legge. Il 15 novembre, tanto dai Laboratori quanto da Casale San Nicola, scompaiono le tracce di cloroformio. Ma con un colpo di scena, il 21 novembre, il cloroformio ricompare con parametri pari a 0,5 microgrammo/litro, più del triplo rispetto ai valori indicati

dalle leggi in materia. Per quanto riguarda invece il diclorometano, la documentazione Asl riporta che <<nei referti dei controlli precedenti – il 2 e il 16 agosto – il diclorometano non era tra le sostanze cercate. In ogni caso, l’acqua controllata non risultava essere in circolazione. Il 30 agosto ai Laboratori viene rilevata una concentrazione di diclorometano pari a 0,355 microgrammi/litro – il doppio dei limiti per le acque sotterranee -. A Casale San Nicola i valori indicano lo 0,042 microgrammi/litro. Il primo settembre – si legge ancora nel documento – il diclorometano misurato nei Laboratori è pari a 0,3 microgrammi/litro. Nel referto l’acqua captata viene descritta come “in distribuzione”. Il 5 settembre sia ai Laboratori, sia a Casale San Nicola, il diclorometano è al di sotto dei limiti di rilevabilità e l’acqua non risulta in distribuzione. Dal controllo del 12 settembre in poi il diclorometano non risulta tra le sostanze cercate, mentre continuano a essere ricercate sostanze a nostro avviso inutili come ad esempio l’esacloroetano e tetracloruro di carbonio, che erano state trovate esclusivamente nella Valpescara nel 2007 per la questione di Bussi. Nelle acque della rete di distribuzione –

conclude l’Asl – il diclorometano non risulta mai cercato. Né prima, né durante, né dopo il caso di contaminazione accertato>>. I dubbi, specie tra gli attivisti del Forum, si sono amplificati. Come mai il diclorometano è stato cercato proprio il 30 agosto? C’è forse stata qualche segnalazione? E perché, se le concentrazioni di cloroformio e diclorometano hanno superato i parametri di legge, il sito non è stato considerato come “potenzialmente contaminato”? <<Facciamo notare – argomenta il Forum – che si ricercano continuamente sostanze non tabellate – come esacloroetano, tetracloruro di carbonio -, ma non si ricercano le sostanze utilizzate nei Laboratori, come il diclorometano. Come mai? A ridosso di un caso di contaminazione accertato, il monitoraggio di diclorometano è stato interrotto dopo un solo campione negativo. L’Asl è in possesso dell’elenco di tutte le sostanze utilizzate nei Laboratori? E perché proprio il 1 settembre le acque risultano in distribuzione?>>.

I CONTI NON TORNANO

Come c’è finito, quindi, il diclorometano nelle acque? E come mai la Giunta regionale si affretta a dichiarare l’emergenza fino ad aprile 2017 se il solvente scompare già

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nei giorni immediatamente successivi ai rilievi? Sono domande che pretenderebbero risposte chiare. Specie se si considera che i Laboratori del Gran Sasso sono inclusi nell’inventario nazionale degli impianti a rischio di incidente rilevante previsto dalla Direttiva Seveso. Normative che, insieme al decreto legislativo n.31/2001, obbligano gli Enti pubblici ad assicurare ai cittadini un’informazione trasparente, totale e immediata su qualsiasi rischio. Anche solo presunto. Il Forum abruzzese dei movimenti per l’acqua pubblica ha denunciato l’assenza di trasparenza fin dai primi giorni dell’emergenza idrica. Chiedendo l’immediata pubblicazione di tutta la documentazione sui siti web degli enti coinvolti. <<Delibere, determine, relazioni, lettere e referti analitici dovrebbero essere già disponibili online – scrive il Forum – Esistono obblighi precisi sulla trasparenza e divulgazione pro-attiva di dati e informazioni in materia ambientale. Alcune versioni rilasciate alla stampa sono risultate discordanti sulle date e sulle modalità dei prelievi>>. Agli Enti competenti sono state indirizzate domande precise. <<Dal 30 agosto al 1 settembre – incalza il Forum – l’acqua captata è stata scaricata nell’ambiente o ha continuato a fluire nella rete idropotabile? L’Asl, per quanto ne sappiamo, svolge controlli completi al Gran Sasso che si ripetono con cadenze settimanali. O al massimo di 15 giorni. Quando è stato effettuato il monitoraggio precedente a quello del 30 agosto? E i Laboratori, quando hanno iniziato a usare il diclorometano? Saperlo è fondamentale,

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perché le acque avrebbero potuto essere contaminate già nei giorni precedenti alla data del 30 agosto. Inoltre in prossimità delle captazioni, secondo il piano di emergenza, dovrebbero essere presenti dei campionatori per il monitoraggio dei parametri generali con cadenza ogni 15 minuti. Hanno dato qualche tipo di allarme? Parliamo di un sistema che dovrebbe operare ai massimi livelli di efficienza e sicurezza. I Laboratori di fisica nucleare del Gran Sasso – continua – sono classificati come impianti a rischio di incidente rilevante in base alla Direttiva comunitaria Seveso. È lecito domandarsi se quanto accaduto sia stato notificato secondo quanto previsto dal piano di emergenza dei Laboratori stessi. I valori riscontrati per il diclorometano, per altro, sono risultati superiori del doppio rispetto ai limiti stabiliti per le acque sotterranee. Considerando che quello del Gran Sasso è l’acquifero più importante della regione, e uno dei più importanti in Europa, è stata inoltrata la comunicazione obbligatoria ai fini della bonifica? E in ultimo: i sistemi di sicurezza sono risultati efficaci? Ricordiamo infatti che nei Laboratori di fisica nucleare sono stoccate centinaia di tonnellate di sostanze pericolose, dalla nafta pesante al tribetilbenzene. Quali sarebbero i tempi di reazione del sistema di gestione dell’acqua potabile se si dovesse verificare un incidente ancora più grave? Visto quanto accaduto – conclude il Forum - crediamo sia necessaria un’inchiesta pubblica inerente anche ai lavori effettuati ai tempi del commissariamento Balducci>>.

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L’ESPERIMENTO “BOXERINO”

Ma l’emergenza idrica in Abruzzo ha radici molto più profonde. La Giunta regionale abruzzese il 16 dicembre scorso dichiara un’emergenza idrica che esiste di fatto già da tredici anni. Maria Maddalena Marconi – direttore del dipartimento di prevenzione della Asl di Teramo – in una relazione trasmessa alla direzione generale dell’Asl sottolinea che nel 2003, dopo i ritrovamenti di trimetilbenzene nelle acque, l’allora premier Silvio Berlusconi emana un’ordinanza di dichiarazione dello stato di emergenza sul Gran Sasso. Il commissario nominato è Angelo Balducci. L’obiettivo è quello di assicurare la messa in sicurezza del sistema idrico integrato e dei Laboratori di fisica nucleare. <<Uno stato di emergenza che a tutt’oggi non è mai stato dichiarato terminato>>, scrive il direttore Marconi. Tutto inizia il 16 agosto del 2002, nell’ambito dell’esperimento divenuto famoso come “Borexino”. Il trimetilbenzene, finito nei torrenti Gravone a Casale San Nicola e Mavone a Isola Gran Sasso, è stato utilizzato nei Laboratori di fisica nucleare. <<L’incidente con il trimetilbenzene – ricorda il WWF – evidenzia tutta la fragilità del sistema di gallerie, laboratori e punti di approvvigionamento di acqua presenti nel Gran Sasso>>. L’indagine sull’incidente porta al sequestro, nel maggio 2003, della sala C del Laboratorio. Quella nella quale è stato condotto l’esperimento “Borexino”. “Borexino” è un esperimento scientifico frutto della collaborazione tra atenei italiani e americani, tra i più


illustri figura anche la Princeton University del New Jersey. Il suo obiettivo principale è quello di effettuare una misurazione precisa dei neutrini solari generati dal Berillio per migliorare la comprensione dei processi di fusione nucleare che si producono nel nucleo solare. In seguito alle indagini Alessandro Bettini – ex direttore dei Laboratori di fisica nucleare – ed Enzo Iarocci – presidente dell’Istituto nazionale di fisica nucleare – vengono ammessi al patteggiamento. Le accuse sono di scarico non autorizzato di acque reflue industriali, sversamento di sostanze tossiche e deterioramento delle bellezze naturali. Entrambi vengono condannati a un’ammenda di 1672 euro. Ma poi la Corte dei Conti li assolve perché <<l’evento dannoso, comunque caratterizzato da una notevole accidentalità, si poneva al di fuori di ogni previsione circa la struttura di qualunque misura di sicurezza precostituita dall’Istituto e dalla direzione del Laboratorio>>. C’è di più. L’ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri fa riferimento anche a un ritrovamento di naftalene nelle sorgenti del Ruzzo. Oltre a evidenziare una carenza delle misure di sicurezza ambientale nei Laboratori del Gran Sasso. Una commissione d’indagine regionale mette in evidenza l’assenza di impermeabilità tra la falda acquifera e gli scarichi del Laboratorio. L’Arta – agenzia regionale per la tutela dell’ambiente - effettua la caratterizzazione ambientale del torrente Mavone tra l’ottobre 2002 e il maggio 2003. Lo studio rivela che il trimetilbenzene non ha compromesso lo “stato di salute” del torrente. Oltre

i parametri chimici, fisici e batteriologici, l’Arta prende in considerazione anche gli aspetti tossicologici. L’Ibe – indice biotico esteso – e l’Iff – Indice di funzionalità fluviale - , la microfauna, il periphyton, la vegetazione acquatica e perifluviale, la diversità ambientale, il regime idraulico, le condizioni dell’alveo e del territorio circostante. Solo in alcuni tratti viene riscontrata una “condizione di fragilità” legata alle attività umane, urbane e industriali. Nel settembre 2004 vengono realizzati i vasconi per lo stoccaggio e filtraggio delle acque che fluiscono dal Laboratorio per poi essere reimmesse nel fiume. Nel novembre 2006, invece, l’esperimento “Borexino” viene riavviato. Alla presenza dell’ambasciatore Usa in Italia, Ronald Spogli.

L’INTERVENTO DELL’ISTITUTO SUPERIORE DI SANITÀ

L’Iss sostiene l’incompatibilità tra la captazione delle acque per usi idropotabili e le attività dei Laboratori del Gran Sasso. La lettera, pubblicata negli ultimi giorni di dicembre dal quotidiano online Primadanoi risale al luglio 2012. Per l’Iss, due sono le alternative: o si riducono le attività dei Laboratori, o si deve evitare di prelevare l’acqua dal Gran Sasso. L’Iss contesta <<una generale non conformità della localizzazione dei locali e delle installazioni>> dei Laboratori di fisica nucleare. Sottolineando che i lavori programmati per la protezione dell’acquifero dell’area B dei Laboratori non sarebbero mai stati realizzati. <<Significa - conclude Primadanoi - che almeno in parte, per ragioni sconosciute,

i lavori programmati dal commissario non furono completati prima del 2013. Sarà un caso, ma nessuno ha finora spiegato in quale area del Laboratorio si sia verificato l’ultimo incidente di agosto>>. L’Istituto Superiore di Sanità, interpellato anche sul più recente caso di contaminazione da diclorometano nelle acque del Gran Sasso, sostiene che <<non risulta evincersi rischio per la popolazione […] sia in considerazione dei livelli di concentrazione riscontrati e per la sua durata, che per le misure precauzionali adottate, basate su una rilevazione precoce dell’evento pericoloso, nell’accertamento delle cause e nella segregazione della captazione sottoposta comunque al monitoraggio>>. Dunque, nessun pericolo. Tanto che l’ente gestore del servizio idrico, la Ruzzo Reti spa, ha inviato all’Asl di Teramo una richiesta di revoca del divieto di captazione delle acque in relazione alla carenza idrica aggravata dalle condizioni metereologiche di questo periodo. Il direttore del dipartimento di prevenzione della Asl di Teramo Marconi, ha disposto la riammissione in rete delle acque <<in via temporanea e provvisoria, sino ad esecuzione di un monitoraggio continuo e rafforzato da parte del Sian Asl di Teramo, in considerazione del fatto che la risorsa idrica del Gran Sasso è comunque correlata a sorgenti di rischio>>. Senza contare che le opere strutturali eseguite, come dimostrato dagli incidenti verificatisi, non sono risultate completamente idonee a proteggere il sistema idrico e l’approvvigionamento idropotabile.

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terre di migranti L’Italia di chi va e di chi viene DI LEONARDO PALMISANO

Terre di migranti è una rubrica a specchio, doppia, incentrata sul vaI e vieni, su questo strano fenomeno che partorisce la società italiana da qualche anno a questa parte: persone che vanno via e persone che arrivano. Il mix di queste dinamiche modifica la demografia, i rapporti di forza dentro il mercato del lavoro, la struttura economica e politica locale e nazionale. Proveremo a raccontare, di volta in volta, una doppia storia: un partente e un arrivante. I due volti della medaglia degli esuli, dei rifiutati e degli esclusi del nostro martoriato Paese.


ANA, BRASILIANA SENZA SAUDADE Ana è l’antiprototipo femminile di una brasiliana. Perché grassa, non altissima, non bellissima e morigerata. È il contrario esatto di quello che noi italiani pensiamo debba essere – perché l’estetica è un dover essere, da queste parti – una donna latinoamericana. Non è disponibile a vendersi, ma a lavorare. E lo fa, come cuoca, da quasi quindici anni, a Milano. La ristorazione italiana, vanto dell’economia nazionale, si nutre da un bel po’ di personale straniero di grande qualità e zelo. Ana è arrivata quando il Brasile non era ancora tra le più promettenti potenze mondiali, ma un grande subcontinente in cerca di una identità diversa da quella calcistica. Era il Brasile che prendeva la rincorsa per gareggiare sulla pista melmosa del capitalismo mondiale. Lo stesso Brasile che oggi… <<Il mio paese sta morendo per colpa della Roussef. Ho fatto bene a andar via di lì, non c’è speranza. Ora ammazzano anche i bambini delle favela. Che altro deve succedere per far aprire gli occhi all’Occidente?>> Nel suo essere un archetipo al contrario, Ana non ha rimpianti, non soffre di saudade. <<Non voglio tornare più laggiù. Non mi riguarda la vita del Brasile. Sto bene qua, anche se potrei stare meglio…>>

<<Sicura di star bene in Italia?>> <<Sicurissima. Ho imparato a cucinare in una scuola italiana quando sono arrivata. Ho imparato la lingua e la cucina, e poi ho cominciato a lavorare. Forse sono stata fortunata. Tu che dici?>> Dico che Ana è stata molto fortunata, perché è riuscita a entrare miracolosamente in un affluente gorgogliante del Lete del sistema dell’accoglienza italiano. Le è andata bene, perché non le si son parati davanti i tanti Buzzi&Carminati di cui è zeppa l’Italia del welfare. <<Vedi quanto è bello il duomo? Questo è il bello di Milano. Che alzi la testa e vedi la bellezza>> Il cliché del migrante che ce la fa, che perlomeno non stenta a sopravvivere, è ricco di luoghi comuni sul Belpaese. Ana cerca di legittimare sé stessa in una città climaticamente e architettonicamente diversa da Rio, la sua città natale. <<Ma Rio non ti piace?>> <<Mi piace, ma ora sto qua>>, dice con una prima, timida punta di rimpianto. Qua è il cuore dell’Europa italiana, o forse la sola città europea d’Italia. E neanche una delle più evolute. Milano non è una città facile e abbordabile. Sembra essere tornata la

Milano degli emigranti con la valigia di cartone, dei meridionali che ne invadevano le periferie in cerca di lavoro e fortuna. È una città di flussi di manodopera sempre più globalizzati. <<Sai quante brasiliane ci sono a Milano?>>, mi domanda con una sfumatura di civetteria pungente come aroma di caffè. <<Molte>> <<Tutte residenti in Svizzera, così non pagano le tasse in Italia>> <<E cosa fanno?>> <<Le puttane>> Ecco. Per segnalare un’altra differenza tra sé stessa e i brasiliani più comuni, Ana rimprovera le sue connazionali messe a lavorare nel grande circo del mercato del sesso italiano. Un mercato tra i più fiorenti del mondo europeo. Lo stesso mercato che fa del nostro Paese il secondo in Europa per prostitute ridotte in schiavitù. <<Fanno su e giù tra Milano e Lugano>>, commento e lei annuisce. <<Tu, invece, sei diversa>> <<Io lavoro. Mi danno mille euro al mese, ma sono onesta>> Onestà. Parola grossa se usata in Italia. Parola che stona con qualunque indicatore economico nazionale. <<E il tuo padrone è onesto? Te

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lo fa un contratto?>> <<Coi voucher>> Onestà è sinonimo di voucher, jobs act e lavoro nero. Onestà, albergo dello sfruttamento. <<Quante ore lavori?>> <<Undici>> Undici ore in cucina, per sei giorni a settimana, per mille euro versati con il sistemone dei voucher e di altri contrattini orari. <<È vero, tu sei più onesta>>, ironizzo. Ana non afferra. Si stringe nel suo piumino verdone e mi invita a prendere un caffè. <<D’accordo, a patto che mi racconti quanto è bella Rio>> Sorride e alza un braccio. L’ho convinta a tirar fuori qualche rimpianto e quell’amore per il suo Paese che le brilla ancora negli occhi.

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MARIO, IL CUOCO LONDINESE Milanese vero, come si definisce lui smentendo il proverbio che nega da sempre l’esistenza di una razza milanese purosangue, Mario è cuoco a Londra. Faceva il contabile, ma guadagnava pochissimo. Ha vissuto nella miseria per un paio d’anni, dopodiché ha deciso di prendere un diplomino e di partire per la capitale del Regno Unito. <<Perché? Solo un fatto di soldi?>>, gli domando. <<Soprattutto per Londra. A Milano tutti se la tirano, manco fossimo davvero meglio degli altri. Milano è un bluff. Londra è città vera. Anche se è dura. Ma anche Milano è dura per gli stranieri>> Sì, Milano è dura. Dura l’Italia dei nuovi razzisti diffusi da Nord a Sud, dei nuovi poveri che guerreggiano con i poveri di sempre. <<Si son messi in testa che bisogna far la guerra alla povertà>>, dico. <<Ai poveri!>>, mi corregge intelligentemente. Infatti, la cronaca milanese è piena di attacchi xenofobi, di risse tra italiani e stranieri, tra periferici e periferici. <<Sono scappato quando ho capito che l’Italia non ce la farà mai>> <<Quando l’hai capito?>>, gli

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domando. <<Un giorno che ho visto il mio vecchio padrone prendere a calci il suo cane perché non ce la faceva a pagare una bolletta. Tutto parte dalla teste. Se son matti i capi, diventiamo matti tutti. Ma io no>> Ci siamo fermati davanti al Duomo. Lo ammiriamo stupefatti. Le guglie che pungono il cielo nebbioso e ovattato. <<Tu no?>> <<No. A Londra è dura. Anche lì il padrone rompe i coglioni, ma c’è lavoro. Sì, sono usciti dall’euro, ma mi dici a che serve avere l’euro se non c’è l’Europa?>> Non so cosa rispondere, perché la distanza tra Europa e Euro è abissale. Tanto è vero che qualunque rimedio finanziario al disastro economico dell’Ue non trova mai d’accordo governi e popoli europei. Siamo una federazione in procinto di esplodere, più che una comunità di valori e persone. <<Quanto ti pagano?>> Mario si gonfia. <<Tremila euro al mese. E sono solo un aiuto cuoco. Stiamo parlando di un buon ristorante, dove posso esercitarmi la mattina per preparare dei piatti all’italiana che nessuno sa fare. Sono diventato bravo. Mi fanno sperimentare…>>


Mario apprezza lo stipendio e la libertà. L’iniziativa che gli fanno prendere in Inghilterra perché sanno, loro, che l’economia rinasce dove c’è inventiva, creatività, libertà. Un’economia che nulla ha a che fare con le gelide ricette della Bce. <<Rimarrai sempre lì?>> <<Non lo so. Per ora sì. Non mi conviene tornare in Italia. Anche l’Italia è cara, che ti credi? Milano è diventata intoccabile, ma guardati intorno. Siamo sotto Natale ma nessuno che compra. Tutti a guardare. È la crisi? No, secondo me è la fine che è già arrivata e non se ne sono accorti>> <<Chi?>> <<Voi che siete ancora in Italia>> In quell’ancora c’è un’esortazione a seguirlo. A fare come lui, come gli altri centosettemila che nel 2015 hanno mollato la penisola per l’estero. C’è tutta l’Italia che se ne va per non più tornare. Annuisco e lo invito a fare due passi. Mi dice che vuol mostrarmi un localino che vorrebbe imitare, per aprirne uno simile a Londra. Lo seguo volentieri, e usciamo dalla tristissima bruma milanese di piazza Duomo.

La rubrica Terre di migranti è curata da Leonardo Palmisano (1974, Bari), scrittore e sociologo. Presiede la cooperativa editoriale Radici Future Produzioni. Esperto di lavoro, migrazioni e criminalità, è autore di inchieste, saggi e romanzi. Tra le altre cose ha pubblicato Ghetto Italia. I braccianti stranieri tra caporalato e sfruttamento (Fandango Libri) con cui ha vinto il premio Rosario Livatino 2016, e, con Annalisa Gadaleta, Conversazione a Molembeek (Radici Future). Ha scritto per AlfaBeta2, Left, NarcoMafie, Lo Straniero, Terre di frontiera. È tra i redattori del blog Sul Romanzo.

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Mascuud / Foto di Pellegrino Tarantino

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MASCUUD DI PELLEGRINO TARANTINO

<<Sono tantissimi. Quanti sono? Cinquantasei? Troppi! Qui nessuno li voleva ed al Comune se ne fregano, il sindaco quando se li è trovati ha detto che manco lo sapeva che sarebbero venuti. Poi perché i soldi a loro e non ad un giovane italiano in difficoltà?>> <<Girano sempre in gruppo, da soli, non parlano con nessuno, parlano male l’italiano e qui quasi nessuno capisce l’inglese.>> <<La sera fanno paura. Immaginate se una vecchina, che i neri li ha visti solo alla televisione, li incontra tutti insieme in strada?>> No, non siamo a Gorino. E nemmeno nei territori secessionisti della Lega. Siamo in piccolo paesino dell’entroterra campano. Poco più di 2500 anime tra colline e campagne dove la vita scorre tranquilla e placida. Gli abitanti del villaggio sembrano davvero impauriti, non capiscono questi ragazzi, hanno il terrore che diventino ingestibili, che possano ribellarsi. Chi li ha conosciuti, invece, parla di ragazzi <<tranquilli, simpatici, un po’ sulle loro è vero, ma molto è dato dalla barriera linguistica.>> Sono ragazzi che vengono dal Pakistan, dall’Eritrea, dal

Gambia, dalle Guinee. Aliu, Alhasana, Modu e Sako mi spiegano, infatti, che non esiste una sola Guinea. C’è la Guinea Francese (oggi Guinea-Conakry), la Guinea Portoghese (oggi GuineaBissau) e la Guinea Spagnola (oggi Equatorial Guinea). Parlano un po’ in italiano, un po’ in inglese. Parlano francese, portoghese, spagnolo e in pulaar, un complicatissimo dialetto africano pre-coloniale. E giocano a Brinka. Un gioco con carte francesi. Tra loro è in corso un vero e proprio campionato. La distanza tra Modu e Sako è di sole due vittorie. Una sfida accesissima. Giocano a calcio e a dama, come Mascuud, il campione in carica. Il suo gioco è fluido, fatto di reazioni rapide, flessibili e precise. Mascuud è etiope. Appassionato di farmacia e medicina. Sogna di diventare medico. Per questo è venuto in Italia, per continuare a studiare. <<In Etiopia la scuola è solo teorica, tutte chiacchiere, e poi è molto politicizzata. Cercano d’incastrarti in una mentalità politica già da piccolo.>> Parla un ottimo inglese, benché con accenti e pronuncia tipici africani, e si sorprende che io riesca a capirlo. <<Quando sono partito pensavo che tutti in

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Mascuud e la dama / Foto di Pellegrino Tarantino


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Mascuud e la dama / Foto di Pellegrino Tarantino

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Europa conoscessero l’inglese, e invece...>> Mascuud viene da una delle regioni più difficili dell’Etiopia, l’Ogadenia. Un territorio ad est, al confine con la Somalia, in perenne conflitto politico e militare per la presenza di vari gruppi separatisti. Il più crudele è l’Ogaden national liberation front, una milizia militare che lotta per l’indipendenza dell’Ogadenia e la riannessione alla Somalia. <<La lotta tra il governo e queste milizie è spietata. Io abitavo a Gigiga, la capitale, e non potevamo superare i confini della città. Se uscivi l’Onlf ti prendeva e ti torturava come spia del governo. Se rientravi allora ti prendeva il governo e ti torturava come una spia dell’Onlf. Ero preso tra due fuochi...>> Per arrivare in Italia Mascuud è fuggito in auto. Diciannove giorni di viaggio attraversando l’Africa, fino a Tripoli. Diciannove giorni di viaggio continuo, fermandosi solo per il rifornimento. Diciannove giorni attraversando zone desertiche e montuose, strade sconnesse e dimenticate, con la paura di essere catturato e torturato.


Mascuud, Aliud, la Brinka e il calcio / Foto di Pellegrino Tarantino

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meridiano

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SEMI DI ROBERTO TODISCO

L’odore del mare non c’entra niente con la polvere rossastra che la fabbrica di mattonelle ha sparso nel cielo per anni, prima di chiudere e lasciare tutto il quartiere senza niente da fare, ma con quella specie di sabbia a scricchiolare sotto i denti. Eppure c’era, l’odore di mare. Chi sa da quale prospettiva di edifici si era insinuato e adesso galleggiava nel caldo della rotonda dove stazionano gli autobus, sapido, echeggiante di vite diverse, immenso. Finalmente l’autobus che stava aspettando è arrivato. Ha fatto il giro del parcheggio e si è fermato al solito posto. Luigi si è passato una mano fra i capelli. La ragazza è scesa dalla porta di dietro, insieme ad una coppia di anziani. Portava i capelli legati e una felpa grigia, con sopra stampata una stella. Aveva un sorriso appoggiato sul viso. Come sempre. Luigi l’ha seguita con lo sguardo. Questo è senza dubbio il momento della giornata che preferisce. Tre minuti. Il tempo che la ragazza impiega ad attraversare quello spiazzo senza ombre. Tre minuti, poi si mette sullo stradone e Luigi vede il suo zainetto rosso allontanarsi piano, fino a diventare un puntino, come la brace di una sigaretta. Da due settimane Luigi aspetta questi tre minuti, tutti i giorni. Si piazza sul muretto, la guarda, fa caso al colore dei

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vestiti, al modo che ha di inclinare la testa quando sembra pensare a qualcosa che la porta altrove, al viso luminoso. Poi prende e torna al negozio. Quello di Don Alfredo, in realtà, non è proprio un negozio. È un posto dove la gente ci porta il metallo da vedere. Luigi lo scarica dai furgoni e lo accatasta in un capannone. Qualche volta in mezzo a mazze e lamiere saltano fuori lampadari, stufe, candelabri. Queste sono le cose che si vendono al negozio di Don Alfredo. È un lavoro un pesante, ma è l’unico che ha trovato, e da quando suo padre ha perso il posto a Luigi è toccato darsi da fare. Poi è diventato tutto quello su cui poteva contare. Quel giorno, come sempre, dopo l’attesa al parcheggio degli autobus Luigi si è fermato a comprare una Coca Cola. Quando è uscito è stato accecato dal sole che si rifletteva nella vetrina. Così all’inizio ha sentito solo la voce. “Sei un maniaco o una cosa del genere?”. Poi ha riconosciuto quel viso, era a meno di un metro dai suoi occhi. “Cosa?”. “Ti ho chiesto se sei un maniaco”. “Cosa?”. “Ehi, ma mi capisci?”. Luigi fa segno di sì con la testa. “Perché mi aspetti da due settimane alla fermata e mi fissi a quel modo?”. Luigi sentiva un vuoto scavargli dentro, fino in fondo alla pancia e alla testa.

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“Non so di cosa parli”, ha detto abbassando lo sguardo. Poi si è messo a correre. Il giorno dopo Luigi ha aspettato l’autobus come nelle ultime due settimane. In mano stringeva uno specchietto di bronzo preso al negozio. La ragazza ha attraversato il parcheggio. Gli si è parata davanti. “Se non sei proprio un matto va bene, si insomma non mi dispiace”. A Luigi sembrava che il cuore gli battesse nel petto di un altro. Lui la guardava in silenzio. “Che c’è, da vicino ti faccio un’impressione diversa?”. Luigi si è affettato a fare segno di no con la testa. “Non ti ho mai incontrata nel quartiere, in giro o a scuola”, ha detto alla fine Luigi. “Beh sì, prima che arrivavi con l’autobus”. “Non sono di qui”. “Dove abiti allora?”. “Laggiù”, e ha indicato col mento verso la ciminiera della fabbrica delle mattonelle. “Ti va di venire con me?”. Non ci era mai stato. Nel quartiere tutti dicono che è un posto pericoloso. “Ci stanno dentro gli zingari”, questo dicono. Il muro di cinta è sommerso dall’edera. Da una crepa spunta il ramo contorto di un fico ancora giovane. Tutto è abbandonato, ma non fa paura. Il fresco e l’odore di vegetazione rigogliosa danno un senso di ristoro, una pace che si insinua sottopelle come un brivido. La ragazza capisce il disorientamento di Luigi e gli tocca piano il braccio.


racconti

Procedono su un piccolo solco di terra fra l’erba alta. Passano il cancello, fermo sul binario arrugginito. L’enorme cortile è sovrastato dalla ciminiera di mattoni rossi. Tutt’intorno decine di persone seggono a terra, raccolti in piccoli cerchi. Luigi sente un brusio uniforme, come quello delle foglie d’edera, ma non distingue una lingua o discorsi precisi. “È qui che state?”, fa Luigi con un filo di voce. “È qui che viviamo”. Ci sono persone di età e razze diverse. Hanno tutti lo stesso sorriso della ragazza, tenue, sincero, profondo. Una donna con un foulard legato intorno al viso fa un cenno di saluto quando riconosce la ragazza. “Ma come fate a stare qua dentro, di cosa vivete?”. “ Alcuni di noi escono a procurarsi il necessario, altri lavorano qui”. Luigi guarda istintivamente lo zainetto rosso oltre la testa della ragazza. “ Tu rubi in città?”. Lei ride facendo sbattere uno sbuffo d’aria contro i denti. “Vieni con me”. Attraversano il cortile della ciminiera. C’è odore di terra, di pelle e di sguardi. Passano sotto un arco di mattoni e sbucano in un secondo cortile, più piccolo, metà all’ombra di un maestoso corpo di fabbrica. Al centro del cortile una cosa che Luigi non aveva mai visto: un orto. Ricco e curato.

Senza parlare, la ragazza glielo fa attraversare, poi lo conduce sotto un giuggiolo piantato in un angolo. Si siede per terra e lo invita a fare altrettanto con gli occhi. Si toglie lo zaino e lo mette in mezzo a loro. Lo apre. Ne tira fuori tanti sacchetti di plastica che contengono qualcosa simile a piccoli sassi. Luigi ha lo sguardo confuso. “Sono semi, è questo che vado a recuperare in città”. “Semi da piantare per terra”. Luigi, fra le mille cose a cui potrebbe pensare, pensa finalmente a suo padre, come non faceva da mesi. Se avesse visto i semi nel palmo di questa meravigliosa ragazza, pensa, non lo avrebbe fatto. Ma lei lo riporta alla realtà, a quel rettangolo di mattoni con in mezzo un orto. “E quello?”. Indica col mento lo specchietto che Luigi tiene fra le mani. “Era per te”. Lei lo prende. Se lo porta avanti al viso. Si tocca il labbro inferiore con due dita. Fa una smorfia divertita. Poi lo gira. Nello specchio appare la faccia di Luigi.

“Semi” ha ricevuto la Menzione Speciale “Terre di frontiera”, nell’ambito della I edizione del Concorso Letterario Nazionale per racconti inediti “Radici Emergenti”, indetto dalla Cooperativa sociale Se.Po.Fa’ onlus (www.sepofa.com) di Napoli, in collaborazione con Infinito edizioni, Bioecogeo e Terre di frontiera. Terre di frontiera / numero 9 anno 1 - gennaio 2017 / www.terredifrontiera.info

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LUNGO IL T

MELFI-CAS

<<Chi segue la sua strada ha sempre una meta da raggiungere, ma chi ha smarrito la retta via, va errando all’infinito>>. È con un’accurata riflessione sulle parole di Lucio Anneo Seneca che andrebbe intrapresa la lettura di questo libro. Provate a farlo, e supererete ben presto lo smarrimento della modernità che calpesta memoria e ricordi. Che ci ha abbandonati – o meglio condannati – ad un limbo storico – culturale. Facciamolo per comprendere meglio un percorso che, partendo proprio dal limbus inteso come situazione di incertezza, arriva a ritrovare confini e direzioni perdute. Il Cammino di Puglia ha un obiettivo preciso: riportare alla luce quelle tracce che nei secoli

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hanno costruito ponti, eretto valori e modellato indissolubilmente un ampio territorio che non guardava solo al Sud, rivolgendosi verso il Mediterraneo, ma anche, e soprattutto, verso il futuro. Quando, da uomo libero qual era, sempre lo stesso Lucio Anneo Seneca – nel suo satirico Apokolokyntosis – ha rimproverato gli storici chiedendosi <<chi ha mai preteso da loro testimoni giurati?>> – richiamando Livio Gémino, curator della Via Appia, e Drusilla <<salire al cielo>> – ha messo in guardia i posteri da possibili letture aprocrife, che raccontano il presente, dimenticando il passato e privandoci del futuro. Non è questo il caso. Perché gli autori, assurgendo ad un compito difficile

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e complesso, ci hanno fornito una bussola. Una guida per orientarci, impedendoci di errare all’infinito. Alla ricerca di quel legame profondo che ci lega alla nostra terra di origine. Come gli antichi costruttori di ponti, o i grandi esploratori protesi a superare la rassicurante linea del proprio orizzonte, sono scesi sul campo, intraprendendo un viaggio unico, scandito da <<passi a terra>> ben poggiati lungo l’itinerario del Tratturo Regio Melfi Castellaneta, senza tentennamenti. Il risultato è qui, a disposizione di tutti. Frutto di una accurata lettura delle pietre, punti cardinali e testimonianze di cambiamento. Ed è dalla meticolosa trascrizione dei mutamenti che si acquisisce consapevolezza e conoscenza. La via Appia, la regina viarum, nelle sue due direzioni di andata e ritorno – che gli autori metaforicamente descrivono <<come il sangue nelle vene>>, nell’analisi della Magna Grecia, prima e del Mezzogiorno d’Italia, poi – dove il tempo dello sviluppo e della valorizzazione archeologica e paesaggistica sembra essersi fermato – acquisisce oggi una valenza simbolica che non ha pari. Mettendo, purtroppo, in evidenza anche forme di decadenza che riducono, ad una, la direzione. Così i tratturi sono diventati strade di emigrazione. La transumanza, intesa come fenomeno di persistenza, ha lasciato il posto


recensioni

TRATTURO REGIO

STELLANETA alla rassegnazione e ridefinito il concetto di gregge. Quei percorsi antichi, parte integrante di un sistema territoriale ben collaudato, sono divenuti servitù sporche. Cave, aree militari, terreni espropriati per pubblica utilità destinati allo sviluppo di forme di energia rinnovabile speculativa, crinali stravolti dai tratti somatici, aree protette trasformate in aree di sfruttamento fossile. Terre abbandonate al loro destino, che ribollono di un nuovo rapporto tra colonizzatori e colonizzati. Il Cammino di Puglia non è specificatamente questo. È, invece, la proiezione e l’affermazione di quello che siamo stati e quello che dovremmo essere. Un reportage storico i cui strumenti di esecuzione dovrebbero essere adottati e seguiti da chi ha la pretesa di raccontare le terre del Sud, le terre di frontiera. Con occhi vigili. Da Brundisium (Brindisi) a Tarentum (Taranto), fino a Beneventum (Benevento), passando per Venusia (Venosa), si intrecciano le vie del carbone, le vie dell’acciaio, le vie dei cercatori di oro nero, le vie dei rifiuti. Nell’immaginario collettivo, e a ragione, si palesa così una distorsione in termini delle funzioni che furono dell’Appia e dei tratturi. Le rotte commerciali sono mutate in rotte energetiche. La Magna Grecia, oggi, è una

grande Babele di profitti, distorte programmazioni politiche e conflitti sociali pacifici innescati da numerosi comitati ed associazioni che chiedono di essere comunità interpellata. Proprio in questa volontà c’è la via d’uscita. La strada, la rotta, va ripensata. Ecco il messaggio che ci offrono gli autori, per superare le incertezze dei percorsi, sia materiali sia intellettuali, ripristinando quel vitale rapporto tra l’uomo e la natura. Riprendere realmente il cammino, a livello di memoria, significa innanzi tutto osservare, prestare attenzione alle dinamiche relazionali che legano i popoli autoctoni e i fautori della globalizzazione spinta. Conoscerne le influenze, gli impatti e i mutamenti storici. Solo così il bene ambiente sarà comune. Impedendo che si faccia <<impunemente uso delle diverse categorie di esseri, viventi o inanimati – animali, piante, elementi naturali – come si vuole, a seconda delle proprie esigenze>>. Come rammentava Giovanni Paolo II, in Sollicitudo Rei Socialis.

È possibile richiedere gratuitamente, tramite modulo di contatto da compilare sul sito www.pandosia.org, la copia cartacea del testo Il “Cammino di Puglia” (192 pagine).

PRESENTAZIONE AL TESTO DI PIETRO DOMMARCO

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libri I SIGNORI DEL CIBO

ZERO RIFIUTI

STEFANO LIBERTI

MARINELLA CORREGGIA

Minimum Fax

Altreconomia edizioni

Secondo previsioni dell’Onu, nel 2050 saremo 9 miliardi di persone sulla Terra. Come ci sfameremo, se le risorse sono sempre più scarse e gli abitanti di paesi iperpopolati come la Cina stanno repentinamente cambiando abitudini alimentari? La finanza globale, insieme alle multinazionali del cibo, ha fiutato l’affare: l’overpopulation business. Dopo A Sud di Lampedusa e il successo internazionale di Land grabbing, Stefano Liberti ci presenta un reportage importante che segue la filiera di quattro prodotti alimentari – la carne di

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maiale, la soia, il tonno in scatola e il pomodoro concentrato – per osservare cosa accade in un settore divorato dall’aggressività della finanza che ha deciso di trasformare il pianeta in un gigantesco pasto. Un’indagine globale durata due anni, dall’Amazzonia brasiliana dove le sconfinate monoculture di soia stanno distruggendo la più grande fabbrica di biodiversità della Terra ai mega-pescherecci che setacciano e saccheggiano gli oceani per garantire scatolette di tonno sempre più economiche, dagli allevamenti industriali di suini negli Stati Uniti a un futuristico mattatoio cinese, fino alle campagne della Puglia, dove i lavoratori ghanesi raccolgono i pomodori che prima coltivavano nelle loro terre in Africa. Un’inchiesta che fa luce sui giochi di potere che regolano il mercato del cibo, dominato da pochi colossali attori sempre più intenzionati a controllare ciò che mangiamo e a macinare profitti monumentali. .

Terre di frontiera / numero 9 anno 1 - gennaio 2017 / www.terredifrontiera.info

Prevenire i rifiuti significa convertire una spada di Damocle in una leva di Archimede, cambiare la vita e l’economia. “Zero rifiuti” è il manuale che raccoglie tutte le pratiche individuali e collettive per una vita senza pattumiera. La sfida, per ognuno di noi e per la società, non è riciclare, ma “prevenire” i rifiuti: ridurre o azzerare gli scarti, sostituire oggetti di vita breve con beni durevoli, praticare il riuso.


foto Foto GUIDA AL VINO CRITICO 2017

ANIMA SPORCA

OFFICINA ENOICA

RUBENS LANZILLOTTI

Altreconomia edizioni

L’erudita

DEFORMITÀ

Non è la persona disabile che avverte sé stessa come anormale, ma è avvertita come anormale dagli altri. Perché un’intera fetta di vita umana è ignorata. Dunque la sua esistenza assume una qualità minacciosa. Non ci si concentra sulle persone disabili, ma sulla propria esperienza. Ci si chiede, come reagirei se mi colpisse improvvisamente un handicap? E la risposta è proiettata sulla persona disabile. Quindi l’immagine che se ne riceve è completamente distorta. Perché non si vede l’altra persona, ma sé stessi. Guida al vino critico è un viaggio nell’Italia del vino artigianale e conviviale, di territorio: questa annata – 2017 – racconta le storie di 101 vignaioli artigiani, nella prossima edizione altri vignaioli, con un archivio sempre più ricco e completo. Questa guida è una bussola per orientarsi nel mondo del vino contadino, artigiano e critico, che qualcuno oggi definisce vino “naturale”.

Può diventare facile sentirsi un bastardo quando si perde il senso delle cose. Incapace di fuggire da una famiglia sentita come estranea, tra donne confuse ed errori suburbani, Giovanni, ragazzo del sud Italia trasferitosi a Roma, disperde quel che rimane della sua vita ordinaria in un dedalo di locai bui, stazioni fatiscenti e bagni luridi. Tutto gli scivola addosso, fino a sentirsi sereno come un vecchio che raccoglie l’acqua a una fontana.

QUARTA DI COPERTINA

GIANMARIO PUGLIESE

Terre di frontiera / numero 9 anno 1 - gennaio 2017 / www.terredifrontiera.info

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DI GIANMARIO PUGLIESE


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