CRATERE CENTRO-ITALIA
PANORAMI
TERREDIFRONTIERA.INFO
Reportage fotografico dall’epicentro del sisma che ha devastato l’Appennino centrale
Come la nuova legge sui Parchi ha demolito le aree protette, concedendole alle lobby
La storia infinita del deposito di rifiuti radioattivi ex-Cemerad di Statte verso un epilogo?
Terre di frontiera NUMERO 10 ANNO 2 / GIUGNO 2017
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PERIODICO INDIPENDENTE SU AMBIENTE, SUD E MEDITERRANEO
IL RELITTO
PERFETTO
IN QUESTO NUMERO
FOCUS
MEDITERRANEO, NAVI DEI VELENI E AIR-GUN PANORAMI
LOBBY E ROYALTY UNA TANTUM NEI PARCHI RACCONTI FOSSILI
LA GOCCIA CHE FA TRABOCCARE L’INVASO RACCONTI FOSSILI
GATTA CI COVA I DANNEGGIATI
AVVELENATI E BEFFATI. IL GIALLO DI AMANTEA I DANNEGGIATI
IL CASO DEL FIUME OLIVA AL PARLAMENTO EUROPEO ALLA CANNA DEL GAS
L’ITALIA E IL CROCEVIA DELLE GRANDI OPERE TERRITORI
CCHIÙ PALE PE’ TUTTI RIFIUTI CONNECTION
BONIFICA EX-CEMERAD DI STATTE: CI SIAMO? CONTROCOLTURE
SULLA PUGLIA L’OMBRA DEI GRANDI NEGOZIATI MULTINAZIONALI
UN TRIBUNALE PER LA MONSANTO
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NAVI DEI VELENI
QUEI <<RIFIUTI BRUTTI>>
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L’INTERVISTA
A TU PER TU CON ALESSANDRO BRATTI
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FOTOREPORTAGE
CRATERE CENTRO-ITALIA
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TERRE DI MIGRANTI
L’ITALIA DI CHI VA E DI CHI VIENE: MADE IN CHINA TERRE DI MIGRANTI
DALLA COSTA SORRIDENTE DELL’AFRICA TERRE DI MIGRANTI
LA GUERRA MONDIALE AFRICANA
90 92 104
UNA NUOVA STAGIONE
L’EDITORIALE
DI PIETRO DOMMARCO
Con questo primo numero del secondo anno di Terre di frontiera inauguriamo - dopo una lunga pausa - una nuova stagione di informazione per, e con, i territori. E ne siamo orgogliosi. Ci è voluto più tempo del previsto per preparare questa edizione bimestrale. Abbiamo fatto le cose con calma, impegnandoci a migliorare il portale online che, gradualmente, collegheremo all’edizione sfogliabile, e viceversa, in un racconto comune. E speriamo esaustivo. In questo numero, e in quelli che verranno, non troverete stravolgimenti che vi disorienteranno. Troverete, invece, tre nuove sezioni: alla canna del gas, controcolture, navi dei veleni. Tre sezioni impegnative che ci accompagneranno alla scoperta di un Mediterraneo quasi sconosciuto. A che punto è la costruzione di quell’hub energetico che dovrà servire l’Europa, tra
infrastrutture imposte alle comunità ed autorizzazioni calate dall’alto? Cosa arriva sulla nostra tavola e come le multinazionali dell’agricoltura e del cibo contribuiscono a contaminare e distruggere le produzioni del Sud, all’ombra dei grandi accordi commerciali transcontinentali? Quando saremo in grado di raccontare fatti e circostanze sulle navi a perdere, o rispondere ai tanti nodi irrisolti, con lo strumento delle inchieste giornalistiche e non delle ricostruzioni storiografiche? Sono alcune delle domande alle quali cercheremo di dare delle risposte. Abbiamo l’obbligo di provarci. E ognuno di noi deve far proprio questo dovere. Mi rivolgo a tutti i collaboratori di Terre di frontiere che hanno reso possibile un anno di pubblicazioni e, oggi, sono ancora qui, a rendere possibile anche il secondo anno.
Siate curiosi ed affamati. Prestate attenzione ai cambiamenti che ci circondano, senza lasciare nulla al caso. Studiate ed approfondite. Ricordatevi che nulla ci è dovuto. Accettate le sconfitte. Tutto è conquista, con tenacia. Guardate gli altri alla pari. Non fidatevi di chi ci ha usato e di chi proverà a farlo ancora. Parlate, confrontatevi ma, soprattutto, ascoltate. Osate di più. Osservatevi e siate realisti: non possiamo sempre essere quello che vorremmo, ma possiamo provare a raggiungerlo. Non demordete ed imponetevi di migliorare. Preparatevi a continuare il percorso intrapreso insieme. Amate questo mestiere e non accontentatevi mai. Lo stesso chiedo ai nostri lettori.
FOCUS
mediterraneo, dei veleni e air-
DI MOVIMENTO NO SCORIE TRISAIA E MEDITERRANEO NO SCORIE
I cittadini chiedono all’Unione europea di adottare ogni utile provvedimento contro l’Italia per le numerose violazioni del diritto comunitario. Il Mediterraneo è minacciato dalle attività di ricerca petrolifera, in un contesto caratterizzato dalla presenza di navi, affondate, contenenti carici tossici e radioattivi.
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Dal 2008 è in atto contro quattro governi – e il parere ambiguo di due governi regionali – una dura battaglia per la difesa del mar Jonio dalle trivellazioni petrolifere. Abbiamo organizzato iniziative e sitin, coinvolto i comuni di tre regioni (Puglia, Basilicata e Calabria), elaborato studi scientifici, redatto osservazioni evidenziando numerose criticità nella ricerca di petrolio in mare. Abbiamo, infine, presentato denunce all’Unione europea e Procure territorialmente competenti. Le istanze e i permessi di ricerca sono diminuiti ma ancora non spariti del tutto, con il rischio di aprire alle trivellazioni off-shore anche il mar Jonio della Grecia. È dal 2013 che stiamo sensibilizzando l’opinione pubblica e i ministeri competenti sollevando una questione importante che interessa la storia della Repubblica italiana e dei mari meridionali: quella delle navi dei veleni, più volte considerato come
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mistero ma che, in realtà, nasconde una pagina nera della nostra storia fatta di traffici di rifiuti pericolosi con grandi responsabilità da parte di chi li ha prodotti e smaltiti nei nostri mari. Abbiamo sollevato l’incompatibilità della ricerca petrolifera con l’affondamento delle navi dei veleni. La possibile presenza sui fondali marini di mercantili carichi di rifiuti tossici e radioattivi renderebbe incompatibile i progetti di ricerca petroliera e di estrazione dal momento che non si conosce il punto esatto in cui i pericolosi cargo sarebbero affondati. La pericolosità è insita nel metodo di ricerca degli idrocarburi in mare con la tecnica dell’air-gun che prevede spari in acqua di aria compressa, con una potenza di circa 250 decibel, ad una frequenza di 10 secondi e per 24 ore al giorno. Una simile onda sonora potrebbe smuovere i fondali marini dove – oltre a fauna, flora e reperti
navi -gun
Terre di frontiera NUMERO 10 ANNO 2/ GIUGNO 2017
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archeologici – sussiste anche il fondato timore della presenza delle navi dei veleni contenenti fusti tossici e radioattivi, con il rischio che le correnti circolari diffondano eventuali inquinanti in mare. Stesso discorso vale per le bombe sganciate nel basso Adriatico tra Puglia e ex-Jugoslavia durante il conflitto dei Balcani. Chiediamo pertanto all’Ue di adottare ogni utile provvedimento contro l’Italia per le numerose violazioni del diritto comunitario così compiute. Norme di diritto comunitario che configurano il Mar Mediterraneo come “mare nostrum” e bene comune delle Nazioni da proteggere e tutelare, soprattutto dal potenziale pericolo conseguente l’attività di ricerca petrolifera in un mare già martoriato, su cui incombe anche il rischio della presenza di navi affondate e contenenti carici tossici e radioattivi.
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Direttore responsabile Pietro Dommarco Caporedattrice Emma Barbaro Hanno collaborato Antonio Bavusi Nico Catalano Enzo Cripezzi Alessio Di Florio Enrico Duranti Marco Monari Leonardo Palmisano Francesco Panié Giorgio Santoriello Daniela Spera Pellegrino Tarantino Foto di copertina Una carretta del mare Shotsstudio / 123RF Archivio Fotografico Impaginazione Ossopensante Lab Per informazioni, richieste e collaborazioni redazione@terredifrontiera.info Per inviare articoli e comunicati stampa articoli@terredifrontiera.info Twitter @terre_frontiera Facebook /ossopensante
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PANORAMI
LOBBY E ROYALT UNA TANTUM NEI
DI ANTONIO BAVUSI
Il 20 giugno 2017 la Camera dei deputati ha approvato con 249 voti a favore, 115 contrari e 32 astenuti la cosiddetta legge di riforma dei parchi, che ora torna al Senato per il varo definitivo. Contro l’approvazione della legge - che seppellisce la 394 del 1991, in vigore - hanno votato Sinistra italiana, Movimento democratico e progressista, Movimento 5 Stelle, Lega e Conservatori e Riformisti. Forza Italia si è astenuta.
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Un disegno di legge - il numero 4144 - scaturito in Senato da uno schieramento politico trasversale ed eterogeneo, rappresentato da senatori privi di vincoli forti di appartenenza al proprio gruppo parlamentare. E, privi di competenze in materia di parchi, almeno a leggere i loro curriculum. Un livello riscontrabile anche nel basso profilo del dibattito parlamentare in aula durante le sedute per l’approvazione dell’articolo 8 che introduce il sistema economico delle royalty private da versare agli enti Parco e con enti gestori fortemente condizionabili da localismi ed interessi economici delle lobby multinazionali. Considerata l’importanza dell’argomento, fa riflettere il basso livello del dibattito dentro e fuori il Parlamento. Soprattutto per l’assenza di informazioni e per lo scarso coinvolgimento dei territori e degli iscritti alle associazioni di protezione ambientale.
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L’ITER DELLA LEGGE A rispondere all’appello di 12 associazioni ambientaliste (tra le quali spicca l’assenza di Legambiente), che chiedevano di non firmare la nuova legge sui parchi, sono stati 115 deputati, lasciando la rappresentanza dei favorevoli principalmente al Partito Democratico. Un testo di legge diverso dalla prima stesura in Senato. La nuova legge ha visto il presidente della Commissione Ambiente, Ermete Realacci, tra i principali fautori di quello che Cts, Enpa, Greenpeace, Gruppo di intervento giuridico, Italia Nostra, Lav, Lipu, Marevivo, Mountain Wilderness, Federazione nazionale Pronatura, WWF definiscono una vera e propria “controriforma” per i parchi. Sull’articolo 8, che introduce royalty dei privati per i parchi, il 24 maggio scorso si erano espressi a favore 326 deputati, 25 contrari e 5 astenuti. Tra i contrari i deputati del
TY I PARCHI Movimento 5 Stelle, anche se in sede di presentazione degli emendamenti 8 deputati hanno proposto - e fatto votare dall’aula l’introduzione dell’articolo 1 comma 1 septies. Un nuovo comma che introduce le royalty <<una tantum>> anche da parte degli imbottigliatori di acque minerali, con impianti ubicati all’interno dei parchi. Non importa se poi le acque vengono captate, o meno, da sorgenti ubicate all’interno del perimetro dell’area protetta attraverso condutture. L’emendamento “salva trivelle nei parchi”, invece, è stato approvato alla Camera lo scorso 23 maggio da una maggioranza composta da Partito Democratico, Forza Italia e Alleanza liberalpopolareautonomie (Ala), con 226 voti favorevoli, 99 contrari e 30 astenuti. Rappresenta solo un aspetto della volontà che riconduce alle lobby economiche private introdotte nell’articolo 8 che, più di tutti, merita
una riflessione per gli effetti che potrebbe avere sulla gestione dei parchi e le implicazioni che riguarderebbero la salvaguardia del territorio e dell’ambiente. L’ARTICOLO 8 L’articolo 8 della nuova legge sui parchi, dal titolo <<Modifiche all’articolo 16 della legge n.394 del 1991>>, non è solo di difficile attuazione, ma potrebbe innescare una vera e propria destabilizzazione dei parchi, imponendo pressioni da parte di portatori di interesse di attività economiche incompatibili con le misure di salvaguardia dell’area protetta. Infatti, l’articolo “impone” un versamento “coatto” ai parchi di somme “una tantum” ad opera dei privati (in Senato, nella prima stesura dell’articolo erano previsti versamenti annuali). Versamenti non “volontari”, come sarebbe lecito attendersi, bensì “obbligatori”, anche se
difficilmente esigibili (la legge non chiarisce le modalità di erogazione). L’articolo 8 sembra essere stato inserito nella legge più per superare quello che i portatori di interesse economico hanno più volte definito “dogma dell’incompatibilità” di progetti ed opere vietate nelle misure di salvaguardia nei parchi. Il cambio da “annualmente” a “una tantum” dei versamenti economici delle royalty non è un aspetto di poco conto. È la manifesta volontà delle lobby di salvaguardare i propri interessi economici nella legge sui parchi. Essi ruotano intorno al sistema delle concessioni: da quelle demaniali allo sfruttamento del sottosuolo, dalle acque minerali all’uso commerciale dell’acqua pubblica, dalle concessioni demaniali per impianti energetici alle infrastrutture per il trasporto elettrico e agli idrocarburi. Siamo di fronte ad un espediente che, nella
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ECCO CHI HA PROPOSTO LA MODIFICA DELLA LEGGE N.394 DEL 1991 D’Alì e Scilipoti (Forza Italia) De Petris (Gruppo misto-Sinistra italiana-Sinistra ecologia libertà) Caleo e Dalla Zuanna (Partito Democratico) Panizza, Zeller, Zin, Longo, Orellana (Gruppo per le autonomie) Conte (Alternativa popolare) Mastrangeli, Bencini, Simeoni, Bignami (Gruppo misto) Gambaro (Ala) Campanella (Art.1 Mdp) Casaletto (Gal).
legge, viene definito “compensazione ambientale” ma che in realtà cela un vero e proprio tentativo di privatizzare i beni comuni dei parchi, imponendo agli enti gestori delle aree protette il ricatto del finanziamento forzato, pur se saltuario e “una tantum”, con l’imposizione di un modello filo-aziendalista secondo l’equazione: buona gestione ed efficienza gestionale dei parchi uguale a più finanziatori privati e maggiori utili economici. In realtà è lo Stato che tappa i buchi dei bilanci aziendali privati. I presidenti dei parchi che non realizzano e perseguono gli obiettivi auspicati dalle lobby nella legge, rendono difficile la loro permanenza alla guida dei parchi e, dunque, vanno a casa. Questo è il contenuto dell’articolo 8 della cosiddetta legge di “riforma” dei parchi. Piaccia o non piaccia. A poco vale
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affermare che le royalty serviranno per attuare i ripristini e i riequilibri ambientali. L’articolo 8 elenca addirittura un “tariffario” per rendere disponibili per i più svariati utilizzi commerciali - fiumi, laghi, boschi, montagne e persino il sottosuolo, già sfruttati o sfruttabili. La sostanza riconduce sempre alla provenienza delle royalty da destinare ai parchi. Alle opere ed ai progetti dei soggetti finanziatori che l’articolo 8 elenca, in gran parte “incompatibili” con l’esistenza dell’area protetta. Per aggirare le nuove trivellazioni nei parchi, ad esempio, si attua l’espediente dei work over (trivellazioni multiple del sottosuolo partendo dalla stessa postazione). PARCHI E ROYALTY UNA TANTUM Dalla lettura dal comma 1 bis al comma 1 septiesdecies, la norma
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sembra essere stata scritta da petrolieri, produttori e trasportatori di energia. Certamente non dai senatori dei gruppi parlamentari proponenti che, invece, sembrano aver aderito a un’idea di altri, se non per interesse, in modo generico e soprattutto non valutando gli effetti negativi che può produrre per la salvaguardia del territorio e per l’ambiente dei parchi. Strano che i proponenti delle “royalty per i parchi” non abbiano definito ed indicato i criteri con cui sono state definite e fissate le quote percentuali in sede di proposta, con i criteri alla base delle tariffe economiche nell’articolo 8. Nonostante tutto, questo modello viene presentato sulla stampa come <<moderno, innovativo ed originale>>. Una carenza anche di metodo, oltre che di sostanza che però induce a fare ulteriori riflessioni sul vero obiettivo che si prefigge la norma. Un articolo emendato anche in sede di Commissione e in Assemblea, con motivazioni spesso incomprensibili nei resoconti stenografici, con la solita “manina” che inserisce o fa scomparire parti di testo leggibile sempre nei resoconti parlamentari. Così come è avvenuto per l’emendamento del comma 1septies: accanto ai termini “oleodotti, metanodotti e elettrodotti” è stato inserito in sede di approvazione alla Camera “carbondotti”. Forse per rispondere a qualche sollecitazione proveniente da società operanti nel parco dell’Asinara, così
come per l’emendamento del comma 1 quinques che riguarda sicuramente le attività petrolifere ubicate nel perimetro del Parco nazionale Appennino Lucano Val d’AgriLagonegrese, in Basilicata. Dal testo definitivo e nei vari commi è stato, invece, cancellato il riferimento a <<l’ammontare definitivo di detto contributo, l’articolazione del medesimo e le modalità di versamento all’ente gestore dell’area protetta sono determinati con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e con il Ministro dello sviluppo economico, da emanare entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione.>> Forse per non vincolare troppo il governo ad impegni stringenti su una legge ed un articolo di legge che appare di improbabile attuazione. LE CONTROPARTITE POLITICHE Sul piano politico la nuova legge - come affermano i sostenitori della cosiddetta riforma - prevede contropartite importanti per le comunità: <<dalle quote rose e alle partecipazioni allargate nei consigli di amministrazione dei parchi>>. In realtà sembrano essere stati accolti i soliti contentini, elargiti attraverso nuove poltrone nei parchi a categorie in precedenza escluse. Le modifiche più importanti sono quelle introdotte
all’ex articolo 16 della legge n.394/1991 e dal nuovo articolo 8 che, se approvate in via definitiva al momento del varo definitivo, secondo alcune associazioni ambientaliste violerebbero i principi di indipendenza gestionale dei parchi, con un progressivo e totale asservimento agli interessi dei futuri finanziatori privati. POSSIBILI EFFETTI FUTURI PER LA GESTIONE DEI PARCHI Pare che ad ispirare l’articolo 8 e il sistema delle <<royalty private destinate ai parchi>> siano state le multinazionali del petrolio operanti in Basilicata: una regione che di royalty nei parchi se ne intende, considerati anche gli effetti che ha prodotto e produce sull’ambiente l’attività petrolifera nel Parco nazionale Appennino Lucano Val d’AgriLagonegrese. Gli enti parco, il presidente e gli organi di vertice si troverebbero in futuro - se dovesse essere approvata la legge con questo articolo 8 - nella difficile condizione di non poter rifiutare <<nulla osta ed autorizzazioni>> richiesti da società private per opere esistenti, ma anche per progetti in itinere, anche se impattanti. In questo modo sarebbero svuotati anche i principi sanciti nell’articolo 1 della legge n.394/1991, non oggetto di modifica). In primis il richiamo nella legge sui parchi all’articolo 9 della Costituzione: <<La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e
tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione>> rafforzato dal richiamo all’articolo 32 della Costituzione Italiana: <<La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.>> Più che una riforma sarebbe meglio definirla, da questo punto di vista, “controriforma”. Promette di svuotare i principi e le funzioni delle istituzioni pubbliche preposte alla salvaguardia del territorio protetto, volute dai cittadini grazie ad anni di battaglie in difesa della natura, con uno “sviluppo sostenibile”, ridefinito dalle multinazionali dell’energia e non certamente guardando ai bisogni delle comunità e le istituzioni pubbliche. Sempre che, in attesa delle linee guida ministeriali che chiariscano dubbi e perplessità - che sicuramente ci saranno - non ci pensi la Corte Costituzionale decretando la cancellazione dell’articolo 8. Le categorie merceologiche indicate in esso si prestano ad essere oggetto di ricorsi da parte degli stessi soggetti economici, per le discriminazioni che pone l’obbligatorietà delle royalty in materia di concorrenza
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NIENTE PIÙ PARERI PAESAGGISTICI La Camera dei deputati, su proposta del deputato Crimi - e parere favorevole della Commissione Ambiente - il 15 giugno 2017 ha approvato - con 340 voti favorevoli, 4 contrari e 5 astenuti - le <<Modifiche all’articolo 146 del codice di cui al decreto legislativo n.42 del 2004>>, sostituendolo con il seguente: <<all’articolo 146, comma 5, del codice di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n.42, e successive modificazioni, dopo l’ultimo periodo sono aggiunti i seguenti: la funzione autorizzatoria in materia di paesaggio per gli interventi da realizzare nei parchi nazionali di cui alla legge 6 dicembre 1991, n.394, è attribuita agli enti parco. Gli enti parco possono provvedere con un unico atto sia sulla domanda di nulla osta, di cui all’articolo 13 della legge n.394 del 1991, sia, secondo la procedura disciplinata nel presente articolo, sulla domanda di autorizzazione paesaggistica.>> In pratica, in assenza di approfondimenti e possibili impatti che tale decisione potrà provocare su opere e progetti all’interno dei parchi, sono state esautorate in materia di autorizzazioni paesaggistiche e nulla osta le soprintendenze ed il ministero competente per i Beni e le Attività Culturali. Con il pretesto di voler semplificare il rilascio del nulla osta e le autorizzazioni paesaggistiche, si è così fatto un ulteriore regalo alle lobby dell’energia nei parchi che non dovranno soggiacere ai pareri paesaggistici dei tecnici delle soprintendenze e quelli del ministero competente ma solo agli enti gestori dei parchi. Enti gestori che sempre la stessa legge svuota di competenze e prevede di rendere sempre più vicini agli interessi politici locali e a quelli delle grandi multinazionali.
tra imprese presenti in uno stesso territorio e per i criteri economici poco chiari indicati nella legge. COMMA PER COMMA LA VISION COMMERCIALE DELL’ARTICOLO 8 Analizziamo i contenuti dei commi dell’articolo 8 introdotti dalla nuova legge sui parchi ricostruiti a seguito dell’approvazione in aula degli emendamenti proposti in Commissione e dall’Assemblea. Troviamo indicate addirittura le tariffe sulle royalty, a prescindere dalla compatibilità delle opere e progetti con le misure di salvaguardia dei parchi. Sul sistema di calcolo - seguito dai senatori proponenti per definire “canoni e percentuali” elencati
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nell’articolo 8 - nulla è dato sapere. Dighe, centrali idroelettriche e captazioni idriche nei parchi (articolo 8 comma 1 bis) <<I titolari di concessioni di derivazione d’acqua, esercitate attraverso impianti per la produzione di energia elettrica in esercizio, di potenza superiore a 100 kW, alla data di entrata in vigore della presente disposizione, aventi le opere di presa col locate all’interno di aree protette, sono tenuti a versare annualmente all’ente gestore dell’area medesima una somma di ammontare pari, al 10 per cento del canone demaniale relativo alle concessioni medesime a titolo di
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concorso alle spese per il recupero ambientale e della naturalità.>> Problematiche: il comma riguarda progetti esistenti di centrali idroelettriche e quelli in itinere in quasi tutti i parchi nazionali alpini e appenninici: Stelvio, Gran Paradiso, Dolomiti Bellunesi, Gran Sasso, Abruzzi, Cilento, Pollino. In sede di approvazione di un emendamento è stata cancellata dopo <<all’interno delle aree protette>>, la frase <<…o i cui effetti ricadano sulle medesime aree>>, con l’evidente scopo di non inficiare possibili attività produttive riconducibili ad effetti indotti sulla salvaguardia dell’ambiente nell’area protetta. Inoltre, alla
Camera è saltato dal testo definitivo il riferimento a <<l’ammontare definitivo di detto contributo, l’articolazione del medesimo per classi di potenza e le modalità di versamento all’ente gestore dell’area protetta sono determinati con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e con il Ministro dello sviluppo economico, da emanare entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione.>> Attività estrattive: cave, petrolio, gas, minerali in genere nei parchi (articolo 8 comma 1 ter) <<I titolari di autorizzazioni all’esercizio di attività estrattive, già esistenti alla data di entrata in vigore della presente disposizione, nelle aree contigue di cui al comma 2-bis dell’articolo 12 sono tenuti a versare “una tantum” all’ente gestore dell’area protetta, in un’unica soluzione e a titolo di contributo alle spese per il recupero ambientale e della naturalità, una somma pari ad un terzo del canone di concessione.>> Problematiche: l’articolo è stato emendato anche nel comma 1 quinques successivo, prevedendo compensazioni anche per le attività esistenti nei perimetri dei parchi. Le maggiori problematicità riguardano le cave, presenti in tutti i parchi alpini e appenninici (con particolare riferimento al Parco nazionale Alpi Apuane,
allo spietramento agricolo del Parco Alta Murgia) e le attività petrolifere nel Parco nazionale Appennino Lucano Val d’Agri-Lagonegrese e in quello limitrofo del CilentoVallo di Diano. Le royalty sono attualmente versate a Comuni e Regioni in ragione del 10 per cento del valore economico per il greggio estratto. Sulla questione è forte l’opposizione dei territori nonostante le competenze in materia di autorizzazioni siano governative, così come gran parte della materia energetica, ad eccezione degli impianti per le cosiddette fonti energetiche alternative di competenza regionale. In sede di approvazione in aula al posto del termine <<annualmente>> è stato inserita la dicitura <<una tantum>>, per quanto attiene la periodicità del versamento delle royalty. Biomassa e centrali a biomassa nei parchi (articolo 8 comma 1 quater) <<I titolari di impianti di produzione di energia elettrica alimentati con biomasse di potenza installata superiore a 50 kW, ubicati nel territorio dell’area protetta, esistenti alla data di entrata in vigore della presente disposizione, sono tenuti a versare una tantum all’ente gestore del l’area protetta, in un’unica soluzione e a titolo di concorso alle spese per il recupero ambientale e della naturalità, una somma pari, a euro 6 per ogni kW di potenza elettrica installata>>.
Problematiche: gli impatti delle centrali a biomassa riguardano tutti i parchi italiani montani con particolare riferimento al Parco nazionale del Pollino (Centrale a biomassa del Mercure) e Parco della Sila (tagli boschivi). L’introduzione del comma 1 quater avrà implicazioni anche per gli effetti sui tagli boschivi nei parchi, l’inquinamento ed i prelievi idrici necessari al raffreddamento delle centrali, con impatti indotti dovuti alla realizzazione di elettrodotti in aree paesaggisticamente sensibili. In sede di approvazione in aula al posto di <<annualmente>> è stata inserita la dicitura <<una tantum>> per quanto attiene la periodicità del versamento delle royalty. Inoltre è stato cancellato il riferimento al decreto interministeriale da emanare entro 180 giorni per definire le modalità del contributo. Attività estrattive: cave, petrolio, gas, minerali in genere nei parchi (articolo 8 comma 1 quinques) <<I titolari di concessioni di coltivazione degli idrocarburi liquidi e gassosi, già esistenti alla data di entrata in vigore della presente disposizione nel territorio dell’area protetta e nelle aree contigue di cui al comma 2-bis dell’articolo 12, sono tenuti a versare una tantum all’ente gestore dell’area protetta, in un’unica soluzione e a titolo di contributo alle spese per il recupero ambientale e della naturalità, una somma pari, all’1 per cento
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del valore di vendita delle quantità prodotte.>> Problematiche: l’articolo è ricompreso in parte anche nel comma 1 ter, prevedendo compensazioni calcolate sulla vendita con notevoli difficoltà di calcolarne gli importi, essendo il mercato petrolifero relativo alla vendita di idrocarburi difficilmente parametrizzabile in termini economici. Le maggiori problematicità riguardano le attività petrolifere nel Parco nazionale Appennino Lucano Val d’Agri-Lagonegrese ed in quelle previste nel limitrofo Cilento-Vallo di Diano. Le royalty sulle quantità di idrocarburi <<estratti>> (e non sulla vendita) sono attualmente versate a Comuni e Regioni in ragione del 10 per cento del valore economico per il greggio estratto nei comuni ove sono presenti installazioni. Sulla questione è forte l’opposizione dei territori, nonostante le competenze in materia di autorizzazioni siano governative, così come gran parte della materia energetica ad eccezione degli impianti per le cosiddette fonti energetiche alternative di competenza regionale. In sede di approvazione in aula al posto di <<annualmente>> è stata inserita la dicitura <<una tantum>> per quanto attiene la periodicità del versamento delle royalty. Inoltre, in sede di approvazione alla Camera è stato cancellato il capoverso: <<l’ammontare definitivo di detto contributo e le modalità di
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versamento all’ente gestore dell’area protetta sono determinati con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, da emanare entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione.>> Altre energie rinnovabili nei parchi (articolo 8 comma 1 sexies) <<I titolari di impianti di produzione di energia elettrica da fonte rinnovabile diversa da quelle contemplate dai commi 1-bis e 1-quater e di potenza superiore a 100 kW, ubicati nel territorio dell’area protetta ed esistenti alla data di entrata in vigore della presente disposizione, sono tenuti a versare una tantum in favore dell’ente gestore dell’area medesima, in un’unica soluzione e a titolo di concorso alle spese per il recupero ambientale e della naturalità, una somma pari a euro 1 per kW di potenza.>> Problematiche: il comma 1 sexies non definisce a quali energie si riferisca. Riteniamo debba far riferimento principalmente all’eolico e al fotovoltaico. Non le definisce per la difficoltà di coordinare la norma della legge con altre leggi e regolamenti dello Stato per eolico e fotovoltaico che pongono limitazioni all’utilizzo di tali fonti, anche in ambito locale e nei parchi. Gli impianti eolici riguardano soprattutto i territori dell’area appenninica
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centro meridionale con impatti paesaggistici e territoriali rilevanti anche per le aree protette. In sede di approvazione in aula al posto di <<annualmente>> è stata inserita la dicitura <<una tantum>> per quanto attiene la periodicità del versamento delle royalty. Inoltre in sede di approvazione alla Camera è stato cancellato il capoverso: <<l’ammontare definitivo di detto contributo e le modalità di versamento all’ente gestore dell’area protetta sono determinati con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, da emanare entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione.>> Oleodotti, metanodotti ed elettrodotti nei parchi (articolo 8 comma 1 septies) <<I titolari di autorizzazioni all’esercizio di oleodotti, metanodotti, carbondotti ed elettrodotti non interrati, ubicati nel territorio dell’area protetta, sono tenuti a versare una tantum all’ente gestore dell’area medesima, in un’unica soluzione e a titolo di contributo alle spese per il recupero ambientale e della naturalità, in sede di prima applicazione, per ogni chilometro non interrato una somma pari a 100 euro per oleodotti o metanodotti e a 30 euro per ogni linea di elettrodotto ad alta tensione, a 50 euro per ogni linea di elettrodotto a media tensione non isolata
Impianti di imbottigliamento di acque minerali (articolo 8 comma 1 septies 1) <<I titolari di impianti di imbottigliamento delle acque minerali ubicati nel territorio dell’area protetta, in esercizio alla data di entrata in vigore della presente disposizione, sono tenuti a versare una tantum in un apposito fondo per le aree protette da istituire presso il Ministero
Sulle sponde del Pertusillo / Foto archivio TDF, 2015
e a 20 euro per ogni linea di elettrodotto a media tensione isolata.>> Problematiche: riguarda tutti i parchi nazionali con opere altamente impattanti dal punto di vista paesaggistico ed ambientale già imposti tra l’altro con le norme delle servitù coatte da altre leggi statali. Per alcune di esse (metanodotti e oleodotti) non esistono norme ambientali per il loro monitoraggio e per i ripristini ambientali che, invece, la legge affiderebbe in modo improprio agli enti gestori dei parchi, anche in modo generico e non contabilizzabile. Non vengono indicati i criteri utilizzati dal sistema tariffario per le compensazioni con tariffa a chilometraggio. In sede di approvazione in aula al posto di <<annualmente>> è stato inserito <<una tantum>> per quanto attiene la periodicità del versamento delle royalty. È inoltre stato cancellato il riferimento del comma all’emanazione delle linee guida ministeriali entro 180 giorni dalla pubblicazione della legge.
dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, in un’unica soluzione e a titolo di contributo alle spese per il recupero ambientale e della naturalità, una somma il cui ammontare, modalità di versamento all’ente gestore dell’area protetta e articolazione del medesimo in base a classi di quantità di imbottigliamento, sono determinate dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze e il Ministero dello sviluppo economico, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione.>> Problematiche: riguarda tutti i parchi nazionali. Il comma è stato introdotto
e votato in assemblea alla Camera. Sono evidenti le problematiche relative alle portate dei corsi d’acqua, anche se il comma non tiene conto delle acque derivate dalle sorgenti nel parco, ma solo l’ubicazione degli impianti di imbottigliamento, con evidenti impatti ambientali conseguenti anche alle lacune nei termini in cui il comma è stato formulato. Porti commerciali e turistici e attracchi nei parchi (articolo 8 comma 1 octies) <<I titolari di concessioni per pontile per ormeggio imbarcazioni, per punto ormeggio in campo boa e per posto barca presenti nel territorio dell’area protetta e nelle aree contigue di cui
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al comma 2-bis dell’articolo 12 sono tenuti a versare alla prima applicazione all’ente gestore dell’area protetta, in un’unica soluzione e a titolo di contributo alle spese per il recupero ambientale e della naturalità, una somma il cui ammontare è pari al 10 per cento del canone di concessione.>> Problematiche: il comma riguarda tutti i parchi costieri, le isole ed i laghi interni stabilendo una percentuale sul canone di concessione demaniale. L’introduzione dell’articolo intende favorire questa tipologie di opere anche in ambito protetto, a prescindere dalla loro compatibilità e gli impatti con le aree protette. Applicazione servizi ecosistemici ed esclusioni (articolo 8 comma 1 octies 1 e 1 octies 2) <<Nelle annualità successive alla prima applicazione, per i soggetti titolari di cui ai commi 1-bis, 1-ter, 1-quater, 1-quinquies, 1-sexies, 1-septies e 1-octies è attivato il sistema di pagamento dei servizi ecosistemici previsto dalla legislazione vigente.>> <<Le disposizioni di cui ai commi da 1-bis a 1-octies non si applicano agli impianti di produzione energetiche di proprietà dei Comuni del Parco e alle società da essi controllate, alle Amministrazioni Separate di Usi Civici (ASUC), nonché alle cooperative il cui statuto consente l’adesione a tutti i cittadini residenti nei territori interessati, in quanto titolari di concessioni, autorizzazioni
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o impianti di cui ai medesimi commi.>> Problematiche: i due comma riguardano tutti i parchi. Il comma 1 octies 1 apparirebbe come un refuso, una dimenticanza in sede di approvazione alla Camera, dal momento che i versamenti <<annuali>> sono stati tutti modificati in <<una tantum>>. L’introduzione del comma 1 octies 2 intende favorire invece particolare categorie con evidenti discriminazioni sul libero mercato e per la concorrenza. Modello di parcobotteghino; parcoconcessore; parco-sponsor (articolo 8 dal comma 1 terdecies) (1-novies). Gli enti gestori dell’area protetta possono deliberare che ciascun visitatore versi un corrispettivo per i servizi offerti nel territorio dell’area protetta. (1-decies). Costituiscono entrate dell’ente gestore dell’area protetta i proventi derivanti dalla vendita della fauna selvatica catturata o abbattuta ai sensi dell’articolo (1-undecies). I beni demaniali presenti nel territorio dell’area protetta che alla data di entrata in vigore della presente disposizione non siano stati già affidati in concessione a soggetti terzi, ad eccezione di quelli destinati alla difesa e alla sicurezza nazionale, possono essere dati in concessione gratuita all’ente gestore dell’area protetta ai fini della tutela dell’ambiente e della conservazione dell’area protetta, se da esso
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richiesti, per un periodo di nove anni. La concessione è rinnovata automaticamente allo scadere, salvo motivato diniego del soggetto concedente. L’ente gestore dell’area protetta può concedere tali beni in uso a terzi dietro il pagamento di un canone, ferma restando l’attività di vigilanza e sorveglianza prevista dall’articolo 21. La concessione gratuita di beni demaniali all’ente gestore dell’area protetta non modifica la titolarità di tali beni, che rimangono in capo al soggetto concedente. (1-duodecies). L’ente gestore dell’area protetta può concedere, anche a titolo oneroso, il proprio marchio di qualità a servizi e prodotti locali che soddisfino requisiti di qualità, di sostenibilità ambientale e di tipicità territoriale. Nell’ipotesi di cui al presente comma l’ente gestore è tenuto a predisporre uno o più regolamenti per attività o servizi omogenei recanti i requisiti minimi di qualità da garantire nonché a svolgere attività di controllo. (1-terdecies). L’ente gestore dell’area protetta può stipulare contratti di sponsorizzazione ed accordi di collaborazione con soggetti privati ed associazioni riconosciute o fondazioni. Le iniziative di sponsorizza zione devono essere dirette al perseguimento di interessi pubblici e devono escludere forme di conflitto di interesse tra l’attività del parco e quella privata. Problematiche: nella logica della legge, il parco-
produttivo comporta che il parco diventi esso stesso merce, da vendere e mercificare, ivi compresa la fauna selvatica da abbattere e da rivendere sotto forma di carne viva o morta. Qualsiasi commento ai commi è superfluo. 5 per mille ai parchi (articolo 8 comma 1 quaterdecies) <<A decorrere dall’anno 2018 gli enti gestori delle aree protette sono inclusi nell’elenco dei soggetti beneficiari designabili dai contribuenti per l’accesso al riparto della quota del 5 per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche di cui all’articolo 1, comma 1234, della legge 27 dicembre 2006, n.296, e successive modificazioni.>> Problematiche: nella logica della legge si intende comunque far convivere il parco-produttivo con il parco-sociale al quale ciascun cittadino può contribuire con il 5 per mille. 50 per cento delle entrate dei parchi in un fondo unico ministeriale (articolo 8 comma 1 quinquiesdecies) <<Le disposizioni di cui ai commi da 1-bis a 1-quaterdecies si applicano ai parchi nazionali, alle aree marine protette, ai parchi regionali e alle riserve naturali terrestri. Il 70 per cento delle risorse relative alle aree protette nazionali e regionali di cui ai commi 1-bis, 1-ter, 1-quater, 1-quinquies, 1-sexies, 1-septies e 1-octies è versato dagli enti gestori ad un apposito capitolo dell’entrata del
bilancio dello Stato per essere riassegnato ad un apposito fondo per le aree protette, da istituire presso il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare che provvede con proprio decreto, destinato esclusivamente al finanziamento del Piano di sistema di cui all’articolo 4, secondo le modalità e le finalità ivi indicate. Il restante 30 per cento delle entrate è destinato prioritariamente dagli enti gestori al finanziamento complessivo di politiche e piani per la conservazione e la tutela della biodiversità nell’area protetta. Il Ministro dell’economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio. Il presente comma si applica alle regioni a statuto speciale e alle province autonome di Trento e di Bolzano compatibilmente con le attribuzioni previste dai rispettivi statuti e dalle relative norme di attuazione.>> Problematiche: nella logica della legge, il parcoproduttivo (ma solo per gli introiti di cui si prevedono maggiori entrate) comporta che diventi addirittura finanziatore dell’intero sistema attraverso il ministero dell’Ambiente. Emergerebbe da tale assunto anche l’intenzione di ridurre le già scarse risorse economiche destinate ai parchi, considerate un peso per la finanza pubblica, da <<alleggerire>> con destinazioni forzose derivanti dai privati <<finanziatori>>. Qualsiasi
commento al comma è superfluo. Recepimento e negozi giuridici (articolo 8 comma 1 sexiesdecies) <<L’ente gestore e i soggetti di cui al presente articolo disciplinano a mezzo di negozi giuridici ogni altro aspetto. Le clausole apposte in violazione delle disposizioni del presente articolo sono nulle e integrano l’ipotesi di responsabilità amministrativa per il personale pubblico e di illecito civile per il soggetto privato ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile.>> Problematiche: nell’approvazione alla Camera è stato cancellato il riferimento all’applicazione dell’erogazione economica ai parchi regionali marini e terrestri e alle riserve regionali marine e terrestri.
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QUEI <<RIFIUTI BRUTTI>> 16
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DI PIETRO DOMMARCO
A febbraio di quest’anno, la declassificazione di cinquantanove nuovi documenti <<segreti>>, da parte della Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, ha riacceso i riflettori, almeno sotto forma di mosaico storiografico, sull’affondamento delle <<navi dei veleni>>, delle <<navi a perdere>>, delle <<carrette del mare>> cariche di scorie radioattive, e sul traffico di rifiuti tossici nel Mediterraneo, da e per il Terzo mondo. Uno dei grandi misteri di quella <<sporca>> storia che ha coinvolto il nostro Paese, su cui hanno indagato e perso la vita la giornalista Ilaria Alpi e il cineoperatore Miran Hrovatin (20 marzo 1994) e il capitano di fregata della Marina Militare, Natale De Grazia (12 dicembre 1995). Cinquantanove informative custodite dal Servizio segreto militare (Sismi) che aiutano a delineare uno scenario delittuoso, organizzato attorno allo smaltimento illegale di rifiuti avvenuto grazie alla compiacenza di pezzi deviati dello Stato e dei Servizi segreti, con l’intermediazione delle organizzazioni criminali, prime fra tutte la ‘ndrangheta. Mari contaminati e terre inquinate che impongono, ancora oggi, il dovere di sondare, scavare e raccontare.
LA MEMORIA STORICA DELLA ‘NDRANGHETA Il 5 novembre 2009, a Bologna, la Commissione parlamentare sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti - presieduta da Gaetano Pecorella ascolta il pentito Francesco Fonti, il quale si considera <<memoria storica della ‘ndrangheta>> ed <<enciclopedia vivente>>. Definizioni che nella caratterizzazione del ruolo da “gola profonda” assunto da Fonti aiuteranno - tra spavalderia e riferimenti più o meno puntuali - a trattare con moderazione le informazioni da lui fornite. Il pentito calabrese - pur considerandosi <<attendibile al 100 per cento>>, in quanto le sue parole <<sono state riscontrate nella sua interezza>> - è stato considerato invece inattendibile sia dalla Procura distrettuale antimafia di Catanzaro, sia dalla Procura di Potenza. Francesco Fonti (deceduto il 5 dicembre 2012) è originario di Bovalino, paesino sul mar Jonio, ai piedi dell’Aspromonte. Ma soprattutto un paese di ‘ndrangheta come i vari Locri, Platì, San Luca e Africo. Cresce in una famiglia di commercianti, fabbricatori di mobili e cucine. A 18 anni ha il primo contatto con la malavita locale. A contattarlo è Giuseppe Giorgi detto “u ddui”, omonimo di Giuseppe Giorgi detto “u capra” - affiliato ai Romeo e genero del “capobastone” Sebastiano Romeo detto “u staccu” - arrestato agli inizi di giugno dopo ventitré anni
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di latitanza. Che ha avuto un ruolo molto importante nell’affondamento di alcune <<navi dei veleni>> nello Jonio e nel Tirreno. Quella di Fonti è una vita movimentata. Finisce in carcere nel 1987. Sconta cinque anni. Esce nel 1992. L’anno successivo, il 25 aprile 1993, nel giorno della Liberazione scatta una nuova carcerazione. È nel 1994 che comincia a collaborare con l’autorità giudiziaria, dopo aver incontrato in carcere, diverse volte, Vincenzo Macrì, consigliere nazionale della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria. <<Ho un peso sulla coscienza per il male che ho fatto, trafficando in droga e rifiuti pericolosi, che soltanto Gesù Cristo può comprendere>>, dice Fonti, sostenendo la tesi di una crisi personale. Poi aggiunge che <<se non avessi collaborato, o sarei morto, oppure avrei potuto prendere anche l’ergastolo. Con la collaborazione la mia pena terminerà nel 2025 […] Tenete presente che non ho mai ucciso nessuno materialmente. Forse l’ho fatto con i traffici che ho gestito, però non materialmente.>> L’INCONTRO CON PINO Vincenzo Macrì, il 12 novembre 2009, nel corso di un’audizione, racconta che Fonti <<non appartiene a una famiglia mafiosa, non esiste una cosca Fonti […] da giovane entra nel giro delle cosche di San Luca, che gravitano sul suo paese, in particolare della cosca Romeo, con la quale stabilisce rapporti molto
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stretti. Si trasferisce poi in Piemonte e, in sostanza, per dirla in breve, viene delegato come fiduciario della cosca nello smercio di sostanze stupefacenti nel nord Italia, in particolare prima in Emilia - risiede per alcuni anni a Reggio Emilia - e poi anche in Lombardia e in Piemonte. A seguito della collaborazione, viene avviata la pratica per il programma di protezione. […] Il 15 settembre del 1994 viene adottato in suo favore il programma di protezione vero e proprio. Cesso dall’applicazione a questo processo il 20 gennaio del 1995 e, quindi, non concludo il processo, che tuttavia ha uno sbocco positivo: viene proseguito dal collega Nicola Gratteri e va a dibattimento. Il processo prende il nome di Operazione Sorgente l’associazione con il nome Fonti è semplice - e si conclude in primo grado con una sentenza del Tribunale di Locri del 15 gennaio 1999, con la quale vengono condannate alcune persone indicate da Francesco Fonti come suoi referenti e complici in questo traffico di droga.>> Solo traffico di droga e ‘ndrangheta. All’inizio il pentito di Bovalino parla di questo e basta. Perché <<un personaggio che io avevo conosciuto quando ero libero […] mi suggerì di parlare di droga e ’ndrangheta, ma di non andare oltre, perché altrimenti tutto si sarebbe riversato contro di me.>> Il personaggio in questione è conosciuto come Pino, apparteneva ai Servizi segreti e ad oggi non c’è
alcun riferimento utile per identificarlo, dargli un nome, un cognome e una faccia. Pino incontra Fonti diverse volte. Nel carcere di Volterra e a Rovereto, in una località protetta nota solo al Servizio centrale di protezione. Spesso meta di “pellegrinaggio” da parte di dirigenti, colonnelli, generali. Pino sostiene che <<queste cose (traffico di rifiuti, ndr) non interessano a nessuno. […] Più tocchi i poteri forti, più verrai stritolato.>> RIFIUTI, ALLEGORIE E PEZZI GROSSI Tutto ha inizio nel 1983, con il “capobastone” Peppe Nirta. A Polsi, frazione del comune di San Luca, diverse famiglie calabresi erano solite riunirsi e decidere i traffici. Lo facevano in un luogo simbolico. A Polsi, infatti, c’è il santuario della Madonna della montagna. Vicino al santuario si erge una grande quercia soprannominata <<l’albero della scienza>>. Secondo un racconto allegorico <<nel 1800 sono partiti dalla Spagna tre cavalieri su tre cavalli bianchi: il primo si chiamava Osso, il secondo Mastrosso e il terzo Carcagnosso. Essi hanno fondato la ’ndrangheta, la mafia e la camorra. La ’ndrangheta è stata formata a San Luca, presso il santuario di Polsi, e quell’albero era stato piantato da questo cavaliere spagnolo per rappresentare l’associazione: il fusto era il mammasantissima, il capo società; i rami erano i camorristi e gli sgarristi; i ramoscelli erano i picciotti;
le foglie erano gli infami, perché cadono e marciscono ai piedi del tronco. Quelli erano gli infami, destinati a marcire.>> Ed è proprio all’ombra dell’albero della scienza che gli ‘ndranghetisti riuniti si mettono in affari per gestire lo <<smaltimento che veniva loro proposto da Roma.>> Ci vogliono diversi incontri per mettersi d’accordo e far scomparire i <<rifiuti brutti>>. Non si parlava quasi mai di rifiuti tossici, radioattivi, nocivi, ma solo di <<rifiuti brutti>>. Ma chi sono i presunti “mandanti” romani? Fonti fa il nome dell’ex ministro della Difesa, Lelio Lagorio, morto a gennaio all’età di 91 anni. E poi sottosegretari ed esponenti della Democrazia Cristiana. Peppe Nirta avrebbe sostenuto che ciascun industriale del nord - tra quelli più grandi, con espansioni multinazionali - aveva un protettore politico cui si rivolgeva per <<smaltire queste porcherie. Tale referente politico aveva la possibilità di avere contatti diretti con personaggi dei Servizi, deviati o non deviati.>> I SERVIZI SEGRETI Da alcuni dei documenti desecretati del Sismi è possibile ricostruire, almeno in parte, il ruolo dei Servizi segreti in questa faccenda. Si evince, da alcune indagini in corso, che dal 1995 apparati dello Stato erano perfettamente a conoscenza dei traffici internazionali di rifiuti. Un’impronta, quella dei Servizi segreti, presente anche nei rapporti tra mafie ed aziende di Stato.
<<Smaltire legalmente determinati rifiuti costava più che pagare la criminalità. Un altro punto era che determinate ditte, multinazionali e industrie, non potevano smaltire legalmente tale materiale di scarto, in quanto non risultava nella loro produzione. Non essendo documentato, non poteva essere smaltito legalmente e doveva per forza trovare una collocazione diversa.>> In questo meccanismo le mele marce dei Servizi segreti <<gestivano quest’attività perché i politici di allora non volevano sporcarsi le mani, anche se erano consapevoli e davano il loro avallo. Si servivano di questi personaggi dei Servizi per contattare la criminalità, che era la manodopera per queste attività, non il punto di inizio, ma quello finale.>> Da varie ricostruzioni riportate in atti parlamentari emerge come già dagli anni Ottanta Peppe Nirta era in contatto con Giorgio Giovannini e Giovanni Di Stefano del Sismi, <<i quali chiesero alla famiglia di San Luca se fosse disposta a fornire manodopera per trasportare rifiuti tossici e radioattivi in Somalia per conto di aziende italiane.>> Spuntarono fuori i nome di Craxi che <<era al corrente della cosa, che non seguiva però personalmente lasciando che se ne occupassero i Servizi segreti>> e di De Michelis, il quale disse che <<i politici avrebbero potuto trasportare qualunque cosa anche senza l’aiuto della ’ndrangheta e che gli
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uomini della ’ndrangheta venivano usati solo per comodità.>> A seconda delle situazioni, però. Nel tentativo di sbloccare una trattativa di smaltimento rifiuti, condotta dalla famiglia Romeo, Fonti riferisce che qualcuno suggerì di <<rivolgersi a De Mita>>. Su questo non c’è mai stato un seguito giudiziario. BASILICATA, TERRA DI NESSUNO A Peppe Nirta viene chiesto di imboscare i rifiuti tossici nelle caverne dell’Aspromonte usate per i sequestri, altro luogo simbolo della ‘ndrangheta, al pari dell’<<albero della scienza>> di Polsi. Ma dice di no e propone la Basilicata, <<in quanto terra di nessuno>>, perché è <<un po’ più vicina alla Campania, ma è anche al confine con la Calabria, con il cosentino. Peraltro, lì non c’era criminalità originaria, ma era tutta importata tra camorra e ’ndrangheta, che ha anche alcuni locali in Basilicata. È vicina anche la Puglia, però la Basilicata non aveva personaggi propri di peso nella criminalità.>> Pertanto, vada per la Basilicata. A questo punto, in virtù dei suoi racconti, a Francesco Fonti viene affidato il primo vero incarico. Nella fattispecie a Rotondella, dove sorge il Centro ricerche Enea della Trisaia. Il compito assegnato consisteva nel trasferire 600 bidoni da Rotondella al porto di Livorno, usando automezzi gestiti dalla delinquenza del luogo, tra Nova Siri e
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Policoro. In realtà solo 500 bidoni avrebbero lasciato la Basilicata. I restanti 100 sarebbero stati sepolti nella <<terra di nessuno>>, nelle vicinanze di Pisticci, a Coste della Cretagna, vicino il fiume Vella. Poi a Ferrandina, poi a Craco, poi vicino il Basento o il torrente Salandrella. Numerose ipotesi, nessun ritrovamento certo, tanti misteri. Ma i 500 fusti che si muovono da sud verso nord non saranno gli ultimi. Perché cinque anni dopo, nel 1992, avviene un altro trasporto, quasi con le stesse modalità. I fusti, questa volta, sono 1000. E Fonti, interrogato sulla provenienza, dice che <<i mille bidoni non sono stati caricati a Rotondella, ma a Latina. Il contatto è avvenuto a Rotondella, ma il carico è stato effettuato a Latina […] in una centrale non meglio identificata, perché non la conosco.>> Il contatto sul posto, tra Rotondella e Latina, è sempre lo stesso. Ipoteticamente un ingegnere dell’Enea. I 1500 bidoni fatti sparire, con due trasporti distinti, avrebbero avuto come destinazione la Somalia: Mogadiscio e Bosaso. I Servizi segreti sapevano del trasferimento di 1500 bidoni di scorie radioattive in Somalia? Se lo chiede la Commissione d’inchiesta che ottiene risposta affermativa. <<Sì. Nel secondo trasporto c’è stato anche l’intervento di Pino per la copertura a Livorno. […] Non ci sarebbero dovuti essere i controlli. Si doveva
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effettuare il carico senza che nessuno venisse a fare domande. In effetti, è stato così.>> Per l’affare con l’Enea di Rotondella la famiglia Romeo avrebbe avuto l’appoggio di Francesco Corneli, vicino al Sisde, che avrebbe fornito le necessarie coperture presso il porto di Livorno e presso il porto di La Spezia. Ma non solo. Alessandro Bratti, attuale presidente della Commissione bicamerale ecomafie, vuol capire il rapporto con l’Enea. <<[…] all’ingresso chiedo dell’ingegnere (Tommaso Candelieri, ndr). Il guardiano si mette in contatto e, dopo pochi minuti, arriva […]. Ci fa entrare e, subito dopo, si presentano altre due persone con i camici bianchi. La sensazione che ho avuto, dalla facilità con cui si camminava all’aperto, è che si trattasse di un’operazione per l’azienda. […]>>, risponde Francesco Fonti. L’AFFONDAMENTO DELLE <<NAVI DEI VELENI>> Quante navi sono state affondate? Cosa contenevano? Per conto di chi sono state affondate? Sono queste alcune delle domande che hanno ottenuto, negli ultimi trent’anni, solo risposte parziali. <<I Mancuso, i Piromalli, i Pesce, gli Iamonte, che erano coinvolti nel traffico di rifiuti, affondavano le navi>>, dice Fonti. <<Funzionava in questo modo: arrivava l’indicazione dalla politica, o più che altro dai Servizi. Si sapeva che c’erano da far scomparire alcune navi,
che si trovavano in un dato posto; ci chiedevano di sbrigarcela noi con l’equipaggio, facendolo andar via, in cambio di un compenso.>> Francesco Fonti, tra ottobre e novembre del 1992, ha partecipato all’affondamento di alcune navi dei veleni - dietro indicazione politica e dei Servizi - insieme a Giuseppe Giorgi detto “u capra”. Le navi in questione sono tre: Cunski, Yvonne A, Voriais Sporadais. Secondo il suo memoriale la Cunski - che sarebbe stata affondata al largo di Cetraro, in Calabria - conteneva 120 bidoni di scorie radioattive. La Yvonne A - che sarebbe stata affondata al largo di Maratea, in Basilicata - conteneva 150 bidoni di fanghi. La Voriais Sporadais - che sarebbe stata affondata al largo di Melito di Porto Salvo, sempre in Calabria - conteneva 75 bidoni di diverse sostanze tossico-nocive. Fonti e Giorgi spostavano navi come fossero materassini o piccoli gommoni: quando i due malavitosi arrivarono a Cetraro le tre navi erano tutte lì, al largo. Una l’affondarono subito. Le altre due le dirottarono, come se nulla fosse, verso Maratea e Melito di Porto Salvo. Il compenso per affondarle? Centocinquanta milioni di vecchie lire per nave. Più altri quattrocento milioni. I soldi li avrebbero ricevuti da un emissario dell’armatore Ignazio Messina, che gli ha affidato la commissione di affondare le navi.
NESSUN RITROVAMENTO Una delle più celebri <<carrette del mare>> è la Jolly Rosso, della compagnia di Ignazio Messina. La motonave è naufragata al largo di Capo Suvero, in Calabria, il 14 dicembre 1990. Per arenarsi, poi, sulle coste di Amantea, in provincia di Cosenza. Nella relazione sulla morte del capitano di fregata Natale De Grazia si apprende che, solo a partire dal 1994, <<la vicenda della Rosso fu oggetto di ulteriore approfondimento nell’ambito dell’indagine condotta dal dottor Francesco Neri.>> Il motivo dell’approfondimento è da ricollegarsi a una serie di circostanze sospette, prima fra tutte quella relativa al rinvenimento, presso l’abitazione di Giorgio Comerio, di documentazione attinente alla nave in questione. <<Dall’indagine sommaria esperita dalla Capitaneria di Porto di Vibo Valentia Marina emerge che il comandante di quella Capitaneria ha richiesto, a seguito dell’incaglio, degli accertamenti radiometrici […] in quanto in alcuni documenti reperiti a bordo della nave vi erano strani cenni a materiale radioattivo>>. Lo stesso comandante della Capitaneria, Bellantone, riferisce di aver rinvenuto piani di <<battaglia navale>>. Gli stessi ritrovati nell’abitazione di Comerio. Ma i verbali di sequestro si perdono. Il comandante Bellantone, nel corso degli anni, modifica la propria versione dei fatti. E la società che si
occupa materialmente di smantellare la Rosso (la ditta olandese Smit Tak, rappresentata in quell’occasione dal capitano Bert M. Kleiwegt, ndr) non effettua alcuna attività di recupero. Le indagini si arenano, insieme alla motonave. Restano i sospetti. Ma manca una smoking gun. Nessuna nave carica di rifiuti tossici è stata trovata. Eppure c’è chi ci è andato vicino. Nel corso di un’audizione alla Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, tenutasi il 22 settembre 2009, il procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Paola, Bruno Giordano, ha raccontato la vicenda della Cunski, la nave affondata da Fonti e Giorgi al largo di Cetraro. <<Il collega Francesco Greco […] aveva svolto alcune attività di indagine>> partite da <<una circostanza che a noi era stata riferita dal collaboratore di giustizia Francesco Fonti, e cioè se al largo di Cetraro ci fosse il relitto di una nave utilizzata come deposito di materiali nocivi.>> Nel corso delle indagini, grazie ad alcune rilevazioni sonar <<emergeva che proprio al largo della costa di Cetraro, […] esisteva un’impronta di 50 metri per 8, di forma semicircolare, su un fondale prevalentemente sabbioso.>> Il procuratore Giordano decide di contattare il capitano della Capitaneria di Porto di Cetraro, Giuseppe Turiano, e la Marina e chiedere supporto
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perché le indagini si muovevano a <<483 metri di profondità e la distanza accertata dalla costa, poi verificata dalla Nautilus, risultava essere di 11 mila e 800 metri. Eravamo quindi all’interno delle acque territoriali sia pure per solo 300-400 metri, salvo diversa misurazione.>> Dalla Marina il procuratore Giordano ottiene risposta negativa: non ci sono grandi mezzi. È a questo punto che <<fece la sua apparizione la società di Vibo Valentia, Nautilus […] Si sono recati sul posto e hanno effettuato una prima misurazione con il sonar dalla quale è venuta fuori un’impronta […] relativa ad un bastimento di 110120 metri di lunghezza per 20 di larghezza con una fiancata di circa dieci metri. Dall’impronta era anche visibile la devastazione, lo squarcio di prua, che poi le fotografie avrebbero avallato.>> In poche parole una nave c’è e da lì a poco anche le fotografie e dei filmati. <<Le foto riproducono una nave che, secondo chi l’ha osservata, anche secondo il personale delle capitanerie, sulla base
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del tipo di assemblaggio delle lamiere dello scafo, non bullonate, ma saldate, sembrerebbe di costruzione relativamente recente, cioè degli anni 50-60. Le dimensioni sembrerebbero corrispondere a quelle della nave Cunski.>> Cosa si vede dalle immagini? <<Sono chiaramente visibili […] due bidoni, uno dei quali obliquo e seminterrato, entrambi compressi dalla colonna d’acqua soprastante, e sembrerebbe esserci un grosso rinforzo su uno dei bordi, quello superiore, che potrebbe essere il tipo di chiusura utilizzata abitualmente per il trasporto in questo tipo di contenitori di rifiuti speciali. La cosa più inquietante delle immagini che sono pervenute […] è che attraverso uno degli oblò […] sembrerebbero visibili come due forme fisionomiche umane, non vorrei dire due teschi, ma sembrano proprio due volti in aderenza all’oblò. È un dato macabro e inquietante che colpisce e fa inorridire chiunque si accosti alla visione di questo filmato. Non so se si tratti di teschi e se abbiano fatto come il capitano Flint di
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“L’isola del tesoro”, e cioè dopo avere sommerso il tesoro abbiano eliminato i testimoni. Non so, inoltre, se si tratti di componenti dell’equipaggio.>> Il Procuratore Giordano aggiunge che il ROV con cui ha lavorato la Nautilus ha cercato di raccogliere qualche segmento di materiale dell’imbarcazione, per poi sottoporlo ad analisi. Tentativo vano. A seguito di ulteriori indagini da parte della Mare Oceano, incaricata dal ministero dell’Ambiente, si arriva alla conclusione che il relitto ritrovato sui fondali di Cetraro è la nave Catania, costruita nel 1906 e affondata nel 1917, oppure il piroscafo Cagliari affondato nel 1943. Le indagini vengono archiviate. Senza aver tuttavia chiarito, con precisione e dovizia di particolari, di quale imbarcazione si parli e a quale epoca storica sia riconducibile. Senza aver svolto - come si rileva dall’audizione del procuratore Giordano - precisi rilievi sulla radioattività all’atto stesso del ritrovamento. Oggi non conosciamo la natura degli accertamenti espletati.
NAVI DEI VELENI
Non sappiamo se siano poi stati prelevati <<segmenti di imbarcazione>>. Se siano state condotte indagini per appurare se il relitto ritrovato nelle profondità delle acque di Cetraro sia stato silurato o fatto esplodere. Eppure le dinamiche dovrebbero essere differenti. Così come la tipologia di quei resti. Ma la parola d’ordine resta la stessa: archiviazione. IL FACCENDIERE COMERIO Francesco Fonti quando parla della famiglia mafiosa Iamonte, radicata a Melito Porto Salvo, dichiara che la nave Rigel è stata affondata in collaborazione con l’imprenditore di Busto Arsizio, Giorgio Comerio, latitante in Tunisia per oltre dieci anni, oggi a Mazara del Vallo. Secondo il Sismi, Giorgio Comerio quasi fino alla fine degli anni Novanta avrebbe avuto un ruolo <<organico>> nei traffici internazionali di scorie nucleari e rifiuti tossici. Come lo smaltimento illecito di 200 mila cask di residui radioattivi nell’area di Taiwan, per un volume d’affari di 227 milioni di dollari. Tra i documenti desecretati che abbiamo
potuto consultare viene resa nota una ricostruzione di tutte le <<attività legali e presumibilmente illegali>> di Giorgio Comerio: esportazione di rifiuti tossico-nocivi e radioattivi nel Sahara Occidentale (Marocco e Mauritania) e Somalia; smaltimento di rifiuti tossici e nucleari nel sottosuolo marino, con il veicolo societario Odm, attivo nella ricerca di contratti e finanziamenti dei Governi nazionali (Sierra Leone, 1994; Somalia, 1994; Corea del Nord, 1998); gestione e smaltimento dei rifiuti tossici e radioattivi in Italia; smaltimento dei residui provenienti dalla prima Guerra del Golfo; incidente della Moby Prince del 1991, su cui di recente la Procura di Livorno ha aperto un’inchiesta su possibili collegamenti tra il disastro navale ed un traffico di scorie nucleari ed armi; stoccaggio e affondamento di scorie radioattive in Corea del Nord; affondamento fraudolento di navi cariche di rifiuti tossici e radioattivi nel 1994, in tutto il Mediterraneo.
QUASI CENTO MERCANTILI AFFONDATI Di navi sospette ed affondate nel mar Mediterraneo ce ne sono a decine. A dirlo proprio un documento desecretati a febbraio. Sono quasi cento i mercantili affondati nelle acque di giurisdizione tra il 1989 e il 1995 presumibilmente legati a presunti traffici di rifiuti tossici. L’incartamento, spedito dalla Procura di Reggio Calabria agli organi competenti del governo Dini fu messo sotto chiave. L’elenco è invece importante perché scorrendolo è possibile leggere i nomi di navi già “attenzionate” dalle indagini del comandante Natale De Grazia. Così come è importante un altro documento desecretato a maggio del 2014 che elenca 23 navi affondate tra il 1979 e il 1993 nel mar Jonio e nel mar Tirreno. Tra queste anche la “famosa” Rigel di bandiera maltese, inabissatasi il 21 settembre 1987 a venti miglia a sudest da Capo Spartivento. Proveniente da Marina di Carrara e diretta a Limassol (Cipro) non è mai stata trovata. Perché mai cercata.
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L’INTERVISTA
<<LA VERITÀ È UN CONCETTO CO
DI EMMA BARBARO
L’intervista ad Alessandro Bratti (nella foto), presidente
della Commissione bicamerale ecomafie,
nasce dall’esigenza di fare chiarezza su un tema delicato e controverso. Di navi dei veleni si parla ormai da circa trent’anni. Se ne parla, è vero. Anche se i confini tra il sospetto e la certezza, tra il disinganno e il terrore - che una prassi agghiacciante possa aver preso piede anche grazie al silenzio-assenso delle istituzioni - non sono mai stati davvero definiti. Quanto sono attendibili le dichiarazioni di pentiti del calibro di Francesco Fonti? È verificabile questa prassi dell’affondamento di imbarcazioni mercantili contenenti rifiuti tossici e radioattivi? Lo Stato sapeva? E i Servizi segreti italiani hanno collaborato con la giustizia o, piuttosto, l’hanno aggirata per perseguire interessi particolari? I documenti desecretati a febbraio dalla Commissione bicamerale
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non dirimono dubbi. Piuttosto sedimentano l’indistinto. Perché la sensazione che si avverte alla lettura di quegli atti, è che la verità sia ancora un miraggio lontano. Già, la verità. Quella scomoda, quella in grado di far emergere fatti e notizie che se rivelati potrebbero mettere in crisi i capisaldi stessi della ragion di Stato, quella da tacere. C’è chi, queste verità, le ha pagate care. Come Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, che hanno sacrificato la propria esistenza per raggiungere la verità. Ma oggi le domande senza risposta sono ancora tante. Abbiamo inseguito il presidente Bratti per circa un mese. Perché, per noi, avere la possibilità di confrontarci con chi negli ultimi anni ha dato impulso alla declassificazione dei documenti sulle navi a perdere, era un passaggio necessario e fondamentale. Non gli abbiamo chiesto di rivelarci verità nascoste. Gli abbiamo posto diciotto
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semplici domande. Semplici per chi, prima da membro della Commissione Pecorella, poi da presidente del medesimo istituto, la questione dovrebbe conoscerla a menadito. Le risposte di seguito riportate forse basteranno a chi - di navi dei veleni - non ha mai sentito parlare. Di certo, però, non aiutano a scardinare le complessità del fenomeno. E non fanno chiarezza. Avremmo voluto parlare con l’uomo, col ricercatore che in passato si è distinto per l’impegno sulla sostenibilità ambientale. Abbiamo trovato il politico garante di quelle istituzioni che, a distanza di anni, sembrano continuare ad agire come monadi. Perché se emerge un traffico internazionale di rifiuti connesso a flussi di armi e materiali strategici, la risposta <<non è di pertinenza di questa Commissione>>, forse non basta. Men che mai, regge il <<come sopra>>. Quali accertamenti sui fondali del Mediterraneo sono stati
OMPLESSO>> oggettivamente portati avanti? Chi è coinvolto? Quali le responsabilità? Come è possibile che il plurindagato faccendiere Giorgio Comerio sia libero di andare a zonzo per la Tunisia, il Nord Corea, o altrove, impunito e in piena libertà? L’insufficienza, resta. Così come il senso di inadeguatezza. Resta il fatto che, ad oggi, una collaborazione interistituzionale tra le varie commissioni che si occupano di questioni delicate come il traffico d’armi, di rifiuti, di materiale strategico, stenti ad avviarsi. Restano le vittime. E gli impuniti. Tra questi, spiccano aziende di Stato. Forse non basta proclamarsi paladini delle verità portate a galla. Forse, un atteggiamento simile, è più o meno spendibile in termini elettorali. Ma in termini istituzionali, nell’accezione più alta, sicuramente no. Presidente Bratti, la questione relativa alle
navi dei veleni tiene banco ormai da quasi trent’anni. Rappresenta, di fatto, uno dei misteri italiani più indagati di sempre. Uno dei più intrisi di complessità. Non è un mistero, tuttavia, che il caso delle navi a perdere sia collegato a vario titolo ai traffici internazionali di armi, rifiuti tossici e radioattivi. E non è un caso che, al di là della flessibilità e illiceità di alcuni commerci privati, molto spesso gli interessi perseguiti fossero pubblici. O comunque controllati, direttamente o indirettamente, da soggetti collegati alle istituzioni. Il pentito Francesco Fonti ha sostenuto a più riprese di aver avuto contatti con i Servizi segreti. Alcuni dei nomi fatti ricorrono anche negli atti della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Il ministero dell’Interno ha mai accertato se
nelle località protette gestite dal Servizio di protezione - come quella di Rovereto - il Fonti abbia mai effettivamente avuto contatti con gli agenti dei Servizi? La Commissione ha affrontato nel corso della scorsa legislatura il complesso tema delle navi a perdere, analizzando compiutamente le dichiarazioni di Francesco Fonti. Sul tema sono state prodotte due relazioni, liberamente consultabili sul sito della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica, XVI legislatura. Per quanto riguarda le diverse dichiarazioni che Francesco Fonti ha rilasciato sul tema dei traffici internazionali dei rifiuti queste non hanno trovato riscontri da parte di fonti istituzionali o documenti ufficiali. I Servizi hanno collaborato con la Procura della Repubblica di Reggio Calabria nel corso delle indagini a carico del
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faccendiere italiano Giorgio Comerio, accusato di traffico illecito di rifiuti tossici e radioattivi nel procedimento penale n.2114/94. Ma spesso, tuttavia, le dichiarazioni dei pentiti ci hanno restituito un’immagine meno candida delle attività svolte dai Servizi. C’è chi ha parlato del coinvolgimento diretto di alcuni agenti nel traffico illecito dei rifiuti. Ci può chiarire quali sono le responsabilità dei Servizi in questa questione? Cosa è emerso dalle indagini finora espletate? Secondo quanto ha ricostruito la Commissione fino ad oggi, i Servizi di sicurezza hanno svolto diversi compiti istituzionali, monitorando i traffici illeciti, soprattutto di armi. In questo ambito emergono, tra i documenti acquisiti dalla Commissione e recentemente declassificati, alcune note informative di particolare interesse, con informazioni raccolte, anche in epoca recente, dai Servizi di sicurezza, soprattutto l’ex Sismi, oggi Aisi. Durante l’approfondimento svolto nel corso della scorsa legislatura è emerso uno stanziamento di fondi negli anni Novanta a favore dei Servizi per poter contrastare i traffici illeciti di rifiuti, con una mirata attività informativa. Il Sismi ha poi fornito negli anni Novanta una copiosa documentazione alle procure interessate sul tema, poi acquisita anche dalla Commissione. Per quanto riguarda l’interesse del Sismi per Giorgio Comerio, stando alle note
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declassificate, l’attenzione riguardava soprattutto l’ambito del commercio e intermediazione di materiale militare, con particolare riferimento ad una presunta fornitura di missili all’Iran negli anni Ottanta. Esiste davvero questa base segreta della Marina presso il porto di Livorno? Quale sarebbe stata la sua funzione? La Commissione non ha nessuna informazione su questo tema. Stando ai documenti recentemente desecretati, tra il 1992 e il 1993, parte dei rifiuti radioattivi provenienti dal Centro Enea di Rotondella (Trisaia) sarebbero stati smaltiti illecitamente. Anche in questo caso il pentito Fonti ha parlato di una longa manus dei Servizi. E della distruzione di un fascicolo, composto da tre atti, inerente proprio l’impianto della Trisaia. Cosa può dirci su questo punto e, più in generale, sullo smaltimento dei rifiuti radioattivi provenienti dagli impianti ubicati sul territorio nazionale? Per quanto riguarda i rifiuti radioattivi di Rotondella la Commissione non ha trovato riscontri specifici sui racconti di Francesco Fonti, come già ho spiegato. Sullo smaltimento dei rifiuti radioattivi in Italia la Commissione sta facendo un approfondimento in questi mesi, soprattutto sul caso del deposito della ex Cemerad. Nei mesi scorsi è stata posta sotto sequestro
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la documentazione ancora presente nei capannoni di Statte, per una analisi. Dunque c’è ancora da attendere per ottenere riscontri. Per quanto riguarda invece gli inabissamenti di mercantili nel Mediterraneo, di navi dei veleni parla un dossier di Legambiente del 1995. Nel documento viene citato l’affondamento sospetto di tre navi: Jolly Rosso, Anni, Euroriver. Negli stessi anni, i diversi filoni di inchiesta avviati dalle procure di Matera, Napoli, Reggio Calabria, Catanzaro e Padova mostrano quanto il fenomeno abbia assunto una portata enorme. Sono oltre un centinaio le navi affondate tra il 1988 e il 1995 nelle acque territoriali italiane. Quali accertamenti sono stati finora espletati per il riconoscimento in mare di questi relitti? La Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti si è occupata di questi temi fin dagli anni Novanta, con la presidenza di Massimo Scalia. In due decenni sono stati auditi centinaia di testimoni e acquisiti moltissimi documenti. Il problema centrale è quello di dimostrare - al di là di ogni ragionevole dubbio - l’utilizzo di navi da affondare come depositi di rifiuti. Su questo punto, come lei ricorda, vi sono state molte inchieste della magistratura, tutte terminate con archiviazioni, stando a quanto acquisito fino ad oggi dalla Commissione. Come è noto
non è mai stata ritrovata nessuna nave affondata dolosamente con un carico di rifiuti pericolosi (escludendo ovviamente i casi di carichi dichiarati). È la famosa smoking gun che al momento manca. Ma è stato possibile reperire tutti i registri di carico delle navi? In sostanza, nel Mar Mediterraneo giacciono relitti che celano rifiuti tossici o radioattivi? Non è possibile al momento confermare o escludere questa ipotesi. Ma è bene sottolineare che fino ad oggi non sono stati acquisiti elementi concreti e inoppugnabili. Dobbiamo però ricordare che se sappiamo ancora poco sugli affondamenti sospetti, abbiamo prove certe e gravi sui traffici transfrontalieri di rifiuti dai paesi europei verso i paesi africani e latino-americani. Una quantità enorme di scorie, spesso pericolose, che imprenditori senza scrupoli hanno cercato di smaltire abusivamente negli anni passati. Proprio uno di questi relitti nel 2009 è stato oggetto di un accertamento particolareggiato. Sto parlando del Cunsky. Secondo il pentito Fonti questa nave sarebbe stata affondata a largo del porto di Cetraro con a bordo 120 fusti di scorie radioattive. Ma una missione governativa, nello stesso anno, ha ribadito che non si tratta del Cunsky ma del piroscafo Catania, silurato nel 1917. È
davvero così? Come è possibile confondere relitti affondati a diverse miglia di distanza l’uno dall’altro? La Commissione nel corso della XVI legislatura ha acquisito la documentazione ufficiale delle indagini della magistratura calabrese - la dda di Catanzaro - che ha escluso categoricamente la presenza della Cunski nel punto indicato dai rilievi in mare del 2009. Perché la Commissione che lei presiede non ha ancora pubblicato una mappa dettagliata delle navi affondate nel Mediterraneo? Trova moltissime informazioni, anche sulle singole navi, nelle due relazioni citate, pubblicate quattro anni fa e presentate in Parlamento. Si tratta di informazioni derivanti dalla documentazione acquisita, dalle audizioni realizzate e dalle attività d’inchiesta svolte nel corso della XVI legislatura. Sì, ma al netto delle documentazioni già pubblicate, lo stoccaggio e smaltimento dei rifiuti tossici industriali continua a rappresentare un elemento di criticità per il nostro Paese. Specie se i rifiuti da smaltire provengono da aziende di Stato. O che sono state tali negli anni di riferimento. Presidente, cosa può dirci sul conto di Cesarina Ferruzzi che ordinò di caricare alcune navi per conto della Monteco? Cesarina Ferruzzi è stata più volte audita negli anni
passati. Ha sicuramente avuto, come professionista, un ruolo di rilievo nella gestione dei rifiuti tornati in Italia alla fine degli Ottanta, tema oggi oggetto di una specifica attività d’indagine di questa commissione. In quel contesto la dottoressa Ferruzzi ha seguito le fasi di raccolta in Libano dei rifiuti industriali, il trasporto attraverso alcune navi e la successiva gestione in Italia, per conto della società Monteco. La Commissione ha acquisito nei mesi scorsi - attraverso un decreto di perquisizione e sequestro - la documentazione ancora in possesso della dottoressa Ferruzzi, oggi al vaglio dei consulenti della Commissione. Se il rifiuto è di Stato, come si fa a circoscrivere le responsabilità ed eventualmente a punire i colpevoli? Su questo punto la Commissione sta svolgendo specifici accertamenti che verranno resi noti con una relazione finale. Gli elementi di indagine emersi in questi anni hanno aiutato a ricostruire parzialmente le rotte del traffico internazionale di armi e rifiuti pericolosi. Nel settembre 1992 vengono fornite al Sisde informazioni in merito a contatti tra soggetti italiani e autorità somale. Ma la Somalia non è l’unico approdo. Compaiono anche Sierra Leone, Sud Africa, Libano. Proprio qui, in uno studio condotto da Greenpeace e dal Sedra -
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Accademia dell’ambiente e dell’energia per lo sviluppo e le ricerche scientifiche libanese - si sostiene che <<una parte dei rifiuti tossici introdotti in Libano provengono dalla catastrofe di Seveso>>. I dossier libanesi parlano di container densi di rifiuti tossici. Dicono che l’Italia avrebbe offerto 250 dollari per tonnellata, per un giro d’affari superiore ai 75 milioni di dollari. Affermano persino che i 15.800 barili importati in Libano nel 1987 non sarebbero tornati in Italia, così come previsto, ma sarebbero stati smaltiti illegalmente sul suolo libanese. Cosa si può ancora aggiungere sulla natura di questi traffici? Sono emerse nuove rotte? Anche questo punto, che riguarda il tema dei traffici transfrontalieri, è oggetto di approfondimenti ancora in corso. Ma si è riusciti, a distanza di oltre trent’anni, a delineare una geografia del traffico internazionale di rifiuti tossici e radioattivi? Come sopra.
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Cosa si sa dei traffici di materiali di interesse strategico? Il tema del traffico di armi non è di competenza di questa Commissione. In realtà, con la dicitura materiale strategico non intendevo riferirmi al traffico di armi, ma ai flussi di elementi - come l’uranio, plutonio, torio - che sarebbero stati indirizzati verso altri Paesi per uno loro smaltimento o un successivo utilizzo. Peraltro, dai documenti recentemente desecretati emerge in maniera ancora più nitida la centralità di Giorgio Comerio. L’ingegnere è accusato di contrabbando d’armi, riciclaggio di danaro, traffico e smaltimento illecito di rifiuti tossici e radioattivi. La Procura della Repubblica di Reggio Calabria ha tentato a più riprese di ricostruire i traffici, le attività, le persone che a vario titolo hanno collaborato con Comerio e con le imprese a lui collegate. Ma c’è un aspetto particolare. Dal 1978 al 2002 il faccendiere ha tentato a più riprese di accreditarsi coi governi
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di diversi Paesi - Somalia, Nigeria, Sierra Leone, Iran, Corea del Nord - per ottenere finanziamenti ai suoi progetti e per alimentare i propri traffici. La proposta era quella di sparare a 30 o 40 metri di profondità rifiuti tossici e scorie radioattive attraverso dei siluri posizionati su comuni mercantili. Si sa se queste sperimentazioni abbiano mai avuto luogo? Le informazioni in possesso della Commissione sono le stesse contenute dei documenti declassificati. Non è ovviamente possibile, con gli strumenti parlamentari, anche d’indagine, verificare notizie che riguardano altri paesi e in modo particolare la Corea del Nord. Diverse fonti aperte - articoli di giornale, documenti di Università, Ong e centri studi parlando di questi fatti. Il Comerio ha preso parte anche allo smaltimento dei residui bellici del primo conflitto del Golfo? Come ho già spiegato, il tema del traffico di armi non è di competenza di questa Commissione.
NAVI DEI VELENI
Ancora una volta va fatta una precisazione presidente. Se di residui bellici si tratta, la dicitura armi non è congrua. Si tratta in effetti di armi utilizzate più di vent’anni fa, residui per l’appunto, che oggi però sono a tutti gli effetti rifiuti speciali pericolosi che dovrebbero essere smaltiti tenendo conto delle normative internazionali vigenti sulla materia. E poi, come è possibile che un soggetto che ha accumulato avvisi di garanzia a Lugano, nel Principato di Monaco e in diverse procure italiane, sia libero di partecipare alle operazioni di smaltimento dei rifiuti tossici in Nord Corea? Cosa si sa delle ultime attività avviate dal Comerio in Tunisia a partire dal 2008? Queste informazioni riguardano presunte attività di Comerio in paesi esteri, dove è molto difficile raccogliere informazioni. In ogni caso alcuni aspetti della vicenda Comerio sono attualmente all’attenzione della Commissione. In definitiva, la fenomenologia delle navi a perdere coinvolge
svariati interessi strategici. Probabilmente per risolvere la questione si dovrebbe puntare su una collaborazione interistituzionale. L’obiettivo comune dovrebbe essere quello di cercare la verità, nonostante tutto. Ma se ad essere coinvolte nell’accertamento del reale sono quelle istituzioni che hanno consapevolmente scelto di mantenere il segreto, se, per intenderci, i controllori sono in parte coloro i quali avrebbero dovuto essere controllati, quale garanzia di verità ci resta? Presidente, quanto conta per lei la verità? La verità è un concetto complesso. Esiste una verità giuridica, che ha regole ben precise per essere dimostrata, e che ci dice che fino ad oggi nulla di significativo è emerso che faccia pensare ad un traffico più o meno organizzato di rifiuti che abbia portato ad affondamenti di navi o comunque a scambi fra armi e rifiuti. Poi esistono fatti successivi dimostrabili che ci inducono a pensare che molto ci sia ancora da scoprire sul tema. Sono passati molti anni e forse
oggi è più facile acquisire qualche elemento di conoscenza in più. Non così facile, a quanto pare. Mi permetta un’ultima domanda. La verità, accompagnata dal senso di giustizia, può prevalere sulla necessità di salvaguardare fatti e notizie che, se divulgati, potrebbero mettere in pericolo la sicurezza dello Stato? In definitiva: la ragion di Stato, per potersi affermare e sostanziare, ha per forza bisogno che alcune verità vengano taciute? In senso generale ritengo che la segretezza se è utile a salvaguardare la sicurezza dello Stato sia non solo giusta ma doverosa. Altra cosa poi è a distanza di un tempo ragionevole rendere note le diverse vicende. Anche questo credo sia un compito che lo Stato deve svolgere.
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Basilicata. Il Lago del Pertusillo e le macchie nere / Foto di Michele Tropeano (20 gennaio 2017)
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DI GIORGIO SANTORIELLO
Il Lago del Pertusillo è una diga artificiale, a sbarramento del fiume Agri, con una capacità di 155 milioni di metri cubi di acqua. È riconosciuto come Sito d’interesse comunitario (Sic) e Zona di protezione speciale (Zps) in Zona 1 del Parco nazionale Appennino Lucano Val d’AgriLagonegrese. Terminato nel 1962, con i fondi della Cassa del Mezzogiorno, l’invaso serve di acqua la Basilicata, la Puglia (per oltre il 65 per cento) e la Calabria, soprattutto per usi irrigui e potabili. Eppure più che un’infrastruttura è ormai il simbolo dell’incapacità, tutta italiana, di monitorare l’ambiente. Ambientalisti ed accademici, negli ultimi anni, hanno studiato le acque del Pertusillo ma, nonostante questo, mancano ancora molti dati. L’allarme di inquinamento scattato tra gennaio e febbraio, con l’apparizione di grandi macchie nere, è solo l’ultimo di una lunga serie.
A gestire il Pertusillo, anche conosciuto come Lago di Pietra, è il morente Ente di irrigazione di Puglia, Lucania ed Irpinia (Eipli), in liquidazione, commissariato dal lontano 1979. Un macigno. Una macchina mangiasoldi secondo la magistratura contabile e la magistratura ordinaria, con un grande onere: la manutenzione degli invasi, compreso il Pertusillo. Diversi studi scientifici - condotti tra il 2012 ed il 2016, sia dal Centro nazionale delle ricerche (Cnr), ed illustrati nel corso dell’edizione numero trentatré del Convegno nazionale di geofisica della Terra Solida di Trieste, sia dall’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) nell’ambito del protocollo Val d’Agri firmato tra Eni ed Ingv nel 2013-2015 - attestano che dal 2006, nella zona della diga del Pertusillo, oltre al rischio dell’attività micro-sismica causata dal mutamento dei volumi idrici dell’invaso, si è aggiunto il rischio legato alla re-iniezione petrolifera. Sismicità indotta partita dopo soli quattro giorni dall’attivazione del pozzo Costa Molina 2 (CM2), posizionato a cinque chilometri di distanza in linea d’aria dal Pertusillo, sul quale potrebbe incidere anche la presenza di pozzi petroliferi dell’Eni anche più vicini, come il “Monte Alpi 6” - in riperforazione dal 2016 – a solo un chilometro. Dal 2015, poi, oltre alla sismicità si è aggiunto il problema della contaminazione della fauna ittica. Nello stesso anno, a Calvello, una ricerca
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dell’Istituto zooprofilattico sperimentale (Izs) di Puglia e Basilicata rileva nel 20 per cento dei pesci prelevati vivi nell’invaso - tra il mese di marzo del 2012 ed il mese di aprile del 2013 - una contaminazione da microcistine, compresa tra la soglia di rischio sanitario cronico e la soglia di rischio acuto EPA, con il 13,3 per cento di campioni maggiore anche alla soglia stessa di danno acuto. Nei 22 pesci esaminati i veterinari individuano piombo e PCB (sommatoria) fino a 1,38 nanogrammi/grammo e 16 tipi diversi di idrocarburi policiclici aromatici. Rame e mercurio nei muscoli di persici e carpe fino a 3 nanogrammi/grammo, così come fluorantene e fenantrene. Gli stessi idrocarburi che l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente della Basilicata (Arpab) trova in sedimenti ed acque durante gli ultimi monitoraggi del Pertusillo effettuati tra il 2015 e il 2017. Per i veterinari dell’Izs la situazione è così estesa da rappresentare una concreta minaccia per gli <<abitanticonsumatori>>. Tuttavia, pochi giorni dopo dalla divulgazione dello studio “Monitoraggio cianotossine Occhito e Pertusillo” - come spesso accade in Basilicata - l’Azienda sanitaria di Potenza e lo stesso Istituto zooprofilattico si attivano per smentire o ridimensionare il problema, negando il nesso tra inquinamento e morie di pesci.
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INQUINANTI NELLE FALDE E NEGLI ALIMENTI Tra il 2002 e il 2010, a ridosso del Pertusillo, la Metapontum Agrobios società a responsabilità limitata (srl) nata nel 1985 come consorzio tra Regione Basilicata ed Eni, e dal 2013 scorporata tra gli enti sub-regionali Alsia e Arpab - trova svariati inquinanti anche nelle falde della zona e negli alimenti. Nel 2008, le falde della Val d’Agri - il cuore del giacimento di greggio in terraferma più
Sulle sponde del Lago del Pertusillo / Foto di Giorgio Santoriello
grande dâ&#x20AC;&#x2122;Europa - sono piene di cloroformio, come ad Augusta, in Sicilia. Metapontum Agrobios lo mette nero su bianco nel rapporto sulle aree petrolizzate lucane redatto nello stesso anno. Non solo. Nei sedimenti di alcuni corpi idrici della Val dâ&#x20AC;&#x2122;Agri risultano evidenti le contaminazioni da trielina (tricloroetilene cancerogeno) e da idrocarburi pesanti nei punti di confluenza dei torrenti Alli e Casale,
affluenti del fiume Agri. Le cause della contaminazione si delineano lungo due ipotesi: sversamento accidentale di greggio o procedure non corrette nella lavorazione del greggio. A sforare sono anche i limiti di dicloropropano, trialometani, bromoformio, dibromoclorometano e dibromometano.
IDROCARBURI E METALLI PESANTI IN QUERCE, LEMNE E BRASSICHE Nel 2009 Metapontum Agrobios introduce nei bio-monitoraggi anche gli alimenti. Dopo aver trovato la presenza puntiforme di mercurio fino a 0,17 milligrammi/chilogrammo nella vegetazione acquatica (lemna), con picchi per manganese e zinco, rispettivamente, fino a 53 mila milligrammi/ chilogrammo e 12 mila milligrammi/chilogrammo,
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IDROCARBURI POLICICLICI AROMATICI NELL’OLIO. PIOMBO NEL FORMAGGIO Tra il 2006 ed il 2009 Metapontum Agrobios ente di ricerca regionale dal 2009 non più accreditato - trova tracce di idrocarburi policiclici aromatici e non in campioni di olio d’oliva, miele, mele e fieno da foraggio, nonché piombo nelle patate e nel formaggio nell’ambito di tre campagne di biomonitoraggi. In particolare il piombo nel formaggio campionato registra valori di oltre 2 milligrammi/ chilogrammo. L’Istituto superiore di sanità (Iss), in un suo studio del 2009, cita come massimo valore rilevato fino ad allora 0,02 milligrammi/chilogrammo. Benzene, etilbenzene, xileni ed altri aromatici appaiono ripetutamente in formaggio, insilato, fieno, olio, peperoni, fagioli e patate. La causa della contaminazione
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degli alimenti è l’acqua superficiale o di falda, o le precipitazioni che portano al suolo gli inquinanti dell’aria? IDROCARBURI NEI PEPERONI SECCHI, PCB NEI FUNGHI E CLOROFORMIO NEL FIENO Nel 2010 tocca ai ritardanti di fiamma. Infatti, viene rilevata anche una contaminazione da Pbde in alcuni sedimenti valligiani, nonché ufficializzato il fenomeno di <<inibizione dell’accrescimento radicale in alcune piante analizzate.>> Alla sorgente del fiume Agri viene rilevato nei sedimenti l’isopropiltoluene. E gli idrocarburi in olio, funghi, drupe e peperoni secchi. Questi ultimi vengono definiti da Metapontum Agrobios come particolarmente interessanti, visto che la loro cerosità esterna sembra essere un ottimo bioindicatore/accumulatore. LE MICROCISTINE NEI PESCI DEL PERTUSILLO: L’ACQUA NON ERA POTABILIZZABILE? Nel 2010 - in tre diverse specie di pesci - vengono rinvenute quantità considerevoli di microcistine, quindi di tossine cancerogene provenienti da cianobatteri. Questi ultimi, rilevati dall’Istituto superiore di sanità solo nel 2012, esistevano presumibilmente nel lago almeno da due anni prima. Tra carpe, carassi e persici-trota le microcistine oscillavano tra 0,85 e 2,01 nanogrammi/grammo. Valori che esponevano i
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Le macchie nere del Lago del Pertusillo / Foto di Michele Tropeano
esclude comunque fenomeni di bio-accumulo che, in seguito, è costretta ad ammettere. Lo fa nel caso della “brassica”, famiglia di vegetali a foglia larga, nella quale rientrano i cavolfiori e le verze: i tecnici certificano un effetto, in corso, di <<accumulo di rame, ferro, piombo, tallio, stagno e vanadio.>> Sempre nel 2009 Metapontum Agrobios parla di bio-accumulo nelle querce campionate presso le aree pozzo della Val d’Agri per i parametri cadmio, cromo, piombo, nichel e zinco. Poche frasi, prive di dati-analisi, per liquidare un dramma.
consumatori, anche di un solo pesce da 200 grammi, a seri rischi di cancerogenità. Nel giugno 2010, durante una conferenza di servizi sul Pertusillo - alla presenza di Regione, Arpab ed Istituto zooprofilattico - viene proposto il monitoraggio di casi umani sospetti di avvelenamento, l’interdizione della pesca nell’invaso e l’interdizione dell’utilizzo delle acque, avanzando seri dubbi sull’uso potabile dell’invaso nonché l’analisi
di tutti i pozzi artesiani prospicienti l’invaso e l’obbligo di comunicare alla popolazione i rischi nell’utilizzo dell’acqua anche potabilizzata. Perché? Perché le microcistine non erano potabilizzabili e per distruggerle servivano quantità di cloro troppo al di sopra della soglia di legge. Il tutto finì con un <<faremo>>.
LA MORTALITÀ DEI PROTOCOLLI Che il Pertusillo sia scomodo lo si vede dall’indice di mortalità e produttività dei protocolliprogetti nati su di esso: tanti siglati, pochi conclusi, e quei pochi conclusisi “positivamente” sull’inquinamento dell’invaso, sono stati bloccati, non rinnovati o rimaneggiati strada facendo, come una tela di Penelope. Una delle poche studiose incardinate
nell’Istituto superiore di sanità, che capì la cornice attorno alla contaminazione dell’invaso, in seguito non tornerà più. Questa studiosa, in un’intervista di due anni pubblicata su Basilicata24 - intitolata: “Pertusillo, la verità è cosa nostra”, ed in parte riprese nell’articolo: “L’ombra dei servizi sul Pertusillo?” - ha affermato che <<all’epoca del soggiorno in Basilicata, cenai nel solo locale facilmente raggiungibile dal mio alloggio nel
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Sulle sponde del Pertusillo / Foto di Giorgio Santoriello
centro storico di Potenza, e lì trovai un estraneo di fronte all’entrata che apparentemente perdeva tempo. In realtà quando mi vide attaccò a parlare con una scusa, facendo domande insistenti su cosa stessi facendo lì, il motivo per cui soggiornavo. Alle mie risposte generiche questa persona iniziò a raccontare di sé, sottolineando che per 20 anni aveva lavorato a Roma nei Servizi. Abbandonai subito la situazione
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con una scusa e per la prima sera finì così. L’indomani, al momento dei campionamenti sul Pertusillo, ci trovammo chiusi per quasi un’ora con un lucchettone dentro il recinto della Masseria Crisci. Per fortuna l’abilità dei soccorritori risolse il problema altrimenti avremmo aspettato per ore i soccorsi, infatti la zona in questione era alquanto isolata. Degno di attenzione fu l’atteggiamento del personale Arpab che
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sembrava pietrificato dalla preoccupazione scaturita dall’evento. In quei giorni rinvenimmo anche nei pressi dell’invaso un tubo di scarico la cui natura non approfondimmo. Ad oggi, sicuramente importante sarebbe non la sola continuazione del monitoraggio ma proprio il suo approfondimento, dato che le analisi dell’Arpab mostravano una presenza non uniforme ma periodica di idrocarburi nell’acqua (rilevazione che deve
denunciate anche dall’autrice dello studio sulla fauna ittica, studiosa inquadrata nell’Istituto zooprofilattico di Foggia.
essere sistematica, data la veloce clearance di questi composti nell’ambiente acquatico). Questo al netto della concentrazione nella catena alimentare. L’Arpa Basilicata ad oggi non ha ancora versato la sua quota per i monitoraggi in questione. Attualmente questa convenzione è stata rinnovata ma con personale diverso dal primo lavoro ed onestamente in Basilicata si respirava aria pesante.>> Queste pressioni, minacce, sono state ufficiosamente
QUANDO TUTTO VA MALE ARRIVA ENI E PASSA LA PAURA Prende il nome di <<Progetto di monitoraggio dello stato degli ecosistemi e del biomonitoraggio nell’area della Val D’Agri>>, ed è il lavoro congiunto di Arpab ed Eni - controllato e controllore (non il contrario) - sullo stato di salute del Pertusillo, dell’Agri e dei principali torrenti della zona. Tra il 2013 ed il 2014 il naftalene viene rilevato nell’acqua dell’invaso e nei sedimenti: 0,2 microgrammi/ chilogrammo. Un valore superato frequentemente sia nei sedimenti fluviali che nei sedimenti dell’invaso, con soglie più elevate nei siti “sorgente Rifreddo”, “confluenza Agri nel Pertusillo”, “Villa D’Agri”, “sorgente Agri” e “Fiume Agri”, come nell’area compresa tra il “Centro olio dell’Eni e la diga del Pertusillo” e nel “torrente Maglia” a valle di Sarconi. Invece, al punto “confluenza Agri-Pertusillo” il naftalene arriva a 18 microgrammi/chilogrammo. L’U.S. Army - fonte utilizzata dall’Ispra per lo studio dei sedimenti - suggerisce limiti di legge più bassi per diverse sostanze tossiche/ cancerogene rinvenute nel Pertusillo. Soglie più severe rispetto anche al decreto legislativo n.152/06. Stando ai valori Ispra-U.S. Army, oltre al naftalene numerosi altri sforamenti nei
sedimenti si sarebbero avuti per antracene, fenantrene, pirene, benzo(b)fluorantene e fluorantene, arrivati fino a 25 microgrammi/ chilogrammo. SIMIL-DIOSSINE NEI SEDIMENTI DEL PERTUSILLO Nonostante il limite normativo italiano per i Pcb totali si riferisca ai sedimenti marino-costieri quindi ad acqua non ad uso umano - anche per gli invasi ad uso potabile si usa lo stesso limite, che a questo punto è “culturale”, più che di legge. Tuttavia sempre l’Ispra, ricorrendo agli studi americani, lo consiglia a 1,802 microgrammi/ chilogrammo, di molto inferiore rispetto ai limiti vigenti. Perché? Gli attuali limiti di legge sulle diossine non considerano gli studieffetti che essi hanno con il fenomeno del bioaccumulo, cioè l’accumulo nel tempo all’interno degli organismi. Tematica grave su cui la politica non vuole danneggiare il mondo industriale. Ebbene, nel Pertusillo sono stati rinvenuti diversi tipi di diossine nei punti “Vs10Agri-Villa D’Agri”, nel canale di depurazione della zona industriale e nell’area compresa tra il Centro olio Eni ed il Pertusillo. Per magia il valore più alto rilevato nel punto “Vs10” è stato di 1,800 microgrammi/ chilogrammo, quindi di 0,002 microgrammi/ chilogrammo al di sotto della soglia di allarme dell’Ispra. Presenza elevata di diossine è stata rinvenuta anche nel centro invaso, con un valore di 1,49
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RACCONTI FOSSILI
microgrammi/chilogrammo. Sempre nel centro invaso sono state rinvenute, nel 2013, due tipi di diossine: gli hexaclorobifienili (0,3 microgrammi/chilogrammo) e gli heptaclorobifenili (0,28 microgrammi/chilogrammo). Nel punto “Agri-Villa d’Agri”, invece, sempre nei sedimenti i triclorobifenili arrivano a 0,35 microgrammi/chilogrammo. L’Arpab ipotizza che il centro dell’invaso rappresenti una zona di scarso ricambio e, dunque, di scarsa mobilità degli inquinanti che comunque - stando ai dati - si stanno accumulando in una chiara linea di spandimento che va dal centro-invaso allo sbarramento. NON VENGONO RICERCATE SOSTANZE COME L’ALLUMINIO Inguardabili le analisi svolte dall’Arpab tra il 2011 ed il 2013: i punti di campionamento sono discutibilissimi ed i sedimenti quasi inesistenti. Il tutto privo di firme o timbri d’ufficio o nomi di tecnici responsabili del contenuto dei documenti. Insomma pura carta straccia. Per i primi 8
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mesi del 2011, alla voce idrocarburi, non risulta alcun esame svolto. E le conclusioni del rapporto? Trenta parole, contate, che dicono che tutto va bene. Il rapporto sul Pertusillo del luglio 2011, nonostante le solite deficienze, riporta però un campionamento importante di acque in località “Bosco dell’Aspro”, nel comune di Montemurro, dove a 50 centimetri dalla superficie vengono rilevati 1530 microgrammi/litro di idrocarburi totali, mentre in località Coste Rainaldi a 2,7 metri di profondità gli idrocarburi arrivarono a 3140 microgrammi/litro: valori non solo cancerogeni e fuori norma ma da inchiesta giudiziaria immediata. Sul sito web dell’Agenzia regionale - nella sezione dedicata al Pertusillo - le analisi sono ferme al mese di marzo 2016 e sono come sempre incomplete, non accreditate e con punti di campionamento discutibili e poco concentrati verso il margine petrolizzato dell’invaso. Nessuno studio sull’effetto sinergico dei vari contaminanti presenti. Nessuna caratterizzazione dell’origine dell’inquinamento. Intere
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categorie di inquinanti - dai polimeri agli xeno biotici - non sono mai state ricercate. Il monitoraggio satellitare dell’invaso promesso nel 2012 - è morto nella culla. Delle carote prelevate da Arpab-Unibas e Fondazione Mattei nel 2015 nel fondale dell’invaso non se ne sa nulla, così come le indagini volte a capire la quota d’inquinamento avocabile all’industria, ai depuratori civili o agli scarichi zootecnici abusivi. Quest’ultimo problema noto da decenni alla Regione Basilicata.
L’associazione COVA Contro negli ultimi campionamenti nel Pertusillo, a febbraio 2017, ha rilevato tra i 38 e i 270 mg/l di idrocarburi totali nelle acque superficiali dell’invaso, oltre a fosfati (oltre soglia) e manganese, in aggiunta a valori di azoto totale oltre tre volte la soglia di legge per le acque di categoria A2. Rilevate in un referto specifico in aggiunta agli inquinanti antropici anche fioriture algali per oltre 10 milioni di cellule litro e ciano batteri, quindi alghe ed idrocarburi mixati.
GATTA CI COVA Cosa accade sopra e sotto il Centro olio ENI di Viggiano? L’INCIDENTE RILEVANTE NON CORRELATO AL DANNO AMBIENTALE! A fine gennaio, da fonti di stampa locale emerge la presenza di sostanze anomale nelle acque del depuratore dell’area industriale di Viggiano: sarebbero oli minerali. Il 5 febbraio il Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri sequestra un pozzetto di scarico fuori dal perimetro del Cova, il Centro olio Eni di Viggiano. Fino al momento del sequestro il Consorzio per lo sviluppo industriale (Asi) della Provincia di Potenza - proprietario del depuratore - aveva sempre e solo avvisato Eni delle perdite. La situazione si complica quando la compagnia petrolifera non risponde più alle richieste di emungimento da parte di Asi, che decide di avvisare la Regione Basilicata. A marzo 2017 viene ufficializzata la presenza, sotto il Centro olio, di vecchie condotte che avrebbero permesso il drenaggio di eventuali liquidi e contaminazioni al di là del perimetro dell’impianto. A perdere sarebbero i serbatoi di stoccaggio del greggio. Il 25 marzo il M5S denuncia che il degrado dei serbatoi di stoccaggio del greggio era noto alla Regione Basilicata già dal 2008 e che tre dei quattro serbatoi erano e sono privi del doppiofondo. In precedenza, il 28 febbraio, il 14 e il 22 marzo 2017, la Regione Basilicata diffida
Eni imponendo di utilizzare solo un serbatoio. Eni ricorre al Tar. Il 24 marzo il presidente del Tar Basilicata dà ragione alla compagnia ed annulla le diffide ritenendo i provvedimenti regionali non compatibili con sicurezza e funzionalità delle operazioni. Posizione rafforzata ad aprile dallo stesso Tar, facendo decadere le diffide per difetto di motivazioni da parte di Regione e l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente di Basilicata (Arpab). A Pasqua arriva il blocco del Cova con delibera di Giunta n.322 del 15 aprile 2017 e, qualche giorno dopo, con un’ordinanza il Comune di Grumento Nova vieta l’utilizzo di un terreno agricolo in località Campestrini perché inquinato da idrocarburi. Agli inizi di maggio Eni ammette la perdita di almeno 400 tonnellate di petrolio. Una contaminazione risalente al 2016. L’11 maggio i sindaci di Viggiano e Grumento Nova denunciano Eni. Tra febbraio e maggio il governatore lucano, Marcello Pittella, organizza diverse conferenze stampa tranquillizzando le comunità locali. Oggi sono ancora sconosciuti tempi e quantità della contaminazione. Inoltre, per ammissione dell’assessore regionale all’Ambiente, Francesco Pietrantuono, gli uffici regionali non conoscono l’esatta conformazione
delle falde nella zona, mentre l’Arpab, il 15 maggio, verbalizza che nell’ente permangono gravi carenze di personale, tra l’altro aggravate dall’emergenza in corso al Cova. L’Arpab si attiva con affanno per svolgere approfonditi controlli sulla zona e sul Pertusillo, ma non cerca mai quello che invece trovano le associazioni (autofinanziandosi), ovvero tracce di idrocarburi anche oltre soglia, unitamente ad azoto e fosfati. Arpab, invece, trova gli idrocarburi dappertutto: fuori dal perimetro del Centro olio, fino a Grumento Nova, ma mai nel Pertusillo. Ad oggi Ispra ha avocato a sé alcune attività di controllo e le associazioni sono state escluse dalle conferenze sulle caratterizzazioni. Molti incontro si sono tenuti a Roma. Eni dovrebbe attivare il suo depuratore mobile, già bocciato. La messa in sicurezza di emergenza è stata fatta senza un modello idrogeologico pubblico. Sulla Val d’Agri resta l’ombra del disastro ambientale in presenza di un impianto a rischio incidente rilevante secondo la direttiva Seveso. Il controllato continua ad essere controllore di se stesso ed aziende condannate in passato per reati ambientali lavorano all’emungimento delle acque di falda.
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I DANNEGGIATI
AVVELENATI E BE IL GIALLO DI AMA
DI DANIELA SPERA
In Calabria c’è un fiume avvelenato. Si chiama Oliva ed è contaminato da scorie e fanghi, anche industriali. Un vero e proprio disastro ambientale, scandito tra responsabilità evidenti, omertà ed assoluzioni.
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Uno scenario ambientale preoccupante. Ecco cosa ha sottolineato, nel 2011, la prima relazione stilata dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) sul fiume Oliva, in provincia di Cosenza. Nel 2013 il giudizio dell’Ispra è confermato perché la situazione di inquinamento è davvero grave. La relazione in questione ha messo in evidenza la presenza di massicce quantità di idrocarburi, metalli pesanti e numerose sostanze tossiche responsabili di aver causato l’avvelenamento delle acque di falda che, secondo il ministero dell’Ambiente, sono inutilizzabili per uso umano, agricolo e zootecnico. Al tempo stesso, la Procura di Paola - attraverso indagini approfondite - ha individuato in un consistente e continuo interramento di rifiuti - per un totale di 160 mila metri cubi, tra scorie e fanghi di varia natura, anche
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industriali - la presenza di tali inquinanti. L’AUMENTO STATISTICO DI PATOLOGIE ASSOCIABILI ALLE SOSTANZE INQUINANTI RINVENUTE NEI SUOLI E NELLE ACQUE Secondo i documenti del ministero competente le sostanze rinvenute si concentrano principalmente nei suoli delle località Carbonara ed aree limitrofe (Aiello Calabro), Foresta (Serra d’Aiello) e su un sito ricadente nel territorio comunale di Amantea. Nelle acque sotterranee sono state riscontrate elevate concentrazioni di ferro, manganese e solfati. In località Foresta, invece, c’è un’elevata concentrazione di arsenico, triclorometano e tricloroetano. Si ipotizza che tali sostanze abbiano causato - e possano ancora causare - la compromissione della salute <<con un aumento statistico di patologie associabili alle sostanze inquinanti rinvenute nei suoli e nelle acque.>>
EFFATI. ANTEA Un danno ambientale che avrebbe compromesso l’uso delle acque sotterranee, diverse coltivazioni nelle aree irrigate con le acque sotterranee e superficiali del fiume Oliva. Compromesso anche l’habitat per alcune specie ittiche meno adattabili a situazioni di inquinamento, in una zona - senza ritorno - dal punto di vista idrogeologico, paesaggistico e con perdita di valore turistico. Si comincia così a parlare di necessità di bonificare e si accendono anche i riflettori sui possibili responsabili di una situazione che si configura come un vero e proprio disastro ambientale. UNA LUNGA VICENDA GIUDIZIARIA Nel 2012 il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Paola, Carmine De Rose, emana un decreto di rinvio a giudizio per Cesare Coccimiglio (imprenditore ottantunenne di Amantea), Vincenzo Launi (sessantaduenne di
San Pietro in Amantea), Giuseppina Marinaro (sessantenne), Antonio Sicoli (trentaduenne di Aiello Calabro) e Arcangelo Guzzo (ottantenne proprietario terriero). Le accuse vanno dal disastro ambientale all’omicidio colposo. Solo nel mese di gennaio scorso il pubblico ministero Maria Francesca Cerchiara, alla presenza del collegio giudicante presieduto dal giudice Giovanni Garofalo e da Francesca De Vuono, ha chiesto la condanna a sedici anni e sei mesi di reclusione per Coccimiglio e l’assoluzione di tutti gli imputati. A raccontare nel dettaglio la vicenda è la giornalista Maria Teresa Impronta. In un articolo pubblicato su QuiCosenza.it del 16 gennaio non usa mezzi termini. <<Si tratta di un processo rimbalzato da Paola a Cosenza, con una sfilata di testimoni in aula, perlopiù agricoltori della zona che coltivavano sui
terreni contaminati, che non ricordavano di aver visto neanche uno dei quindicimila camion che hanno riversato nella valle dell’Oliva oltre 162 mila tonnellate di rifiuti industriali>>. <<Un’attività iniziata, secondo l’accusa, dall’imprenditore Coccimiglio negli anni Ottanta e proseguita fino al 2009 attraverso l’utilizzo di un’impresa edile (Coccimiglio Cesare & c. snc) come copertura per l’attività di smaltimento illecito di rifiuti. L’azienda, inoltre, nel corso degli anni si sarebbe aggiudicata anche appalti pubblici che hanno consentito, come nel caso dei lavori sulla SS 53 a Serra d’Aiello, di costruire sversando fanghi altamente inquinanti nei terreni. In questa strada, di proprietà della Provincia di Cosenza, nel tratto che collega Valle del Signore a Galleria Cozzo Manca ad Aiello Calabro sarebbe stato rilevato sotto il manto stradale un
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accumulo di rifiuti tossici di oltre un metro di spessore. L’imprenditore è accusato di aver organizzato il trasporto e lo scarico dei rifiuti utilizzando mezzi appartenenti alla sua azienda. Vincenzo Launi, Giuseppina Marinaro, Antonio Sicoli, Arcangelo Guzzo (legati a Coccimiglio da rapporti di parentela e lavoro) invece, in qualità di proprietari dei terreni sui quali parte degli scarichi sono avvenuti, avrebbero acconsentito allo smaltimento illecito dei rifiuti. Il disastro ambientale ipotizzato a carico di Coccimiglio avrebbe determinato un eccesso statisticamente significativo di mortalità per tumori maligni del colon retto, del fegato, della tiroide, degli organi genitourinari, della mammella, e particolari patologie non tumorali nell’aera del Distretto Sanitario di Amantea (in prossimità dei siti contaminati) tra il 1992 e il 2001.>> <<Le aree contaminate ricadono, secondo l’accusa, in zone adiacenti o comunque nelle disponibilità delle proprietà di Cesare Coccimiglio. Dell’imprenditore è stata più volte accertata la presenza sugli stessi terreni in cui, per hobby come ha sottolineato il pm Cerchiara, venivano ripetutamente scavate delle buche. Aiello Calabro, Amantea, San Pietro in Amantea e Serra d’Aiello i Comuni in cui sono stati consumati i fatti in particolare nelle contrade: Foresta, Giani, Carbonara, Briglia e fondovalle Oliva […]. In questi terreni
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sarebbero stati scaricati ripetutamente fanghi, rifiuti edili ed urbani contaminati da metalli pesanti e altri inquinanti. Un’attività che avrebbe portato alla realizzazione di un’unica vasta discarica di alcuni chilometri quadrati nell’alveo del fiume Oliva ed aree limitrofe.>> [https://www.quicosenza. it/news/le-notizie-dellarea-urbana-di-cosenza/ cosenza/132057-rifiutiinterrati-e-tumori-nelcosentino-chiestacondanna-di-un-notoimprenditore] LA SENTENZA DI ASSOLUZIONE Uno scenario raccapricciante, dunque, nel quale attori inconsapevoli sono, come sempre, i cittadini ignari, danneggiati da attività illecite che raramente vengono sviscerate e fatte emergere. Così come è sempre più raro giungere all’ottenimento di una giustizia spesso condizionata da poteri occulti. Il 6 marzo 2017 viene pronunciata, infatti, la sentenza di assoluzione. È come una pugnalata per i diversi soggetti costituitisi parte civile, soprattutto per i numerosi cittadini danneggiati. Nel giudizio si erano costituiti come parti civili numerosi enti, quali i Comuni della zona interessata, le organizzazioni ambientaliste e sindacali, ed il Comitato Civico “Natale De Grazia” di Amantea. In sede dibattimentale l’avvocato Nicola Carratelli - difensore di Cesare Coccimiglio -
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avrebbe dimostrato come l’accumulo del materiale inquinante sarebbe dovuto al fatto che per diversi anni quell’area era stata adibita a discarica da parte di alcune amministrazioni comunali. Per la Corte di assise di Cosenza, dunque, questo basta per stabilire che il reato non è stato commesso e così il giudice Giovanni Garofalo assolve il Coccimiglio e gli altri quattro co-imputati, proprietari dei terreni avvelenati: Vincenzo Launi, Giuseppina Marinaro, Antonio Sicoli e Arcangelo Guzzo. <<Per non aver commesso il fatto.>> E ALLORA CHI È STATO? <<I proprietari terrieri in sede processuale hanno negato di aver mai visto dei camion sversare rifiuti sui propri terreni. Ad essere danneggiate da tutto questo sono le persone che hanno contratto patologie tumorali grazie a chi ha venduto/fittato i propri terreni, consentendo che si consumasse un disastro ambientale purtroppo impunito.>> Questo il commento sulla sentenza della collega Improta da noi contattata. Parole amare ed estremamente vere. Parole che condividiamo appieno.
BONIFICA URGENTE IL CASO DELL’INQUINAMENTO DEL FIUME OLIVA È ARRIVATO IN PARLAMENTO EUROPEO. CHIESTA ISTITUZIONE DI UN FONDO SPECIALE L’istituzione di un Fondo europeo a cui accedere per riparare i disastri ambientali quando non è possibile individuarne i responsabili. È questa la richiesta avanzata dal comitato Natale De Grazia alla Comunità europea, nel corso del workshop sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale (direttiva europea 2004/35/CE), tenutosi il 15 marzo a Bruxelles. Il rappresentante del comitato De Grazia, Danilo Amendola ha presentato un documento sul disastro ambientale del fiume Oliva dove risultano ancora interrati da 120 a 160 mila metri cubi di rifiuti di varia natura, anche industriali, per i quali non si conoscono ancora tempi e modi di messa in sicurezza o bonifica. Al momento è, quindi, in capo alla collettività l’onere di sostenere le spese per il risanamento della valle. <<La vicenda dell’inquinamento della valle Oliva – scrive nella propria relazione il comitato – rappresenta un esempio di come, nei casi di inquinamento appurati, sia necessario trovare gli strumenti più efficaci per ottenere in tempi rapidi la bonifica dei luoghi. A tal proposito da parte delle istituzioni europee è indispensabile migliorare la direttiva sulla responsabilità
ambientale al fine di garantire il ripristino dei luoghi inquinati tempestivamente.>> La direttiva 2004/35/CE - oltre a contemplare l’obbligo per le autorità ambientali nazionali a procedere alla messa in sicurezza dal punto di vista igienico-sanitario e ambientale, nonché alla bonifica dei siti inquinati nel rispetto del principio di precauzione, di cui all’articolo 191 del Trattato dell’Unione Europea; ed il rispetto della Convezione sull’accesso alle informazioni, la partecipazione dei cittadini ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale (Convenzione di Arhus) - dovrebbe altresì prevedere, ed è questa la proposta più interessante del comitato, l’istituzione di un Fondo europeo, attraverso l’imposizione di un tributo sul volume di affari delle attività industriali con produzioni ad elevato rischio di inquinamento. A tale fondo, le istituzioni dei Paesi membri (Ministero, Regioni, Comuni) dovrebbero poter accedere per il ripristino dei territori inquinati nel momento in cui non sia possibile applicare il principio <<chi inquina paga.>> L’obiettivo dovrebbe essere quello di alimentare il fondo in modo premiale per gli operatori economici che dimostrino di essere all’avanguardia nelle attività
di tutela dell’ambiente e di prevenzione del rischio ambientale, questo andrebbe fatto tenendo in considerazione la condotta degli operatori nel tempo. Ad esempio, il ritrovamento di rifiuti illecitamente smaltiti, riconducibili ad un operatore, sarebbe un possibile indice per quantificare il coefficiente di rischio di un certo settore o di uno specifico operatore. Infine, i rappresentanti del comitato credono che sia indispensabile pretendere dalle istituzioni dei Paesi membri della Ue un maggior controllo sulle attività industriali potenzialmente inquinanti, nonché sul trasporto, il tracciamento e lo smaltimento dei rifiuti.
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Lavori di realizzazione della centrale di compressione del gas di Bordolano, Cremona / Foto archivio TDF, 2015
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L’ITALIA, L’HUB DEL GAS E IL CROCEVIA DELLE GRANDI O Terre di frontiera / numero 10 anno 2 - giugno 2017 / www.terredifrontiera.info
OPERE
DI ENRICO DURANTI
Il 7 marzo 2017, a Londra, il presidente e ceo di Snam Rete Gas, Marco AlverĂ , ha presentato il Piano 2017-2020 del gruppo, dichiarando che <<Snam è ben posizionata per garantire allâ&#x20AC;&#x2122;Europa rifornimenti di energia pulita, sicura e a costi competitivi.>> Il giorno successivo il consiglio di amministrazione di Snam lo approva, aprendo - di fatto - a nuovi scenari energetici e frontiere da esplorare.
<<Il mercato italiano beneficia dell’infrastruttura gas più estesa dell’intero Continente e nei prossimi cinque anni investiremo cinque miliardi di euro per rendere il nostro sistema ancora più forte, più interconnesso e più sostenibile, contribuendo significativamente alla realizzazione dell’Energy Union e offrendo una soluzione efficace al processo di decarbonizzazione. Faremo leva sulla nostra leadership nel settore europeo delle infrastrutture gas, sulle nostre competenze distintive e sui nostri settantacinque anni di esperienza per rendere disponibili nuovi servizi ad operatori terzi. In quest’ottica abbiamo recentemente concluso un contratto per supportare Tap nella sezione offshore e onshore italiana, coerentemente con la strategia di Snam global solutions. Gli investimenti di piano e una politica di dividendi attrattiva saranno sostanzialmente sostenute dalla generazione di cassa. La solida struttura finanziaria ci consentirà inoltre di cogliere ulteriori opportunità di creazione di valore, anche attraverso il piano di buyback già autorizzato, fermo restando il nostro impegno a mantenere metriche di rating coerenti con il nostro merito di credito.>> Le parole pronunciate da Alverà e il suo piano aziendale sembrerebbero sostenere un obiettivo speculativo legato alla creazione di un corridoio meridionale per il transito
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e l’immagazzinamento del gas per l’ovest, ma soprattutto per i mercati dell’est Europa, in un nuovo scenario geopolitico dell’energia. Sul piatto un investimento di 5 miliardi di euro: 4,7 miliardi per sviluppare ulteriormente le infrastrutture gas italiane e la loro interconnessione con quelle europee e circa 270 milioni di euro da investire in Tap, rafforzando la sicurezza, la flessibilità e la liquidità dell’intero sistema gas. Una nuova rete da implementare, principalmente, grazie alla realizzazione di un metanodotto di 55 chilometri funzionale a collegare il gasdotto Tap con la rete esistente, con il potenziamento del campo di stoccaggio gas “Fiume Treste” in Abruzzo (che è già il più grande d’Italia) e con ulteriori investimenti nel completamento del reverse-flow - la bidirezionalità dei flussi di consumo del gas - partendo proprio dal metanodotto Tag che collega il Tarvisio ai paesi dell’est, attraverso Austria e Slovacchia. E proprio a settembre 2014 Snam ha rilevato l’89,22 per cento del pacchetto azionario di Tag, infrastruttura strategica per i flussi di energia provenienti dalla Russia. Finora è stata la Russia la principale fornitrice di metano in entrata in Italia ma con il reverse-flow, e la creazione dell’hub del gas sud-europeo, il flusso di metano potrebbe invertirsi: non più importazioni di gas dall’est europeo, ma esportazione di gas ai nuovi mercati dell’est.
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IL PREZZO DEL METANO, I TAKE-OR-PAY, I GAS NON CONVENZIONALI E LA SOVRAPPRODUZIONE Questa nuova strategia, ben voluta e sollecitata all’Italia dall’Europa, è studiata in un nuovo quadro geopolitico che vede al centro la questione del prezzo del metano. La realizzazione delle nuove infrastrutture non dovrebbe passare dall’utilità - né italiana, né europea - e dalla sicurezza degli approvvigionamenti energetici, ma
Lavori di realizzazione della centrale di compressione del gas di Bordolano, Cremona / Foto archivio TDF, 2015
esclusivamente dall’abbattimento dei costi della materia prima. In passato si è cercato di garantire l’importazione di metano con forniture e contratti Take-or-pay, principalmente dalla Russia, che ha sempre fornito più del 50 per cento del gas in Europa. In Italia più del 30 per cento. Con la rivoluzione dei gas non convenzionali abbiamo assistito al crollo dei prezzi del metano, portando il listino dei contratti Take-
or-pay fuori mercato. Infatti dal 2010 il Vecchio Continente ha cominciato a spingere verso una loro rivisitazione, per far fronte allo squilibrio dei prezzi rispetto al mercato spot. A questo andrebbe aggiunta anche la crisi economica, che ha fatto registrare meno consumi di energia, e gli effetti del cambiamento climatico che ha comportato inverni meno rigidi e meno lunghi. Un contesto sfavorevole tallonato anche dalla
rivoluzione dei gas non convenzionali che ha comportato un boom di estrazioni di shale gas negli Stati Uniti, aprendo ad enormi possibilità anche in altri paesi. Senza entrare nel merito dei rischi ambientali legati all’estrazione dei gas non convenzionali per mezzo del fracking, la tecnica della fratturazione idraulica delle rocce. E mentre gli Stati Uniti raggiungevano una posizione di quasi indipendenza energetica,
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Manifestazione contro gli stoccaggi di gas in Lombardia / Foto archivio TDF, 2015
diminuivano drasticamente le loro importazioni dagli Stati Arabi. Potenzialmente gli Usa si prestavano ad essere esportatori con navi metaniere di gas naturale liquefatto verso l’Europa. Al contempo l’Iran cercava di seguire la strada americana. Uno scenario che, cambiando il sistema di approvvigionamento, ha portato alla crisi di molti paesi produttori di petrolio e gas. Per il Venezuela e la Russia, ad esempio,
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il pareggio di bilancio è basato su un prezzo del barile vicino ai 100 dollari. Il crollo a 50 dollari ha acuito il rischio default, delineando una graduale instabilità economica e politica di portata mondiale. I principali paesi produttori si sono trovati di fronte ad una scelta quasi obbligata: diminuire la produzione in modo da bloccare la svalutazione del prezzo o aumentare la produzione in modo da rendere
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antieconomico anche il gas non convenzionale? Intorno a questa domanda nel dicembre scorso a Vienna, hanno dibattuto a lungo i Paesi esportatori di petrolio (Opec) e quelli produttori. Un lungo braccio di ferro al termine del quale è prevalsa la posizione di tagliare la produzione in modo da permettere ai prezzi di risalire. Tra i favorevoli la Russia e l’Arabia Saudita. Dall’altra parte Iraq e Iran. Con quest’ultimo che ha
una centralità assoluta nella produzione futura di gas non convenzionali, essendo il paese al mondo con le maggiori potenzialità in grado di diventare primo esportatore. IL CROCEVIA DELLE GRANDI OPERE EUROPEE Il tentativo dell’Europa di rinegoziare i contratti Takeor-pay ed il muro eretto a tal proposito dalla Russia, in un clima da “guerra fredda”, ha ridefinito i
rapporti e le autorizzazioni dei grandi gasdotti in cantiere, alcuni pensati per bypassare l’ostacolo ucraino. Ad esempio, il progetto South Stream - bocciato dall’Unione europea - avrebbe permesso un incremento quasi doppio di gas anche ai paesi dell’Europa meridionale, scavalcando appunto l’Ucraina. Le potenzialità del South Stream, sulla carta, sono di 60 miliardi di metri cubi di gas all’anno. Un gasdotto che dal mar Nero sarebbe sbarcato alle porte italiane del Tarvisio risalendo per i Balcani. Un destino differente sembrerebbero avere il più “piccolo” Tap, al centro di accese proteste a Melendugno, in provincia di Lecce, dove dovrebbe approdare. Il Tap porterebbe 10 miliardi di gas all’anno, è ritenuto strategico dall’Ue ed è stato finanziato anche dalla Banca europea investimenti (Bei). Cosa cambia tra South Stream e Tap? Il primo porterebbe gas russo, il secondo gas azero e, in futuro, gas arabo. E a farle da padrone sono strategie geopolitiche che animano i rapporti tra Russia, Stati Unite e paesi alleati. L’HUB DEL GAS In questo clima l’Italia gioca un ruolo chiave. Se da un lato l’Europa per l’approvvigionamento da nord spinge per la rigassificazione con terminali nel mare del Nord, per l’approvvigionamento da sud spinge per la rigassificazione con terminali in Spagna e nel nostro Paese,
che avrebbe un ruolo determinante anche a livello di infrastrutture da realizzare e potenziare. Per immagazzinare e poi - per l’integrazione del mercato europeo dell’energia esportare grandi quantità di metano servono gli stoccaggi sotterranei. Progetti che si portano dietro diversi problemi di natura ambientale, come sismicità indotta e deformazione del suolo. Per reggere le esportazioni di gas e consentire che l’hub funzioni servono pertanto rigassificatori, stoccaggi, metanodotti, nuove trivellazioni, impianti di biometano: opere non strategiche, ma solamente di mercato. Un sistema complesso che si reggerebbe sull’interconnessione di grandi metanodotti che tagliano la Penisola e la Pianura padana. In questo momento le opere principali sono i metanodotti Cervignano-Zimella e Cervignano-Mortara, di portata internazionale, che permettono al gas di arrivare alle porte italiane del Tarvisio (ad est) e di Passo Gries (ad ovest). Il metanodotto CervignanoMortara, ancora in costruzione, vede come punto centrale la costruenda centrale di compressione gas di Sergnano, in provincia di Cremona, che gestirebbe in bi-direzione il gas verso l’Europa. Proprio a Sergnano si concentrerebbe il punto finale del sistema stoccaggi-metanodotti. Infatti è la Lombardia che detiene il maggior numero di gas stoccato.
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Stoccaggi di gas ed opere accessorie / Foto archivio TDF, 2015
A completare l’hub c’è il nuovo corridoio energetico che percorre la dorsale appenninica e arriva in Emilia Romagna - nei pressi dello stoccaggio di Minerbio, in provincia di Bologna - per poi ricollegarsi a Sergnano. Questo corridoio energetico è un metanodotto che dovrebbe percorrere tutto l’Appennino adriatico, anche nelle zone terremotate, arrivando dal gasdotto Tap che porterebbe il gas dai Paesi del Caucaso. A questa opera si connetterebbero altre opere come campi di stoccaggio utili ad immagazzinare gas, e rigassificatori.
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QUALI SONO I CONSUMI ITALIANI? L’Italia basa il proprio consumo energetico sull’utilizzo del metano. Una scelta dettata principalmente da un fattore di natura politica, dalla mancanza del nucleare e dalle scoperte metanifere dell’Eni e gli investimenti di Enrico Mattei e dall’importazione del gas - via tubo - dalla Russia e dai Paesi nordafricani. A livello nazionale, nel 2015, la composizione percentuale delle fonti energetiche impiegate per la copertura della domanda è stata caratterizzata dal petrolio per il 34,5 per cento, dal metano per il 32,2 per cento, dai combustibili solidi per il 7,8 per cento,
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dall’energia elettrica per il 5,9 per cento e dalle rinnovabili per il 19,3 per cento. Il 2015 dimostra ancora che siamo un Paese principalmente importatore di energia, anche per la scarsità concreta di fonti rinnovabili. Quello che deve far riflettere è che, comunque, in un quadro generale di diminuzione di produzione nazionale di energia, diminuisce anche la produzione nazionale di rinnovabili con un calo del 3,7 per cento rispetto al 2014. Aumentano, invece, le importazioni nette: del 6,4 per cento rispetto l’anno precedente, con un aumento delle importazioni di gas del 10 per cento e petrolio del 6,6 per cento, mentre le fonti rinnovabili importate subiscono un forte calo del 16 per cento rispetto al 2014. Questo dipende principalmente dalla scelta politica di puntare sulle fonti fossili e meno sulle fonti rinnovabili. Nel 2015 la domanda di gas naturale è stata coperta per il 10 per cento dalla produzione nazionale e per il 90 per cento attraverso il ricorso all’importazione. L’importazione è stata pari a 61,2 miliardi di metri cubi con un incremento del 9,8 per cento rispetto al 2014 (circa 5,4 miliardi di metri cubi) ed è stata registrata inoltre un’iniezione netta di gas nei giacimenti di stoccaggio per circa 0,2 miliardi di metri cubi. Le importazioni via gasdotto hanno rappresentato il 90 per cento del totale delle importazioni di gas naturale, con un incremento di 4 miliardi di metri cubi.
In particolare dall’Algeria (7,2 miliardi di metri cubi), dalla Russia (29,9 miliardi di metri cubi), dalla Libia (7,1 miliardi di metri cubi), dal Nord Europa (10,6 miliardi di metri cubi). Il GNL nel 2015 è stato pari a 6 miliardi di metri cubi con un incremento del 32 per cento rispetto al 2014. Complessivamente nel 2015 si registra un consumo di gas pari a 67,5 miliardi totali di metri cubi con un incremento di 5,6 miliardi di metri cubi (+ 9,1 per cento) rispetto ai 61,9 miliardi di metri cubi del 2014. Questo incremento è stato reso possibile da un aumento del settore civile e termoelettrico che aumentano di 6 miliardi di metri cubi rispetto al 2014. Per soddisfare le esigenze domestiche, nel 2015, secondo le stime preliminari effettuate nell’ambito dei conti ambientali dell’Istat, si utilizza per il 51 per cento il gas naturale, per il 21 per cento le biomasse, per il 20 per cento l’energia elettrica, per il 4 per cento il gasolio, quasi per il 4 per cento il GPL e in quantità trascurabile gli altri prodotti energetici. Altro dato importante riguarda l’energia elettrica in quanto più del 60 per cento è prodotta con fonti fossili attraverso impianti termoelettrici tradizionali. Sul totale dell’energia elettrica il 40 per cento è prodotta grazie al gas naturale. Ma è proprio nei consumi finali di energia che si nota come il maggior consumo viene dal settore civile (37,6 per cento) e dai trasporti (32 per cento). Due settori che, insieme,
rappresentano il 67,6 per cento dei consumi finali. In questo contesto il gas è a quota 30 per cento e il petrolio è a quota 43 per cento, dimostrando che i nostri consumi sono ancora fortemente legati al fossile. UTILITÀ O SCELTA POLITICA? Dai dati che abbiamo osservato possiamo trarre importanti conclusioni. L’Italia, da paese importatore, ha bisogno di grandi svolte per poter ridurre la propria dipendenza energetica. Essendo il settore civile e quello dei trasporti i principali energivori, con dipendenza da gas e petrolio, solo una scelta consapevole può scardinare una politica energetica antiquata. Cosa si potrebbe fare? L’efficientamento energetico delle abitazioni potrebbe abbattere drasticamente l’utilizzo di gas. Stesso discorso vale per i trasporti. Il continuo investimento su gomma rappresenta una scelta sbagliata. Incentivare il trasposto pubblico e riorganizzare quello delle merci potrebbe abbattere drasticamente il consumo di petrolio. L’HUB DEL GAS, GLI STOCCAGGI, LA RIGASSIFICAZIONE, IL BIOMETANO, LE TRIVELLAZIONI SONO FINALIZZATE A CONSERVARE LO STATO DELLE COSE Ad essere messo in discussione è l’attuale modello di sviluppo retto esclusivamente sul fossile e sulla speculazione nel
settore delle rinnovabili. Dobbiamo ragionare in modo differente. Dobbiamo cominciare a ragionare su un modello di sviluppo fondato sul minor impatto energetico, sulla minimizzazione del consumo, sull’efficienza. Per farlo l’energia andrebbe riconosciuta come bene comune e non come merce. Una riflessione applicabile anche all’utilizzo del sottosuolo. È tendenza comune considerarlo <<proprietà privata>>. Il sottosuolo è, per legge, un bene comune. L’energia è alla base del progresso e del modello di sviluppo economico. Un modello economico irrazionale e illogico come quello attuale continuerà a trainare massimo consumo e massimo spreco. Pensiamo allo spostamento delle merci di prima necessità. Importiamo alimenti dall’estero per poter coltivare i nostri campi e produrre energia. NEL BILANCIO FINALE ENERGETICO, QUANTA ENERGIA SERVE PER IMPORTARE QUESTI ALIMENTI? Mancano i dati. La risposta non è il protezionismo in chiave nazionale, ma un modello di sviluppo razionale, dove l’energia è un bene da preservare nel rispetto dell’ambiente e dell’intera umanità. Attorno alla questione del sottosuolo e dell’energia deve ripartire la battaglia per la difesa dei beni comuni.
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TERRITORI
CCHIÙ PALE PE’ TUTTI
DI ENZO CRIPEZZI
Quello che registriamo in Italia dal fronte delle fonti rinnovabili è una grande speculazione energetica più che ventennale. Oggi, accanto agli interessi di parte, si registra un totale disinteresse alla luce della nuova Strategia energetica nazionale (Sen). Un tema complesso, con criticità indotte da un sistema costruito su pressione delle lobby di settore e di una parte consistente dell’ambientalismo. Il filo conduttore è sempre quello dell’eolico, che nel nostro Paese è sempre più l’emblema delle distorsioni del comparto energetico: scelte politiche complici, ricatti ed errate interpretazioni degli obiettivi di decarbonizzazione.
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Il 10 maggio scorso la Strategia energetica nazionale è stata presentata alle Commissioni riunite Ambiente e Attività produttive della Camera dei deputati. L’ultimo passaggio prima della presentazione definitiva per una auspicabile - ma non certa - consultazione pubblica. In linea di principio, il documento presenta anche apprezzabili obiettivi. Come la diffusione di forme alternative di mobilità o l’aggiornamento di politiche infrastrutturali di trasporto e logistica. La questione ambientale viene però esaurita nel mero parametro percentuale di riduzione di gas climalteranti, senza tener conto di alcuna analisi che evidenzi quali possano essere le tecnologie più compatibili per il territorio e per le tasche degli italiani. L’AGGIORNAMENTO DELLA SEN Intanto ci si dovrebbe chiedere perché si parla di <<Strategia energetica>>
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e non di <<Piano energetico>>, così come contemplato dalla legge n.10 del 1991, il cui titolo riportava testualmente <<Norme per l’attuazione del Piano energetico nazionale in materia di uso nazionale dell’energia, di risparmio energetico e di sviluppo delle fonti rinnovabili di energia.>> Termini e procedimenti sono tutt’altro che casuali. In caso di <<Piano>>, infatti, si fa riferimento a ineludibili procedimenti di valutazione volti a verificarne gli effetti sulle componenti ambientali. Attraverso la Valutazione ambientale strategica (Vas), e sulla biodiversità e la rete Natura 2000 (Sic, Zps), per mezzo di una Valutazione di incidenza. Il termine <<Strategia>> energetica invece contemplando insediamenti industriali con ricadute territoriali e ambientali - aggira la normativa in vigore affrancandola da qualsivoglia ponderazione sugli effetti che ne possono
derivare. Nel merito si può purtroppo stigmatizzare come il documento si traduca in una ostinazione sconsiderata delle politiche miopi fin qui perseguite. Formalmente l’aggiornamento del percorso della Sen ha visto consultazioni circoscritte e opinabili nelle sedi istituzionali. Basti pensare che delle circa 40 associazioni cui è stato richiesto un parere, la stragrande maggioranza sono società di settore. Rappresentative, pertanto, di interessi privati. L’impostazione di partenza è quindi gravata da un’analisi che mira esclusivamente all’ambito energetico senza alcuna valutazione multidisciplinare che abbracci aspetti ambientali, territoriali, sociali ed economici. All’auspicabile conseguimento di una maggiore efficienza - ma si tratta sempre di un principio - si affianca la previsione di dare impulso
alle fonti rinnovabili con la sommaria previsione di un obiettivo target al 2030. Il traguardo del 17 per cento di rinnovabile entro il 2020 sul totale del fabbisogno energetico nazionale, viene elevato al 27 per cento entro il 2030. Questo dato è oltretutto suddiviso nei vari comparti. Tra cui quello elettrico, che dovrebbe contribuire con una percentuale abnorme del 48-50 per cento. Sempre che gli altri settori raggiungano i rispettivi target. È questo il punto nodale. Quello che genera le maggiori ripercussioni sul piano territoriale. E, sul lungo termine, anche le performance di lotta ai gas serra paradossalmente meno premianti. L’incremento dall’odierno 33-34 per cento al 48-50 per cento potrà apparire poca cosa in termini numerici. È circa il 15 per cento in più di elettricità derivante da fonte rinnovabile. Di per sé, tuttavia, è già assurdo privilegiare ancora sussidi a fonti rinnovabili
elettriche intermittenti e non programmabili, con ciò che ne consegue per la loro gestione - nuovi elettrodotti e impianti tradizionali sovvenzionati per mantenere riserve “calde”, pronte a inseguire vuoti energetici - trascurando il comparto termico - riscaldamento e/o raffreddamento - o i trasporti. Ma se proprio tale dovesse essere, è necessario proiettare questo 15 per cento in termini di potenziale effetto per i territori in rapporto alla tecnologia adottata per conseguirlo. Lo sforzo finanziario titanico - e la relativa speculazione - prorinnovabili degli ultimi venti anni - in primis eolico, ma anche rispetto a fotovoltaico e biomasse - è alla base dell’incremento del 20 per cento di rinnovabile elettrico. Partendo da un territorio “vergine” e seguendo, nel corso del tempo, un mero criterio profittevole. Oggi gran parte del territorio “ventoso” - parametro
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opinabile se rapportato al nord Europa - è stato abbondantemente saturato. Così come lo sfruttamento delle biomasse appare già tutt’altro che sostenibile. COME E DOVE CONSEGUIRE QUESTO ULTERIORE 15 PER CENTO? L’Anev, associazione che rappresenta le aziende di quell’eolico che oggi produce circa il 4,7 per cento di elettricità (contribuisce per l’1,4
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per cento al fabbisogno totale), non fa mistero di pretendere che gran parte di quel 15 per cento sarà perseguito con nuovi lauti foraggiamenti ad altre “sue piantagioni” eoliche disseminate ovunque. Quasi raddoppiando gli oltre 9200 megawatt odierni di targa fino a 17 mila megawatt. Uno scenario aberrante se la politica continuerà ad essere genuflessa e complice di questo nuovo disastro. Una puntuale
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valutazione di Alberto Cuppini, lucido riferimento dell’attivismo associativo più attento al tema in questione, evidenzia come metà di quell’incremento sarebbe perseguibile con costi più contenuti investendo nella pulizia e manutenzione degli invasi idroelettrici esistenti. A ciò si potrebbe affiancare una mera riflessione, frutto della logica. L’unica tecnologia rinnovabile di produzione elettrica
<<Piantagione eolica>> in Puglia / Foto archivio LIPU Capitanata
capace di affrancare il proprio potenziale produttivo rispetto alla collocazione urbanistica in ambito rurale o urbano - è il fotovoltaico. È quindi su questo settore che andrebbero concentrati gli sforzi. Non fosse altro che per dare un senso agli immensi spazi degradati dalle urbanizzazioni post anni Sessanta. Sullo sfondo, ci sono poi le Regioni. Che in materia energetica, piangono lacrime di
coccodrillo. La Puglia ha varato, anni or sono, tra le più adeguate linee guida in materia di insediamenti rinnovabili. Peccato fossero compromesse in partenza da innumerevoli progetti già approvati e da enormi aree prive di vincoli ambientali. Ha fatto seguito un piano paesaggistico più attento. Ma non quanto necessario giacché alle Province, ormai declassificate a enti di secondo livello, sono pervenute valutazioni ambientali inefficaci. Successivamente, ha provveduto ad aggiornare il piano energetico contemplando uno stop all’eolico. A parole. Secondo le linee guida nazionali in materia, le pianificazioni regionali non possono di per sé impedire il conseguimento di autorizzazioni positive. A questo punto ci si sarebbe aspettati che, con simili premesse, la Puglia attivasse nelle sedi opportune il proprio potere per tutelare il suo patrimonio. Come poteva e doveva essere in Conferenza Stato-Regioni, nel 2015, in merito al provvedimento di finanziamento di nuovi incentivi triennali alle rinnovabili. Ma non c’è stata alcuna opposizione. Né lo hanno fatto altre Regioni – come Sicilia, Molise, e altre - che pure si sono espresse criticamente rispetto alla dissennata aggressione eolica. Via libera, quindi, al famigerato decreto che nel 2016 ha permesso una nuova corsa a ulteriori impianti. Ma c’è di più. La Basilicata ha recentemente emanato provvedimenti
regolamentari in materia di minieolico con un ritardo imperdonabile, che sta generando caos e proteste. Guardandosi bene dal riscattare un piano paesaggistico tenuto nel cassetto, ancora in ostaggio delle lobbies. In Molise, dopo anni e anni, è alle battute finali il piano energetico regionale. Senza però che siano state adottate robuste misure di contenimento per gli impianti più impattanti. La Campania, continua ad essere caratterizzata da un buco nero sul governo del proprio territorio. E non sono da meno le altre realtà. L’INGANNO DELLA SEN È opportuno ricordare che a fine 2012 un cartello di associazioni aveva trasmesso un argomentato e impeccabile documento al governo Monti in occasione della prima versione della Sen. Documento attualissimo, ancor più oggi, sul quale vale la pena soffermarsi per comprendere le dinamiche che rischiano di lacerare quello che rimane del Bel Paese. Favorendo le solite tasche. In sintesi si chiedeva di fermare il disastro territoriale, ambientale, paesaggistico e finanziario in atto con la corsa all’eolico. E, al contempo, di dirottare le risorse economiche verso più utili politiche di efficienza e risparmio energetico. Di investire nel rendere meno impattante il settore del trasporto, rivitalizzare ricerca e innovazione, espandere tecnologie
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<<Coltivazioni rinnovabili>> in Puglia / Foto archivio LIPU Capitanata
amiche dell’ambiente come quelle nel settore del riscaldamentoraffreddamento. Si accettava una ulteriore e ponderata crescita delle rinnovabili elettriche con il solo fotovoltaico sulle superfici edificate o infrastrutturate. Laddove fosse necessario. Considerato che le rinnovabili elettriche avevano già fruito di ingentissime risorse, negate invece ad altri comparti più
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performanti ed energivori. Come quello dei trasporti, suscettibile di agire su fenomeni di carattere sociale oltre che energetici. Il documento non ha avuto alcun riscontro istituzionale. L’inganno della Sen, puntava alla elevazione della soglia di rinnovabile elettrico con il fine strumentale di legittimare un nuovo assalto territoriale. E finanziario. Con oneri arrivati nel 2011 alla esorbitante cifra di 9
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miliardi di euro all’anno da elevarsi di ulteriori 3,5 miliardi di euro annui per i successivi vent’anni. Quella stessa Sen affermava che considerate le percentuali sui consumi totali - il termico <<rappresenta la quota più importante, pari a circa il 45 per cento del totale, seguito da quello dei trasporti, con poco più del 30 per cento e infine da quelli elettrici>>. Le associazioni ricordavano altresì che <<la crescita
degli obiettivi di riduzione dei gas serra deve essere perseguita con convinzione ma rispettando la capacità produttiva delle stesse rinnovabili, la sostenibilità ambientale e in relazione alle possibilità offerte dal nostro territorio, che rappresenta un bene limitato, prezioso, irrinunciabile>>. IL COSTO DELLE RINNOVABILI Quegli incentivi alle rinnovabili solo elettriche costeranno oltre 200 miliardi. Pari a 50 anni di intervento straordinario nel Mezzogiorno (fonte Nomisma). Un simile sforzo avrebbe ben meritato una ponderazione delle linee di intervento e degli obiettivi da perseguire secondo criteri di efficacia. Possiamo ben dire che, ad oggi, l’unico criterio ispiratore sia stato il soddisfacimento delle istanze di alcune lobbies. E occorre anche ben interpretare i miserevoli risultati raggiunti in termini di contributo rinnovabile - rapportato al fabbisogno energetico totale - oltre che all’effettivo risultato derivante dal sistema di sussidi. In base ai dati Gse (Gestore servizi elettrici) deputato, tra l’altro, a erogare gli incentivi nel settore elettrico, il 2016 ha rendicontato un 32,6 per cento di contributo rinnovabile. Un dato in flessione rispetto alle punte raggiunte gli anni precedenti, che ha fatto immediatamente gridare al Governo maligno che penalizza le rinnovabili. In realtà, ciò deriva da una maggiore richiesta
energetica complessiva e, quindi, una penetrazione percentuale inferiore dell’apporto rinnovabile. Oltre che da fluttuazioni nell’idroelettrico. Ma ciò che dovrebbe far riflettere è che l’impegno finanziario profuso da circa vent’anni - che si protrarrà per circa un altro ventennio - è alla base di solo il 20 per cento dell’apporto elettrico rinnovabile. Specie se si tiene in considerazione che l’altra fonte rinnovabile tradizionale, il grande idroelettrico, è da sempre contemplata nel sistema elettrico nazionale. Agli incentivi diretti si sono via via aggiunte agevolazioni indirette o di carattere fiscale. Basti pensare al regalo governativo ottenuto a inizio 2016 in tema di imposte sui cosiddetti “imbullonati”. Un termine alquanto singolare per identificare macchinari tra cui rientrano proprio le attrezzature eoliche. Il sospetto è che non si sia avuto il coraggio nemmeno di chiamarli con il loro vero nome. Poi ci sono le cosiddette “aste”, per mettere in palio sussidi ventennali a vantaggio di altre centinaia di megawatt - “mini” idroelettrico, biomasse, ma soprattutto eolico - da installare nel Paese. Oggi si può prendere atto, effettuando le dovute comparazioni, dei risultati energetici delineati e di quelli territoriali. Con il morbillo di centrali fotovoltaiche su terreni agropastorali, con migliaia di impianti eolici disseminati senza criteri urbanistici né ambientali e un reticolo di
infrastrutture di trasporto e trasformazione elettrica. Di notte, gli estesissimi comprensori rurali assoggettati su vasta scala da tali impianti sono umiliati da pacchiani effetti “discoteca”. Per contro, la sconsolante e insopportabile contraddizione di questo scenario è costituita da “panorami” immensi delle nostre cementificazioni e urbanizzazioni, prive di significato storico. Prive di pannelli fotovoltaici, con interi settori energivori - come quello dei trasporti - caratterizzati da tagli e restrizioni a scapito dei cittadini e dei principi inerenti alla decarbonizzazione. L’obiettivo al 2020 prevedeva una penetrazione di tutte le rinnovabili sui consumi lordi complessivi del Paese pari al 17 per cento. Il solo settore elettrico rinnovabile avrebbe dovuto toccare il 26 per cento. Già nel 2015, però, si percepisce come si sia lasciata mano libera alle rinnovabili nel solo sistema elettrico (33,5 per cento) così da compensare il lassismo generale nei settori termico (19,2 per cento) e dei trasporti (6,4 per cento), conseguendo una media del 17,5 per cento di rinnovabile sul totale dei consumi energetici. Senza contare che, ovviamente, su questi risultati pesa la delocalizzazione all’estero di produzioni industriali energivore e relative emissioni.
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RIFIUTI CONNECTION
BONIFICA EX-CE FORSE È LA VOLT
DI DANIELA SPERA
La storia infinita del deposito di rifiuti radioattivi ex-Cemerad di Statte, in provincia di Taranto, probabilmente sta per giungere ad un epilogo. La bonifica mai decollata – come raccontato oltre un anno fa nel primo numero di Terre di frontiera (marzo 2016 / nella foto) – potrebbe non essere più un miraggio.
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In merito alla risoluzione della vicenda ex-Cemerad gli interrogativi sono legittimi, visto che da anni i cittadini di Statte assistono ad uno scaricabarile di responsabilità, denunce ed annunci d’intenti, mai di fatto concretizzati. Questa volta, però, ad annunciare l’imminente soluzione – dopo anni di silenzio istituzionale – è stato il ministro per la Coesione territoriale e il Mezzogiorno, Claudio De Vincenti. Giunto il 18 maggio 2017 nella provincia jonica, anche per effettuare un sopralluogo proprio all’ex-Cemerad, accompagnato da Vera Corbelli, il commissario straordinario per le bonifiche. Un’iniziativa dovuta che giunge in risposta alle incessanti pressioni degli attivisti locali – in particolare del Comitato Legamjonici – in sinergia con un gruppo di cittadini di Statte, che dal 2011, avevano riacceso i riflettori sul problema, fino a suscitare l’interesse dei media nazionali. Un lavoro
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costante che ha portato ad un’accelerazione della soluzione del problema. Forse i cittadini di Statte potranno tirare un sospiro di sollievo, ma non prima del mese di giugno 2018 quando – secondo il cronoprogramma – si concluderà la bonifica che appare complessa come emerso dal rapporto preliminare. Dalle indagini conoscitive effettuate sulla base di quanto riportato sulle etichette dei fusti e nella documentazione allegata, sarebbero 3.344 i fusti contenenti rifiuti radioattivi di ogni genere e provenienza. Si passa dagli scarti derivanti da attività sanitarie – ospedali e cliniche pubbliche e private, laboratori Ria – a fusti contenenti sorgenti radioattive di materiali quali parafulmini, rivelatori di fumo, sorgenti di taratura, fili di Iridio, vetrino con uranio naturale. Ma non è tutto. Nel <<capannone degli orrori>> sono almeno 57 i fusti che contengono materiale contaminato in
EMERAD DI STATTE: TA BUONA seguito al disastro nucleare di Chernobyl. Nel complesso il materiale radioattivo stoccato è costituito da radioisotopi dalla stabilità impressionante: U-238 (4,5×109 anni), Ra-226 (1600 anni), Am-241 (458 anni), Cs137 (30 anni). Mentre sono oltre 379 mila i chilogrammi di radiorifiuti, radioattivi e decaduti, da smantellare. Come avevamo ipotizzato l’operazione di bonifica è stata affidata a Sogin spa, la società di Stato con il compito di realizzare il deposito delle scorie nucleari di tutta Italia. L’opzione scelta è stata l’allontanamento dei fusti. Erano state, infatti, avanzate due ipotesi alternative di intervento proposte al ministero dell’Ambiente dal Comune di Statte. Secondo l’informativa fornita dalla Prefettura, per conto del Comune, esistevano due modalità con cui procedere: nell’ipotesi di caratterizzazione dei fusti in loco e successivo smaltimento dei rifiuti
speciali non radioattivi, i costi sarebbero ammontati a 5 milioni e 125 mila euro; nell’ipotesi dell’allontanamento di tutti i fusti con successiva bonifica e avvio dello smaltimento, il conto sarebbe stato di 9 milioni e 24.600 euro. Intanto, dal 15 maggio, sul sito del Comune di Statte è possibile prendere visione di un avviso, nel quale si legge che <<nei giorni 16 e 17 maggio 2017 inizieranno i lavori di preparazione propedeutici alla rimozione dei fusti contenenti materiale radioattivo dal sito ex Cemerad di Statte. [...] Le diverse fasi dei lavori saranno svolte nel rispetto della massima sicurezza e tutela dei cittadini [...] Tutte le attività necessarie alla rimozione ed allontanamento dei fusti, contenenti materiale radioattivo, presenti nel sito ex Cemerad di Statte, sono state concluse secondo quanto previsto dalla legge e nel rispetto del cronoprogramma
predisposto dal Commissario straordinario per l’attuazione dell’intervento di messa in sicurezza e gestione dei rifiuti pericolosi e radioattivi siti nel deposito ex Cemerad ed approvato dal Governo. Presso la Prefettura di Taranto è costituito un gruppo tecnico al quale i cittadini potranno rivolgersi per ogni altra informazione.>> Ai cittadini di Statte non resta, dunque, che attendere.
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CONTROCOLTURE
SULLA PUGLIA L’O DEI GRANDI NEGO
DI NICO CATALANO
La biodiversità vegetale autoctona del grano duro pugliese rischia l’estinzione. L’intera filiera potrebbe crollare sotto il peso di una globalizzazione e deregolamentazione dei mercati internazionali senza etica né regole. Di grano ci siamo occupati nel sesto numero di Terre di frontiera (settembre 2016 / nella foto).
La Puglia non è solo la prima esportatrice di grano duro. È anche la prima importatrice. Da qualche anno nei porti pugliesi approda il 70 per cento del grano importato in Italia. Destinato per la stragrande maggioranza alle aziende molitorie italiane. Un vero e proprio dumping speculativo ad opera delle multinazionali della filiera dell’agroalimentare. A danno dei coltivatori pugliesi. Il risultato è che quest’anno il prezzo al quintale del grano duro, oscillante tra 16 e 18 euro (inferiore a quello del grano tenero) ha raggiunto i minimi storici. LUNGO LE ROTTE DEL GRANO Le navi che attraccano nei porti pugliesi trasportano grano prodotto negli Stati Uniti e in Canada. Paesi in cui gli aiuti di Stato alla produzione rendono questo prodotto altamente concorrenziale rispetto al grano nostrano. Tra le varietà alcune provengono
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dai Paesi in via di sviluppo, dove il basso costo del lavoro - così come l’uso non sostenibile dell’ambiente - hanno l’effetto di annientare l’agricoltura di sussistenza delle popolazioni autoctone, provocando impoverimento del suolo, siccità, miseria e conseguenti flussi migratori a cui assistiamo negli ultimi anni. Ma gli effetti negativi di questo fenomeno, non si fermano all’azione speculativa, favorita dalla mancanza di controlli e concretizzata con l’arrivo di ingenti quantità di grano estero di dubbia provenienza. Comportano altresì un aumento dell’offerta e la conseguente diminuzione dei prezzi che si riverberano sull’intero comparto cerealicolo. E i nostri agricoltori, strozzati dal mercato, sono costretti ad abbandonare la coltivazione del cereale o, peggio, ad adottare metodi di coltivazione poco rispettosi dell’ambiente. Oppure, pur
OMBRA OZIATI di comprimere qualche fattore della produzione per essere competitivi, alcuni ricorrono al caporalato e alle varie forme di lavoro nero. Comprimendo, in tal senso, ogni forma di garanzia del lavoratore. I GRANDI NEGOZIATI I grani provenienti dal Nord America, spesso, sono coltivati con metodi che non rispettano i protocolli europei nell’ambito della sicurezza alimentare. Quel principio di precauzione oggetto di dispute tra Europa e Usa nell’ambito dei negoziati sul TTIP. Così come tra Ue e Canada avviene nell’ambito del CETA. Nei paesi del Nord America sono ammessi, infatti, trattamenti chimici in fase vegetativa di preraccolta delle colture. Una pratica assolutamente vietata in Italia, nell’ottica di tutelare la salute del consumatore. La varietà Manitoba, in particolare, è caratterizzata da un elevato contenuto di glutine. Che può provocare, in soggetti
particolarmente predisposti, l’infiammazione cronica dell’intestino tenue, meglio conosciuta come “falsa celiachia”. IL CASO GLIFOSATO I prodotti di importazione presentano funghi pericolosi per la salute umana e micotossine. Il caso più emblematico è quello del glifosato, diserbante a marchio registrato della Monsanto Company: un composto amminofosforico delle glicine che agendo nelle piante per assorbimento fogliare e traslocazione floematica inibisce l’enzima EPSP sintasi in modo non selettivo verso la biodiversità vegetale. Inquinando suolo, aria, le acque superficiali e profonde. Secondo gli studi condotti dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) dell’Oms, il glifosato potrebbe essere responsabile dell’insorgenza di particolari linfomi. Anche se qualche mese fa l’Efsa, l’agenzia europea per la
sicurezza alimentare, ha dichiarato il p.a. diserbante <<probabilmente non cancerogeno>>, sulla base di dati forniti dalle stesse multinazionali produttrici. Che tentano di aggirare i divieti europei che negano la possibilità di utilizzo di questo diserbante nei parchi pubblici e, soprattutto, nelle fasi di pre-raccolta. IL G7 DI BARI Tra l’11 e il 13 maggio scorso si è svolto a Bari il G7. Nel corso del vertice tra i ministri delle Finanze delle sette nazioni più industrializzate, nessuno ha speso una parola su questi temi. Neppure gli ambienti antagonisti allo stesso vertice. Eppure, proprio il territorio pugliese subisce per primo gli effetti nefasti delle decisioni globali. Persino sul grano duro. Condannando i piccoli coltivatori a sopportare il costo di un prezzo spinto costantemente al ribasso. Per le brame di profitto di pochi individui.
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C’ERA UNA VOLTA IL GRANAIO D’ITALIA Granaio d’Italia. Così veniva chiamato il Tavoliere delle Puglie per le sue produzioni di grano duro. Una distesa di colore giallo oro che ogni estate si perdeva a vista d’occhio all’orizzonte. Dalla Capitanata, in provincia di Foggia, fino agli altipiani dell’Alta Murgia barese. Furono gli arabi a introdurre nel Sud Italia la coltivazione del grano duro, o Triticum durum. Da questa varietà di frumento realizzavano il semolino utilizzato per il cous cous, piatto principe della cucina del Nord Africa. Un’eredità che ha dato inizio alla produzione della pasta, dall’età volgare. Che ancora oggi costituisce una delle eccellenze gastronomiche italiane più conosciute e apprezzate al mondo. Un prodotto ottenuto dall’interazione, costante nel tempo, tra le proprietà del suolo e del clima. E con quei saperi tramandati dalle pratiche agronomiche dei laboriosi contadini pugliesi, uniti al patrimonio genetico eccezionale di questa varietà di cereale.
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Paesaggi di grano / Foto di Marco Monari Terre di frontiera / numero 10 anno 2 - giugno 2017 / www.terredifrontiera.info
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REPORTAGE
CRATERE CENTRO -ITALIA
1. Marche. Arquata del Tronto (Ascoli Piceno)
FOTO E TESTI DI PELLEGRINO TARANTINO
È la notte del 24 agosto 2016 quando, alle 3:36, un boato scuote l’Appennino centrale. Decine di piccoli borghi, incastonati tra valli e montagne, precipitano nell’incubo. La terra madre - dalla maestosa e poetica bellezza - mostra il suo lato più violento e crudele. Migliaia di scosse continuano a susseguirsi senza sosta. E come se tutto questo non bastasse arrivano il gelo e la neve. Come se dall’alto la natura volesse coprire con un candido manto la distruzione che ha generato. Dopo nove mesi dal sisma siamo tornati nel cratere per immortalare i luoghi, le facce, il lavoro, la speranza, da soli e in compagnia delle Brigate di solidarietà attiva (Bsa).
2. Le rovine di una casa di campagna ad Amatrice. Sullo sfondo i Monti della Laga, simbolo di quella che è lâ&#x20AC;&#x2122;imponente, e terribile, magnificenza naturale del luogo (a sinistra) 3. Unâ&#x20AC;&#x2122;ala della Casa di riposo Don Minozzi, Amatrice (in basso a sinistra) 4. Giochi tra le macerie (in alto) 5. La facciata della Casa di riposo Don Minozzi, Amatrice (in basso)
6. Casa sprofondata ai limiti della Zona Rossa, Amatrice (in alto) 7. Casa sventrata nei pressi della Zona Rossa, Amatrice (in basso) 8. Il Convento di San Francesco di Amatrice, simbolo identitario dei piccoli borghi del Centro Italia, ricchi di numerosi beni artistici e architettonici. Alcuni residenti lamentano di come <<pietre antiche e pregiate, di chiese, torri, e campanili, vengano mischiate con le altre macerie, e portate poi chissĂ dove>> (in alto a destra) 9. I resti del Convento di San Francesco, Amatrice (a destra)
10. Uno degli ingressi alla Zona Rossa di Amatrice. Sullo sfondo il campanile e l’orologio fermo alle 3:36, l’ora della prima scossa del 24 agosto 2016
11. Una vecchia rivista tra le macerie (in alto a sinistra) 12. Rovine nella frazione San Cipriano poco distante dal centro di Amatrice (in basso a sinistra) 13. Case sbriciolate, quasi fossero di cartone, a San Cipriano di Amatrice (a destra) 14. Macerie pendenti, Amatrice (in basso a destra)
15. Il complesso “L’Opera Don Minozzi” ospitava case di accoglienza per persone meno fortunate e gruppi di preghiera. Oggi il contesto che lo ospita sembra uno scenario di guerra (a sinistra) 16. Un vecchio 45 giri tra le macerie (in alto) 17. Quello che resta di una villetta di Amatrice (in basso a sinistra) 18. Un condominio di Amatrice. I piani crollati uno sull’altro. (in basso a destra)
19. L’ospitalità della signora Pina di Capriglia, il suo caffé e le crepe della sua casa (in alto) 20. Alcuni anziani smistati in un albergo della provincia di Teramo in visita a volontari e magazzini. Nonostante siano liberi di muoversi raccontano di sentirsi in prigione (a destra) 21. Un asilo, simbolo di speranza e futuro (in basso) 22. Due volontari delle Bsa aiutano ad allestire un piccolo parco giochi dietro un container usato come scuola a Pievetorina. Degli adesivi, un tappeto d’erba sintentica e un castello gonfiabile (in basso a destra)
23. Una volontaria delle Bsa gioca con il piccolo V., 4 anni, che come molti bambini della zona ha cambiato asilo tre volte, a causa delle scosse.â&#x20AC;¨
24. I disegni di alcuni alunni della scuola primaria di Amatrice (in alto) 25. La ricostruzione di Amatrice fatta con matite e pastelli (in alto a destra) 26. Due volontari delle Bsa di Amatrice discutono mentre una folata di vento alza, alle loro spalle, la polvere dei calcinacci (in basso) 27. Una giovane coppia trascorre la pasquetta sul lago di Fiastra, in provincia di Macerata (in basso a destra)
28. Oreste di Nommisci scherza con i volontari delle Bsa. Da giovane ha avuto l’opportunità di lasciare la fattoria in cui vive, quando i suoi fratelli sono emigrati in Australia. Ancora oggi preferisce restare nella sua terra, nonostante la difficoltà a prendere sonno, come lui stesso racconta (in alto) 29. Il marito della signora Pina di Capriglia continua a curare terra e animali, così come fanno tanti piccoli coltivatori e allevatori costretti, i primi giorni dopo il sisma, a <<dormire nella stalla con le bestie>> (a destra) 30. La mamma di Erminia, nella frazione di Santa Giusta ad Amatrice, ha trovato nei volontari <<l’unico contatto umano che abbiamo>> (in basso) 31. La signora Ada abita nella frazione di Scai, in una soluzione di fortuna. Nonostante la stufa accesa la stanza è molto umida (in basso a destra)
32. â&#x20AC;&#x153;Robertoneâ&#x20AC;? è un terremotato, un volontario, una parola di consiglio e una battuta sempre pronta per tutti dentro e fuori il campo delle Bsa (in alto) 33. Il pranzo di Pasqua, ad Amatrice, organizzato da volontari e terremotati (a destra) 34. Un gruppo di clown therapy regala un sorriso alla Pasqua degli amatriciani (in basso) 35. Una volontaria delle Bsa (in basso a destra)
36. Soluzioni abitative dâ&#x20AC;&#x2122;emergenza (Sae) in costruzione ad Amatrice. A quasi un anno dal sisma delle 3.700 casette richieste dai Comuni ne sono state consegnate appena 96: 25 per Amatrice, 53 per Norcia e 18 per San Pellegrino, secondo i dati forniti dalla Protezione civile, aggiornati al 28 aprile 2017
MULTINAZIONALI
UN TRIBUNALE PE LA MONSANTO
DI FRANCESCO PANIÉ
Un parere esemplare. Così si può definire quello emesso dal Tribunale Monsanto, la Corte informale presieduta da personalità del diritto internazionale che si riunisce periodicamente a L’Aia. Il tribunale è una iniziativa della società civile nata per richiamare l’attenzione sulla necessità di riformare il sistema giuridico, in modo da obbligare le imprese multinazionali al rispetto dei diritti umani e dell’ambiente.
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Per questo, sebbene non vincolante, il documento presentato lo scorso 18 aprile rappresenta un momento molto atteso dal mondo dell’ambientalismo. L’assise, composta da sette esperti, dopo aver sentito numerose testimonianze in merito all’operato della Monsanto, emblema delle scorrettezze da parte delle grandi imprese, ha offerto un parere legale basato sulle linee guida della Corte internazionale di giustizia, “condannando” il colosso per violazioni dei diritti umani, crimini contro l’umanità ed ecocidio. La redazione del parere è stata preceduta da una analisi approfondita delle informazioni giudiziarie raccolte negli anni, valutandole alla luce delle convenzioni internazionali. Emerge che tramite il vasto utilizzo di glifosato, Monsanto violerebbe la Convenzione di Stoccolma, che sancisce il diritto ad un ambiente salutare. Secondo Marcus Orellana, giudice del tribunale e
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direttore del Programma diritti umani e ambiente del Center for international and environmental law (Ciel), si possiedono informazioni sufficienti per imputare alla multinazionale anche il crimine di ecocidio, inteso come atto che reca un grave pregiudizio all’ambiente o che lo devasta in modo da alterare gravemente e per lunghi periodi beni comuni e servizi ecosistemici da cui dipendono determinati gruppi umani. Monsanto violerebbe anche principi fondamentali come il diritto al cibo e alla salute, tramite l’inquinamento del suolo e dell’acqua. Lo ha evidenziato Eleonora Lamm, altra giudice del tribunale che nella vita è direttrice della Corte di giustizia di Mendoza. L’esperta ha aggiunto che l’azienda interferisce, dominando il mercato con i suoi semi geneticamente modificati, con la possibilità dei piccoli agricoltori di produrre il proprio cibo in autonomia. L’agricoltura fondata su pratiche
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tradizionali è fortemente scoraggiata dal sistema dell’agribusiness di cui Monsanto è portabandiera. Le pratiche contadine rischiano di estinguersi in favore delle colture intensive che impoveriscono i terreni in pochi anni, rendendoli improduttivi. Inoltre, i diritti di proprietà intellettuale legati alle sementi, costringono gli agricoltori a pagare royalties alle multinazionali, incidendo pesantemente sulla sovranità alimentare di interi paesi. Perfino il diritto ad una ricerca scientifica libera è messo a repentaglio, come dimostrano i numerosi casi in cui si è riusciti a dimostrare la parzialità degli studi in base ai quali sostanze come il glifosato hanno potuto conservare il loro posto sul mercato. Ricercatori prezzolati e macroscopici conflitti di interessi hanno portato ad insabbiare gli allarmi sulla tossicità e probabile cancerogenicità dei pesticidi.
UN PREMIO AGLI EROI DELL’AMBIENTE
Anche quest’anno l’ambiente ha i suoi eroi, che hanno organizzato battaglie territoriali e mobilitato le popolazioni contro grandi progetti infrastrutturali promossi da governi e imprese transnazionali. Lo scorso 24 aprile è stato consegnato il Premio Goldman 2017 - considerato il Nobel per l’ambiente - a sei attivisti di differenti zone del mondo. Il premio è stato inventato da Richard e Rhoda Goldman nel 1989 a San Francisco. I VINCITORI Mark Lopez, vive nell’East Side di Los Angeles in un quartiere che ospita la più grande comunità di operai latinoamericani della California. Ha bloccato i veleni diffusi da una fabbrica di riciclo delle batterie al piombo. Uros Macerl, agricoltore sloveno, ha lottato per quindici anni contro l’uso di petcoke da parte della Lafarge, che non
rispettava i vincoli ambientali. Wendy Bowman, 83 anni, ha sconfitto le multinazionali del carbone in Australia, terra tradizionalmente amica del settore. Rodrigue Katembo, guardia del Parco di Virunga, in Congo, rischiando la vita, ha acconsentito di filmare i tentativi di corruzione della Soco, compagnia petrolifera britannica intenzionata a trivellare nel parco. Rodrigo Tot, leader della comunità Q’eqchi del Guatemala, ha costretto il governo a rispettare i diritti del suo popolo sulla terra natìa, bloccando l’espansione di una miniera di nichel. Prafulla Samantara, anziano leader dei movimenti sociali indiani, ha bloccato l’estrazione della bauxite sulle colline Niyamgiri, un ricettacolo di biodiversità nello stato di Odisha, nonché territorio sacro per la tribù dei Dongria Kondh.
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TERRE DI MIGRANTI
L’ITALIA DI CHI VA E DI CHI VIENE
MADE IN CHINA DI LEONARDO PALMISANO
CHEN, IL SARTO DI PRATO Quanti sono gli artigiani nel mondo? Questa razza di lavoratori a metà tra la mano e la macchina, la caverna e la fabbrica? Quanti sono i cinesi nel mondo? Questa stirpe isolata, silenziosa e penetrante. Tanti sono i primi, tantissimi i secondi, che a contarli hanno lo stesso numero dei granelli di sabbia di una duna gigantesca. Chen è un artigiano operaio, un cinese che sopporta il lavoro di una fabbrichetta aperta da un suo connazionale. Lavora a Prato, ovviamente, ma ha imparato a fare le asole e attaccar bottone con gli italiani a Napoli, nei quartieri spagnoli: dove la contraffazione è la norma e la camorra è la legge. <<Sono uno come tanti, senza pretese. Un cinese non ha mai troppe pretese. Anche i cinesi ricchi imparano a accontentarsi, se cadono in disgrazia…>> Chen ha una ben radicata morale. Una conseguenza
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della sua identità, del suo credo nella grande Cina che ce la sta facendo. Aderisce a quel sogno orientale che ha fagocitato il capitalismo piegandolo alla volontà di uno Stato a partito unico. Visti gli effetti della crescita cinese, il capitalismo sembra andare a nozze con l’imperialismo cinese. Del resto, lo stesso capitalismo ha rotto con le democrazie, non con le dittature. <<In Cina ci sono troppi poveri, per questo ce ne andiamo. Andiamo a vendere dove anche i poveri sono finti poveri.>> Finti poveri siamo noi, gli italiani che comperano la roba dai cinesi. Non sempre è roba cinese, a Napoli lo sanno bene, ma è roba poco costosa venduta da cinesi. Sembra che il commercio mondiale al dettaglio della roba sottocosto sia in mano a loro. Perché sono bravi, come i veneziani che ne scoprirono le virtù con Marco Polo e le importarono in Occidente. <<In Cina io ero già un sarto, ma qui ho imparato
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a cucire all’italiana. Serve sempre saper cucire all’italiana, perché riusciamo a vendere di più.>> Chen non si schermisce. È al contrario orgoglioso della sua capacità. Ha studiato, si è fatto le ossa, il suo padrone è contento perché lo può usare per formare altri come lui. <<Insegno agli altri a fare le asole. Mica è facile fare le asole.>> Lo so bene, perché un mio amico è andato in Cina a insegnare a farle. E ora vive lì, in un distretto sartoriale tra i più grandi del mondo. Non si è arricchito, ma… <<I particolari fanno la differenza, perché una cosa che dura di più, anche se costa poco, accontenta tutti.>> Il suo ragionamento pecca in un punto ben preciso: il costo. Nell’indifferenziata corsa al ribasso dei prezzi, nessuno si fidelizza a una marca, a un marchio, men che meno a un marchio cinese. <<I clienti italiani poveri
sono esigenti. Vogliono pagare poco ma avere roba buona, allora se vedono che un negozio vende roba come si deve, ci tornano. E noi riforniamo quel negozio sempre.>> Adesso il ragionamento fila. Sembra di sentire i primi sarti italiani del novecento, al servizio di una borghesia nascente. La differenza con l’attualità è che la nostra borghesia sta morendo, non ha prospettive innanzi a sé, consuma per mantenere in vita il ricordo dei fasti che furono, che non saranno più. <<Per questo lavoro tanto. Faccio le cose per bene.>> È orgoglioso di sé, Chen. Fa due lavori, cuce e insegna a cucire. Si spacca la schiena. Sente di avere un futuro, forse. <<Non so se tornerò in Cina adesso. Ci tornerò da morto, sicuro. Ma non so.>> Con i suoi settecento euro Chen è tutto sommato contento. Sta dentro una comunità. Ha un mestiere. Sa fare qualcosa. E lo fa in questa Italia. VADO IN CINA CON FURORE <<Che ci sono andato a fare, in Cina? A fare quello che non posso fare in Italia. A vivere!>> Giacomo è uno dei tanti italiani che, ogni anno, sceglie di mollare il Paese. Nel 2015 sono stati 107 mila. E lui è partito proprio in quell’anno lì. Ha meditato molto, prima di fare le valigie. Si è iscritto a un sito dove reclutano italiani che vogliono andare all’estero e ha scelto di rispondere a un annuncio per un posto da sarto.
<<Io ho quasi cinquant’anni e una buona formazione. Ho fatto questo lavoro per una vita, a Firenze, ma mi hanno licenziato. Son belli quelli che vanno sui giornali a raccontare la sartoria fine fiorentina. Perché non dicono quanto pagano i sarti come me? Da fame! Non ci campavo più.>> In effetti, perfino sui cataloghi mensili di Alitalia è sempre più spesso pubblicizzato il ritorno al made in Italy di marca toscana. Una contraddizione con le parole di Giacomo. <<Ho preso a dare lezioni a dei cinesi. Poi questi hanno imparato e mi hanno chiesto se volevo andare laggiù. Sai, all’inizio non è che ci pensi davvero. Poi l’idea è cresciuta e mi son deciso. Mi hanno fatto iscrivere su questo sito, perché bisogna passare per forza da lì, e son partito. Ora sto bene…>> Sta bene, e si vede. Sta come dovrebbe stare nella sua città, che gli manca, sì, ma che non rimpiange più di tanto. <<Firenze è un covo per turisti. Tutti in centro. Intanto il lavoro vero non c’è più. Tutto è industriale e non è prodotto in Italia. Tanto vale andare dove si produce, dico io. E l’ho fatto!>> L’ha fatto, per uno stipendio di 2 mila euro, perché è una specie di capo-sarto, e un appartamento. Presto si porterà la famiglia. Sta solo aspettando che sua figlia decida se vuole studiare lingue all’università. <<Così posso pensare di metter su un’impresa mia.>> Il suo sogno è aprire una
scuola di sartoria in Cina, con sua figlia al fianco. <<In Italia son tutti bravi a dire che si deve fare impresa. Ma quando arrivi all’atto pratico, chi la fa questa impresa? I figli dei figli. Io, a cinquant’anni, che impresa posso fare in Italia? La faccio qui, che c’ho tutto a portata di mano. C’ho già i clienti. Le aziende. Pensano in grande, amico mio. Non come da noi, che parla pure quello che non conta un ca…>> Gli sorrido, perché ha perfettamente ragione. L’Italia è arrovellata su un dibattito inutile, sterile, improduttivo. Un dibattito che non pesa le parole, che non muove l’economia. <<In Cina sanno fare le cose, perché a furia di sbagliare si raddrizzano.>> Appunto. A furia di sbagliare, imparano a non commettere più errori. Noi, invece, sugli errori apriamo i talk show e riempiamo inutilmente i congressi di categoria. <<Non ci torno più, in Italia. Sto bene così, chiude prima di salutarmi.>> Il caro Giacomo ha trovato la sua strada. E forse è questa la lezione: in questa epoca, la vita vera è altrove.
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DALLA COSTA SORRIDENTE DELLâ&#x20AC;&#x2122;AFRICA FOTO E TESTI DI PELLEGRINO TARANTINO
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MAMUDDU
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La storia di Mamuddu, ADE BAH, Charlie e J-Man scappati dal Gambia dell’ex dittatore Yahya Jammeh
<<Regnerò su questo paese per un miliardo di anni, se Allah vorrà!>>. Queste le ultime parole famose di Yahya Jammeh, ex-dittatore del Gambia, pronunciate alla Bbc nel 2011. Dopo appena cinque anni di governo Jammeh è in fuga. Allah, a quanto pare, non ha voluto. E neppure i gambiani. <<Finalmente posso ritornare al mio paese>>, esulta sorridente Charlie. <<Ci aspetta una Nuova Gambia>>, sospira speranzoso Ade Bah. <<Il regno della paura di Jammeh è finito>>, tuona esultante Mamuddu. I gambiani, oggi, sperano nella pace, nella giustizia e nelle promesse del nuovo presidente, Adama Barrow. Il compito che lo attende non è facile. L’ex dittatore fuggendo ha portato con sé ingenti somme di denaro. Alcune stime aggiornate al 23 febbraio scorso - ed ancora provvisorie - parlano di ammanchi per più di un miliardo di euro e di un paese virtualmente in bancarotta. Ma il Gambia va avanti, cercando di non far mancare stipendi e pensioni, grazie all’aiuto di sostenitori privati e dell’Unione europea che ha stanziato un fondo di 225 milioni di euro. La promessa del governo è chiara: <<recupereremo
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quello che è nostro.>> L’Internation organization for migration (Iom) stima gli arrivi dei gambiani in Italia sulla rotta del Mediterraneo in 11.384, tra gennaio e novembre 2016. Quasi il doppio rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente: 6.979. Purtroppo l’Italia considera i gambiani per la maggior parte rifugiati economici. Infatti, secondo i dati Eurostat, nel 2015 il 66 per cento delle loro richieste di asilo è stata respinta. Ragazzi arrivati qui scappando da una dittatura. Che spesso si ritrovano soli, si sentono in prigione, senza prospettive per un futuro. Ragazzi come Pateh Sabally, che a Venezia si è suicidato nel Canal grande. Anche lui veniva dal Gambia. YAHYA JAMMEH Yahya Jammeh prende il potere appena ventinovenne la notte del 22 luglio 1994. All’epoca, tenente in carriera dell’esercito sfrutta un diffuso malcontento nelle forze militari per organizzare un golpe. Appena insediato proibisce qualsiasi tipo di opposizione politica. Bando che viene ritirato ufficialmente solo nel 2001, ma che continuerà ad essere messo in pratica grazie a minacce, torture, ed innumerevoli omicidi.
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<<In Africa è così, i dittatori cercano di mantenere il potere ed il consenso utilizzando l’esercito. Ah, ma Jammeh è furbo, sceglie bene le persone da tenersi vicino, ignoranti che non sono mai andati a scuola, persone completamente indottrinate.>>, mi racconta Charlie. Ben presto Jammeh mostra manie di grandezza e fobie di persecuzione. Nella capitale Banjul fa costruire l’Arch 22, un enorme arco di trionfo. In suo onore e per commemorare il colpo di Stato che gli ha permesso di governare. Afferma di voler regnare per un miliardo di anni, di avere poteri terapeutici e di essere in grado di curare l’Aids. Minaccia di tagliare la testa a qualsiasi omosessuale Gambiano, di rintracciarli ed ucciderli anche se dovessero fuggire dal paese. Fa espellere, o peggio, incarcerare, qualsiasi giornalista straniero considerato scomodo. Decide di far uscire il Gambia dal Commonwealth e dai patti della Corte penale internazionale definendole <<istituzioni neo-colonialiste>> ed accusandole di interferire con la politica del paese. Istituisce un servizio segreto nazionale - il National intelligence
agency (Nia) - con il solo scopo di sorvegliare, rintracciare, incarcerare e torturare eventuali oppositori o sovversivi. Crea una forza d’élite paramilitare, tra le più crudeli e sanguinarie del mondo: i Jungulars, specializzati in amputazioni a scopo di tortura. Mercenari senza scrupoli che godono d’immunità, la cui unica ragione di vita è quella di portare a termine gli ordini di Jammeh. Nonostante la sua crudeltà ed i suoi segni di squilibrio l’ex-dittatore continua per diverso tempo ad essere considerato da molti un semplice presidente. Uno di quelli che possono vantarsi d’essere stati amici stretti di Gheddafi e, contemporaneamente, essere ospite di Obama alla Casa Bianca. Del resto gli Stati Uniti hanno per anni sostenuto l’esercito di Jammeh. Perché? L’ABBAGLIO DELL’ORO NERO È il 2004 quando Yahya Jammeh annuncia che una compagnia estera ha individuato grandi giacimenti di petrolio al largo della foce del fiume Gambia, annunciando un periodo d’oro per tutto il paese. Trascorrono due anni e nel 2006
la Buried Hill Energy società internazionale che coopera con grandi compagnie petrolifere come Enterprise Oil, Shell, BP, Marathon, Petro-Canada, Petro Kazakhstan and Schlumberger - firma una licenza per l’estrazione in due zone denominate blocco A1 e blocco A4. Nel 2010 la Buried Hill firma un accordo di sfruttamento con l’African Petroleum Corporation LTD, società internazionale specializzata in estrazioni petrolifere in Africa occidentale, legata ad Anadarko Petroleum, Chevron Corporation, ExxonMobil, Total e Lukoil. L’accordo prevede che l’African Petroleum avrà il 60 per cento degli interessi dello sfruttamento petrolifero a patto di coprire il costo dell’80 per cento dei lavori, dei rilevamenti e del primo pozzo esplorativo. Nel 2015 la Erc Equipoise - società britannica che si occupa di valutazioni petrolifere e leader nel suo settore - stima i due blocchi in concessione per 3.079 Million stock tank barrels. Milioni di barili. Che, a una media di 52 dollari a barile fanno 160 miliardi e 108 milioni di dollari. Insomma per gli Stati Uniti d’America il Gambia è un potenziale partner petrolifero.
QUANDO JAMMEH HA PERSO È il primo dicembre 2016 quando, a sorpresa, Adama Barrow, sfidante oppositore di Jammeh, vince con il 45 per cento dei voti. Nove punti percentuali in più rispetto al 36 per cento del presidente uscente. La tensione è alta. Jammeh regna da ventidue anni con pugno di ferro ed aveva indetto le elezioni convinto di vincerle. Alcuni intervistati a Banjul dichiareranno alle emittenti straniere di aver visto sostenitori del dittatore andare a votare con ben tre schede elettorali diverse. Nei giorni precedenti le operazioni di voto Jammeh ha negato l’ingresso agli osservatori internazionali ed ha bloccato l’accesso alla rete per 36 ore, al fine di impedire qualsiasi eventuale fuga di notizie di brogli. L’ormai exdittatore sembra prenderla bene. Afferma che passerà senza problemi il mantello del comando a Barrow e gli telefona in diretta TV. Si congratula con lui, sottolinea la trasparenza delle elezioni - <<la più trasparente del mondo>> - e promette di non contestare i risultati. I gambiani sentono di aver vinto, di aver conquistato un nuovo futuro. Sui social
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ADE BAH
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network esplode l’hashtag #GambiaHasDecided, il Gambia ha deciso. Tutta l’Africa è sollevata e piacevolmente sorpresa, abituata a passaggi di potere intrisi di sangue e violenza. Il 5 dicembre la Commissione elettorale ammette alcuni errori di calcolo dovuti ad una circoscrizione attribuita per sbaglio a Barrow. Le nuove percentuali comunque non cambiano la situazione: i risultati corretti danno Barrow con il 43,4 per cento dei voti e Jammeh con il 39,6 per cento. Nonostante questo il timore di una situazione di crisi inizia ad attanagliare la comunità. Molti cercano rifugio nel vicino Senegal. IL COLPO DI CODA DEL DITTATORE Il 10 dicembre incontro Charlie. <<Finalmente posso tornare in Gambia>>, mi dice. C’è chi lo esorta ad attendere ad esultare, ricordandogli che il dittatore ancora non ha lasciato il potere e che difficilmente lo farà. Mai parole saranno più profetiche. Poche ore dopo in un discorso TV Jammeh dichiara che successive indagini hanno rilevato gravi irregolarità e brogli. Afferma di rigettare il risultato delle elezioni. Promette, e minaccia, di rimanere al potere fino a nuove consultazioni elettorali. La Corte suprema prende in analisi la questione ma, per mancanza di giudici, non potrà esprimersi fino alla fine di maggio. Jammeh ha così il tempo di occuparsi dei suoi oppositori. La paura
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di un eventuale conflitto aumenta di giorno in giorno. L’Economic community of West African States Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale - minaccia un intervento militare se Jammeh non lascerà il paese entro il 19 gennaio. Intanto il capo delle forze armate, Ousman Badjie, il 4 gennaio 2017 si schiera pubblicamente con Jammeh, nonostante notizie non ufficiali lo dessero allineato con Barrow. Il dittatore, forte e sicuro dell’appoggio del suo capitano, dichiara che qualsiasi intervento esterno sarà interpretato come un atto di guerra: il conflitto militare sembra inevitabile. Il 16 gennaio Jammeh dichiara lo stato di emergenza per novanta giorni. Denuncia nuovamente brogli elettorali, riferisce di alcuni suoi sostenitori che sarebbero stati allontanati con la violenza dai seggi, incolpa forze straniere occidentali di aver interferito con l’andamento delle votazioni. Sembra mostrare il panico di chi si sente messo all’angolo. Promette di <<ristabilire pace, legge ed ordine nel paese>>. È IL 19 GENNAIO, GIORNO DELL’ULTIMATUM. IL 21 JAMMEH CEDE Più di 26 mila Gambini sono fuggiti in Senegal temendo lo scoppio di una guerra e i turisti europei vengono fatti rimpatriare. Ousman Badjie, che solo due settimane prima aveva promesso il suo appoggio a Jammeh, asserisce che i suoi militari non combatteranno le forze
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dell’Ecowas. <<Si tratta di una disputa politica. Non ho intenzione di coinvolgere i miei uomini in una lotta stupida.>> Il dittatore però continua nel suo affronto: <<qualsiasi intervento militare straniero sarà considerato come una dichiarazione di guerra.>> Presidenti e diplomatici mediano. Nel frattempo Barrow, regolarmente eletto, giura da nuovo presidente del Gambia nell’ambasciata di Dakar, in Senegal. Nella notte tra il 19 ed il 20 gennaio le prime truppe Ecowas entrano in Gambia. Il capo delle forze armate Badjie afferma che <<quando i nostri fratelli dell’Ecowas arriveranno gli offriremo una tazza di tea. Perché mai dovremmo combattere? Io amo i miei soldati ed il popolo Gambiano.>>, cambiando di nuovo casacca e giurando alleanza al nuovo presidente. Il 21 gennaio Jammeh cede. Lo annuncia il presidente della Mauritania, Mohamed Ould Abdel Aziz, tra i diplomatici in missione. <<Il presidente uscente lascerà il paese appena ci saranno le condizioni, molto presto di certo.>> Quali siano queste condizioni e quanto presto il dittatore lascerà il Gambia? Molti temono che sia solo una mossa di Jammeh per prendere tempo. Intanto Barrow, fiducioso, dichiara che il regno di terrore nel paese è finalmente finito. Il giorno dopo Jammeh e la sua famiglia partono per l’esilio politico, diretti prima in Guinea-Conakry (Guinea Francese) e poi in Guinea Equatoriale
(Guinea Spagnola), fuori dagli accordi della Corte penale internazionale: per l’ex-dittatore si prospetta un salvacondotto, con in tasca 500 milioni di Dalasi (più di 10 milioni di euro). A scoprirlo, il 23 gennaio, è Mai Fatty, politico dell’opposizione. LA NUOVA SPERANZA HA IL NOME DI ADAMA BARROW Il 26 gennaio il nuovo presidente rientra in Gambia prendendo il posto che i gambiani gli hanno affidato. Le strade sono in festa. <<Ti diamo il benvenuto, nostro presidente, nostra speranza, nostra soluzione.>> Adama Barrow è un venditore immobiliare di 52 anni. Si è candidato da indipendente dopo aver rassegnato le dimissioni dal Partito democratico unito (Udp), ma appoggiato da una coalizione di sette partiti di opposizione. Il suo programma politico si basa su tre punti: rinascita economica del paese, ridurre dell’emigrazione (soprattutto quella giovanile) e ripristino dei diritti umani negati dal governo di Jammeh, in particolare la libertà d’espressione. Barrow ha promesso che il suo sarà un <<governo di transizione>> per un Gambia libero e democratico, e che rimetterà il mandato dopo soli 3 anni. Con le casse dello Stato vuote e con i sostenitori dell’exdittatore ancora sparsi per il paese, il compito del nuovo presidente non sarà certamente facile. Barrow, che ha promesso di
riformare le forze armate in modo da <<separarle dalla politica>> ha chiesto all’Ecowas di non ritirarsi ancora e di rimanere per altri sei mesi. Almeno. COSA PENSANO I GAMBIANI <<Abbiamo avuto il cuore in gola tutte le notti>>, dice Mamuddu. <<Non riuscivamo a dormire>>, gli fa eco Ade Bah. <<Ho un amico di Amnesty International, lui me l’avevo detto: stavolta Jammeh non vincerà. Io lo sapevo, ma comunque ho una famiglia lì, mia madre e mio fratello. Ero preoccupato>>, racconta Charlie. Mamuddu spiega che Jammeh ha deciso di indire nuove elezioni <<perché era sicuro di vincerle, lui si crede una divinità. Noi africani siamo molto spirituali, ed alcuni leader finiscono per credersi prescelti. Lui pensava di poter curare l’Aids, ti rendi conto?>> <<Doveva indirle per forza, altrimenti ci sarebbe stata una guerra civile. Le persone ormai non avevano più paura di lui. E nel momento in cui i gambiani non hanno più avuto paura di lui allora è stato lui ad aver paura dei gambiani. Credeva di avere tutto il potere, ma il potere appartiene a noi, ai gambiani. Pensava di essere lui il potere, ma il potere sono io ed il mio popolo>>, esulta vittorioso Charlie. Jammeh, nei suoi ventidue anni di dittatura, ha creato un clima di terrore totale. <<Ci sono stati...>>, si confrontano un attimo, contano <<...sedici, circa
sedici tentativi di colpo di Stato contro Jammeh negli ultimi ventidue anni, ognuno dei quali è stato represso nel sangue. Si è arrivati al punto che non si poteva dire niente, non si poteva neanche nominarlo, oppure finivi in prigione e buttavano via la chiave>>, dicono Ade Bah e Charlie. <<O peggio, ti ritrovavano a pezzi. Un pezzo tra le fauci di un coccodrillo, un pezzo in bocca ad un leone...>>, aggiunge Mamuddu con l’aria di chi vuole maledire il cielo. La lista delle atrocità del dittatore è infinita, eppure gli è stato concesso di scappare. <<Può andare dove vuole, non mi interessa. Noi gambiani prima o poi lo prenderemo. Deve pagare per i suoi crimini>>, tuona infuriato Mamuddu. <<Non può restare così, libero. Sono molto preoccupato. Anche dalla Guinea Equatoriale potrebbe pilotare dei nuovi colpi di Stato. Ci sono ancora persone fedeli a lui, mercenari e militari schierati con lui. Poi la riforma dell’esercito, le casse vuote, l’Ecowas che vuole rimanere. Se riduci l’esercito e non lo paghi si ribella>>, dice saggiamente Charlie. Un ragionamento, il suo, che non fa una piega. LA PROPRIA CASA È LA PROPRIA CASA Il 10 gennaio, quando questa storia era ancora in divenire, poco prima che Jammeh si rimangiasse tutto, prima dello stallo, della paura della guerra, Charlie ha detto di voler ritornare in Gambia. <<La propria casa è la propria casa. Come la
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CHARLIE
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mamma. Vorrei poter tornare, vedere la Nuova Gambia, ma solo per qualche mese, lo sai, sono un viaggiatore. Il mio sogno è viaggiare e suonare. Sarebbe bello. Sono convinto che la musica sia un’arma di pace>>, racconta col sorriso. <<Anche io voglio tornare>>, dice Mamuddu. <<Ma non adesso. Quando la situazione sarà tranquilla. Prima avevo una fattoria ed un allevamento di bestiame. Compravo e vendevo mucche. L’oscillazione del Dalasi mi ha reso, però, le cose difficili. Poi un giorno un macellaio a cui ho dato i miei capi, e che avrebbe dovuto pagarmi una volta venduta la loro carne, è semplicemente svanito nel nulla, è scappato. Io sogno di poter tornare nel mio paese e poter riprendere la mia attività. Ormai il mio terreno lo avranno occupato, di sicuro dovrò comprarne un altro.>> <<Anche a me piacerebbe tornare>>, confida Ade Bah. <<In Gambia avevo un negozietto con i miei, uno spaccio alimentare, vendevamo riso, semi, olio, ma è sempre stato difficile andare avanti. La gente di Jammeh ci chiedeva il pizzo, cifre altissime, certe volte veniva anche più gente a chiedercelo nello stesso mese. In Gambia era così. Non potevi avere nessun tipo di business se non controllato da Jammeh. Doveva avere tutto. Anche io sogno di poter tornare e riprendere la mia attività, il mio bel negozietto...>>
LA STORIA DI J-MAN Insieme a Charlie e i suoi c’è un ragazzo che non vuole essere fotografato e non vuole far sapere il suo nome. Porgendogli un’agendina chiedo come vuole che lo chiami. Scrive: <<J-Man>>. J-Man è in Italia da diversi anni. È scappato da Jammeh, dalla repressione, da una condanna a morte. In Gambia era un professore e come persona di cultura si è occupato anche di politica. Militava nel principale partito di opposizione - lo stesso di Barrow -, insieme a suo padre. Alle penultime elezioni si presentò come scrutatore per controllare eventuali brogli. Sa bene che alle votazioni precedenti Jammeh ha sempre truccato i risultati, ed è pronto a fare di tutto affinché questa volta, almeno nel suo seggio, non accada. Ma i brogli ci sono ed alcuni uomini gli dicono di dover prendere i voti del suo seggio per scrutinarli altrove. Lui si oppone. <<I voti non vanno da nessuna parte senza di me!>>, insiste. Prendono le urne con la forza. Lui si ribella divenendo nemico del regime. Vanno a prendere suo padre, lo portano via, in prigione. Di lui non si saprà mai più nulla. J-Man scappa. Riesce a nascondersi a casa di un parente per qualche tempo, sa che stanno cercando anche lui. Che Jammeh ed i suoi lo hanno praticamente condannato a morte. <<Sai cosa sono i Jungulars?>> Descrive la loro brutalità, la violenza.
Nei suoi occhi odio, rabbia e la paura di chi, svegliandosi un giorno, ha avuto il dubbio che quegli spietati animali stessero cercando proprio lui. J-Man ha lasciato una moglie e una figlia piccola, al sicuro, ma lontane, e lui avrebbe tanto voluto veder crescere la sua bambina. <<Quando riesco a sentirla a telefono mi chiede se sono suo padre. Non sai quanto fa male al cuore>>, ricorda con tristezza. Poi mostra delle foto dei suoi compagni, scattate in un bunker sotto la fattoria nella città natale di Jammeh. Il pavimento pieno di sacchetti di droga. Gli chiedo se vuole tornare a casa. <<Per cosa? La situazione non è risolta. Io non sono felice. Non so dove si potrà andare con le casse vuote. Ho perso la speranza, in tutto. Sono anni che sto qui ed ancora non ho i documenti. Dimmi tu su cosa sono seduto? Quale possibile futuro ho?>> Nella sua condizione è facile perdere la speranza. Eppure J-Man si congeda con un’invocazione: <<Vorrei tanto la libertà!>>
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TERRE DI MIGRANTI
LA GUERRA MOND DI ALESSIO DI FLORIO
I conflitti che insanguinano Congo e Sudan negli ultimi mesi sono solo gli strascichi di faide interne dal sapore antico. Paesi spaccati a metà, ciascuno con le proprie etnie e le proprie rivendicazioni. Segnati inevitabilmente dallo sfruttamento, operato dalle multinazionali, di risorse strategiche come il coltan, i diamanti, l’oro e il petrolio. Bambini soldato, stupri di massa, lotte fratricide, lavoro minorile. Guerre civili, senza esclusioni di colpi.
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Oggi, le uniche speranze di risoluzione sono affidate alle mediazioni della Chiesa cattolica, delle Ong presenti sui territori e delle Nazioni Unite. Che operano nel tentativo di far luce sui genocidi di massa perpetrati a danno delle popolazioni residenti. Per restituire garanzie di rispetto dei diritti umani alle migliaia di profughi che fuggono alla ricerca di libertà e giustizia. GEOGRAFIA DELL’ORRORE I sedici funzionari Onu sequestrati in Congo il 18 aprile scorso ora sono liberi. Erano stati catturati dagli ex ribelli del Sud Sudan - provenienti dal campo profughi di Munigi nell’est del Paese. Destino diverso per i due delegati delle Nazioni Unite ritrovati senza vita, nel Kansai, il 29 marzo. Michael Sharp e Zaida Catalan - questi i loro nomi - sono stati assassinati insieme ad un interprete congolese, Bete Tshintela. Stavano indagando sui presunti
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abusi commessi dalle milizie antigovernative attive nella zona. Solo qualche ora prima erano stati trovati i corpi mutilati di 40 agenti di polizia. L’1 aprile la Conferenza episcopale congolese ha espresso preoccupazione per la repressione dei seguaci di Kamuina Nsapu, ucciso lo scorso agosto nel Kasai. Secondo i vescovi l’uso della forza armata per reprimere il dissenso danneggia il dialogo necessario a superare il conflitto. Qualche giorno prima, Radio France International diffonde tre video sulle violenze in Kasai. In uno di questi sette soldati sparano su civili sospettati di essere seguaci di Nsapu. Sono oltre 400, infatti, i cittadini massacrati a partire dall’agosto 2016. Mentre l’Alto Commissario delle Nazioni Unite, Zeid Ra’ad Al Hussein, annuncia al mondo che sono state scoperte 40 fosse comuni. Le ultime 17 in queste ore. Sono i numeri di un bilancio drammatico, destinato a
DIALE AFRICANA
crescere sotto il segno dell’indifferenza. TENTATIVI DI MEDIAZIONE GEOPOLITICA Alle violenze nel Kasai - che finora hanno provocato un’emigrazione interna di oltre 200 mila profughi, ovvero civili che fuggono spostandosi in altre aree dello stesso Paese - si aggiungono le proteste secessioniste nel Katanga, nell’Ituri e nel Kivu. <<Da Kinshasa al Nord-Kivu, passando per il Kasai, chiese, conventi e scuole cattoliche vengono vandalizzate, saccheggiate e attaccate da banditi armati o da ribelli>>, denuncia Cepadho, una Ong attiva nel Nord Kivu. Secondo l’organizzazione non governativa i ripetuti e frequenti attacchi vanno interpretati come una sorta di vendetta trasversale nei confronti dell’impegno ecclesiastico per la fine della guerra civile. Il 27 marzo scorso si era giunti ad un passo dalla firma dell’accordo tra le varie
fazioni politiche. Ma nelle ore successive tutto è saltato. Con la rinuncia, da parte della Conferenza Episcopale congolese, al suo ruolo di mediazione. L’incontro del 28 marzo tra il presidente congolese Joseph Kabila e i vescovi ha riaperto le possibilità di trattativa. L’8 aprile Kabila nomina primo ministro Bruno Tshibala, membro dall’Unione per la democrazia e il progresso sociale. Un incarico largamente contestato nelle stesse fila del partito in cui il neo premier aveva militato e da Rassemblement, la principale coalizione di opposizione del Paese. <<Questa nomina - ha dichiarato alla radio congolese Okapi JeanMarc Kabund, il segretario generale dell’Udps - arriva in un momento molto teso. Il popolo congolese attende che venga applicato l’accordo del 31 dicembre 2016, che resta l’unico quadro legale e legittimo per le istituzioni della
Repubblica. La nomina è in contrasto con l’intesa. E da quello che ho sentito, nel decreto di Kabila non viene citato affatto l’accordo dello scorso 31 dicembre”. Kabund ha concluso la sua dichiarazione invitando i cittadini a non scendere in piazza e a mantenere la calma. L’Udps continuerà a battersi per chiedere l’attuazione del concordato. L’obiettivo resta quello di nuove elezioni presidenziali entro la fine dell’anno. A onor del vero, il tentativo di andare al voto per eleggere il nuovo capo dello Stato c’era già stato nel novembre scorso. Grazie alla mediazione dei vescovi cattolici. Il rinvio, in quel caso, era stato giustificato dall’assenza delle condizioni politiche necessarie e dal mancato aggiornamento dell’anagrafe elettorale. Kabila, attualmente, ha all’attivo già due mandati presidenziali. E la Carta costituzionale congolese non consente una sua ulteriore elezione. Già nel maggio 2016 il presidente
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aveva tentato di modificare questa norma costituzionale per conservare, di diritto, l’esercizio del potere. Pur non essendoci riuscito, il Parlamento ha tuttavia varato una legge che gli consente di mantenere la carica fino all’elezione del suo successore. Elezione attesa, dunque, ma non ancora concretizzatasi. In un clima politico che a settembre, dopo un ulteriore rinvio, è sfociato in proteste di massa in tutto il Paese. Seguite da altrettante repressioni. ALLE ORIGINI DEL CONFLITTO Il 1994 è l’anno del genocidio ruandese. Due milioni di Hutu fuggono dal Paese per raggiungere lo Zaire, tornato poi Congo per volontà del presidente Kabila, solo tre anni dopo. Insieme ai rifugiati, i guerriglieri danno inizio a una vera e propria caccia all’uomo nei confronti dei Tutsi congolesi. Che, per tutta risposta, si alleano con gli oppositori del dittatore Mobutu Sese Seko costituendo l’Alleanza delle forze democratiche per la liberazione dello Zaire. Sostenuti da Uganda, forze ruandesi e Angola, sotto l’egida di Laurent Desirè Kabila, padre dell’attuale presidente. Secondo fonti Onu, durante l’avanzata dell’esercito guidato da Kabila, sarebbero stati massacrati quasi 60 mila civili. E mentre il dittatore spodestato, Mobutu, nel maggio 1997 fugge in Marocco - dove muore solo 4 mesi dopo -, Kabila si autoproclama presidente e avvia una violentissima
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repressione nel Paese. Nel luglio 1998 il neopresidente ordina a tutte le forze militari ugandesi e ruandesi di lasciare il Congo. Il gruppo etnico Banyamulenge, temendo di essere oggetto di una nuova persecuzione a cui non avrebbe saputo come reagire senza la protezione dei militari ruandesi, si ribella. Col pronto sostegno del Ruanda. È il 2 agosto 1998. L’Uganda si unisce ai ribelli e insieme danno vita al gruppo armato denominato Raggruppamento congolese per la democrazia. Che si espande rapidamente nelle province orientali con la conquista delle città di Bukavu e Uvira, nella regione del Kivu. Nel frattempo il Burundi occupa una parte del Congo. Mentre Kabila arruola militanti Hutu del Congo orientale e fomenta l’opinione pubblica contro i Tutsi. Radio Bunia il 12 agosto dello stesso anno trasmette l’ordine di un maggiore dell’esercito di Kabila di <<prendere un machete, una lancia, una freccia, una zappa, vanghe, rastrelli, chiodi, bastoni, ferri da stiro, filo spinato, pietre e roba simile, per poter, cari ascoltatori, uccidere i Tutsi ruandesi.>> Il Ruanda chiede l’annessione di una parte del Congo orientale, considerato il cosiddetto Ruanda storico. L’Uganda, che continua a sostenere il Raggruppamento congolese per la democrazia, promuove la nascita del Movimento per la liberazione del Congo. Ma l’offensiva anti Kabila si
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arresta dopo l’intervento di Namibia, Zimbabwe, Angola e, successivamente, Ciad, Libia e Sudan. A gennaio e agosto 1999, alcune delle fazioni in conflitto firmano due accordi per il cessate il fuoco. Il tentativo, tuttavia, si rivela vano. SOTTO IL SEGNO DEL COLTAN Il 16 gennaio 2001 muore durante un agguato il presidente Kabila. A cui, in un eccesso di democrazia, succede il figlio Joseph. L’attuale e contestato presidente. Il primo trattato di pace viene siglato da Ruanda e Congo, a Pretoria - in Sudafrica - il 30 luglio 2002. A settembre è la volta di Congo e Uganda. Infine, il 17 dicembre, le fazioni congolesi coinvolte nel conflitto firmano un accordo con l’obiettivo, entro due anni, di riportare la pace nello Stato. Una pace che si sedimenta come un gigante dai piedi d’argilla. Poco più di un anno e mezzo dopo, nel maggio 2004, le ostilità riesplodono nel Kivu. Laurent Nkunda, ex generale dell’esercito, occupa la città di Bukavu insieme alle milizie Tutsi. L’obiettivo dichiarato è la difesa dei Tutsi da nuovi massacri perpetrati dagli Hutu. In realtà vengono occupate le più importanti miniere di coltan materiale strategico per la realizzazione di cellulari e apparecchi hi-tech - e il Parco nazionale dei Virunga. Gli interessi che animano le milizie armate che insanguinano il Congo - tra i primi produttori mondiali di coltan - sono in larga parte riconnessi allo sfruttamento
di questo prezioso minerale. <<Nel 2000 il 60-70 per cento del coltan esportato dal Congo viene estratto sotto il diretto controllo dell’esercito ruandese - denuncia nel 2011 il rapporto Coltan insanguinato, curato dai Missionari Saveriani e dalla Rete pace per il Congo - per essere trasportato a Kigali, la capitale del Ruanda. I destinatari finali sono Stati Uniti, Germania, Belgio e Kazakistan.>> Moltissime multinazionali (Nokia, Ericsson, Siemens, Sony, Bayer, Intel, Hitachi e IBM) hanno acquistato il coltan da società legate a gruppi militari ribelli. Secondo fonti Onu nelle miniere vengono sfruttati anche bambini di 5 anni. Mentre le bambine della stessa età sono schiave del sesso nei bordelli circostanti. Stupri di massa e abusi di ogni genere sono la regola. Oltre l’80 per cento dei minatori ha meno di 16 anni. Ma esistono miniere illegali in cui si sfiora il 100 per cento. La metà, ne ha meno di 12. I bambini sono costretti a lavorare per pochi centesimi di dollaro. Anche per 15 ore al giorno. Molti di loro perdono la vita (sono migliaia ogni anno) o restano gravemente mutilati. In questo contesto, il primo accordo di pace tra Nkunda e il governo viene siglato il 23 gennaio 2008. Ma soli nove mesi dopo l’ex generale lancia violentissimi attacchi contro diversi villaggi del Nord Kivu. Nel 2009 i capi militari del Congresso nazionale per la difesa
del popolo - la formazione militare fondata da Nkunda - annunciano di essersi uniti alle forze governative. E, come conseguenza, dovrebbero finire gli scontri. Ma Nkunda non ci sta. Supportato dall’ugandese Joseph Kony, e dal suo fanatico e criminale Lra, va avanti. Fino all’arresto, il 23 gennaio 2009. Durante il conflitto nel Kivu violenze e massacri sono tali da spingere l’Onu a denunciare l’esistenza di <<una crisi umanitaria di dimensioni catastrofiche.>> Secondo Amnesty International, Nkunda ha impiegato nel conflitto i bambini soldato. Sono almeno 60 mila - ma alcune stime si spingono fino ad oltre 100 mila - i bambini soldato sfruttati, di cui il 35 per cento bambine, impegnati nei circa 400 gruppi armati presenti nel Kivu. Una catena di violenze e conflitti sterminata. Col coinvolgimento di Stati, gruppi armati e multinazionali attirati dalle risorse minerarie. Oltre il Coltan, infatti, il territorio è ricco di giacimenti di diamanti. MORIRE DI FAME Il sottosegretario generale Onu per gli aiuti umanitari, Stephen O’Brien, in un rapporto al Consiglio di sicurezza, ha sostenuto nel marzo scorso che in Sud Sudan, Yemen, Somalia e Nigeria ci troviamo davanti alla più grande crisi umanitaria dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Oltre 20 milioni di persone stanno morendo di fame. Nel rapporto si legge che <<3,4 milioni di
sud-sudanesi sono sfollati, e 200mila sono fuggiti dall’inizio del 2017.>> Le Ong attive sul territorio hanno ricordato che dall’inizio del conflitto i magazzini riservati alla distribuzione delle derrate alimentari e umanitarie sono stati saccheggiati. Nel luglio scorso, a Juba, i soldati governativi hanno saccheggiato i magazzini del Programma alimentare mondiale e della Fao. In questi ultimi mesi la popolazione è ridotta allo stremo, specie nelle regioni settentrionali - Stato di Unity, Bahar el Gazal Settentrionale e Occidentale - e nella regione meridionale dell’Equatoria. L’Unicef sostiene che solo nel 2016 sono stati reclutati almeno 1300 bambini soldato dalle forze armate regolari e dai gruppi ribelli. Portando il totale in questi ultimi tre anni ad oltre 17 mila. La medesima organizzazione ha inoltre sottolineato che dal 2013, circa 2.342 bambini sono stati uccisi o mutilati, 3.090 rapiti e 1.130 hanno subito violenze sessuali. IL DOPPIO FILO CONGO-SUDAN Un altro Stato legato a doppio filo al destino del Congo è il Sudan. Il sud del Paese vive una drammatica stagione di guerre da oltre 40 anni. La prima, scoppiata nel 1955 e conclusasi nel 1973 dopo la scoperta dei primi giacimenti di petrolio. La seconda, iniziata l’anno successivo e conclusasi nel 2005. Dopo un accordo di pace, il 9 gennaio 2011 si è celebrato il referendum che ha portato alla secessione
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Ritratto dal Congo, 2012 / Foto Gianmario Pugliese
la tregua tra il governo e lo Spla del Sud Sudan. Contemplando la possibilità di un referendum per l’indipendenza del sud dal resto del Paese. L’anno dopo, il conflitto si riaccende nel Darfur regione occidentale del Sudan - coinvolgendo principalmente il Justice and equality movement (Jem) e il Sudanese liberation army (Sla). In Darfur sono divenuti tristemente noti i Janjawid - una tribù nomade di lingua araba appartenente all’etnia Baggara - sostenuti dal governo di El-Bashir. I Janjawid sono stati accusati di sistematici attacchi nei confronti della popolazione civile di etnia Fur, Masalit e Zaghawa, supportati dai bombardamenti dell’esercito.
dal nord del Paese. Qualche anno prima, il presidente sudanese, Omar El-Bashir, aveva sciolto il Parlamento dichiarando lo stato d’emergenza. È l’anno in cui iniziano le esportazioni di greggio. Dopo un incontro in Eritrea tra El-Bashir e il gruppo di opposizione dell’Alleanza nazionale democratica, i principali partiti antagonisti sudanesi decidono di boicottare le elezioni presidenziali. Nel 2001, Hassan Al-Turabi, leader del Congresso nazionale popolare - già presidente del Parlamento fino al suo scioglimento - firma un memorandum d’intesa con il braccio armato dello Spla. Ma viene arrestato il giorno successivo. Sorte analoga per altri esponenti del
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Cnp. Contemporaneamente gli Usa estendono di un altro anno l’embargo verso il Sudan, accusato di essere uno degli Stati canaglia, sostenitori del terrorismo islamico. La stessa insinuazione è alla base del bombardamento di una fabbrica farmaceutica produttrice prevalentemente di vaccini antimalarici. Sospettata, senza prove, di produrre armi chimiche di distruzione di massa. L’ambasciatore tedesco in Sudan tra il 1996 e il 2000, Werner Daum, ha sostenuto che la mancanza di medicinali, conseguenza diretta della distruzione della fabbrica in questione, ha causato <<parecchie decine di migliaia di morti>> tra i civili. Nel 2002 viene firmata
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IL PRIMO ACCORDO DI PACE Il primo accordo di pace tra il governo di El-Bashar e i ribelli del Jem viene firmato solo 7 anni dopo. Ma dopo due mesi, i responsabili del Jem si ritirano dai negoziati. Nel giugno 2011 le istituzioni internazionali che operano sul territorio sostengono che almeno 300 mila persone sono bersaglio di bombe lanciate da elicotteri, prive di aiuti umanitari e impossibilitate a fuggire nel Kordofan. Secondo le Nazioni Unite altre 40 mila sarebbero fuggite da Kadugli, la capitale della regione. I bombardamenti hanno colpito Kauda e i villaggi circostanti, tra cui Heiban e Um Dorain. Nelle stesse settimane, sono giunte varie testimonianze di
rastrellamenti e uccisioni di massa a Kadugli. Due mesi dopo Amnesty International e Human Rights Watch hanno dichiarato che i raid aerei sudanesi hanno bombardato i monti Nuba, nello stato del Sud Kordofan. Attivisti delle due organizzazioni sono stati testimoni di attacchi aerei quotidiani. Il Sud Kordofan, dopo la secessione del Sud Sudan, è di fatto l’unica regione petrolifera rimasta sotto la giurisdizione del governo di El-Bashar. YIDA, IL BOMBARDAMENTO DEI PROFUGHI Il 10 novembre dello stesso anno, l’esercito di Khartoum è entrato nello spazio aereo del Sud Sudan e ha bombardato il campo profughi di Yida. Lì dove oltre 20 mila civili Nuba si erano rifugiati, dopo essere fuggiti dai loro villaggi, perché vittime di una feroce repressione. Nei mesi successivi altre notizie di bombardamenti sono state diffuse da organismi internazionali e testimoni diretti. Il governo sudanese, già nei precedenti anni di guerra, si era macchiato del massacro del popolo Nuba. Agli inizi degli anni Novanta, l’esercito e le milizie paramilitari delle Forze di difesa popolare (Pdf) avevano ucciso tra i 60 e i 70 mila Nuba in appena sette mesi. STUPRI E VIOLENZE SESSUALI Sempre nel 2011 la Sudan democracy first group, un’organizzazione a difesa dei diritti civili e democratici, denuncia il
ricorso a stupri e violenze sessuali come strumento di repressione politica da parte delle forze di sicurezza governative. Abusi, molestie e aggressioni sessuali per sopprimere le discordie. Negli anni Novanta sono stati documentati molti casi di uomini violentati e fatti oggetto di vessazioni. Duecento tra donne e bambine sono stuprate dai militari dell’esercito governativo a Tabit, nel nord Darfur. In quel periodo Medici senza frontiere Belgio è stata costretta a lasciare il Sudan perché il governo aveva reso impossibile la prosecuzione delle attività umanitarie. IL PREZZO DELL’ORO NERO IN SUDAN Nel gennaio 2012 il Sud Sudan interrompe la produzione di greggio per la mancanza di un accordo sulle tariffe con il governo di Khartoum. Un accordo che arriva nei mesi successivi, seguito da vari patti di non aggressione. Ma durante i colloqui di pace ad Addis Abeba, i conflitti ai confini dei due Stati non si sono arrestati. Ad agosto dello stesso anno, 655 mila persone vengono costrette ad abbandonare i propri villaggi a causa degli scontri armati tra l’esercito e i ribelli. Nello stesso mese, i due governi raggiungono un accordo per esportare il petrolio attraverso gli oleodotti del Sudan. Successivamente l’intesa viene raggiunta: si parla di smilitarizzazione delle zone di confine
per consentire la ripresa dell’estrazione e pompaggio del greggio. Nel marzo 2013, i due governi concordano anche il ritiro delle rispettive truppe dalle zone di confine e la creazione di una zona smilitarizzata. Ma solo tre mesi dopo gli scontri tra i due gruppi per il controllo di una miniera d’oro in Darfur, portano alla morte di decine di persone. Un precedente scontro, a gennaio, aveva causato oltre 500 morti. A dicembre dello stesso anno esplode una nuova guerra civile tra le due principali etnie che popolano il Sud Sudan: l’etnia Dinka, alla quale appartiene il presidente Salva Kiir - e l’etnia Nuer. Sono almeno 300 mila le vittime di questo conflitto. Più di 3 milioni gli sfollati e i rifugiati. Nella settimana prima di Natale, Pax Christi riferisce di <<orribili violenze perpetrate anche nei confronti di donne e bambini.>> Fonti Onu segnalano nella sola Juba oltre 500 morti, 800 feriti e circa 20 mila sfollati rifugiati nelle loro basi. Dietro il conflitto, ancora una volta, ci sarebbero interessi energetici cinesi, indiani, europei e statunitensi, come denunciato ripetutamente in questi anni il missionario comboniano padre Daniele Moschetti, che vive in Sud Sudan da sette anni.
Terre di frontiera / numero 10 anno 2 - giugno 2017 / www.terredifrontiera.info
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SEMPRE NUOVA È L’ALBA Non gridatemi più dentro non soffiatemi in cuore i vostri fiati caldi contadini. Beviamoci insieme una tazza colma di vino che all’ilare tempo della sera s’acquieti il nostro vento diperato. Spuntano ai pali ancora le teste dei briganti, e la caverna, l’oasi verde della triste speranza, lindo conserva un guanciale di pietra... Ma nei sentieri non si torna indietrO Altre ali fuggiranno dalle paglie della cova, perché lungo il perire dei tempi l’alba è nuova, è nuova. ROCCO SCOTELLARO, 1948
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