Terre di frontiera / Giugno 2016 - Numero 4 Anno 1

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I crimini contro l’ambiente sono crimini contro l’umanità

Adolfo Pérez Esquivel

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l’editoriale

ATTENZIONATI DI PIETRO DOMMARCO Nei primi giorni di quest’an-

stesse modalità di controllo

no dal ministero dell’Interno

adottate per le reti terroristi-

hanno depositato presso la

che, per i clan della malavita

presidenza della Camera dei

organizzata, per le

deputati la Relazione sull’at-

organizzazioni eversive. O al-

tività delle forze di polizia,

meno questa è l’impressione

sullo stato dell’ordine e della

che si ha.

sicurezza pubblica e sulla cri-

In un unico calderone fini-

minalità organizzata, riferita

scono i camorristi, gli insur-

all’anno 2014. Due anni fa.

rezionalisti e i cittadini rei

Ma la relazione – pubblica – è

di opporsi pacificamente

nota solo da qualche giorno.

alle trivellazioni petrolifere,

Un documento di quasi 2000

alle centrali a carbone e agli

pagine dal quale emerge un

inceneritori, alla militarizza-

dato importante, e per certi

zione del territorio, all’im-

versi inquietante: le

poverimento culturale, alla

associazioni e i comitati di cittadini che democratica-

mente portano avanti battaglie di difesa del territorio

e del diritto alla salute sono

mobilità e alla cassa integrazione, all’occupazione multinazionale, al centralismo energetico e alle modifiche costituzionali per mezzo del

attenzionate da apparati del-

decreto legge Sblocca Italia e

lo Stato. Come si sottolinea,

del referendum di ottobre.

testualmente, nello stesso

Siamo di fronte al tentativo

documento.

di eliminare ogni tipo di

Tutti attenzionati. Che signi-

opposizione pacifica.

fica, appunto, attenzionare,

sorvegliare, richiamare l’attenzione su, quasi con le

Alla criminalizzazione della democrazia.


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RIFIUTI CONNECTION

LA GRANDE MONNEZZA

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FOCUS

CASO ILVA. ITALIA SOTTO PROCESSO GELA PROFONDA

I RIFIUTI SENZA TRACCIA

ORIENTAMENTI

CHILOMETRO ZERO MULTINAZIONALI

TTIP E OGM

RIFIUTI CONNECTION

GUAZZABUGLIO ABRUZZESE RIFIUTI CONNECTION

I VELENI DI BUSSI

Terre di f Direttore responsabile Pietro Dommarco / twitter @pietrodommarco Caporedattrice Emma Barbaro

mensile indipendente

numero 4 anno 1 / giugno 2016

Un progetto di Associazione Culturale Ossopensante Codice Fiscale 97870810583 Sede legale: Via Montello 30 - 00195 Roma www.ossopensante.org

Terre di frontiera Testata registrata il 23 dicembre 2015 al n.359 del registro della Stampa del Tribunale di Milano www.terredifrontiera.info

Hanno collaborato Antonio Bavusi Vincenzo Briuolo Rosario Cauchi Augusto De Sanctis / twitter @a_de_sanctis Alessio Di Florio / twitter @diflorioalessio Domenico D’Ambrosio Domenico Lamboglia Francesco Panié / twitter @francesco_panie Vincenzo Portoghese / twitter @geovip61 Gianmario Pugliese / twitter @Tripolino00 Daniela Spera / twitter @Spera_Daniela


in questo numero

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COME NASCE UN’EMERGENZA LA MUNNEZZA È ORO. INTERVISTA A PAOLO RABITTI MENTRE A ROMA SI DISCUTE, SAGUNTO È ESPUGNATA CAMPANIA, LA NUOVA LEGGE SUI RIFIUTI

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L’INTERVISTA DEL MESE

LE FRONTIERE DEL CIBO Intervista a Carlo Petrini, sociologo, scrittore, fondatore di Slow Food

MERIDIANO

SUD E CINEMA MERIDIANO

LIBRI

LA FOTO DEL MESE

frontiera Foto di copertina La discarica di Sant’Arcangelo Trimonte Emma Barbaro Impaginazione Ossopensante Lab

Per informazioni, richieste e collaborazioni redazione@terredifrontiera.info Per inviare articoli articoli@terredifrontiera.info Twitter @terre_frontiera Facebook /ossopensante


Focus

CASO ILV ITALIA S DI DANIELA SPERA

Il nostro Paese è ufficialmente sotto processo dinanzi la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo, con l’accusa di non aver protetto adeguatamente la vita e la salute di 182 cittadini di Taranto. Nelle ultime ore il Governo italiano ha preso tempo e dall’Europa accettano di prorogare al 30 settembre 2016 il termine ultimo per la presentazione delle osservazioni in merito ai ricorsi presentati.

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VA. SOTTO PROCESSO I primi a presentare l’istanza alla Corte, nel 2013, sono stati 52 tarantini in seguito ad una iniziativa promossa dal Comitato Legamjonici, che si è avvalso della difesa dell’avvocato Sandro Maggio del Foro di Taranto. Successivamente, nel 2015, la stessa istanza è stata presentata da altri 130 tarantini. In entrambi i casi la decisione della Corte è stata determinata sia dalla corposità delle prove fornite, sia dalla richiesta di trattazione urgente. I ricorrenti accusano lo Stato italiano di non aver adottato tutti gli strumenti giuridici e normativi necessari per garantire la protezione dell’ambiente e della salute ma, al contrario, le leggi emanate - 9 decreti cosiddetti ‘Salva-Ilva’ in 4 anni -hanno avuto il preciso scopo di tutelare gli interessi del privato. Una logica già ampiamente condannata dalla popolazione tarantina, soprattutto alla luce dei risultati dello studio “Sentieri” dell’ISS (Istituto Superiore di Sanità) e della perizia epidemiologica realizzata dagli esperti incaricati dal giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco agli inizi dell’inchiesta, nel corso dell’incidente probatorio. I ricorsi, accorpati nella trattazione da parte della

Corte, si fondano anche sulla presunta violazione degli articoli 2, 8 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il ricorso ha senza dubbio una valenza simbolica il cui esito si rifletterà sull’intera città di Taranto. Non solo. A livello nazionale rappresenterebbe un importante risultato per la rilevanza politica del riconoscimento delle violazioni contestate. Un obiettivo non remoto dato che, nell’ambito del diritto internazionale che regolamenta la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ha preso sempre più piede l’opportunità e la legittimità dell’inserimento del diritto alla salute tra i diritti fondamentali dell’uomo. Da “semplice” diritto all’integrità psico-fisica dell’individuo è stato approfondito e ampliato sino a includere anche il “diritto a un ambiente salubre” come presupposto per un’effettiva realizzazione del diritto alla salute stessa. È evidente, come si può evincere nello specifico nel “caso Ilva”, che le condizioni di salute dell’uomo sono strettamente correlate alle condizioni della sfera ambientale in cui egli vive, lavora, si muove. Un ambiente insalubre e degradato ha riflessi immediati sullo stato di salute di chi lo abita.

Ora l’Italia dovrà difendersi e Taranto entrerà nel vivo della fase di dibattimento. Una prima vittoria dei cittadini c’è stata, e non era per nulla scontata: l’avvio di un processo nei confronti dell’Italia. Non si chiede un risarcimento, né un indennizzo, ma il riconoscimento di un diritto fondamentale: vivere in un ambiente salubre. Senza il timore di ammalarsi a causa di interessi privatistici sostenuti dal governo italiano. Non resta, dunque, che continuare a vigilare e a lottare. Intanto il processo Ilva a Taranto è stato rinviato al prossimo 18 luglio mentre Taranto attende giustizia, ormai, da troppo tempo.

Forniamo in esclusiva una sintesi del testo del ricorso depositato il 29 luglio 2013 su iniziativa del Comitato Legamjonici

Per approfondimenti: https://legamionicicontroinquinamento.wordpress.com/ Terre di frontiera / numero 4 anno 1 - giugno 2016 / www.terredifrontiera.info

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[…] Nel corso degli anni, molteplici sono state le denunce e le segnalazioni alle pubbliche autorità inerenti il drammatico stato di contaminazione ambientale e conseguente assoluta invivibilità dell’area cittadina senza che, tuttavia, alcun provvedimento efficace fosse mai stato adottato. Di dominio pubblico, ad esempio è l’annosa problematica della volatilità delle polveri provenienti dai parchi minerali dell’Ilva S.p.A. […][…] A queste si aggiungano le missioni diffuse provenienti dagli impianti e quelle convogliate che contengono una miscela di inquinanti altamente cancerogeni (solo per citarne alcuni: diossine, pcb, benzo(a)pirene, benzene, metalli pesanti, PM10). Le suddette emissioni provocano inoltre danni diversi su organi e apparati che generano patologie croniche degenerative. […][…] In un contesto ambientale così seriamente contaminato, nel luglio del 2010, la Procura di Taranto contestava ai dirigenti Ilva i reati (tra gli altri) di disastro ambientale, di rimozione e/o omissione dolosa di cautele a salvaguardia della salute dei lavoratori sul posto di lavoro, di avvelenamento di sostanze destinate all’alimentazione […] Così, il 26 luglio 2012, il G.I.P. Patrizia Todisco accoglieva la richiesta della Procura ed emanava un decreto di sequestro preventivo ex art. 321 c.p.p., di sei reparti dello stabilimento, rilevando che «Le risultanze tutte del procedimento denunciano a chiare lettere l’esistenza, nella zona del tarantino, di una grave ed attualissima situazione di emergenza ambientale e sanitaria, imputabile alle emissioni inquinanti, convogliate, diffuse e fuggitive, dello stabilimento Ilva Spa». Contestualmente nominava quattro custodi-amministratori affidando loro il compito di avviare «immediatamente le procedure tecniche e di sicurezza per il blocco delle specifiche lavorazioni e lo spegnimento degli impianti». Il 7 agosto 2012 il Giudice del Riesame del Tribunale di Taranto confermava il sequestro preventivo senza facoltà d’uso delle sei

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aree inquinanti dello stabilimento, evidenziando che «le emissioni di sostanze nocive alla salute della popolazione sono chiaramente in corso» e che pertanto «occorre sottrarre al Gestore la disponibilità delle predette aree e degli impianti ivi esistenti allo scopo di eliminare tutte le disfunzioni che determinano le emissioni». Tuttavia lo stesso Giudice del Riesame attribuiva ai custodi-amministratori (sotto la supervisione del Pubblico Ministero) il compito di valutare e decidere quali potessero essere le migliori decisioni per il raggiungimento della cessazione delle emissioni nocive. Restava ad ogni modo ferma l’impossibilità di utilizzare l’impianto ai fini produttivi, posto che in più parti del provvedimento il Tribunale evidenziava come questa circostanza dovesse considerarsi sostenibile solo in futuro, all’esito dell’eliminazione totale delle emissioni nocive. […] […] Il 27 ottobre 2012 veniva ufficialmente approvata la già annunciata modifica dell’AIA rilasciata nell’agosto del 2011: alla luce delle nuove modifiche l’Ilva avrebbe potuto proseguire l’esercizio delle attività produttive nell’integrale rispetto delle 94 prescrizioni ivi contenute. […] In data 20 novembre 2012 Ilva S.p.A. depositava presso il Tribunale di Taranto una richiesta di dissequestro degli impianti dello stabilimento siderurgico fondata, per l’appunto, sulla necessità di poter dare esecuzione a quanto previsto nell’AIA.[…].[…]. Il 30 novembre 2012 il GIP respingeva la richiesta di dissequestro degli impianti presentata dall’azienda evidenziando come «l’adozione della nuova AIA non vale affatto a dimostrare che sia venuta meno la situazione di grave e concreto pericolo a fronte del quale è stato disposto il sequestro», sia perché «i tempi di realizzazione delle misure prescritte dalla nuova AIA risultano incompatibili con le improcrastinabili esigenze di tutela della popolazione locale e dei lavoratori», […] Nella serata dello stesso giorno, il Governo Italiano […] decideva di intervenire approvando un decreto legge volto a garantire la «con-

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tinuità del funzionamento produttivo dello stabilimento ILVA». Tale provvedimento governativo veniva definitivamente recepito nel decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207 […] successivamente convertito con legge del 24 dicembre 2012, n. 231 […] In particolare, l’art. 1 della predetta legge prevede che, […], l’esercizio dell’attività di impresa, quando sia indispensabile per la salvaguardia dell’occupazione e della produzione, possa continuare per un tempo non superiore a 36 mesi, anche nel caso sia stato disposto il sequestro giudiziario degli impianti, nel rispetto delle prescrizioni impartite con una Autorizzazione Integrata Ambientale rilasciata in sede di riesame. […] […] e) La legge 231/2012, inoltre,violerebbe la Carta europea dei diritti dell’uomo e del Trattato di Lisbona. […] […]. In particolare la Procura ritiene che la normativa nazionale violi l’art.191 del Trattato di Lisbona inerente al cosiddetto “principio di precauzione”, che consiste nell’adozione di “tutte le misure idonee a prevenire il pericolo di danni causati alla salute e all’ambiente anche in situazione di incertezza scientifica”. E i magistrati concludono: “a Taranto la fase di rischio è stata già ampiamente superata da anni a causa dell’attività del siderurgico”. […]


L’ulteriore esposto alla Procura della Repubblica di Taranto e l’inefficacia dell’Aia rilasciata ad Ilva spa Il 5 aprile 2013 un gruppo di cittadini (tra cui Daniela Spera, ricorrente e rappresentante) ha presentato un esposto presso la Procura della Repubblica di Taranto, teso a richiedere agli organi inquirenti l’accertamento del rispetto e applicazione della normativa di cui al D.Lgs 152/06 e s.m.i. in materia di Autorizzazione Integrata Ambientale (A.I.A.) con riferimento allo stabilimento Ilva S.p.A. di Taranto. In particolare nell’esposto veniva evidenziato quanto segue: Lo stabilimento Ilva di Taranto, a seguito del rilascio dell’A.I.A., è stato autorizzato dal Ministero dell’Ambiente all’esercizio della propria attività produttiva a condizione che questa ottemperi a ben 94 prescrizioni di cui al sopra citato provvedimento; In assoluto dispregio di ogni disposizione autorizzativa, nonché dei provvedimenti cautelari disposti dall’Autorità Giudiziaria tarantina, lo stabilimento Ilva di Taranto non ha mai interrotto la propria attività produttiva; […] Proprio a seguito della presentazione della relazione trimestrale da parte dell’azienda Ilva S.p.A., il Ministero dell’Ambiente in data 14 marzo 2013 diramava la seguente nota, apparsa sul proprio sito internet: AIA ILVA: non ri-

sultano inadempienze dell’azienda […]. Al contrario, è stato possibile verificare la sussistenza di evidenti ritardi esecutivi che si traducono in incontestabili violazioni poste in essere da Ilva S.p.A. come, peraltro, documentato ufficialmente nella tabella riassuntiva del 25/01/2013 sul sito internet dell’ISPRA http:// www.isprambiente.gov.it/it/garante_aia_ilva/aia-e-controlli/ (peraltro sulla base dei dati comunicati dall’azienda stessa); […] Si precisa, altresì, che Ilva S.p.A. ha chiesto proroghe per interventi che avrebbero dovuto essere attuate sin ‘da subito’ a partire dalla data della pubblicazione del decreto di riesame, […] […]. In data 20 maggio 2013, la cittadina italiana Daniela Spera (ricorrente e rappresentante dei ricorrenti), preoccupata per la salute dei suoi concittadini, si recava a Roma presso il Ministero dell’Ambiente, al fine di invitare le autorità italiane ad applicare la normativa in vigore sull’A.I.A. […], in particolare in materia di revoca dell’autorizzazione integrata ambientale, perché preoccupata per la salute dei suoi concittadini. […]. Il Governo, anziché ascoltare la cittadina italiana ha proposto il commissariamento come deroga all’articolo di legge che prevede la revoca per reiterate violazioni. Ha emanato quindi il decreto legge del 4 giugno 2013, No.61, detto Salva-Ilva bis, che tra le altre cose, stabilisce (al comma 1-ter dell’articolo 1) che nel caso di reiterate violazioni e inadempienze alle prescrizioni autorizzative, si procede al commissariamento dell’azienda bypassando, in sostanza, la revoca dell’AIA che avrebbe portato alla chiusura degli impianti. […] Tali violazioni assumono, per di più, maggiore gravità se rapportate tanto al contesto fattuale in cui sono state e sono tutt’ora perpetrate (procedimento penale per disastro ambientale e conclamata emergenza sanitaria), quanto a quello normativo di riferimento: si pensi, anche per una maggiore chiarezza espositiva, a quanto disposto dall’art. 29-decies d. lgs n. 128/2010 […], nonché dall’art. 217 R.D. 27 luglio 1934, n. 1265 in tema

di misure precauzionali da adottarsi anche in caso di solo pericolo per la salute pubblica. […]Nel mese di settembre 2013 è definitiva la procedura d’infrazione alla quale si giunge dopo una serie di inadempienze esposte dalla Commissione Europea da parte dello Stato Italiano che non ha dato risposte soddisfacenti nell’ambito dell’attuazione del progetto EU-PILOT, che si inserisce nel contesto delle indagini complessive avviate dall’Ue sul caso Ilva. In conclusione […]. I fatti esposti al precedente punto violano le disposizioni della Convenzione Europea dei Diritti Umani di cui agli articoli n. 2 (nella parte in cui dispone che “il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale, nel caso in cui il reato sia punito dalla legge con tale pena”), n. 8 (nella parte in cui dispone che “ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio”), e n. 13 (nella parte in cui dispone che “ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale”).[…] Principio di precauzione Il quadro delineato dai sopra citati studi di carattere scientifico, pertanto, non lasciano alcun dubbio circa l’evidente e reiterata violazione delle disposizioni della CEDU come sopra indicati. Nondimeno, in virtù del principio di precauzione di cui all’articolo 174 del Trattato che istituisce la Comunità Europea, la mancanza di certezza allo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche del momento non può giustificare il fatto che lo Stato ritardi l’adozione di misure effettive e proporzionate volte a prevenire il rischio di danni gravi e irreversibili all’ambiente. […]

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La discarica in primo piano e Sant’Arcangelo Trimonte sullo sfondo / Foto di Emma Barbaro

COME NASCE UN’EMERGENZA 10

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DI EMMA BARBARO

Sant’Arcangelo Trimonte è un piccolo comune di poco più di 500 anime in provincia di Benevento. I nuclei abitativi, fatta eccezione per poche case, si raccolgono tutti attorno alla Strada Provinciale 157, che attraversa l’intero paese fino a congiungerlo ai più vicini comuni di Paduli, Buonalbergo e Apice. Oggi, il folto paesaggio boschivo e il verde a perdita d’occhio, che a lungo hanno caratterizzato la tradizione agricolo-pastorale locale, appaiono come sbiaditi all’ombra della discarica commissariale per Rifiuti solidi urbani di contrada Nocecchia, con una capacità di 750 mila metri cubi per la Protezione civile e di 844 mila metri cubi per la Daneco impianti spa, la società che ha gestito l’impianto, prima dell’arrivo della Samte. Una lunga storia raccontata anche da un’inchiesta della magistratura su omissione in atti d’ufficio, truffa, inquinamento ambientale, fuoriuscita incontrollata di percolato dalla discarica. Sono quindici le persone coinvolte nell’inchiesta coordinata dal procuratore di Benevento, Patrizia Filomena Rosa, ferma alla comunicazione di chiusura indagini. Quattro membri della Commissione commissariale al completo (Vincenzo Belgiorno, Giovanni Capasso, Pietro Bruno Celico e Piero Faella), due Rup commissariali (Carlo Carleo e Carlo Federico), il direttore dei lavori nominato durante il commissariamento (Giovanni Russo), i progettisti (Adelio Pagotto e Stefano Veggi), il geologo della società Tecno In (Lamberto Lamberti), il dirigente dell’area tecnica presso il Sottosegretario per l’emergenza (Angelo Pepe), i membri Daneco (Marco Leone, Bernardino Filipponi, Sebastiano Chizzali) e la società che si è occupata dei lavori di movimentazione terra F.lli Pignone (Michele Pignone). Ma una volta chiusi i cancelli della discarica, una volta gettati i teli neri su un ammasso di rifiuti e percolato, qualcuno ha tentato di far calare il silenzio su una storia i cui contraccolpi possono rivelarsi eccezionali. A Sant’Arcangelo Trimonte c’è chi ha voluto costruire una discarica su una frana. C’è chi ha lucrato su tutti gli interventi di manutenzione che avrebbero dovuto accompagnare il contenimento del movimento franoso in atto. C’è omissione in atti d’ufficio, truffa, inquinamento ambientale, fuoriuscita incontrollata di percolato dalla discarica.


C’è chi nega - struttura commissariale e Regione Campania in primis - una manutenzione post mortem di un sito che oggi versa in condizione di totale abbandono. Non c’è traccia del ripristino ambientale e dei progetti per la messa in sicurezza. La discarica commissariale è sempre lì, con i suoi teli neri. Come un pugno dritto nell’occhio del paesaggio santarcangiolese. Come un pugno in pieno stomaco nella memoria di chi ha vissuto tutta la storia di una catastrofe annunciata. Emergenza rifiuti in Campania. Dal cilindro commissariale salta fuori Sant’Arcangelo Trimonte Il 22 marzo 2007 la Provincia di Benevento si impegna a sottoscrivere un Protocollo d’intesa con la Regione Campania, il Commissariato di Governo e il Ministero dell’Ambiente. L’accordo prevede l’individuazione di un sito per il conferimento dei RSU provinciali all’interno del territorio beneventano. Presenti all’incontro i senatori della Repubblica on. Viespoli e Izzo, la presidente del Consiglio regionale Lonardo (moglie dell’ex Guardasigilli Mastella) e il consigliere on. Errico, consiglieri e assessori provinciali e tutti i sindaci e i rappresentanti delle forze politiche provinciali. “A tale individuazione si perverrà - si legge nel verbale - sulla base dell’indicazione di un gruppo di lavoro tecnico costituito dal Preside della Facoltà di Ingegneria dell’Università degli Studi del Sannio prof. Filippo De Rossi, da un tecnico designato dal Sindaco del comune di Benevento e da due tecnici designati dal presidente della Provincia, sentiti i sindaci. Tale nucleo sarà coordinato dal Rup della Provincia ing. D’Angelo”. L’atto successivo reca la data

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del 13 aprile 2007. Il Commissariato di Governo chiede l’individuazione “di un sito idoneo preferibilmente in argilla di volumetria ovviamente non inferiore ai 300.000 metri cubi”. Il 14 aprile 2007 si riunisce l’assemblea dei sindaci del Sannio con la delegazione parlamentare, regionale e provinciale di rito per prendere atto delle attività svolte dal gruppo di lavoro coordinato dal geologo Pietro De Paola. Ma che fine ha fatto la commissione nominata solo 23 giorni prima con tutte le forze politiche riunite in pompa magna? La Commissione De Rossi sparisce all’atto

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L’ingresso della discarica Foto di Emma Barbaro


contestuale della sua nomina. A coadiuvare il De Paola ci saranno da questo momento in poi i rappresentanti dell’amministrazione provinciale, ing. D’Angelo e Dellomo. Insieme a Carlo Caserta, che fa parte del Comando della polizia provinciale ed ha il compito di scortare il gruppo di lavoro sui siti di ex cave. Da chi viene nominato il geologo De Paola e quando svolge i sopralluoghi sui siti che potenzialmente possono rispondere ai requisiti commissariali? Nel SIT (Sommarie Informazioni Testimoniali) del 16 giugno 2011, nel pieno delle indagini magistratuali, De Paola dichiara: “Il

mandato ricevuto verbalmente dal Presidente della Provincia di Benevento on. Carmine Nardone si riferiva esclusivamente alla individuazione e qualificazione di siti di cave dismesse e/o abbandonate da adibire eventualmente a discariche di RSU”. I siti per la monnezza individuati con mandato verbale Stando agli atti processuali, sulla base di un mandato verbale e di un gruppo di lavoro fantasma, si procede alla individuazione di 18 siti nella provincia di Benevento, di cui 6 sono potenzialmente idonei.

I siti individuati sono Sant’Antonio Abate di Sant’Agata dei Goti, San Paolo di Sant’Agata dei Goti, Palmentata di Sant’Agata dei Goti, Selvolella Dugenta, Castagna in San Lorenzo Maggiore, Farciola in San Lupo, Sorgenza di Pontelandolfo, Colle Alto Morcone (sito idoneo), Torrepalazzo di Torrecuso, Lammia di Benevento (sito idoneo), Francavilla di Benevento, Paduli (sito idoneo), Vallone dell’Inferno di Apice, Buonalbergo, Piano S. Onofrio San Giorgio la Molara (sito idoneo), Ficorelli di San Giorgio la Molara (sito idoneo), Ficorelli B di San Giorgio la Molara, San Marco dei Cavoti (sito idoneo). Sant’Arcangelo Trimonte non compare mai. Al suo posto sono state esaminate, nel circondario, le ex cave di Apice, Buonalbergo e Paduli. Quest’ultima poi, per le caratteristiche argillose, l’assenza di falde acquifere sotterranee e capienza, rappresenta il sito maggiormente idoneo tra tutti. Ma tutto questo il 14 aprile 2007 conta poco. L’assemblea ascolta l’approfondita relazione del professor De Paola. Le istituzioni presenti prendono atto del metodo di lavoro trasparente e condiviso. Addirittura l’on. Lonardo dice che “il Sannio ha dato un esempio a tutto il territorio regionale per la compostezza del dibattito e del metodo di lavoro”. Il 16 aprile 2007, con Delibera di giunta provinciale n.199, si mette nero su bianco la scelta dei 18 siti. Nel verbale, tuttavia, si legge che i presenti votano all’unanimità anche la voce che cita il quantitativo di rifiuti da conferire in discarica: “l’Assemblea ha accettato che sia al massimo di 300.000 tonnellate; in tale quantitativo si debbono ricomprendere le 60.000 di ecoballe ammassate in località Toppa Infuocata di Fragneto Monfor-

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te”. È bene sottolineare che fino a quel momento si è parlato, e il Commissariato di Governo lo ha specificato, di una discarica provinciale dalla capienza di 300 mila metri cubi. Queste 300 mila tonnellate messe a verbale, da cui si dovrebbero sottrarre le 60 mila di Fragneto Monforte da dove saltano fuori? Il parametro è ben diverso. Verrebbe da chiedersi fino a che punto, l’errore perpetrato in seno al deliberato in questione, è materiale. Torniamo alla scelta dei 18 siti Nei giorni successivi, si dà inizio alla consultazione. I comuni direttamente coinvolti non stanno a guardare. Infatti il 30 aprile 2007 il comitato tecnico presieduto dal De Paola si riunisce coi sindaci e i relativi tecnici dei comuni in cui ricadono i 6 siti potenziali. Tutti depositano osservazioni di contrarietà alla realizzazione della discarica provinciale. Il 4 maggio 2007, il gruppo di lavoro di De Paola si riunisce ancora per esaminare le osservazioni prodotte dai sindaci. Di tutte le schede, in barba alle osservazioni prodotte, viene ribadita l’idoneità. Ma ad un tratto, tutto cambia. Fino a questo momento di Sant’Arcangelo Trimonte e contrada Nocecchia neppure l’ombra. Fino a quando l’8 maggio 2007 il Prefetto di Benevento Giuseppe Urbano non invia una sorprendente missiva all’attenzione del Commissario di Governo Guido Bertolaso e del Prefetto di Napoli. Il contenuto è il seguente: “Come da intese telefoniche, trasmetto copia della scheda relativa al sito individuato dal Presidente della Provincia di Benevento in località Nocecchia del comune di Sant’Arcangelo Trimonte. Come si rileva dalla predetta scheda, l’area in argomento è da consi-

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derarsi idonea per la realizzazione ex novo di una discarica per rifiuti solidi urbani”. E il 9 maggio 2007 il presidente della Provincia di Benevento, Carmine Nardone comunica ufficialmente a tutti i portatori d’interesse, cioè i Prefetti di Benevento, Napoli e il Commissario di Governo, che il sito che meglio risponde alle aspettative commissariali è quello relativo a Sant’Arcangelo Trimonte. Ed aggiunge: “si ribadisce l’effettiva criticità sociale del sito di Paduli così come per il sito di Morcone, oggetto di un contenzioso giudiziario e attualmente sotto sequestro”. Le osservazioni da fare sono tante. Di quale criticità sociale parla Nardone per infiocchettare il sito di Sant’Arcangelo Trimonte all’allora Commissario straordinario per l’emergenza rifiuti in Campania, Guido Bertolaso? Il professor De Paola, nella sua relazione del 4 maggio 2007 non ne fa cenno.

Infatti, successivamente ha confermato davanti ai CTU la preferenza verso il sito di Paduli, specificando di aver ricevuto mandato per analizzare solo ex cave. Ma il sito scelto per Sant’Arcangelo Trimonte non è affatto una ex cava. Sorge a ridosso di due discariche, una comunale, l’altra di competenza della Fibe Campania spa. Tanti gli interrogativi Quando spunta fuori, dunque, Sant’Arcangelo Trimonte? Come fa il Prefetto Urbano a comunicare a Bertolaso la scelta del sito prima che ne venga ufficialmente informato da Nardone? E, alla fine dei conti, qualcuno ha pensato ad avvertire la popolazione locale? Sono poco più di 500 anime, lo abbiamo detto. Per la maggior parte sono anziani. Non occorre essere dotati di una grande immaginazione per comprendere che, conti alla mano, non rappresentano un bacino elettorale di rilievo. Il

LA GENESI È il 1994 quando, per la prima volta, si inizia a parlare di emergenza rifiuti in Campania. L’allora presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi, nomina Commissario, il Prefetto di Napoli, Umberto Improta, per “porre in essere tutti gli interventi tesi a fronteggiare la gravità della situazione riscontrata”. Da quel momento, la ‘munnezza campana’ esce dai confini regionali per assurgere direttamente a caso nazionale. Quindici anni di commissariamento, in cui - proroga dopo proroga, commissario dopo commissario - si tenterà di

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mettere una toppa alla falla che si è innescata nel sistema. Ma le buche sono troppe. Se ne accorge persino la IIII Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti che, nel 2007, fotografa così la situazione: “buona parte del territorio rimane tuttora imbrattato da cumuli di immondizia non rimossi. La disponibilità delle comunità locali all’apertura di nuovi siti da adibire a discarica o all’insediamento di strutture di servizio è sempre più ridotta, la fiducia nelle capacità delle Istituzioni centrali di avviare programmi di bonifica e di sviluppo dei territori più


geologo De Paola, interrogato dai CTU sul punto, conferma di aver redatto anche la scheda n.19. E sottolinea: “Il Presidente Nardone mi invitò a partecipare ad un’assemblea pubblica presso il Comune di Sant’Arcangelo Trimonte il 22 maggio del 2007. Nel corso di un dibattito molto controverso tra i presenti, seduta stante, fu deciso di eseguire dei sopralluoghi mirati ad individuare un eventuale sito unitamente ai tecnici ed amministratori comunali. Nell’occasione oltre a visionare l’ex sito di discarica, ipotesi scartata immediatamente per un suo eventuale ampliamento, vennero visionate altre zone e alla fine l’idoneità fu data sulla parte pianeggiante a monte delle ex discariche così come da planimetria allegata alla scheda n.19. (…) Confermo che la scheda è stata redatta dal Tavolo Tecnico e ne confermo il contenuto nonché la cartografia allegata. Tengo a precisare che

colpiti dal degrado ambientale si è praticamente azzerata. Senza trascurare l’esiziale combinarsi di un radicamento, oramai pressoché stabile, della criminalità organizzata nel circuito dei rifiuti e, di contro, un apparato amministrativo di controllo largamente inefficiente”. Ribadisce, inoltre “il giudizio incondizionatamente negativo sull’apparato commissariale, le cui inefficienze strutturali si sono rivelate [...] di entità tale da pregiudicare, in modo irreversibile, operatività ed efficacia. Si ha la sensazione che l’emergenza ha lasciato il posto al

la stessa scheda è stata redatta d’intesa col geologo dr Corbo (il tecnico nominato dal comune di Sant’Arcangelo con delibera di giunta n.10 del 14 maggio 2007), presente tra l’altro al sopralluogo tenutosi subito dopo l’Assemblea Pubblica in Comune. A differenza delle schede precedenti, la scheda 19 relativa al Comune di Sant’Arcangelo fu redatta nello stesso giorno e immediatamente dopo il sopralluogo”. Ed ecco il paradosso. L’11 maggio 2007 salta fuori il decreto legge n.61, poi convertito nella legge 87/2007. All’art.1 si legge che “per lo smaltimento dei RSU o speciali non pericolosi anche provenienti dalle attività di selezione, trattamento e raccolta dei rifiuti solidi urbani nella regione Campania, sono attivati i siti da destinare a discarica presso i seguenti comuni: Serre (Salerno), Savignano Irpino (Avellino), Terzigno (Napoli) e Sant’Arcangelo Trimonte (Benevento)”. Come fa

dramma”. Siamo a soli due anni dalla chiusura ufficiale dell’emergenza rifiuti del 2009. E il dramma in questione, come si evince chiaramente dall’analisi della commissione parlamentare, non ha limitato la propria portata ai confini di ‘Terra dei Fuochi’. Il commissariamento è stato lo strumento facilitato attraverso cui si è pensato che derogando alle leggi vigenti in materia di salute e salvaguardia ambientale si potesse risanare l’insanabile. Tra i fasti dei gravi casi che hanno coinvolto le province di Napoli e Caserta si è tentato di dissimulare quanto

Nardone ad inviare una scheda che stando agli atti sarà redatta solo il 22 maggio? Quante schede n.19 ci sono in circolazione? E poi c’è un piccolo dettaglio riportato in uno stralcio della relazione redatta dai CTU Paolo Rabitti e Gian Paolo Sommaruga. La cartina allegata alla scheda n.19 reca la data di un sopralluogo svoltosi il 2 maggio 2007. Il comune, che solo il 14 maggio reagisce convocando un Consiglio comunale d’urgenza, è a conoscenza di quel sopralluogo? Dice di no. Ma in paese si mormora che “ognuno è padrone a casa propria”. La tesi secondo cui il commissario tira fuori dal cilindro un sito a caso puntando il dito sulla cartina, non ha mai convinto nessuno. Chi sapeva ha taciuto. Nel consiglio comunale va in scena la farsa della contrarietà. Tutti gli attori, ben consci del proprio ruolo, interpretano alla perfezione la parte assegnatagli dal destino. La discarica commissa-

altrove era in atto. Quando nei territori di Avellino, Salerno e Benevento si dava avvio a una serie di discariche camuffate da depositi di RSU provinciali. A Sant’Arcangelo Trimonte nel 2007 il dramma aveva appena iniziato a manifestarsi. Il paradigma dell’emergenza rifiuti. La storia, in estrema sintesi, di quel che accade quando la politica piega la scienza ai propri servigi. E in questo, come in tanti altri casi, la ragione è inversamente proporzionale alla ragionevolezza e competenza istituzionale.

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riale, destinata come si intuisce dal dispositivo di legge a raccogliere anche i rifiuti solidi urbani prodotti in altre aree della Campania, si farà. E il patrono di Sant’Arcangelo Trimonte, San Sebastiano, con reverenza si inchina. Ed è subito frana La discarica commissariale sorge a ridosso di altri due depositi di rifiuti solidi urbani: la discarica comunale e la ex discarica Fibe. La prima, realizzata dal Comune con fondi propri nel 1995 occupa una superficie di circa 2400 metri quadrati ed ha una capienza di 12 mila metri cubi. Dal 1996 vi vengono sversati i rifiuti del comune di San Bartolomeo in Galdo e, successivamente, anche quelli di Montefalcone in Valfortore. Nel 2001 il Commissario dispone che venga sopraelevata per raccogliere il materiale umido proveniente dall’impianto di triturazione-vagliatura di Paolisi. Nello stesso anno, viene redatto un Protocollo d’intesa tra il Comune di Sant’Arcangelo Trimonte e il Commissariato di Governo che prevede la messa in sicurezza dell’impianto e l’ampliamento della vecchia discarica con una nuova vasca. Il 15 luglio 2003 il sub Commissario dispone la messa in esercizio della nuova discarica, affidando la gestione al Consorzio di Bacino Na3. Siamo ai tempi della Fibe. La nuova discarica ha una volumetria di circa 15 mila metri cubi. Già nel settembre del 2003, causa l’emergenza rifiuti in Campania, la società viene autorizzata dal Commissariato “ad abbancare circa 400 tonnellate di rifiuti giornalieri in sopraelevazione”. Cosa vuol dire? Che la Fibe è autorizzata ad ammassare in quel sito 400 tonnellate al giorno proveniente dai CDR di tutta la Campania.

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La soglia dei 15 mila metri cubi di immondizia viene superata di circa 8 mila metri cubi. La Fibe, nel frattempo, ha i suoi guai. I vertici della società costituita con la partecipazione di Impregilo spa e Fisia Italimpianti spa, a partire dal 2006, vengono coinvolti in una serie di inchieste penali. Le accuse parlano di associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti, falso in atti pubblici, truffa, falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale e attività organizzate per il traffico illecito dei rifiuti. Poi c’è l’inchiesta del 2008 sui delitti contro l’ambiente e la pubblica amministrazione: a fare compagnia alla Fibe ed altre aziende del consorzio nel registro degli indagati ci sono pure alcuni funzionari dell’ufficio commissariale. In questo contesto, laddove nessuno dei due siti è mai stato bonificato, ecco che si pensa di aggiungere una nuova dose di percolato Il Responsabile UTC del Comune di Sant’Arcangelo Trimonte, l’ing. Colangelo, lo mette nero su bianco a partire dal 15 novembre 2007. Aggiungendo che la bonifica dei due siti è tanto più urgente in quanto si sono già verificati smottamenti, uscite anomale di percolato al di fuori delle vasche della discarica e focolai sparsi dovuti a fenomeni di autocombustioni sotterranee. Allega un’analisi di rischio redatta dalla Cea snc (Chemical engineering association) nel 2006. Che cade nel vuoto. Nei mesi precedenti sono due gli elementi significativi: da una parte la nascita del Codisam (Comitato civico difesa salute e ambiente) di Sant’Arcangelo Trimonte - vera e propria spina nel fianco della discarica commissariale – e,

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dall’altra, il tentativo politico, perpetrato ai danni dei cittadini, di trasformare, a decreto già emanato, il sito commissariale in un “deposito per residui inerti derivanti dalla dissociazione molecolare dei rifiuti provinciali”. Un produttore di ceneri, come viene definito nel verbale della delibera consiliare n.11 dell’11 giugno 2007. Una piccola e volgare variante di inceneritore. L’idea, messa agli atti, è del Presidente della Provincia Nardone. Il tentativo è quello di provare a sedare gli animi convincendo l’amministrazione guidata dal sindaco Aldo Giangregorio e dal vice Romeo


Vasca esterna, con tracce oleose e di percolato Foto di Emma Barbaro

Pisani a sottoscrivere una proposta al di là della loro portata. Il Commissariato ha chiesto un sito di almeno 300 mila metri cubi. Punto. E poi, è il momento di parlare di appalto Il 19 febbraio 2008 viene conferito l’incarico di progettazione preliminare e definitiva all’ing. Adelio Pagotto della Ad Acta Project e all’ing. Stefano Veggi dello SGI. L’Arpac, incaricata della caratterizzazione delle matrici ambientali, conferisce a sua volta l’incarico alla Tecno In spa. Siamo ai tempi in cui il Commissario di Gover-

no è Giovanni De Gennaro. Il progetto esecutivo delle opere viene approvato dal Commissariato con l’ordinanza n.153 del 1 aprile 2008, per un totale di oltre 16.931.068,62 euro di lavori, di cui 614.000 circa sono quelli preventivati per la bonifica delle discariche esistenti. L’8 aprile, a vincere con un ribasso del 29,20 percento, è la Daneco impianti spa. Ovviamente il ribasso si applica anche alle spese preventivate per la bonifica, che scendono a poco più di 400.000 euro. Un mese più tardi, il 14 maggio, la commissione Via regionale assume una posizione netta: “esprime

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parere favorevole di compatibilità ambientale a condizione che vengano rispettate ed attuate le prescrizioni di seguito espresse…”. Le jeux sont fait. Il prof. Franco Ortolani, membro di spicco della commissione che esprime parere favorevole con prescrizioni, successivamente scriverà che “solo il lotto I della discarica aveva ricevuto parere favorevole; il lotto II non è stato approvato per la evidente instabilità dell’area con la prescrizione che il progetto (…) doveva essere sottoposto alla competente Autorità di Bacino”. Nella prima prescrizione al via libera della commissione

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regionale in effetti si legge un rimando all’Autorità di Bacino. Ma essa costituisce, appunto, una prescrizione che viene a valle di una Via favorevole. E questo, i santarcangiolesi e non solo, lo ricorderanno. Secondo i dati della Protezione Civile la discarica di Sant’Arcangelo Trimonte ha una capacità complessiva di circa 750 mila metri cubi. La Daneco assieme all’appalto per la realizzazione del sito ne vince la gestione. Il 31 maggio 2008 De Gennaro nomina la Commissione di collaudo. Ne fanno parte ingegneri e geologi: Pietro Celico (Presidente), Vincenzo Belgior-

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Lato esterno, Lotto II discarica e ristagno di acqua Foto di Emma Barbaro


in corrispondenza del lotto IV, è profonda almeno 4-5 metri (sopralluogo del geologo. Vincenzo Briuolo, membro della Commissione comunale di vigilanza). Del resto, fin dal 2006 il professor Guadagno inserisce il sito in questione nella Carta delle frane provinciale. Chi ha scelto, progettato, messo in opera, non poteva non sapere. La Commissione di collaudo, che effettua ben 5 visite all’impianto dal giugno al luglio del 2008, a Sant’Arcangelo Trimonte non si fa vedere fino al 9 ottobre dello stesso anno. La terza variante del 26 agosto poi non fa nessun riferimento alla frana. Si parla ancora di potenziamento della strada di accesso. Il 9 ottobre, viene approvata la quarta variante relativa alla rimodulazione delle volumetrie del lotto I per garantire la continuità del conferimento dei rifiuti. Certo, con il lotto II franato, rivedere il lotto I è indispensabile.

no, Giovanni Capasso (segretario). Collaudatore statico viene contestualmente nominato Ciro Faella. Dello stesso giorno la prima perizia di variante relativa al potenziamento della viabilità di accesso alla discarica. Il 24 giugno, il giorno prima dell’apertura ufficiale della discarica, viene approvata la seconda variante inerente agli svincoli della SS90 per accedere al sito. E poi succede. L’11 agosto 2008 il sito II (Zona est, lotti II, III e IV) della discarica, frana La frattura è larga circa due metri, lunga più di 40 e, nel punto

Un morto sul cantiere Il 20 ottobre 2008 il geometra Pasquale Russo, assistente del direttore tecnico di cantiere Daneco, Marco Leone, muore schiacciato da un mezzo escavatore. Un piccolo incidente di percorso che non vale neppure una sospensione dei lavori. Uno di quei ricordi che ci si affretta a nascondere sotto al tappeto. E poi, quando c’è stata la frana i lavori sono stati sospesi solo tre giorni. Nel frattempo i piloni dell’elettrodotto lungo il IV lotto iniziano a cedere. Il terreno è instabile. La messa in sicurezza provvisoria della parte franata è inconsistente. Il 24 giugno del 2009 passa la quinta ed ultima perizia di variante, la più importante: prevede la realizzazione di una diversa recinzione del sito, la stabilizzazione dell’argine del lotto IV, l’incremento dei volumi di scavo e della relativa

movimentazione nonché altri lavori finalizzati al miglioramento della funzionalità della discarica. Il costo definitivo ora è di oltre 20 milioni di euro. Di bonifica delle due ex discariche però non si parla più. La discarica ‘modello’ perde percolato Nell’ottobre 2008 in diretta TV il commissario Bertolaso dichiara che quella di Sant’Arcangelo Trimonte è una discarica modello. Un modello che però, in tutto il periodo in cui resta operativo, non fa altro che registrare fenomeni di smottamento (specie in prossimità delle palificate) e perdita delle vasche. L’ultima visita della Commissione di collaudo è del 1 ottobre 2009. Nella relazione conclusiva, pur annotando scrupolosamente che la messa in opera è stata eseguita a regola d’arte e corrisponde ai costi preventivati per la realizzazione dell’opera, i collaudatori scrivono che “i lavori (…) eseguiti dall’impresa Daneco spa risultano, per quanto realizzato alla data del 31/12/2009, non collaudabili”. La parentesi commissariale, durata quindici anni, si conclude nel 2009 Per offrire un parametro di valutazione dei fatti, la Protezione civile nello stesso anno parla di una capacità residuale della discarica di circa 400 mila metri cubi. Facendo un calcolo sui 750 mila metri cubi complessivi, si evince che da giugno del 2008 a metà del 2009 sono stati abbancati circa 350 mila metri cubi di immondizia. Un quantitativo enorme per una discarica che avrebbe dovuto raccogliere solo i rifiuti provinciali. Se poi i dati della Protezione civile vengono confrontati con i quantitativi e le volumetrie stimati dalla Daneco ci si rende conto che i

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300 mila metri cubi iniziali sono solo un lontano ricordo. Il responsabile tecnico di cantiere, Marco Leone, ascoltato dal Nipaf il 14 febbraio 2011, conferma che la discarica commissariale raccoglie i rifiuti provenienti dallo Stir di Casalduni e da Battipaglia. Dice che fino a quel momento sono state conferite in discarica 715 mila tonnellate di rifiuti su un totale di 1.050.000 tonnellate autorizzate. “La volumetria finale stimata è di 844.000 mc - e aggiunge- sul lotto II, nel pieno rispetto dei profili AIA, con le opere di stabilizzazione possono essere ancora conferite 340.000 tonnellate di rifiuti”. Al lotto I, con l’abbancamento di 400 tonnellate giornaliere (14 camion secondo le stime Daneco), restano invece circa 40-45 giorni al massimo di coltivazione. Ma qual è la goccia che fa traboccare il vaso? Perché a partire da giugno 2010 si attiva la magistratura? Il 19 aprile 2010, alle 8,30 del mattino, il presidente del Codisam, Nicola Colangelo, e il geologo Vincenzo Briuolo allertano gli agenti di Polizia provinciale per denunciare la fuoriuscita anomala di acque di percolato dal lotto II della discarica commissariale. Una delle vasche perde. Alle 10,15 arriva il personale Arpac per i campionamenti. Per la Daneco, assistono ai sopralluoghi gli ingegneri Leone e Barone. La relazione Arpac del 22 aprile parla di sversamento di percolato in due punti distinti: “nella zona centrale del lotto II e nella zona nord, fino al muro perimetrale della discarica. Sul muro stesso, a valle, è possibile osservare ristagni di percolato”. Il 9 luglio 2010 finiscono sotto indagine il sindaco di Sant’Arcangelo Trimonte, Romeo

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Pisani, e il commissario liquidatore della ex discarica gestita dal Consorzio di Bacino Na3, Gianfranco Tortorano. Entrambi sono accusati di smaltimento illecito di rifiuti per non aver messo in sicurezza la discarica comunale e quella consortile (gestione post mortem) e per lo sversamento illecito di rifiuti pericolosi e non consentiti. Il 20 luglio il gip Sergio Pezza formalizza l’esecuzione del decreto di sequestro preventivo delle due ex discariche. La nomina dei CTU Dunque, a finire sotto l’occhio analitico della magistratura in prima battuta sono le due ex discariche che sorgono a valle del sito di stoccaggio Daneco. Che vengono sequestrate a condizione che però si dia facoltà di procedere alle operazioni di messa in sicurezza e di prelievo di percolato. Il 18 novembre 2010 il pm Antonio Clemente nomina i CTU Rabitti e Sommaruga. A loro il compito di svolgere tutte le indagini volte ad accertare l’eventuale inquinamento da percolato dei suoli e delle falde acquifere circostanti. La Fibe si difende come può. E in effetti, dal 2010, la titolarità delle discariche della provincia passa in capo alla Samte, una società a responsabilità limitata interamente partecipata dalla Provincia di Benevento creata proprio per gestire la ‘querelle rifiuti’ dopo il commissariamento. Anche la discarica Daneco passa alla Samte. Da gennaio ad ottobre, il rappresentante legale della Sannio Ambiente e Territorio è il dirigente provinciale Raffaele Bianco. Da ottobre, gli subentra Luigi Perifano. Il Rup Samte è invece l’ing. Gennaro Fusco. La Daneco tenta di mascherare le falle della discarica commissariale. E ci riesce fino a quando

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i CTU non si mettono in testa di svolgere sopralluoghi sui siti delle ex discariche. È la fine del dicembre 2010. L’ing. Rabitti e il geologo Sommaruga si accorgono che anche la vasca Daneco perde percolato. Il 7 febbraio 2011 allegano documenti molto rilevanti alla relazione da consegnare alla Procura. Le conclusioni di non collaudabilità delle opere del collaudatore statico Faella si sommano a quelle degli altri componenti della commissione commissariale. Faella scrive espressamente che “i fenomeni franosi e le indagini successive hanno evidenziato che le caratteristiche geotecniche erano peggiori di quelle ipotizzate inizialmente (…) Il lotto IV sicuramente non è utilizzabile”. I CTU per motivi ambientali (perdita di percolato) e strutturali (franosità) consigliano nuove campagne di monitoraggi e auspicano l’interruzione dei conferimenti. La perdita di acque di percolato viene stimata in circa 10 mila litri al mese. Il Comitato tecnico di vigilanza provinciale, nominato dalla Provincia nel 2010, tutte queste cose le sa già Con l’ausilio del geologo Vincenzo Briuolo e del professor Domenico Cicchella, monitoraggi e analisi sono già stati avviati. L’unica a non essere a conoscenza della frequenza delle perdite di acque di percolato è l’Arpac, che mette agli atti solo l’episodio del 19 aprile 2010 e i successivi campionamenti. Il 15 febbraio 2011, la Procura dispone il sequestro preventivo della discarica commissariale con facoltà d’uso in riguardo alla rimozione del percolato e alla coltivazione del lotto I. Finiscono sotto inchiesta l’amministratore unico Dane-


co impianti spa, Bernardino Filipponi, e il direttore tecnico Marco Leone. Vengono contestati l’inquinamento del suolo e delle falde, immissione di rifiuti pericolosi non conformi tra cui percolato, oli minerali e diossine, pericolo di frana e disastro ambientale, mancata messa in sicurezza delle aree predisposte alla coltivazione e mancata osservazione delle prescrizioni. Tra l’altro, viene rilevata “una tubazione interrata atta a confluire il percolato al di fuori della discarica nel vallone Pazzano, le cui acque si immettono nel fiume Calore”. Dal 28 giugno 2011 risulta indagato anche l’ex Presidente della Provincia, Nardone, per abuso d’ufficio e falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale. Oggi le indagini, dopo il sequestro preventivo disposto il 18 marzo 2011 dal gip Pezza, sono ammantate di un’insolita quiete. Il cancro commissariale della discarica di Sant’Arcangelo Trimonte è ancora lì, in contrada Nocecchia. Ma non è solo. Con lui ci sono la frana, il lago di percolato su cui sono state monitorate diossine, i teli divelti che trasudano fetore e il senso di abbandono. Grande assente è la vergogna. Quel turbamento interiore che segue alla consapevolezza di aver commesso un’azione riprovevole e che di rado si accompagna a quanti affermano oggi, a distanza di sette anni, che l’emergenza rifiuti in Campania è finita nel 2009.

LA MUNNEZZA È ORO

DI EMMA BARBARO

Quella campana è un’emergenza senza fine. Mentre scriviamo le ruspe dei Vigili del fuoco di Napoli - in un’azione coordinata da Corpo forestale dello Stato e Dda - scavano alla ricerca dei fanghi industriali sversati dai Casalesi, a Casal di Principe, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. Dove il pentito Carmine Schiavone aveva detto di cercare. Poi ci sono lo smaltimento delle ecoballe oggetto di un succulento appalto di circa 118 milioni di euro, l’affaire della raccolta differenziata porta a porta, il business della bonifica o messa in sicurezza di tutti quegli ex siti adibiti a discarica. Di questo ed altro abbiamo parlato con Paolo Rabitti (in foto).

Paolo Rabitti, ingegnere, urbanista e docente universitario, conosce l’antico postulato. Ha compreso fin troppo bene prima come consulente per la Procura di Napoli nella maxinchiesta che ha coinvolto i vertici di Impregilo spa e l’ex governatore Antonio Bassolino, poi come CTU per la Procura di Benevento nei casi delle discariche di Montesarchio e Sant’Arcangelo Trimonte - fino a che punto “la munnezza è oro”. Nelle sue perizie, così come nel libro “Ecoballe”, Rabitti ha la lucidità di chi non si limita a scoperchiare il vaso di Pandora, ma analizza i fatti, i sotterfugi, le tare del sistema dello smaltimento dei rifiuti in Campania. Abbiamo provato a chiedergli dell’emergenza, degli impianti di trattamento, della raccolta differenziata che non riesce a decollare. Ma anche della nuova legge sui rifiuti, delle ecoballe, dei casi di cui Rabitti si è occupato in qualità di esperto tecnico. Il sito di Sant’Arcangelo Trimonte, ad oggi, non può essere oggetto di riflessioni particolareggiate. I CTU Paolo Rabitti e Gianpaolo Sommaruga lavorano ancora all’indagine coordinata dal Procuratore di Benevento, Patrizia Filomena Rosa. Le loro perizie hanno sostanziato le ipotesi di truffa su una serie di lavori progettati ma mai effettivamente realizzati. La Daneco spa, coadiuvata da

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progettisti, tecnici e commissione commissariale di collaudo si sarebbe assicurata, specie attraverso le varianti alla progettazione originale, una lievitazione costante dei costi per il completamento dei lavori nella discarica santarcangiolese. “La localizzazione e la falsificazione dei dati geotecnici è il seme avvelenato” - scrivono i CTU nella relazione - “che porterà ai successivi dissesti ed alla necessità di eseguire ingentissime opere di stabilizzazione per scongiurare il pericolo di un crollo catastrofico”. Senza contare, poi, le opere di movimentazione terra e la capacità dei mezzi di trasporto dichiarati: Daneco sostiene di aver utilizzato mezzi di piccole dimensioni, i bobcat. Rabitti nella sua relazione tecnica sostiene che “la capacità di un bobcat è di circa 1 metro cubo di materiale. Se questi mezzi avessero effettivamente movimentato i 400mila metri cubi dichiarati dalla società sarebbero stati necessari almeno 400mila viaggi”. I periti citano i costi delle palificate di contenimento, parlano delle bonifiche mai effettuate, descrivono il lago di percolato a valle del lotto III. La sua lunghezza, stando alle immagini offerte da Google Earth aggiornate al 2015, è di 35 metri mentre la larghezza è di circa 20. Una truffa bella e buona a danno della popolazione e dell’ambiente. Sono passati più di vent’anni dalla realizzazione della discarica comunale di Sant’Arcangelo Trimonte. Per bonificare quella, è stata autorizzata la discarica FIBE. Per bonificare entrambe, è stata realizzata la discarica commissariale. Oggi il Comune valuta l’ipotesi di bonificare la prima discarica, quella del 1995. Tra i santarcangiolesi c’è chi ricorda che quando arrivarono i gabbiani - liberi di volare al di

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fuori dei propri confini seguendo le scie della tratta dei rifiuti - trovarono la propria morte a causa dei corvi. Professor Rabitti, come nasce l’emergenza rifiuti in Campania? L’emergenza rifiuti in Campania si sostanzia di un concatenarsi di cause. L’errore iniziale consiste nell’aver affidato ad unico gestore il trattamento, trasporto e smaltimento dei rifiuti. Una volta andato in crisi il gestore unico, è facile comprendere come le conseguenze si siano espanse a macchia d’olio. Mentre in altre regioni l’emergenza poteva essere contestualizzata e localizzata in alcuni siti specifici, in Campania il disastro è stato completo e generalizzato. Agli inizi del 2000, poi, Impregilo spa ha vinto una gara d’appalto piuttosto irregolare. Il bando di gara prevedeva la realizzazione di una serie di impianti di CDR e la costruzione di un inceneritore per bruciare il CDR prodotto. Per la costruzione dei CDR ci vuole molto meno tempo che per gli inceneritori. Impregilo, dunque, avrebbe dovuto preoccuparsi di smaltire il CDR prodotto in appositi impianti nelle more della costruzione degli inceneritori. Come è finita? Tutti si sono messi a produrre CDR a tutto spiano in assenza di un inceneritore. La crisi è stata immediata. Allora si è parlato di realizzare il compost dai rifiuti. Ma il compost vero è quello che si fa con la frazione organica umida tassativamente raccolta in modo differenziato. Invece, si è pensato bene di produrre la cosiddetta frazione organica stabilizzata (FOS). Premettendo che lo stesso principio di stabilizzazione della frazione organica, specie nelle modalità in cui la si è realizzata, è quan-

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tomeno opinabile, la FOS non è assolutamente un compost ma un altro rifiuto. Che come tale, doveva essere smaltito. Oggi viene denominato FORSU (frazione organica da rifiuto solido urbano). In pratica hanno costruito appositi impianti per la separazione dei rifiuti e poi hanno contestualmente utilizzato le discariche per accorpare i rifiuti precedentemente separati. Le discariche, poi, sono state gestite tutte in maniera approssimativa. Ce ne si è fregati delle norme della Comunità Europea e dello Stato. Si è agito in deroga, su tutto. Proprio qualche giorno fa è stata pubblicata la nuova legge regionale sui rifiuti. Si parla di chiaramente di recupero, con finalità diverse dal riciclo, compresa la produzione di energia… In pratica vi stanno proponendo nuovi inceneritori. Precisamente. A suo giudizio la Campania ha bisogno di nuovi inceneritori? O questa legge è solo il preludio a una nuova emergenza rifiuti? Secondo me più che di emergenza rifiuti a breve si parlerà di vera e propria emergenza sanitaria in Campania. Ritorniamo alla vecchia domanda: gli inceneritori sono dannosi per la salute umana? Certo, questo lo si deve dimostrare scientificamente. Però è un dato di fatto che emettono sostanze dannose. Dunque gli inceneritori non sono certo i mezzi attraverso i quali assicurarsi il miglioramento dello stato sanitario e ambientale. La legge fissa degli obiettivi minimi da raggiungere entro il 2020: si parla persino di raccolta differenziata al 65 per cento e, per ciascuna frazione


differenziata, il 70 per cento di materia effettivamente recuperata. La Campania ce la può fare? In realtà in altre regioni questo obbiettivo è stato già abbondantemente raggiunto. In provincia di Roma la raccolta differenziata porta a porta è già al 50 percento. A Milano, città estremamente popolosa, di base funziona. A Mantova si è arrivati quasi al 70 percento, con tanto di multe se si sbaglia a differenziare il rifiuto. Non è impossibile. Non è un problema tecnico, ma un problema politico. Da un punto di vista tecnico, la raccolta differenziata efficiente in Campania può essere una realtà. Tuttavia per fare una cosa che dal punto di vista organizzativo è molto complessa, ci vogliono efficienza, controlli, una buona gestione economica dei fondi. In Campania ho visto pagare discariche che, da progetto, valevano poco più di 10 milioni di euro anche 40 o persino 50 milioni di euro in assenza di controlli diretti. Dovrebbe cambiare la mentalità.

di vinile, pari a oltre 250 ppm, centinaia di volte superiori ai limiti tollerabili in una fabbrica; poi c’era una dose consistente di ammoniaca ed oli minerali. In ogni caso, anche a Montesarchio le vasche di contenimento non hanno funzionato a dovere. Ci sono foto e documenti che attestano la presenza di percolato ben oltre la discarica, verso il torrente mezzo chilometro più a valle. I teli di impermeabilizzazione si erano lacerati per i fenomeni di smottamento e il biogas, prodotto dal percolato che si era infiltrato sotto i teli, li aveva fatti gonfiare. Una situazione davvero paradossale.

Che ricordo ha della discarica di Montesarchio? Ricordo il suo respiro fetido appena ci sono arrivato. Anche in questo caso, come per Sant’Arcangelo Trimonte, la discarica è stata costruita su una frana. I suoi rifiuti hanno prodotto molto più percolato di quel che avrebbero dovuto. Il percolato si forma quando i rifiuti andati in putrefazione si mescolano all’acqua. In alcuni casi viene considerato un rifiuto speciale a tutti gli effetti. Così come dovevano essere speciali, come si evince da alcune analisi Arpac effettuate nel sito, i rifiuti che ivi sono stati stoccati. Le analisi parlavano di concentrazioni massicce di cloruro

Come si realizzano delle ecoballe a norma? A dire il vero una norma sulle ecoballe in quanto tali non esiste. Esiste una norma per il CDR, il cui prodotto viene impacchettato e va a formare le ecoballe. La normativa prevedeva al più un limite al quantitativo della porzione umida che esse dovevano contenere. Ammesso che quel limite sia sempre stato rispetto, in ogni caso si sarebbe prodotto il percolato. La questione è che i siti di stoccaggio temporaneo sono stati una vera e propria eco-bufala. Un sito è temporaneo se lasci lì le ecoballe per un anno al massimo. Dopodiché diventa una discarica, per altro non

Anche le ecoballe producono percolato? Diciamo che è abbastanza logico che lo producano visto che le ecoballe non sono costituite solo di carta o plastica ma anche di una quota abbastanza consistente di frazione organica. Quando sono stati predisposti i siti di stoccaggio temporaneo delle ecoballe, era già ovvio che avrebbero prodotto percolato.

autorizzata. E se non si impermeabilizza il sito con apposite misure tecniche, è ovvio che quel percolato non solo andrà a distribuirsi nell’ambiente ma presumibilmente tracimerà i confini del sito stesso. Le ecoballe dovevano essere formate da CDR. La normativa sul CDR era chiara. Il punto è che in ogni caso il CDR non era prodotto a norma. Le ecoballe, dunque, non lo erano di conseguenza. La Regione Campania ha già predisposto dei piani per lo stoccaggio delle ecoballe, si parla di una gara d’appalto di circa 118 milioni di euro. Ma se la maggior parte delle ecoballe non è stata prodotta a norma, a questo punto come le si potrebbe gestire in maniera ottimale? Le soluzioni non sono molte. Se le si vuole lasciare lì dove sono, allora bisogna assicurarsi che siano coperte in modo da diminuire la formazione di percolato. Altrimenti si potrebbe pensare di spacchettarle, recuperarne il contenuto e creare fin dove possibile nuove ecoballe dal contenuto certificato. La via più semplice è quella di incenerirle. Ma da qui a sostenere che sia anche quella migliore da un punto di vista degli impatti ambientali, ce ne passa. Personalmente ne dubito fortemente. Eppure la via più semplice sembra essere anche quella maggiormente battuta. Anche se le Istituzioni si sono spesso lamentate del contributo negativo apportato dalle popolazioni locali all’emergenza rifiuti… Questo è uno degli aspetti peggiori. Quando si fanno interventi che vanno a intaccare le condizioni ambientali e sanitarie della popolazione, poi non

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ci si può lamentare se la gente quegli impianti vicino casa non li vuole. Tutta la questione dell’emergenza rifiuti è stata per larga parte imputata al fatto che le persone in Campania non volevano discariche o inceneritori. Non era certo colpa delle aziende, che avevano sversato illecitamente rifiuti in ogni dove. No, era colpa delle persone. La costruzione dell’inceneritore di Acerra è stata rinviata per anni. E questo, a giudizio della politica e del Commissariato di Governo, non era imputato al fatto che per l’ubicazione dell’inceneritore si fosse scelto un luogo denominato caratteristicamente ‘Pantano’ in cui, appena avviata l’opera, la base della struttura ha iniziato a sprofondare per diversi metri. Non c’erano obiezioni di tipo tecnico. Assolutamente. Il problema era la popolazione di Acerra. Gli acerrani, impedendo per lungo tempo la realizzazione di uno degli inceneritori più grandi d’Europa, avevano generato la necessità di smaltire il CDR in nuove discariche. Eppure non c’era la popolazione quando, in deroga al piano dei rifiuti iniziato nel 2000, si escludevano i sub appalti salvo poi concederli, proprio nel trasporto e nella movimentazione terra, alla longa manus della camorra. Poi ci si stupisce se nel rifiuto solido urbano c’era di tutto.

MENTRE A ROMA SAGUNTO VIENE DI VINCENZO BRIUOLO

Il racconto del geologo Vincenzo Briuolo, che ha fatto parte delle commissioni di vigilanza comunale e provinciale nate con lo scopo di monitorare tutte le attività legate alla discarica commissariale di Sant’Arcangelo Trimonte. Che manifesta un rimpianto. Quello di essere arrivato troppo tardi quando ormai i giochi erano fatti. Ovvero, quando la discarica di contrada Nocecchia, sui presupposti della necessità ed urgenza che hanno caratterizzato tutta la gestione dell’emergenza rifiuti in Campania, non era più solo necessaria ma persino inevitabile.

Può dirsi conclusa l’emergenza rifiuti in Campania? È un po’ che manco dalla Campania. Però la sensazione è che le dichiarazioni, spesso, precedano di gran lunga la verità dei fatti. È un po’ come la storia dell’inaugurazione della Salerno- Reggio Calabria. Possono inaugurare quello che vogliono, ma la verità è che la strada da fare è ancora lunga.

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Prima del 1995 il problema dello smaltimento dei rifiuti è stato affrontato in maniera piuttosto superficiale. Basti pensare che dal 1950 al 1960, ed anche dopo, l’immondizia veniva accantonata in alcune aree semi abbandonate dei comuni e poi, scioccamente, si dava fuoco ai cumuli. In molti paesi della Campania, e non solo, funzionava esattamente così. Vero è che ai tempi non esistevano né le plastiche moderne né l’abitudine, venuta insieme al capitalismo, allo spreco generalizzato. Il quantitativo di rifiuti era ridotto al minimo. Dal 1990, però, c’è stato un accenno di cambiamento. La Regione Campania raccomandava a tutti i comuni, per mezzo di una circolare, di dotarsi di una discarica comunale. Con questa operazione sono stati creati almeno 501 sversatoi in tutta la regione e, contestualmente, 501 aree diverse di crisi. Il problema rifiuti, dunque, viene gestito nel peggiore dei modi. In tempi in cui, per altro, ad essere differente rispetto al passato è persino la qualità stessa del rifiuto. Con il 1995 l’idea della discarica comunale è arrivata a Sant’Arcangelo Trimonte. I santarcangiolesi mi hanno raccontato che precedentemente i rifiuti, in maniera non dissimile da quanto accadeva altrove, venivano stoccati alla buona in due minuscoli siti, uno dei quali addirittura in prossimità del


A SI DISCUTE, E ESPUGNATA torrente Pazzano. I guai veri e propri di Sant’Arcangelo Trimonte sono iniziati con la discarica comunale. Anche allora si sapeva che l’area, notoriamente in frana, non poteva essere idonea ad ospitare una discarica. Eppure è stata realizzata. Qualcuno aveva subodorato l’affare. Forse dirò una cosa impopolare, ma la vocazione ad accogliere discariche Sant’Arcangelo Trimonte ce l’ha sempre avuta. La discarica comunale è servita a risolvere i problemi propri, ma non solo: si è apprestata a risolvere anche quelli degli altri paesi che hanno stretto convenzioni con il comune santarcangiolese dietro congruo compenso. La discarica comunale, pur in grosso affanno, riesce a sopravvivere fino al 2001. Ma quando in tutta la Campania gli impianti di stoccaggio e, nello specifico, quelli di trito-vagliatura dei rifiuti iniziano ad andare in difficoltà, c’è bisogno di nuovi siti regionali. Dove si pensa di realizzarli? Dove già esistono discariche comunali e dove, specie la politica, lascia intendere di voler costruire la propria operatività amministrativa sul business della ‘munnezza’. Siamo ai tempi in cui la Fibe spa e la Fibe Campania spa gestiscono tutti gli impianti di rifiuti regionali, con il beneplacito della politica e del commissariato di Governo, sulla base di una gara d’appalto

quanto meno discutibile e sui tempi di realizzazione di nuovi siti davvero esigui rispetto a quelli proposti dalle altre società concorrenti. Sant’Arcangelo Trimonte si becca la seconda discarica, a 8 anni dall’apertura della prima, che viene realizzata in prossimità della vasca comunale. Dunque nella medesima area, sempre in frana. I quantitativi di rifiuti sversati iniziano ad essere diversi. Dai 12 mila metri cubi della discarica comunale di passa ai 15 mila metri cubi autorizzati al Consorzio di Bacino Na3. Che vengono superati di almeno 8000 metri cubi di immondizia stando a quello che attesta a partire dal 2007 il comune di Sant’Arcangelo Trimonte. Una follia. Il 2007 è l’anno della terza crisi dei rifiuti in Campania L’anno in cui si definisce il destino delle due discariche santarcangiolesi. Per bonificare la discarica comunale, era nata la discarica Fibe. A partire dall’11 maggio del 2007, data di pubblicazione del decreto legge n.61 che definisce quattro nuovi siti di rifiuti solidi urbani grazie ai quali mettere l’ennesima toppa all’emergenza (Serre, Savignano Irpino, Sant’Arcangelo Trimonte e Terzigno), si dà avvio alla terza discarica che giustamente serve a bonificare le altre due. In quell’anno non conoscevo ancora le vicende di questo minu-

scolo comune. Sono stato chiamato a svolgere una consulenza in loco solo qualche mese più tardi, all’inizio del 2008. Al mio posto, un umile professionista come tanti, c’era però qualcuno che, nel campo della geologia, rappresentava uno dei massimi esponenti italiani. L’unico che in una commissione nominata dalla Provincia di Benevento per scegliere l’ubicazione del sito da destinare a discarica, avrebbe potuto tecnicamente dimostrare l’inidoneità dell’area santarcangiolese a causa della frana e, con buona pace delle dichiarazioni ex post, non l’ha mai fatto. Ancora oggi mi chiedo perché. Mi riferisco a quello che nel 2007 era il Presidente del Consiglio nazionale dei geologi italiani, il professor Pietro De Paola. Quando rileggo gli incartamenti della Procura, mi viene da sorridere. Penso che già non è plausibile conferire un incarico verbale ad un professionista qualsiasi, figuriamoci al Presidente dell’Ordine dei geologi. Si poteva pur trovare una formula opportuna, magari una vesta pubblica per sostanziare l’incarico del professor De Paola. Così non è stato, né risulta che lui l’abbia mai richiesto. E così, dal niente, il professore si è assunto l’ingrato compito di individuare 18 siti possibili in cui ubicare una nuova discarica per rifiuti provinciali. Il primo quesito sorge spontaneo: come

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fa il professor De Paola a fare sopralluoghi, redigere schede e cartografie relative a 18 diversi siti nella provincia di Benevento in poco più di venti giorni? Tra le autorizzazioni e le informazioni da ricevere dai vari Enti coinvolti, in primis il Genio Civile, ci sarebbe voluto un tempo non sicuramente congruo all’urgenza commissariale. Diciamo che ci sarebbero voluti almeno tre mesi per visualizzare tutti i siti e fare una lista di vocazioni, facendo una stima orientativa sulla base di un lavoro quantomeno dignitoso. Non è stato così. E veniamo alla seconda domanda: perché nessuno si è chiesto quali tipi di rifiuti nello specifico dovranno essere conferiti? Del resto, l’indicazione commissariale era già piuttosto chiara: trovare una discarica di “almeno 300 mila metri cubi”. Con un quantitativo simile risulta evidente che il nuovo sito non avrebbe ospitato soltanto rifiuti provinciali. Poi, chiariamo un principio: il rifiuto solido urbano è formato da parte umida e parte solida. Se non distingui le due parti, inevitabilmente inquini. Lo capirebbe persino un bambino. I tecnici, invece, non l’hanno voluto comprendere . La delibera provinciale n.199 del 16 aprile 2007 genera volutamente l’ambiguità. Da una discarica da 300 mila metri cubi si passa a una discarica di 300 mila tonnellate. Questa confusione, si capisce, torna sempre utile. Il rifiuto non è come l’acqua: un metro cubo non pesa una tonnellata, ed ha una densità che è circa la metà di quella dell’acqua. Una tonnellata corrisponde, se vogliamo, a due metri cubi di immondizia. Le discariche si aprono in metri cubi, l’immondizia si pesa e si paga in tonnellate. Se si sbaglia verso all’equazione si passa facilmente dal perdere la metà

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PARLA IL GEOLOGO PIETRO DE PAOLA Perché si è scelto il sito di Sant’Arcangelo Trimonte? E soprattutto: quella scelta era inevitabile? Il geologo Pietro De Paola è il presidente della commissione provinciale che ha svolto i sopralluoghi per l’individuazione della discarica di RSU provinciali poi trasformatasi in uno dei siti di stoccaggio di rifiuti più controversi della Campania. È stato componente della commissione scientifica del Ministero dell’Ambiente per l’emergenza rifiuti in Campania, membro del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, consulente del CNR- GNDCI (Consiglio Nazionale delle Ricerche - Gruppo Nazionale Difesa Catastrofi Idrogeologiche), membro commissariale per l’emergenza ambientale in Calabria (2001-2013), Presidente del Consiglio nazionale dei geologi nonché il consulente esperto che ha valutato l’idoneità geotecnica o il ripristino ambientale dei seguenti siti di discarica, tre in Campania, una in Sardegna: Paupisi in provincia di Benevento, Difesa Grande e Savignano Irpino in provincia di Avellino, Spiritu Santu in provincia di Olbia Tempio. Nonostante si tratti “di vicende molto vecchie e complesse, e non è bello rivangare cose passate” così come afferma il De Paola, Sant’Arcangelo Trimonte costituisce un’emergenza, oggi più di ieri. Il suo degrado rivendica una dignità. Nove anni fa Sant’Arcangelo Trimonte è stato scelto nonostante scienza e ragione suggerissero tutt’altro. Perché? “L’indirizzo iniziale della Provincia era il seguente - spiega De Paola - analizzare vecchie cave in disuso o dismesse che potessero, in prospettiva, fungere da discarica. Tutti i siti analizzati sono stati pesati allo stesso modo, il giudizio che ne emergeva era assolutamente obbiettivo. E il procedimento in sé si è svolto in totale trasparenza, alla presenza dei sindaci dei comuni interessati. Le 18 schede di partenza erano frutto di analisi puntuali. Praticamente si sono svolti dei sopralluoghi e, per ciascuno di quei siti, sono stati analizzati diversi parametri ambientali. Alla fine sono stati scelti 5 o 6 siti potenziali, ora non ricordo con precisione, mentre tutti gli altri di sicuro sono stati scartati. Quindi c’è stata una comparazione, sono stati fatti dei pesi per ciascuna cava e per ognuno dei parametri ambientali considerati. Insomma, c’è stato uno studio analitico prima di scegliere il sito che meglio poteva prestarsi alle attività di coltivazione. E’ stato facile, dunque, produrre una graduatoria di vocazioni.” “Nell’area di Sant’Arcangelo Trimonte, l’unico sito potenziale da me individuato era la ex cava di Paduli. Quello era il sito che meglio si prestava allo scopo perché di volumetria sufficiente, costituito di argilla e in assenza di corsi d’acqua sotterranei. Al massimo - prosegue - al limite tra i due paesi, che distano pochissimo. Il lavoro affidatomi dalla Provincia di Benevento si concludeva lì. Dopodiché io ho presentato le mie analisi e non ne ho saputo più nulla. Il sito di Sant’Arcangelo non era assolutamente inserito in quelle schede. Fu una proposta della Provincia di Benevento che colloquiava da giorni col Comune di Sant’Arcangelo Trimonte. Ma questo l’ho saputo solo a posteriori. Mi è arrivata una telefonata un certo giorno, successivo alla chiusura del lavoro sui 18 siti, in cui mi si diceva: c’è una possibilità di fare un sopralluogo a Sant’Arcangelo Trimonte per valutare alcune possibilità di aprire una discarica in quel sito. Ci

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deve dare una mano anche in questa prospettiva. Ecco come è nata questa cosa. È nata al di fuori, in tutto un altro contesto rispetto a quello precedente. Evidentemente c’era stata un’interlocuzione tra il Presidente della Provincia di Benevento e il sindaco di Sant’Arcangelo Trimonte e non so quanto tempo sia durata, ma credo molti giorni. Poi la Provincia ci ha chiesto espressamente di fare un sopralluogo a Sant’Arcangelo ed esprimere una valutazione. La data non la ricordo con precisione, ma risulta agli atti.” “Per quel sito – sottolinea - c’è stato solo un parere, condiviso per altro con l’amministrazione locale e il tecnico, il dottor. Corbo. L’area proposta alla mia attenzione è stata da me sonoramente bocciata. Ci sono carteggi che lo attestano. In alcuni di questi c’è scritto: se proprio volete fare una discarica qui dovete spostare il sito proposto. E ho persino cartograficamente, in maniera inequivocabile, segnalato l’area che poteva prestarsi. Proprio per evitare manipolazioni pretesi che fosse fatta la cartografia, che ho redatto con le mie mani, e ho preteso che fosse firmata anche dal tecnico di parte. Il sito indicato era sul limite del crinale, in cima alla collina. Poi invece è emerso che il progetto è proseguito nell’altra area, quella da me sonoramente scartata perché già all’epoca presentava segni vistosi di dissesto e frana. Così sono andate le cose. Dunque è stato il potere politico, successivamente, a fare delle scelte che non collimavano con le risultanze di carattere tecnico che emergevano dai sopralluoghi effettuati. Ricordo che ci fu un’assemblea pubblica, con la partecipazione delle forze politiche, e che fu contestuale al sopralluogo. Nello stesso giorno abbiamo redatto anche la scheda n. 19 relativa a Sant’Arcangelo Trimonte.” “Non è vero che la scheda non reca la data. Quella benedetta data c’è. La questione è già emersa in sede di istruttoria, se n’è occupata la magistratura. L’atto da me sottoscritto è stato protocollato in Provincia e risultano date inequivocabili. Mi pare poi siano state modificate o risultano errori di trascrizione. L’inghippo è tutto qui. L’atto del deposito della mia scheda risulta ufficialmente. Non so se ora le date non risultino per fatti voluti o errori materiali. Queste discrasie attengono ad atti interni della Provincia di Benevento. Poi la Provincia ha commesso degli errori, probabilmente avrà trattato quei dati in altra maniera. Comunque la scheda di Sant’Arcangelo Trimonte l’ho redatta io, lo confermo. Ma confermo pure che quel lavoro nulla ha di consequenziale con quello svolto in precedenza, sui 18 siti.” Il professore non ricorda se ha ancora una sua copia della scheda n.19 e della cartografia inerenti alla discarica di Sant’Arcangelo Trimonte. Quelle carte conferma di “non averle guardate mai più”. “Si poteva fare molto di più per risolvere l’emergenza rifiuti in Campania, non si è mai avuta una visione organica dei problemi, si sono solo tappati dei buchi. Basti pensare che il piano regionale dei rifiuti campano è stato rivisto, revisionato o completamente modificato moltissime volte. Questa incertezza, anche nella risoluzione dei problemi, la dice lunga sigli obbiettivi che di volta in volta i vari Governi regionali si sono posti. C’è è stata un’assoluta incapacità globale di guardare i problemi e questo ha prolungato lo stato di emergenza. Anzi, lo ha aggravato nel tempo.”

dei soldi al guadagnare circa il doppio del dovuto. Su questi calcoli, la camorra non s’è mai sbagliata. L’equazione è andata nel verso contrario sempre e solo per i cittadini. Torniamo all’individuazione dei 18 siti. Nessuna delle schede reca il timbro del professionista che l’ha redatta. Il timbro, al più, è quello della Provincia di Benevento. Ricapitolando, abbiamo una nomina verbale, una serie di schede che recano semplicisticamente il timbro della Provincia e una firma chiaramente non leggibile ma che il professore riconosce come propria. Fin qui nessun problema. O quasi. Questa è una prassi quantomeno ortodossa visto la tipologia di documentazione da redigere. Le schede avrebbero dovuto essere accompagnate dal timbro del professionista e da una firma in formato leggibile. Ma in questo caso, è chiaro che si agisce in deroga. Tocchiamo i limiti dell’inverosimile quando il professor De Paola dichiara di essersi recato a svolgere un sopralluogo a Sant’Arcangelo Trimonte sulla base di un’indicazione politica del Presidente della Provincia dei tempi, Carmine Nardone. Il paradosso: da un lato un politico che dice a un tecnico dove individuare il sito di una discarica; dall’altro un tecnico che a sua volta redige una scheda d’idoneità, inerente a una discarica che si sa già non essere provinciale, sulla base di un’intuizione politica. Parliamoci chiaro: il professor De Paola il sopralluogo a Sant’Arcangelo avrebbe pure potuto farlo sulla base di una richiesta politica. Ma da qui a conferire l’idoneità tecnica sullo stesso luogo su cui si sa che c’è una frana, ce ne passa. La prassi è a dir poco allucinante. La scheda n.19, inerente all’ubicazione della

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discarica, viene di conseguenza. Bisogna precisare però che esistono almeno due schede contrassegnate come n.19 e relative a Sant’Arcangelo Trimonte: tuttavia esse differiscono sia nei contenuti, al punto che le volumetrie cambiano, sia nelle caratteristiche geologiche, geolitologiche e geomorfologiche. Sembra quasi che siano stati presi in considerazione due siti diversi. Da un punto di vista tecnico la scheda di sopralluogo ‘ufficiale’ è sommaria e sbrigativa. Ci sarebbe da obbiettare persino quando si parla di morfologia del sito sub pianeggiante. Magari questo è vero se il sito considerato sorge a Paduli. Ma a Sant’Arcangelo Trimonte di sub pianeggiante non c’è nulla. E’ completamente in frana. Sulla litologia, c’è un vago riferimento al complesso argilloso sabbioso dell’unità di Ariano. E’ la descrizione classica di un sito che si conosce poco. Una nozione, per così dire, di geologia generale. Quando si fa riferimento poi alla franosità distinguendo tra quella dell’area e quella del sito, si dice che entrambe sono “molto basse o nulle”. Infine, c’è un vago riferimento ai “creeping superficiali”, piccole instabilità che vengono aggiunte come una sorta di osservazione sommaria rispetto a un sito su cui si reputa non approfondire in maniera opportuna i dovuti rilievi tecnici. Nelle conclusioni si legge che “l’area è da considerarsi idonea per l’impianto ex novo di una discarica. Si raccomanda di redigere il progetto secondo le norme vigenti, nel pieno rispetto delle matrici ambientali”. Non vedo alcuna sonora bocciatura. A distanza di anni, non riesco a trovarla neppure leggendo questa scheda tra le righe. Ricordo a me stesso e agli altri che a redigerla è stato il

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Presidente del Consiglio nazionale dei geologi in persona. Ed è vero che tutte le schede sono da considerarsi come sintetiche. Ma presuppongono comunque la redazione di relazioni tecniche approfondite e di sintesi: anche il sottoscritto, visto l’importanza e la delicatezza della problematica, ne avrebbe considerato una congrua stesura. Di queste presunte relazioni non ho mai trovato alcuna traccia. Il sito scelto, in ogni caso, non poteva assolutamente essere idoneo per ospitare una discarica di RSU di almeno 300

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mila metri cubi. Figuriamoci se prendiamo come riferimento gli 844 mila stimati dalla Daneco spa, la società che ha vinto l’appalto e ha poi materialmente gestito la discarica commissariale dal 2008 fino al sequestro. Ma l’idea che mi sono fatto, e che si rinnova ogni volta che metto piede a Sant’Arcangelo Trimonte, è che quel sito doveva essere giustificato ad ogni costo. La discarica è la dimostrazione del totale asservimento dei tecnici alla politica in nome del primato di un interes-


Panoramica discarica, lotti e palificate Foto di Emma Barbaro

se parziale. Dimostrazione ulteriore ne è quel che accadde nei mesi che precedettero l’emanazione del decreto di valutazione d’impatto ambientale da parte della commissione tecnica regionale. Il Codisam (Comitato Ambiente e Salute) di Sant’Arcangelo Trimonte, anche attraverso gesti piuttosto eclatanti, aveva cercato di portare all’attenzione dei mass media regionali e nazionali le criticità del sito commissariale. Venivano continuamente invitati esperti, tecnici e professori universitari per tastare con mano le condi-

zioni di inidoneità dell’area ad ospitare una mega discarica per rifiuti solidi urbani. Tra i vari tavoli di concertazione, ricordo con precisione l’Assise di Palazzo Marigliano. Alcuni professori di geologia, tra cui Franco Ortolani e Giovanni Battista de Medici, nonché il medico Antonio Marfella, sembrarono prendere a cuore gli esuberanti santarcangiolesi e i loro problemi di ‘munnezza’. Ai tempi, né io né il Codisam eravamo a conoscenza del fatto che il prof. Ortolani fosse membro di spicco della commissione Via regionale. Non lo immaginavamo neppure. Lo abbiamo scoperto solo quando il parere è stato notificato presso il comune di Sant’Arcangelo Trimonte. Fu sorprendente scoprire che quel parere, controfirmato dal professor Ortolani, diceva che era possibile realizzare la discarica a patto che si ottemperasse a tutta una serie di prescrizioni. Un sì con prescrizioni. Delle due l’una: il sito era idoneo o non era idoneo? E se non era idoneo, perché si è scelta la formula del sì con prescrizioni quando agli occhi di un geologo esperto l’unica risposta possibile era no? Nel verbale non si fa cenno ad un divieto alla realizzazione del lotto II della discarica, quello poi materialmente franato. Poi, è una questione di logica: il No è No, non necessita di prescrizioni ma al più di giustificazioni che ne spieghino la ratio. Le giustificazioni successive, invece, valgono poco. Servono solo a dormire meglio la notte. E’ vero, non ho mai lavorato in una commissione di valutazione d’impatto ambientale e non posso immaginare le pressioni che i tecnici hanno subito durante l’emergenza rifiuti. Tuttavia non è deontologicamente plausibile che l’unico esperto titolato a parlare di frana in quella com-

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missione, l’unico geologo, non spenda una sola parola sulla pericolosità di costruire una discarica di quella portata su un sito in frana. L’ultima volta che ho visto i santarcangiolesi interloquire col professor Ortolani, abbiamo dovuto contenere l’esuberanza di alcuni di loro. Non hanno dimenticato e non so se lo faranno. Prima che si verificasse la frana, tutti gli esperti che si sono trovati ad esaminarla hanno minimizzato. Parlavano di instabilità, ma in fondo ci credevano poco L’unica relazione che ha messo nero su bianco l’inidoneità del sito prima che si verificasse la frana è stata firmata da me e dal geologo Roberto Pellino. La verità è che la geologia non è matematica. Il lotto II è franato inevitabilmente. Nel sopralluogo effettuato il 12 agosto del 2008 alle ore 6.00 del mattino, dunque poco prima fossero aperti i cancelli della discarica, ho avuto modo di fare alcune valutazioni: sul lato del monte della vasca IV era ben visibile una frattura longitudinale di almeno 50 metri, larga 2 metri e profonda circa 4 metri. Segno inequivocabile che l’instabilità aveva origini profonde e non superficiali come invece si affrettarono a sostenere il dott. Nicola dell’Acqua, il vice del commissario Guido Bertolaso che nel dubbio nominò il geologo Vincenzo Coccolo dell’Università di Torino, i progettisti Stefano Veggi e Adelio Pagotto, l’ing. Michele Greco del commissariato di Governo e, ovviamente, tutti gli ingegneri della Daneco spa. Successivamente, da membro della commissione di vigilanza comunale, ho tentato di monitorare l’ingresso dei camion in discarica. Il giorno dell’apertura, il 25 giugno del

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2008, vennero conferite le 400 tonnellate pattuite. Il giorno dopo, con un ordine perentorio del generale Giannini da Napoli, arrivarono in discarica tra le 3000 e le 4000 tonnellate di rifiuti. La necessità, in sostanza, era quindi quella di aprire un buco e riempirlo il più velocemente possibile con gli impianti di smaltimento campani ormai saturi. Non c’è da stupirsi se solo un mese e mezzo dopo, l’11 agosto del 2008, c’è stata la frana. I camion che trasportavano i rifiuti, comunque, dovevano passare sotto un apposito portale per la radioattività per scongiurare qualsiasi problema di contaminazione. Prassi avrebbe voluto che i camion, dopo aver sversato, fossero lavati con accuratezza prima di ripartire per un nuovo carico. Sulla pulizia dei mezzi che trasportavano i fantomatici RSU nella discarica di Sant’Arcangelo Trimonte possiamo stendere un velo pietoso. Diciamo che la parte della pulizia è stata molto spesso saltata perché, in fondo, perdere mezzora a pulire un camion equivale a perdere mezzora di tempo rispetto a un nuovo carico di immondizia. In un caso specifico uno dei camion, risultato positivo ai test sulla contaminazione radioattiva, venne fatto sversare ugualmente. In quella occasione la radioattività fu riscontrata sia in entrata che in uscita dalla discarica. Con tutta probabilità si trattava di rifiuti ospedalieri, quelli la cui radioattività nell’arco dei 75 giorni può decadere, ma inquinano e contaminano ugualmente. E di certo non fanno parte della classe dei rifiuti solidi urbani, specifico oggetto del conferimento della discarica commissariale. A giudicare dall’odore dei camion all’ingresso in discarica, quei rifiuti non avevano le caratteristiche

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per essere RSU. Gli odori erano nauseabondi. La frazione organica stabilizzata (FOS) è priva di odore perché ha trasformato la parte organica; e, successivamente, non determina eccessivi problemi di percolazione. E’ bene precisare che per FOS si intende la parte umida del RSU debitamente differenziata e conferita in idonei impianti di trattamento dove, solo dopo circa 60-70 giorni, perdendo la sua componente putrescibile diventa inerte dunque priva di odori e liquidi. Diverso è se si introducono invece altri tipi di rifiuti, se questi vengono mischiati a quelli ospedalieri e


vengono denominati come FOS fuori specifica. Cosa vuol dire? È come se, facendo un paragone con l’acido muriatico si dicesse: “ma questo non è acido, è liquido corrosivo fuori specifica”. In nome dell’emergenza in quella discarica sono state introdotte FOS non stabilizzate, rifiuti provenienti dal miscuglio generale. Le analisi svolte dall’Arpac e dai CTU della Procura di Benevento rivelano composti che ben poco hanno a che vedere con i RSU. Si tratta infatti di idrocarburi,benzopirene, benzene, toluene, clorurati,metalli. Sostanze che non sono assolutamente compatibili con contenuto del

Particolare del Lotto I Foto di Emma Barbaro

sacchetto dell’umido di casa nostra. E viene difficile immaginare che con i RSU si formino laghi di percolato come quelli a valle del lotto III della discarica commissariale. Il lago di percolato non è un affare, è un onere. In qualsiasi discarica gli accumuli di percolato sono assolutamente da evitare. Quel lago è la dimostrazione che la discarica è stata sbagliata tanto nella gestione che nella scelta del sito. Che cos’è il percolato? È un rifiuto speciale che viene convenzionalmente classificato come non pericoloso. Se non puzzasse, potrebbe essere equiparato tranquillamente a un rifiuto

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industriale. È molto inquinante. Un impianto per il trattamento del percolato è lontano da queste aree ma, soprattutto, incide notevolmente sui costi di smaltimento. Per intenderci, non è altro che la parte liquida del RSU che si deposita sul fondo dell’umido quando questo viene depositato in discarica e immediatamente ricoperto da altri rifiuti, da terriccio o da teli di chiusura. Contiene metalli pesanti, sali di solfato e/o di azoto, gas nauseabondi e idrogeno solforato. In altri termini l’abbancamento dei rifiuti in una discarica, anche dopo un’attenta selezione, non deve mai superare una precisa velocità di conferimento. La discarica è ancora sotto sequestro Oggi, lo stato d’abbandono è ben visibile dall’esterno. La discarica è ancora sotto sequestro, ma nei fatti sembra essere stata lasciata a se stessa. Non invidio la Samte, la società che dal 2010 l’ha acquisita nella titolarità. Non so cosa possa farsene onestamente di un lago di percolato. Però temo che le stesse criticità del 2007 sussistano ancora oggi. Temo che i teli di contenimento, non so fino a che punto ancora integri, non riescano più ad evitare che le acque di percolato filtrino sotto al corpo della discarica. Così facendo, si va ad insidiare un versante che già ha avuto problemi sul fronte della stabilità. Di sicuro, il lago di percolato inquina e incide sulla propensione al dissesto di quel versante. L’instabilità può avere momenti in cui è ben visibile, come è accaduto a Sant’Arcangelo nel 2008, e momenti di stasi che possono durare anni. Però è anche vero che quest’area è altamente sismica e gran parte delle franosità vengono

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riattivate in concomitanza di eventi sismici importanti. Il 1980 ci ha fatto capire cosa vuol dire vivere in una zona in frana e in un’area sismica. Ci ha dato delle indicazioni. Non so fino a che punto, in effetti, siamo stati in grado di coglierle. Di bonifica, di ripristino ambientale o di decoro per la discarica di località Nocecchia non si parla più da tempo. Nel passato, qualcuno si è arrischiato a convocare tavoli tecnici per discutere di messa in sicurezza. Personalmente, non ho mai visto mettere in sicurezza un intero versante. La politica, in altre occasioni, ha promesso soldi per un fantomatico ripristino ambientale che a Sant’Arcangelo Trimonte non si è mai concretizzato. Tante parole, spesso vuote. “Mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata”, diceva Tito Livio.

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LA CAMP “NUOVA DI VINCENZO PORTOGHESE

Sul Burc n.33 del 26 maggio 2016 è stata promulgata la nuova legge sul ciclo dei rifiuti in Campania. È la n.14 del 26 maggio 2016, su “Norme di attuazione della disciplina europea e nazionale in materia di rifiuti”. Uno strumento normativo voluto dal governatore Vincenzo De Luca. La legge - nello spirito del legislatore - si è resa necessaria per ottemperare alle sentenze di condanna della Corte di Giustizia Europea (Causa C297/2008 del 4 marzo 2010 e causa C653/13 del 16 luglio 2015). Sostituisce e abroga tutte le precedenti leggi regionali emanate in materia. Consta di ben 52 articoli suddivisi per sette Titoli.


PANIA HA UNA A” LEGGE SUI RIFIUTI Le norme emanate sembrano essere state ideate per imprimere una decisa azione di riordino del sistema della gestione dei rifiuti con strumenti equivoci e di dubbia efficacia, tanto da considerarla come la probabile anticamera di un’altra prossima emergenza, nella sua uniformità a quel carattere “strategico“ impresso dal premier Matteo Renzi nel decreto legge “Sblocca Italia”. Oltre al riordino della gestione rifiuti, regolamenta anche le attività di bonifica dei siti contaminati. Già nel primo articolo, al comma c, si rimarca la volontà di realizzare impianti atti alla produzione di energia, ovvero, gli inceneritori; ma successivamente, al comma 5 dell’articolo 12 si specifica: “In attesa del nuovo Piano Regionale per la gestione dei rifiuti urbani e speciali non può essere autorizzato l’avvio e l’ampliamento di trattamento termico per rifiuti solidi urbani in Campania”. Tempi incerti e Sblocca Italia Scorrendo tutte le pagine della normativa non vi è traccia dei tempi previsti per l’emanazione del citato Piano. Significa che si andrà con molta probabilità in regime di proroga e/o deroga. Ma a dirimere la questione, come già anticipato, potrebbe pensarci il decreto legge “Sblocca Italia”. Oppure, come già manifestato dal presidente

della Giunta regionale, inviare parte dei rifiuti e delle ecoballe ai cementifici. È bene ricordare che tali impianti sono stati progettati e realizzati per ben altri scopi e non certo per “bruciare rifiuti”. Inoltre, le conseguenze ambientali - giacché la stessa legge pone come propria base la salvaguardia e la tutela dell’ambiente e della salute pubblica - saranno sicuramente ad alto impatto, non trascurabili e con conseguenze sotto ogni profilo, ai danni e a carico dei cittadini. Decisamente in senso contrario rispetto a quanto richiesto dalla Comunità europea. Economia circolare Punto di apparente novità è rappresentato dal perseguire l’obiettivo dell’economia circolare, consistente nel dare al rifiuto nuova vita, non solo riciclandolo, ma riutilizzandolo per far parte di un nuovo processo industriale. Un passaggio questo che non rappresenta una novità, i cui principi erano già alla base di precedenti leggi. Tutto funziona sulla carta e mancando strumenti attuativi certi, si rientra in quello scenario che ha portato alla sentenza di condanna: la non attuazione di piani efficaci atti a garantire prioritariamente la salute dei cittadini e il mancato inserimento in un ciclo virtuoso del sistema di raccolta rifiuti,

con adeguata impiantistica. L’Italia è condannata a pagare una quota fissa pari a 120.000 euro per ogni giorno di ritardo sugli obiettivi non raggiunti, e una quota forfettaria pari a 20 milioni di euro. Mancano i numeri In questa legge non si fa riferimento al numero di impianti trattamento rifiuti da realizzate, includendo discariche, inceneritori e trattamento e trasformazione dell’organico. Di contro, invece, la parte politico-amministrativa è molto dettagliata, a partire dalla costituzione degli Ato (Ambito territoriale ottimale), dei Sad (Sub ambito distrettuale) e degli Enti d’Ambito. Definendo e attribuendo competenze e direttive. Il direttore generale Particolare riguardo è riservato al Direttore Generale che ha i poteri per indire bandi di gara cui affidare a privati i servizi di gestione e trattamento dei rifiuti. Tale figura è da ricercarsi prima presso gli Enti tecnici della Campania e - se non corrispondono ai requisiti (non citati nella presente legge) - tramite avviso pubblico. L’Osservatorio che c’è già La nuova normativa prevede la costituzione di un Osservatorio regionale sulla gestione dei ri-

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fiuti. Osservatorio già esistente ed operante da anni. Tanto che i Comuni e le Province sono tenuti a inviare i dati presso questo ufficio preposto. Sarebbe, pertanto, stato più opportuno parlare di modifica e revisione, non certo di costituzione. Il Piano delle bonifiche che c’è già Così come esiste già, dal 2005, un Piano regionale delle bonifiche, con tanto di aggiornamento e revisione nel 2012. Infatti, in virtù di questo strumento sono state avviate - più nel male che nel bene - attività di bonifica in diversi siti campani. Lo stesso PRGRU-PRGRS (Piano regionale rifiuti urbani e speciali) è stato già realizzato d’intesa con l’Università “Federico II” di Napoli, Dipartimento di Scienze ambientali, nel non lontano 2011. Ora invece si azzera tutto il lavoro fatto in precedenza da altri, con l’aggravio di ulteriori spese tecniche e con tempi non debitamente definiti.

nale dell’onere derivante dalla gestione post-operativa delle discariche e dei siti già esistenti di stoccaggio provvisorio di rifiuti, la Regione Campania predispone, entro il 30 settembre di ogni anno il piano di riparto dei relativi costi in base al numero degli abitanti di ogni singolo EdA. Ciascun Ente d’Ambito in sede di definizione delle tariffe tiene conto della quota attribuita dal piano di riparto al proprio EdA.” In pratica una discarica commissariale voluta e decisa dal Governo i cui oneri saranno a carico delle comunità locali.

La beffa Parlare di novità in questa legge sembra davvero eccessivo. Ma la beffa è servita proprio dalla stessa Comunità europea che impone alla Regione Campania di individuare impianti di discarica per non meno di 1 milione e 800 mila tonnellate di rifiuti annui, circa 1 milione e 200 mila tonnellate di rifiuti da inviare a incenerimento e 382 mila tonnellate di trattamento rifiuti organici. Quindi è chiaro che la legge, in ossequio alla Comunità europea, non persegue l’obiettivo della cosiddetta economia circolare e quindi della riduzione a monte del rifiuto. E si sfiora l’assurdo con l’articolo 41 comma 1 (Gestione post-operativa delle discariche e dei Siti di stoccaggio). Si legge: “Ai fini di equilibrio su base regio-

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Orientamenti


CHILOMETRO DI ANTONIO BAVUSI

“Zero mile store”. È un monumento realizzato durante il periodo coloniale dalla corona britannica nella città indiana del Nagpur, Maharashtra. La colonna in pietra serviva per localizzare il centro geografico dei possedimenti e gli interessi coloniali nel continente asiatico.

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Chilometro zero ci ricorda storie nefaste per la storia dei popoli, in lotta per affrancarsi dallo sfruttamento economico, dal colonialismo e del profitto. Ma per noi assume altre connotazioni, anche se il termine è stato accostato a quello “tasso zero”, utilizzato commercialmente per promuovere vendite e acquisti, vantaggiosi soprattutto per il cliente. Una definizione interessante di “chilometro zero” compare in un articolo pubblicato sul quotidiano La Repubblica nel 2000: “Ci sono le vetture a chilometri zero, che il concessionario finisce per autoimmatricolarsi pur di raggiungere l’obiettivo previsto che gli consentirà di beneficiare di speciali premi. Queste vetture vengono poi immesse sul mercato con prezzi che talvolta arrivano anche al 30% in meno rispetto a quelli di listino. Un vantaggio per i clienti, insomma (anche se queste vetture vanno comprate a scatola chiusa, con gli optional che si ritrovano), ma un segno della frenesia di vendita delle case e, di conseguenza, delle concessionarie”. Quasi in contemporanea, invece, il termine assume una connotazione ed un valore immateriale. Ovvero la speranza che la politica valorizzi produzioni sane e genuine, un cibo prodotto localmente, garantito nella sua integrità, in contrapposizione all’alimento globale, avvelenato dalle logiche del

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“marchio” imposto dal profitto, privo delle “etichette” di origine controllate. La dipendenza dell’economia Carlo Petrini - fondatore del movimento e associazione Slow Food - ha spiegato l’uso del termine parlando della dipendenza dell’economia (e della catena alimentare), dalla rete dei trasporti su gomma in Italia, in un articolo ancora di forte attualità dal titolo “La rivincita del localismo”. “Le economie locali – scrive Petrini - non hanno padroni, hanno una rete di interazioni. E parte di questa rete è costituita proprio dai consumatori, i quali si possono rilassare: escano a piedi, facciano una passeggiata nel centro storico delle loro città, arrivino fino al più vicino mercato, facciano due chiacchiere con i venditori, che magari sono anche agricoltori, acquistino frutta e verdura locali di stagione e quanto il loro territorio offre. Poi tornino a casa o in ufficio (anche uno spuntino può essere arrivato in Tir o essere stato prodotto localmente) e si godano un pasto a chilometri zero, a carburante zero, a emissioni zero, a nervosismo zero”. Chilometro zero significa anche realizzare “reti corte” interconnesse tra loro in cui le distanze tra i centri di produzione energetici e gli utilizzatori finali sono ridotte o in ambito locale, oppure realizzare il riciclo dei rifiuti prodotti secondo il principio di


ZERO “prossimità”. Sistemi questi ad alta efficienza e basso spreco energetico ed ambientale, ma ad alta intensità di lavoro. Ma nell’era della globalizzazione è possibile ipotizzare una “economia” a chilometro zero? Ovvero, una economia capace di pensare ed agire localmente facendo

Zero Mile Stone, Marathi Foto Wikipedia Commons

interagire positivamente tra loro le comunità locali? Le politiche pubbliche per lo sviluppo durevole sono oggi troppo condizionate dagli interessi privati che incidono anche sulla qualità delle relazioni umane. Dopo la Conferenza ONU su Ambiente e Sviluppo te-

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nutasi a Rio de Janeiro nel 1992, 178 governi di tutto il mondo, tra cui l’Italia, hanno adottato lo strumento denominato “Agenda 21”. Un documento di intenti per la promozione di uno sviluppo sostenibile che, tenendo conto degli aspetti sociali, ambientali ed economici locali, mira a cogliere anticipatamente eventuali elementi di incompatibilità esistenti tra le attività socio-economiche e le politiche di protezione e salvaguardia dell’ambiente. Ogni autorità locale avrebbe dovuto aprire un dialogo con i propri cittadini, con le associazioni locali e con le imprese private e adottare un’Agenda 21 Locale. Come? Attraverso la consultazione e la costruzione di consenso, le autorità locali possono imparare dalla comunità e le imprese e possono acquisire le informazioni necessarie per la formulazione delle migliori strategie tese alla qualità dei loro prodotti. Il processo di consultazione può infatti aumentare la consapevolezza ambientale delle famiglie ed orientare lo sviluppo in una direzione armonica e durevole dell’economia. Pensare globalmente, agire localmente Con Agenda 21 Locale (21 sta per ventesimo secolo) è stato lanciato lo slogan “pensare globalmente, agire localmente”. Al punto 7.B Agenda 21 Locale formula, sulle problematiche dell’ambiente, alcuni indicatori strategici, capaci di misurare il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile negli anni futuri, quali le percentuali di superficie coperta da foreste, le emissioni di CO2, per un totale, pro capite e per $ 1 PIL (PPP), il consumo di sostanze che comportano relativa riduzione dell’ozono, la percentuale degli stock ittici entro la limiti

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di sicurezza biologica riproduttiva della specie, la percentuale del totale di risorse idriche consumate e quella per le aree marine protette e terrestri, con l’indicazione delle specie minacciate di estinzione. Expo Con Expo a Milano una grande opportunità è stata vanificata: l’occasione per rilanciare questi obiettivi globali per le comunità, per la stessa agricoltura di qualità italiana e soprattutto quella mediterranea. Un modello di agricoltura libera dalle imposizioni, dai brevetti genetici e dalla chimica imposti oggi dalle grandi multinazionali con i trattati commerciali, e dagli OGM. È quindi necessario che gli agricoltori di tutto il mondo facciano propria questa nuova sfida per combattere la fame e la sete, per “nutrire il mondo”, così come recitava, ma a parole, lo slogan di Expo 2015, liberando le istituzioni pubbliche dai condizionamenti dell’industria bio-chimica e petrolifera. Sarebbero necessarie azioni politiche forti, come la revisione ad esempio della F.A.O. (Food and Agricolture Organization) - Organismo dell’Onu - oggi troppo condizionato dagli interessi delle società multinazionali, con la revisione del Codex Alimentarius, strumento divenuto inadeguato ma soprattutto controllato dai 22 Comitati nei quali forti sono i condizionamenti dell’industria multinazionale nei vari settori e quelli alimentari mondiali. È falso dunque dichiarare, così come fanno alcuni rappresentanti del Parlamento Europeo, che il Codex Alimentarius è uno strumento di garanzia per i cittadini dell’Unione, se prima non si analizza a fondo il suo contenuto e soprattutto gli obiettivi raggiunti.

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Così come oggi è applicato, non può essere preso a modello per il nuovo trattato commerciale transatlantico (TTIP) basato su falsi principi etici dietro i quali si celano i potentati della chimica e della finanza mondiale che investono sempre più sui marchi dei prodotti ma anche sulla povertà, la malattia, la sete e la fame nel mondo, in Europa attraverso deregolamentazione delle Direttive Comunitarie di difesa della salute, per cibo ed acqua puliti. I bisogni prioritari irrinunciabili dell’umanità non sono “trattabili” né “svendibili” Ma proprio il contrario si si propone il testo costituzionale noto come “Riforma Renzi-Boschi” che nella modifica del Titolo V della Costituzione, in nome di un “efficientismo economicistico” e di spending review di stampo neo-statalista , intende svuotare le istituzioni locali e regionali della loro funzione pubblica per un neo- centralismo istituzionale, trasformando il Senato della Repubblica in un contenitore vuoto, popolato da consiglieri-sindaci-senatori non direttamente eletti dal popolo e senza un chiaro mandato. Questa sottrazione di potere ai territori mira a generare una “marginalizzazione” delle comunità locali sempre più asservite alle logiche ed agli interessi privati delle grandi multinazionali (vedasi gli interessi energetici, petroliferi e quelli dei rifiuti), mentre il debito pubblico diviene il pretesto per un controllo dell’economia liberista della banche sugli Stati.


L’intervista del mese

LE FRONTIERE DEL CIBO DI PIETRO DOMMARCO

Intervista a Carlo Petrini (in foto), fondatore di Slow Food, sociologo e scrittore.

Partiamo da un tema di attualità e parliamo di TTIP. Cosa pensa del trattato Europa-Stati Uniti in relazione ai concetti di salvaguardia della biodiversità, alla difesa del territorio e delle piccole economie locali? Il TTIP, per chi lo ha pensato e ratificato, rappresenta una grande svista o una mancanza di programmazione e tutela di interessi delle multinazionali? Siamo di fronte a un accordo che, qualora approvato, regolerebbe non solo gli aspetti economici degli scambi fra Europa e Stati Uniti, ma in buona sostanza ne condizionerebbe l’orientamento giuridico, perché le norme istituite in questo caso dall’UE a tutela dei cittadini verrebbero di fatto sacrificate sull’altare del mercato dopo essere state etichettate come “barriere non tariffarie”. Quello che rischiamo è di assistere ad un’”armonizzazione” forzata degli standard, inevitabilmente verso il basso. La discussione nel merito del TTIP viene condotta lontano dall’attenzione pubblica e i cui atti sono inaccessibili, il che è il primo segnale di pericolo: al centro non ci sono i cittadini, ma gli interessi del mercato. La politica energetica del nostro Paese passa anche

e soprattutto dallo sfruttamento intensivo dei terreni e dall’eccessivo consumo di suolo: centrali a biomassa che bruciano rifiuti, trivellazioni per la ricerca di idrocarburi, inceneritori, discariche. Tutto questo come può essere compatibile con lo sviluppo delle filiere corte e del chilometro zero basate su valorizzazione del paesaggio e della salubrità dell’ambiente? È sostenibile continuare a viaggiare su un doppio binario? La competizione tra agricoltura e produzione energetica per l’utilizzo del suolo è sicuramente un tema sul quale è necessario riflettere in tutta la sua complessità. C’è bisogno di una visione politica ampia e a lungo termine, che si impegni per una valorizzazione del territorio a vantaggio di tutti, e che metta in campo politiche serie di riduzione dei consumi, innanzitutto, e di investimenti in ricerca e nuove tecnologie che ci permettano di ottenere alti livelli di efficienza nelle energie rinnovabili. Anche queste, infatti, necessitano di essere utilizzate nel quadro di un progetto lungimirante, oppure rischiamo di imbatterci in delle storture, quali ad esempio i grandi impianti fotovoltaici posati su terreni agricoli, o gli impianti

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eolici mal posizionati e finanche dannosi per l’ecosistema. Il decreto legge Sblocca Italia ha trasferito i poteri in materia energetica nelle mani dello Stato che si sostituisce agli Enti locali e alle comunità. Che idea si è fatto? Anziché fermare la colata di cemento, lo Sblocca Italia la rilancia, la promuove, la incentiva con danni al paesaggio agricolo e non. Inoltre, il potere decisionale circa questi temi viene, per l’appunto, ulteriormente allontanato dalle realtà locali, puntando a un accentramento che, in nome dell’efficienza, sacrifica il diritto delle comunità di gestire il proprio territorio. Questo decreto è lontano dal tempo e dal luogo in cui ci troviamo a vivere, ed è impossibile non pensare a come sia stato frutto di interessi particolari e miopi, e non di una visione politica a lungo termine. Ancora una volta abbiamo rinunciato a investire nel futuro per un ritorno veloce e misurabile in qualche punto percentuale di PIL. OGM, pesticidi, glifosato. Di questo passo, dove arriveremo? Di certo queste parole, una in fila all’altra, descrivono una realtà agroindustriale che non rispecchia la nostra idea di futuro. Questo sono i termini di un paradigma che non va nella direzione di salvaguardare l’ambiente, né il benessere dei contadini e dei produttori che ogni giorno lavorano per produrre il cibo che mangiamo. Noi continuiamo a lavorare collaborando con altre ONG e con i governi locali affinché il paradigma che descrive la nostra realtà agricola sia descritto da termini quali agroecologia, rispetto dei saperi e delle economie tradizionali, dell’agricoltura di

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piccola scala e di sussistenza. Quando supereremo l’ambizione dell’accaparramento di beni materiali a scapito del bene comune potremo anche liberarci di parole che suonano molto moderne, ma che in realtà sono già antiquate. Con Expo, a mio avviso, abbiamo perso una grande occasione per rilanciare l’agricoltura di qualità italiana e soprattutto quella mediterranea. Un modello di agricoltura libera dalle imposizioni e dalla chimica imposta dalle grandi multinazionali. È stata un’occasione mancata per l’Occidente? Un’opportunità sprecata per i contadini di ogni parte del mondo di “nutrire il Pianeta” e nel contempo difendere i territori dall’inquinamento e la salute dei cittadini? Le perplessità rispetto ai risultati di Expo sono quelle che ci aspettavamo sin dall’inizio. L’Expo è stato forse davvero l’occasione mancata per discutere del cibo e della nutrizione in modo innovativo su un palcoscenico globale, mentre hanno purtroppo prevalso gli interessi alla base della costruzione dei padaglioni, e ahimè, del cemento. Noi come Slow Food, nel contesto di Expo, siamo stati presenti con uno spazio espositivo nel quale incontrare i visitatori, ma soprattutto con quella che è la nostra idea di “Nutrire il pianeta”, ovvero con un’edizione straordinaria di Terra Madre, portando a Milano oltre duemila giovani contadini e produttori artigianali sotto i quarant’anni di età che in ogni parte del mondo cercano di produrre in armonia con la terra, con l’obiettivo di un futuro alimentare più sostenibile. Queste realtà esistono, e il nostro lavoro continuerà a essere quello di dare loro voce.

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L’enciclica Laudato Sì rappresenta un monito o un elenco di indicazioni da perseguire? Quali strumenti abbiamo per poterla mettere in pratica? L’enciclica “Laudato Si” è uno strumento politico di straordinaria potenza. Mai avrei pensato, da agnostico non credente, di arrivare a riporre tanta fiducia e speranza in un Papa, ma questo è un uomo e un leader davvero rivoluzionario. In questa enciclica vedo espressi chiaramente i valori su cui Slow Food e Terra Madre si fondano: il rispetto della casa comune e dell’umanità che la abita in primis. Francesco è un papa innovativo e molto amato, e, in particolare, molto amato anche dai non credenti. Rispetto alla sua figura però, dico spesso che “tutti amano il cantante, ma nessuno conosce la canzone”. Le idee rispetto alla cura del nostro pianeta e rispetto al fallimento di questa economia che letteralmente uccide dovrebbe infatti scuotere più profondamente tutte le nostre coscienze.


Multinazionali

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TTIP E OGM DI FRANCESCO PANIÉ

Negli ultimi venti anni le coltivazioni di OGM sono cresciute di 100 volte a livello globale. Ma per la prima volta dal 1996, nel 2015 la superficie seminata è diminuita. Lo certifica il rapporto dell’International Service for the Acquisition of Agri-Biotech Applications (ISAAA), nel quale si legge che, l’anno scorso, 179,7 milioni di ettari su tutto il pianeta sono stati coltivati con OGM. Nel 2014 erano 181,5.

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A livello europeo, il calo è ancora più sensibile, un vero e proprio crollo verticale del 18% anno su anno. La superficie totale dedicata al biotech nell’Unione è di 116.870 ettari, secondo i calcoli dell’ISAAA, e trova posto in 5 Paesi su 28: Spagna (con il 92% del totale), Portogallo, Romania, Slovacchia e Repubblica Ceca. L’Italia ha notificato alla Commissione europea, lo scorso anno, la richiesta di vietare la coltivazione di OGM sul proprio territorio. La stessa procedura è stata seguita da altri 18 Stati membri. Ma potrebbe essere tutto inutile se la Commissione europea decidesse di escludere le piante ingegnerizzate con metodi di recente sviluppo dalla regolamentazione comunitaria. Le moderne tecniche di gene-editing sono più precise di quelle utilizzate fino a qualche anno fa, in base alle quali era stata messa a punto la direttiva 2001/18/CE che regola gli OGM. Queste New Breeding Techniques (NBT), permettono la modifica diretta del materiale genetico delle piante in specifici punti del genoma. Il processo utilizza le nucleasi, enzimi soprannominati “forbici molecolari”. Come ha spiegato Greenpeace, questi enzimi sono in grado di «recidere il Dna in punti specifici e di innescare meccanismi di riparazione della pianta stessa, che comportano l’incorporazione nel genoma dei tratti desiderati». Tecniche che prevedono l’impiego di queste forbici molecolari includono la zinc finger nucleases (ZFNs)

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la transcription activator-like effector nucleases (TALENs), le meganucleasi (MN) e il sistema clustered regularly interspaced short palindromic repeat (CRISPR/Cas). Gli organismi che ne derivano, secondo le associazioni dell’industria, non possono essere distinti dai loro omologhi coltivati con tecniche convenzionali, dunque dovrebbero essere esentati dalla legislazione europea. I produttori spingono per la deregolamentazione al fine di aggirare il blocco comunitario alla coltivazione, e con esso i costi di etichettatura, tracciabilità e controllo. Entro l’inizio dell’anno ci si attendeva una opinione legale della Commissione europea, che avrebbe dovuto decretare se le NBT dovessero ricadere nel perimetro della direttiva. Tuttavia, nonostante fosse ormai completo, Bruxelles ha letteralmente insabbiato il documento dopo forti pressioni americane. Il veicolo per introdurre i nuovi OGM in Europa senza etichette né controlli potrebbe essere il TTIP, l’accordo sul commercio e gli investimenti che Unione europea e Stati Uniti stanno negoziando dal 2013 Le grandi imprese dei semi e dei pesticidi puntano molto sul trattato per aprire nuovi canali di business. Il 2 maggio scorso, Greenpeace Olanda ha ottenuto e diffuso 248 pagine segrete del TTIP, da cui l’opinione pubblica internazionale ha potuto scoprire il tentativo dei negoziatori


statunitensi di spalancare le porte del vecchio continente agli OGM. Washington chiede infatti di «sviluppare un approccio o una serie di approcci per gestire la presenza di basso livello» di colture geneticamente modificate, «così da ridurre le interruzioni non necessarie del commercio». La presenza di basso livello indica una quantità di piante o prodotti OGM approvata in un Paese, ma non nel Paese importatore. Per smussare queste differenze, gli Stati Uniti propongono che il TTIP istituisca un gruppo di lavoro sul commercio di prodotti biotech, presieduto da rappresentanti delle agenzie commerciali USA e Ue. Il team lavorerà per «risolvere le relative preoccupazioni» e facilitare lo scambio di informazioni in materia di leggi, regolamenti o politiche. Inoltre, gli Stati Uniti chiedono all’Unione di aderire alla Global Low Presence Initiative, un’iniziativa volta ad ottenere l’accettazione in tutto il mondo delle esportazioni agricole contenenti tracce di organismi geneticamente modificati. Gli USA vogliono anche la certezza che l’Ue «metta sul mercato e utilizzi nell’intero territorio» i prodotti senza ulteriori autorizzazioni. In questo modo, a nulla varrebbero i divieti a livello degli Stati membri previsti dalla normativa europea.

nei numeri precedenti

LA FACCIA SPORCA DEL TTIP numero 2 aprile 2016 / pagina 62

L’IMPERO DEI PESTICIDI

numero 2 aprile 2016 / pagina 64

CLIMA DI TENSIONE

numero 3 maggio 2016 / pagina 50

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SPIAGGE INQUINATE “Una discarica a cielo aperto”. È questo l’allarme lanciato da Legambiente nel report “Beach Litter”, indagine condotta suI litorali del nostro Paese. Le conchiglie sono scomparse. Trovano spazio soltanto migliaia di rifiuti da tappi di bottiglia a stoviglie usa e getta, dai classici mozziconi di sigarette ai cotton fioc. Una media di 714 rifiuti ogni 100 metri. I litorali monitorati sono 47 per un’area di 106.245 metri quadrati dove sono stati trovati 33.540 rifiuti. Il 32% di questi rifiuti è costituito da piccoli pezzi di plastica e polistirolo fino a 2,5 centimetri. Poi i cotton fioc (13,2%) per un totale di 4.412 pezzi, diretta conseguenza della scorretta abitudine di smaltire questi rifiuti gettandoli nel WC, nonché dell’inefficacia degli impianti di depurazione. www.centrometeoitaliano.it

DISRUZIONE RISORSE NATURALI Stiamo correndo verso il baratro, ancora non riusciamo a vedere effettivamente il precipizio, ma possiamo percepirlo, eppure non togliamo il piede dall’acceleratore. Stiamo prosciugando il pianeta delle sue risorse ad un ritmo talmente vorticoso da aver ormai superato la sua capacità di assorbire i danni inflitti. È quanto afferma un rapporto dell’Unep, il Programma ambiente dell’Onu, e dell’Organizzazione mondiale della sanità, presentato lo scorso 23 maggio a Nairobi. Il rapporto, lo studio ambientale più completo mai realizzato dalle Nazioni Unite, ha coinvolto 1.203 scienziati, centinaia di istituzioni scientifiche e oltre 160 governi ed è arrivato ad una conclusione logica e inoppugnabile: urge un’azione radicale per invertire questa tendenza. www.lifegate.it

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OILGATE, RICORSO DI ENI Eni, in merito al procedimento giudiziario relativo al centro olio di Viggiano, ha presentato ricorso in Cassazione in relazione alla decisione del Tribunale di Riesame di Potenza di conferma del sequestro dell’impianto e delle misure di custodia cautelare riguardanti cinque dipendenti della multinazionale di San Donato Milanese. Contemporaneamente la società ha presentato istanza di dissequestro sulla base dell’elaborazione di una nuova possibile soluzione operativa. In attesa di conoscere la soluzione tecnica prospettata da Eni - e di chi dovrebbe valutarne le condizioni di applicabilità - si apprende che in sede di sequestro era stato indicato possibile l’uso dell’impianto a condizione che l’acqua estratta non fosse più reiniettata nel pozzo e fosse altresì modificata la qualifica CER dei rifiuti risultanti dal processo produttivo. Soluzione che - come già spiegato dall’azienda - non risultava praticabile dal punto di vista industriale ed era incoerente con il quadro autorizzativo vigente per l’impianto. Eni - spiega in un comunicato - “ha continuato a studiare ipotesi di soluzioni alternative, individuando la possibilità di apportare una modifica all’impianto in grado di determinare la separazione della produzione di gas da quella di olio e permettere di continuare nella reiezione delle acque di strato, soluzione che non richiede variazioni dell’autorizzazione principale attualmente in essere.“ www.olambientalista.it

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È la stampa, online, bellezza!

FIUME SANTO, NIENTE CARBONE Il Gruppo energetico ceco EPH ha comunicato con una lettera inviata al Ministero dello Sviluppo economico la decisione di non procedere alla realizzazione di un nuovo gruppo termoelettrico a carbone, della capacità di 410 MW, nella Centrale di Fiume Santo (Sassari). La centrale, con una potenza netta installata di circa 600 MW, rappresenta già una delle più importanti realtà produttive della Sardegna nord-occidentale. Il progetto era stato presentato nel 2005 da Endesa, autorizzato nel 2010, e mai avviato. La decisione fa seguito ad un’approfondita valutazione che ha tenuto conto di vari fattori, tra i quali il drastico calo dei consumi di energia rispetto al passato che riguarda tutta l’Italia e l’abbandono dalla regione di numerose aziende che hanno delocalizzato i loro impianti. www.e-gazzette.it

TUTTI I VELENI DELLA CALABRIA Non ci sono particolari sorprese nei siti rilevati dal dossier Istisan relativamente alle zone che da tempo sono indicate come altamente inquinate. Parliamo delle già note Crotone, Cerchiaria e Cassano per le quali sono state scritte pagine e pagine di rapporti e di idee per la bonifica e che rappresentano il famoso Sito di interesse nazionale (SIN). Il dossier, individua, inoltre altri 18 definiti ad alto rischio dalla Regione Calabria. Di questi, 7 ricadono nella provincia di Cosenza, 2 nella provincia di Catanzaro, 8 nella provincia di Reggio Calabria e solo un sito nella provincia di Vibo Valentia. Dal cosentino e la valle dell’Oliva alla Piana e Vibo, dal catanzarese alla zona delle Serre, in cui – secondo un dossier del Sisde – è emersa l’ipotesi di un presunto traffico internazionale di scorie tossico-radioattive. Questa la preoccupante fotografia della Calabria. www.strill.it

LA CORTE BOCCIA LE REGIONI La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 110/2016, ha bocciato i ricorsi presentati dalle Regioni Calabria, Abruzzo, Marche e Puglia contro le norme relative alle autorizzazioni per i gasdotti, introdotte dal decreto “Sblocca Italia” (n.133 del 12 settembre 2014, convertito dalla legge n.164 dell’11 novembre 2014). Le Regioni ne contestavano la legittimità costituzional. L’art. 37, comma 1, dello “Sblocca Italia” attribuisce a tutte una serie di infrastrutture elencate la qualifica di “opere di interesse strategico”, cosa che comporta che di fatto possano essere autorizzate dallo Stato senza la preventiva intesa con le Regioni interessate. Tra le opere divenute strategiche, i gasdotti di importazione, i rigassificatori, gli stoccaggi di gas naturale e le infrastrutture della rete nazionale di trasporto del gas naturale. Le Regioni sostenevano che ciò non fosse costituzionalmente legittimo perché in contraddizione con gli artt. 117, terzo comma, 118, primo comma della Carta, nonché del principio di leale collaborazione. Secondo la Corte costituzionale “l’attribuzione del carattere di interesse strategico alle infrastrutture in questione

non determina alcuna modifica alle normative di settore né, di conseguenza alcuna deroga ai principi, elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte, in tema di chiamata in sussidiarietà e di necessaria partecipazione delle Regioni”. www.qualenergia.it

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Si ringrazia per la gentile concessione

Campagna ad inserzione gratuita


nei numeri precedenti

IL MIRAGGIO INDUSTRIALE numero 1 marzo 2016 / pagina 20

IL PETROLCHIMICO E LE MALFORMAZIONI numero 1 marzo 2016 / pagina 23

L’OMBRA DEL DISASTRO COLPOSO numero 2 aprile 2016 / pagina 28

RAFFINERIA VERDE, FUTURO NERO numero 3 maggio 2016 / pagina 44


Gela profonda


LA PIANA DI GELA E I RIF SENZA TRACCIA DI ROSARIO CAUCHI

A Gela, i decenni di ciclo produttivo ininterrotto da parte di Eni non hanno generato solo occupazione oggi lontano miraggio - ma anche e soprattutto camion colmi di rifiuti da smaltire. Cosa accadeva quando le norme ambientali e i protocolli per lo smaltimento degli scarti industriali erano ancora embrioni legislativi da valutare e verificare?

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A raccontarlo è Emilio Giudice, tra i responsabili locali della Lipu (Lega italiana protezione uccelli) che gestisce la Riserva naturale orientata Biviere, trasformata in discarica abusiva. Giudice, poco più di un anno fa - il 17 aprile 2015 - è stato ascoltato in audizione dai componenti della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali. Deputati e senatori arrivati in Sicilia per acquisire dati e sentire magistrati ed esponenti delle amministrazioni locali. Per Emilio Giudice, i rifiuti industriali e gli scarti della raffineria Eni sarebbero stati smaltiti illecitamente in diversi terreni della Piana di Gela. “Si ignora quindi dove si trovi tutto ciò che è uscito fuori dalla raffineria sino alla metà degli anni Novanta - ha spiegato davanti alla Commissione - ne sono prova le due discariche dell’ex ditta Cipolla che con altre aveva il monopolio con la raffineria, non solo su Gela, ma anche nella zona di Priolo, San Filippo del Mela e prendeva rifiuti anche tramite le navi che arrivavano ad Augusta. Questa ditta è fallita e ha lasciato due discariche nella zona di Gela, che erano le discariche autorizzate per rifiuti speciali non pericolosi e che oggi sono classificate pericolose e per le quali è in corso il progetto di caratterizzazione

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da parte del Ministero. La ditta, infatti, fallendo ha passato la palla allo Stato, per cui adesso la bonifica di questi siti è a carico dello Stato. Il responsabile tra l’altro è morto e il Ministero ha l’incombenza di dover fare le attività di caratterizzazione e bonifica. Una di queste due discariche si trova in piena zona agricola della piana di Gela, un’altra nella zona periferica nord delle aree industriali del territorio di Gela”. Le procedure di bonifica stentano a decollare I piani di caratterizzazione e finanziamento ministeriali riguardano quasi esclusivamente siti rientranti nei confini della zona industriale di Gela. Quella, insomma, legata al ciclo produttivo di Eni ed Enimed. Non a caso, è stato proprio Emilio Giudice - insieme agli altri esponenti della locale Lipu - a sollevare la questione e a presentare, di recente, una cartografia rivista del piano di bonifica. Cartografia presentata anche sui tavoli della Regione. “Siamo certi che alcuni siti di questo tipo - sottolinea - siano serviti proprio per smaltire rifiuti pericolosi mai finiti nelle discariche autorizzate. Per questo abbiamo chiesto che le bonifiche vengano effettuate in siti sensibili come, tra gli altri, quello dell’ex discarica della zona di Settefarine e in una


FIUTI cava che si trova a monte del Biviere. Non ci si può limitare ai soli siti autorizzati”. Le aree destinate alle trivellazioni Nella cartografia preparata dalla Lipu non mancano neanche quelle aree che sono state al centro di esplorazioni e trivellazioni da parte dei tecnici del gruppo Eni. “Ovviamente - continua Giudice - ci riferiamo non solo a quelle che, ancora oggi, ospitano pozzi attivi gestiti da Enimed ma soprattutto a siti che, una volta trivellati, non hanno comunque garantito risultati. In ogni caso, sono state al centro di attività pericolose sul piano soprattutto degli scarti prodotti”. Nel corso dell’audizione si ribadiva quanto sostenuto anche nei tavoli istituzionali, nel merito dei rapporti tra Eni e le aziende impegnate nel settore dello smaltimento dei rifiuti industriali. “Non era una prassi nascosta - si legge nel verbale ufficiale - e loro si difendevano dicendo che l’affidavano a una ditta che aveva le autorizzazioni per il trasporto di rifiuti speciali pericolosi, ma non le discariche, però all’epoca non c’era l’attuale sistema di controllo, era un controllo relativo, per cui una volta data alla ditta non si sapeva dove andasse a finire. Io stesso sono testimone di una denuncia fatta alla ditta

nel 1983-1984, quando ci fu uno dei primi processi a Gela sulla discarica. A quanto ho appreso da alcuni che vi hanno lavorato, loro scaricavano in funzione del tempo che impiegava il camion per andare a caricare, non si preoccupavano di andare in una discarica e scaricavano nel primo posto disponibile. Un altro episodio che conosco riguarda un’ex cava, perché la ditta Cipolla aveva anche un impianto di calcestruzzo e una cava di sabbia. Ha venduto questo terreno vicino alla cava di sabbia a privati, che mentre piantavano degli uliveti è uscito fuori del petrolio, per cui questa discarica fu oggetto di segnalazione ai carabinieri all’epoca, ma non sappiamo cosa sia accaduto dopo. Anche in contrada Piana del Signore e in un’altra area vicino al cimitero Farello di cui non sono testimone ma di cui ho visto le foto del proprietario, che mi ha fatto vedere le discariche presenti in quell’area”. Bilancio cupo A distanza di molti anni davanti ai componenti della Commissione parlamentare il responsabile della Lipu tira un bilancio piuttosto cupo. “Quarant’anni di smaltimento di rifiuti oggi non sono interessati dalle bonifiche, in quanto le bonifiche si stanno occupando di ciò che hanno trovato all’interno della raffineria dal 1999 in poi - continua-

no i verbali ufficiali - prima di quell’epoca i rifiuti sono attualmente dispersi, tranne queste due discariche di Cipolla che sono rientrate, però lo scenario era diverso per cui quelle discariche non facevano testo come luogo in cui scaricavano i prodotti, perché loro scaricavano anche in altri territori. Un’altra discarica nota a noi è sulla zona di Bulala, sulle dune, l’abbiamo trovata addirittura in combustione perché gli agricoltori per recuperare spazio per le serre le hanno dato fuoco e, una volta incendiata, è andata in pirolisi, in combustione in assenza di ossigeno sotto terra e ha continuato a bruciare per 4-5 anni, e poi ci hanno fatto le serre e i pomodori sopra. Adesso c’è una fortissima erosione marina che sta tirando via le dune, quindi anche questa discarica finirà a mare. Questa è la punta dell’iceberg di quello che era il sistema, oggi le bonifiche si occupano solo di quello che successivamente al 1999 si è accumulato come la discarica Isaf o altre grosse discariche che avevano all’interno alla raffineria mantenuto i rifiuti”. Ampliamento del sito di interesse nazionale Proprio negli ultimi giorni, i tecnici della Regione Sicilia hanno dato un primo via libera all’ampliamento del Sito d’interesse nazionale, sottoposto alle

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procedure di bonifica. “Nella cartografia - dice il vicesindaco di Gela, Simone Siciliano - vengono inseriti tutti gli oleodotti e i pozzi del gruppo Eni oltre alle aree che sono state al centro di attività di ricerca per eventuali nuovi campi estrattivi. A questo punto, posso dire che i tecnici della Regione hanno effettuato scelte ponderate che non mettono in discussione zone della città dove sarebbe oggettivamente molto difficile intervenire”. Fare chiarezza Emilio Giudice, però, chiede chiarezza rispetto a quanto deciso anche tra i tavoli della Regione. “Nel corso della conferenza dei servizi - afferma - l’amministrazione comunale si era impegnata ad effettuare i primi campionamenti nella zona del lungomare Federico II di Svevia dove era stato realizzato il primo impianto produttivo di Eni. Ci sono siti, oltre a questo, che vanno valutati. Spero solo che la giunta non si voglia tirare indietro”. Intanto, dalla Lipu si sta cercando di capire quale futuro attenderà la Riserva naturale orientata delle Biviere di Gela. “A parole i finanziamenti regionali dovrebbero essere garantiti fino a giugno. Cosa accadrà dopo è ancora difficile da comprendere. Una cosa è certa, lottiamo sempre con il budget e con un personale composto da tre operatori non riusciamo a fare tutto ciò che è necessario”. La Regione ha deciso di decurtare i fondi destinati alle riserve gestite dalle associazioni.

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Discarica nella Riserva delle Biviere Foto di Rosario Cauchi

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Rifiuti connection

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GUAZZABUGLIO ABRUZZESE DI ALESSIO DI FLORIO

La notte tra il 16 e il 17 febbraio 2006 un movimento franoso interessò la discarica “La Torre” di Teramo. In un’interrogazione presentata il 24 gennaio 2008, l’allora senatrice dei Verdi, Loredana De Petris, ha descritto le varie fasi dell’evento.

“Il collasso strutturale dell’impianto ha coinvolto l’intera massa dei rifiuti abbancata (mc. 450.000) ed il substrato geologico sottostante. La massa di rifiuti, mista a terra e percolato, è sprofondata sull’intero fronte dell’impianto, scavalcando l’argine di contenimento posto alla sua base e si è riversato nel laghetto sottostante invadendolo completamente, provocando la fuoriuscita di acqua e percolato verso il Fosso della Fece ed il Fosso Trentamano, affluenti del fiume Vomano, principale corso d’acqua della Provincia di Teramo”. In occasione del decennale del crollo, un locale comitato di cittadini ha attaccato la gestione post-evento della discarica, finita sotto inchiesta della magistratura. “Sono stati fatti pochi lavori ma molte chiacchiere”. Possiamo considerare quel giorno l’inizio di una mai risolta “emergenza rifiuti” abruzzese. La discarica “La Torre” era l’unico luogo dove l’intera provincia di Teramo poteva conferire i rifiuti prodotti e la sua chiusura costrinse a rivolgersi a siti fuori provincia. Fu scelta la discarica “Colle Cese” di Spoltore, in provincia di Pescara. Una sola discarica per due intere province ed un vero e proprio effetto domino: mentre l’allora presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco, ipotizzava - così come alcuni amministratori locali - la

realizzazione di inceneritori, il comandante del Corpo forestale dello stato, Guido Conti, denunciava pubblicamente che gli impianti regionali erano vicini alla totale saturazione. Con una percentuale di raccolta differenziata vicina al 18 percento. La provincia di Chieti e la crisi partita nel 2009 Per la gestione dei rifiuti nella provincia chietina, il 2009 è un anno nero, tra lo scaricabarile delle responsabilità tra gli enti locali e gravissimi ritardi autorizzativi. A chiudere fu la discarica Civeta di Cupello. Un ruolo decisivo, nel merito, fu assunto dall’Arta (Agenzia regionale per la tutela dell’ambiente) denunciando carenze gestionali. Il consorzio titolare venne accusato anche di gestione clientelare del personale, che avrebbe favorito anche un familiare di un amministratore pubblico). Una “vacca da mungere” per alcuni esponenti del locale partito della Rifondazione Comunista. Il 2011 iniziò con il rischio chiusura della discarica “Cerratina” di Lanciano, a causa del mancato rinnovo dell’autorizzazione provvisoria dell’impianto mobile di pre-trattamento. Secondo dichiarazioni pubbliche dell’epoca l’amministrazione del consorzio non sapeva che avrebbe dovuto chiedere un nuovo rinnovo. Negli stessi giorni l’Ordine degli ingegneri accusò di “gravi

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irregolarità nella procedura di evidenza pubblica” gli estensori del bando per la nomina dei nuovi amministratori del Cirsu, consorzio dei rifiuti del teramano. “Gravi irregolarità” seguite dal mancato pagamento degli stipendi ai dipendenti, da scioperi e dalle dimissioni del precedente Consiglio di amministrazione. Ma Lanciano non è solo discarica “Cerratina”. È anche l’attuale gestione della Ecolan, la società pubblica che gestisce la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti in un comprensorio di 53 Comuni. In tre anni la raccolta differenziata, in 11 Comuni (tra cui proprio Lanciano, il centro maggiore con oltre 35 mila abitanti), è vertiginosamente aumentata toccando la punta massima del 45,99 percento nel mese di aprile di quest’anno (gennaio 35,14 percento, febbraio 37,81 percento, marzo 37,19 percento). L’effetto domino si concretizzò l’11 marzo 2012 quando per la discarica “Colle Cese” di Spoltore arriva il “game over”. I pessimi risultati della raccolta differenziata - e l’aver dovuto subire il peso di due intere province - portarono alla chiusura anticipata dell’impianto. Per alcuni giorni, in diverse città, i rifiuti rimasero per strada. La stampa locale diede la notizia che - con un netto aggravio dei costi - “gli scarti derivati dal trattamento dei rifiuti del pescarese” furono conferiti in “discariche del Molise e dell’Emilia Romagna”. Un dato da segnare in rosso e mettere da parte, perché tornerà utile nella nostra cronistoria. Prima della chiusura, l’approvazione dell’ampliamento dell’impianto “Colle Cese” fu rinviato dalla Commissione regionale di Valutazione d’impatto ambientale, con 8 prescrizioni, alcune

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riguardanti i limiti da un corso d’acqua, la gestione delle acque piovane, le distanze da altri insediamenti. Adeguamento alla Direttiva europea 98 del 2008 e il decreto legge Sblocca Italia A giugno del 2013 la Regione Abruzzo avviò il processo di adeguamento alla Direttiva europea 98 del 2008 del Piano regionale di gestione dei rifiuti. La proposta fu formulata, una prima volta, cinque mesi dopo e rivista nell’ottobre del 2014. Un ritardo che costò l’avvio di una procedura d’infrazione. Il Piano nel 2013 prevedeva l’obiettivo della completa autosufficienza nel 2020, ma i risultati, ad oggi, non ci sono. Nel mezzo, il governo Renzi vara, il 12 settembre 2014 il decreto legge Sblocca Italia che riapre, anche per l’Abruzzo, la partita degli inceneritori. Alla fine di agosto del 2015 la Giunta regionale rende pubblica la sua opposizione sottolineando che la previsione di costruzione di un inceneritore in Abruzzo è in conflitto con quanto previsto dal redigendo Piano regionale dei rifiuti. Il 4 febbraio di quest’anno c’è un colpo di scena. Il presidente della Conferenza delle Regioni, Stefano Bonaccini, e il ministro all’Ambiente, Gian Luca Galletti, annunciano che il fronte delle Regioni favorevoli si è ampliato. Tra queste compare anche l’Abruzzo. Il sottosegretario alla Presidenza regionale con delega all’ambiente, Mario Mazzocca, in un comunicato ha afferma che il parere favorevole è alla “possibilità di utilizzare l’attuale capacità del termovalorizzatore attivo in Molise, che potrebbe accogliere le idonee e necessarie frazioni di rifiuto di entrambe le regioni”, non ad un nuovo inceneritore in Abruzzo. Il Molise però è già approdo di

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rifiuti abruzzesi. A chiudere il cerchio, infatti, è l’inceneritore di Pozzilli, in provincia di Isernia, di proprietà di Hera Ambiente. Un impianto al centro di proteste da parte di associazioni, comitati, sindacati e partiti politici che portarono l’anno scorso ad uno stop dell’ampliamento dell’inceneritore. Ma per un cartello di associazioni (Forum abruzzese dei movimenti per l’acqua pubblica, Pescara “Punto Zero, Comitato “No Inceneritore” in Val di Sangro, Collettivo “UallòUallà”, Zona22 e Nuovo Senso Civico) è un bluff. Il Governo ha previsto per l’Abruzzo una quota di 121.000 tonnellate annue di rifiuti da incenerire, basata sull’obiettivo di una raccolta differenziata al 65 percento, basata sull’attuale soglia abruzzese del 46 percento. L’inceneritore di Pozzilli è autorizzato per 93.500 tonnellate annue di cui 35.428 già impegnate a regime dalla quota molisana (anche in questo caso calcolata dando per scontato il raggiungimento dell’obiettivo del 65 percento, basata sull’attuale soglia molisana del 22,3 percento). Rimangono quindi scoperte 62.928 tonnellate all’anno da bruciare. Per le associazioni - che considerano la dichiarazione di strategicità di “preminente interesse nazionale” speculare ad un piano nazionale degli inceneritori sovraordinato ai piani regionali – le ipotesi di un nuovo inceneritore anche in Abruzzo non appaiono infondate. Sandro Di Scerni, esperto di progettazione e pianificazione del ciclo dei rifiuti, ci ha evidenziato che “oltre il 60% dei rifiuti prodotti nel 2012 (ultimi dati validati dalla Regione) è stato destinato alle discariche, appena il 16% è stato inviato agli impianti di compostaggio e


il 20% ai centri di smistamento degli imballaggi (altre due quote del 2% ciascuna corrispondono ai rifiuti elettrici/elettronici e ad altri scarti da destinare a un’impiantistica di smaltimento specifica)”. Questa carenza impiantistica porta al conferimento fuori Regione di rifiuti “in impianti localizzati in almeno 25 province oltre le 4 abruzzesi”. Nel dettaglio, ci riporta Di Scerni, “sul totale dei rifiuti prodotti, il 6% è stato esportato ma il dato è ben diverso se si fa riferimento ai rifiuti compostabili: il 21% di quanto raccolto ha lasciato le province abruzzesi per essere trasferito in altre 12, con distanze in taluni casi eccessive (si pensi ai 450 chilometri tra l’Abruzzo e Padova). Poco più dell’8% degli imballaggi, materiali completamente riciclabili, è stato trasferito oltre regione in altre 13 province fino a raggiungere Milano”. In questa situazione, sottolinea in conclusione Sandro Di Scerni, dal confronto tra il primo e il secondo “Rapporto Compost Abruzzo”, si evidenzia che “il numero degli impianti esistenti e previsti si è dimezzato” (da 14 a 7).

nei numeri precedenti

I RIFIUTI DIMENTICATI DI STATTE numero 1 marzo 2016 / pagina 11

SAN SAGO, UN FIUME DI PERCOLATO numero 2 aprile 2016 / pagina 18

IL CASO MARLANE

numero 3 maggio 2016 / pagina 32

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Il fiume Pescara e una parte del Sin di Bussi / Foto archivio Corpo Forestale dello Stato

I VELENI DI BUSSI 58

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DI AUGUSTO DE SANCTIS

In un paese civile, Bussi, 2500 abitanti - con la gola di Tremonti tra le montagne carsiche dell’Appennino e con i due fiumi, il Tirino e il Pescara, che vi si incontrano - sarebbe un luogo protetto. Un’area strategica per la vita, visto che vi scorre gran parte dell’acqua che dalle montagne va verso l’Adriatico. Enormi quantità passano in ogni istante attraverso un imbuto naturale, sia nei corsi superficiali, sia con il lento fluire delle falde. L’acqua sotterranea, quella che non si vede ma che costituisce la parte più consistente del patrimonio, ha purtroppo perso la sua purezza. Agli inizi del Novecento il sito fu individuato da una società franco-svizzera - poi Società italiana di elettrochimica - per l’installazione di una grande fabbrica di cloro, che sfruttava la copiosa presenza delle acque per la produzione di energia elettrica e, purtroppo, per ricevere gli scarichi degli impianti. Inizia così la storia tragica di uno dei poli chimici più grandi d’Italia, dove per decenni è stata

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tralasciata ogni precauzione nell’uso delle sostanze pericolose che vi si producevano. La Procura di Pescara, nel procedimento penale di cui daremo conto più avanti, ha accertato che fino agli anni Sessanta del secolo scorso le scorie venivano gettate tal quali nel fiume Tirino in enormi quantità, anche fino ad una tonnellata al giorno. Non deve quindi stupire che ancora oggi, a valle - a 50 km dal sito, alla foce del Pescara - vi siano grandi quantità di mercurio nei sedimenti del fiume. Così come nei capelli dei pescatori e negli scampi pescati nel mare antistante la città. A documentarlo due studi. [2009. Levels of total mercury in marine organisms from Adriatic Sea, Italy. Bulletin of Environmental Contamination and Toxicology, 83, 244-248 (Perugini M., Visciano P., Manera M., Zaccaroni A., Olivieri V., Amorena M.); Total mercury in fish from the Central Adriatic Sea in relation to levels found in the hair of fishermen.” Proceedings of 10th EAVPT International Congress where published by Blackwell Publishing as a Supplement of the Journal of Veterinary Pharmacology and Therapeutics, 29 Suppl. 1, 176-177 (Perugini M., Dorazio N., Manera M., Giannella B., Zaccaroni A., Zucchini M., Giammarino A., Riccioni G., Ficoneri C., Amorena M.)] Dalla chimica di basi alle armi chimiche Negli anni successivi all’apertura, nel polo industriale di Bussi sono state avviate produzioni molto diversificate, a partire dall’impianto clorosoda in cui venivano usate enormi quantità di mercurio. Negli anni Trenta l’azienda fu usata dal regime fascista per assicurarsi la produzione di sostanze per la guerra. Non solo

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esplosivi, ma armi chimiche. Pochi sanno che a Bussi veniva prodotta l’iprite, il gas mostarda che gli italiani usarono in Africa orientale per gasare ed uccidere migliaia di persone. A partire dagli anni Sessanta si aggiunse l’impianto per la produzione di piombo tetraetile, anti-detonante per le benzine. A Trento un impianto simile, la Sloi, è stato al centro di grandi lotte per la sicurezza dei lavoratori e di un approfondito lavoro di ricerca storica che, insieme ad inchieste giudiziarie, ha permesso di chiarire il gravissimo impatto delle produzioni sulla salute degli operai, che,

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Un momento del sequestro della discarica Tremonti Foto archivio CFS


per le allucinazioni causate dall’avvelenamento da piombo, impazzivano e si buttavano addirittura nel vuoto. A Bussi nulla. Sulla salute dei lavoratori ancora oggi ci sono solo le parole sfuggenti di storie che si ascoltano tra il pubblico durante le assemblee. Nessuna inchiesta, nessuna documentazione pubblica. Nulla. Se non tanta omertà. Parola che è risuonata nell’aula del processo in Corte d’assise, pronunciata dal pubblico ministero nella requisitoria. Sotto vario nome per quasi cento anni il polo chimico è rimasto nelle mani, sotto varie denominazioni, di un

unico gruppo industriale, quello della Montecatini-Montedison, la cui eredità è oggi riconducibile al gruppo Edison. Migliaia di lavoratori erano impegnati negli anni Settanta nell’azienda più grande dell’intera provincia di Pescara. In quei lunghi anni l’unica voce che irruppe nel silenzio generale fu quella di un medico, Giovanni Contratti, assessore democristiano del Comune di Pescara, uno dei pochi esseri umani, ancora oggi, ad aver dimostrato di avere la schiena dritta in questa vicenda. Preoccupato dei dati di contaminazione da mercurio riscontrata nei capelli dei

pescatori, chiese a gran voce con lettere ufficiali e articoli di stampa in cui attaccava l’azienda - di interrompere lo scarico delle scorie nel fiume Pescara. Cosa che riuscì ad ottenere nel 1972. Peccato che Montedison si limitò a sotterrarle a fianco del fiume Pescara, in quella che oggi è nota come una delle discariche di rifiuti tossici più grandi d’Europa, la discarica Tremonti. Oltre alle note interne in cui l’azienda dimostrava il suo fastidio per l’attività del politico, è emersa una straordinaria lettera dell’assessore che continuava a denunciare che sotterrare le peci clorurate rischiava di inquinare le falde e anche l’acquedotto: una vera e propria premonizione. Oggi a Pescara non c’è neanche una via dedicata al ricordo di questo amministratore che fece il suo dovere in anni dove erano agli albori le lotte per la tutela dell’ambiente e della salute in fabbrica. Nelle segrete stanze della Montedison, negli anni Novanta, oltre a parlare degli scandali della tangente Enimont, portati alla luce da Mani Pulite, si discuteva riservatamente della situazione di gravissimo inquinamento. Un rapporto interno del 1992 diceva chiaramente che a valle del polo chimico c’erano pozzi - inquinati con solventi clorurati - che davano acqua potabile a tutta la Valpescara, comprese le città di Chieti e Pescara. Nessun dirigente ebbe un sussulto di dignità pensando agli ignari cittadini, neonati, donne, malati, che ancora per lunghi anni, fino al 2007, avrebbero bevuto quell’acqua contaminata. La Solvay si autodenuncia La situazione di grave inquinamento dell’area industriale emerse solo nel 2004 quando la società Solvay - che nel 2001

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aveva rilevato il sito produttivo - si autodenunciò al Comune di Bussi come proprietario incolpevole della contaminazione avviando le procedure di messa in sicurezza. Quell’anno Solvay attivò nella parte meridionale del sito industriale un sistema di “pump and treat” per cercare di evitare la fuoriuscita dall’area industriale dei contaminanti. A fine 2015 questo sistema ha evidenziato ancora forti limiti, rivelandosi inefficace. In falda sono presenti cancerogeni con valori migliaia di volte superiori ai limiti di legge. Sempre nel 2004 l’Arta (Agenzia regionale per la tutela dell’ambiente) scoprì quello che Montedison sapeva fin dal 1992: i pozzi “S.Angelo”, posti 2 chilometri a valle del sito industriale, erano inquinati da tricloroetilene, tetracloroetilene, cloroformio, tetracloruro di carbonio, sostanze tossiche e, alcune di esse, sospette cancerogene. Ma gli enti decisero di non chiudere i pozzi inquinati e di non avvertire mezzo milione di persone che hanno continuato a bere ancora per tre anni quelle acque dal rubinetto di casa. Un caso clamoroso di omertà diffusa, dove nelle note della Regione si leggeva testualmente di mantenere il riserbo per evitare “inutili allarmismi nei cittadini interessati dal fenomeno di inquinamento in atto”. Ma la magistratura mette gli occhi sulla faccenda e l’indagine avviata nel 2007 arriva a processo. Conclusosi nel 2016 con la prescrizione. Ad essere coinvolti, a vario titolo, un medico della Asl responsabile di aver certificato la potabilità dell’acqua, i direttori dell’acquedotto, i presidenti dell’Ato e dell’acquedotto.

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Il caso esplode nel 2007 Si arriva al sequestro di alcune aree esterne al sito industriale, della discarica “Tremonti” sul fiume Pescara e delle discariche “2A e 2B” sulla sponda del fiume Tirino. La questione dei pozzi dell’acqua potabile inquinati emerge, però, solo grazie alle associazioni di cittadini e al Forum dei movimenti per l’acqua che con analisi private dimostrano la contaminazione ai rubinetti. L’agosto 2007 è senz’acqua per intere città. I movimenti - dopo essere stati tacciati di allarmismo - riescono a far chiudere i pozzi dimostrando che gli enti sapevano da tre anni e che avevano tenuto all’oscuro i cittadini. L’Istituto superiore di sanità con una durissima relazione depositata al processo nel 2013 ha confermato tutte le preoccupazioni dei cittadini sulla contaminazione dei pozzi, sostenendo che ben 700 mila persone sono entrate in contatto con sostanze pericolose. La Procura però non sequestra il sito industriale, nonostante i dati indichino che l’inquinamento esca anche da lì attraverso le falde. Vengono coinvolti una ventina di ex dirigenti della Montedison ma il processo di primo grado in Corte d’assise, dopo numerosi rinvii, si conclude nel 2014 escludendo il dolo con la prescrizione del reato di disastro ambientale colposo. Dopo alcuni mesi “Il Fatto Quotidiano”, con un vero e proprio scoop, fa emergere le testimonianze delle giurate della Corte d’assise che denunciavano pressioni sul verdetto che era stato annunciato addirittura venti giorni prima a diverse persone. Un fascicolo è stato aperto presso la Procura di Campobasso. Nel mentre la giustizia non fa giustizia. Dovrebbero andare avanti le procedure di bonifica

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sul campo. Nel 2008 una vasta zona comprendente sia il sito industriale, sia le discariche viene perimetrata come Sito nazionale per le bonifiche. Che passa sotto la competenza del ministero dell’Ambiente. In realtà il governo Berlusconi, nel 2006, quando non era ancora esploso pubblicamente il problema, aveva provveduto a Commissariare l’intero bacino dell’Aterno-Pescara per un’emergenza sociale ed ambientale, nominando Adriano Goio - ex sindaco democristiano di Trento - come commissario con pieni poteri. Il commissario dopo dieci anni


muore a 79 anni, non avendo bonificato nulla. L’Arta certifica l’inquinamento Sostanze cancerogene oltre i limiti di legge. A certificarlo è l’Arta nel 2015. L’inquinamento continua a fuoriuscire attraverso la falda da tutte e tre le principali aree del Sito d’interessa nazionale di Bussi: area industriale, discariche “2A e 2B”, discarica Tremonti. In assenza - ormai da ben 12 anni - di un piano di bonifica approvato per le diverse aree è difficile quantificare il costo della bonifica integrale di decine di ettari di territorio

Il fiume Tirino all’uscita dell’area industriale Foto di Augusto De Sanctis

contaminato e milioni di metri cubi di terreno contaminato. Ma si parla di alcune centinaia di milioni di euro. Questo è l’ordine di grandezza delle somme in gioco che potrebbero gravare sulle casse dello Stato qualora non sia individuato il cosiddetto “responsabile della contaminazione”. Infatti, al di là delle tristi vicende giudiziarie, vige il principio “chi inquina paga”, per cui gli enti devono assicurare l’individuazione dell’inquinatore che deve sostenere i costi delle bonifiche. A cinque anni di distanza dalla perimetrazione del Sin, nel 2013 - e solo per le due aree di disca-

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rica - il direttore del ministero dell’Ambiente, Maurizio Pernice, ha individuato in Edison il responsabile dell’inquinamento. Peccato che l’abbia fatto sulla base di una legge ormai abrogata. Il provvedimento (prot.n. 47512/TRI del 9 settembre 2013), infatti, era fondato sui commi da 24 a 33 dell’art.3 della legge n.549 del 1995 (Finanziaria 1996). Il Consiglio di Stato nel 2015 annulla il provvedimento per vizio di forma. Per le altre aree a valle, incluse nel Sito nazionale di bonifica tuttora non vi sono i risultati dei relativi Piani di caratterizzazione la cui esecuzione è in ritardo di almeno otto anni. Sorprende che per il sito industriale si continui a parlare esclusivamente di “messa in sicurezza operativa” e non si sia obbligato il responsabile della contaminazione ad avviare i lavori di bonifica almeno nelle aree all’interno del sito non più coinvolte nel processo produttivo che, attualmente, è del tutto marginale visto che Solvay ha progressivamente chiuso molti impianti con ripercussioni sulle maestranze. L’area industriale risulta per larghe porzioni dismessa per cui la bonifica potrebbe essere svolta per lotti. Per alcuni di questi si è proposta la cosiddetta reindustrializzazione. A tal proposito, i primi accenni risalgono alle Conferenze dei servizi del marzo 2007. Il presidente della Provincia di Pescara, Giuseppe Aldo De Dominicis - tra l’altro originario proprio di Bussi - e l’allora assessore comunale all’Ambiente, Salvatore Lagatta - oggi primo cittadino di Bussi - chiedevano, inopinatamente di evitare l’inclusione dell’area industriale nel Sito d’interesse nazionale. Da allora sono passati ben nove anni e non c’è traccia di alcuna reindustrializzazione e, soprat-

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tutto, di alcuna bonifica, se non per qualche hotspot. Il sindaco Lagatta, ha addirittura proposto di far acquisire dal Comune, a titolo gratuito, il sito industriale inquinato. Una proposta folle, come definita dai comitati locali. Perché gli enti non hanno promosso la bonifica delle aree non più occupate dalle attività industriali, dove i terreni sono contaminati fino ad una profondità di 10 metri per ridurre progressivamente l’apporto di inquinanti in falda? Non esistono i principi della Direttiva 60/2000 “Acque” che qui appaiono clamorosamente violati? Il Decreto legislativo152/2006 “Testo unico dell’ambiente” prevede, infatti, la bonifica delle aree come finalità primaria. La cosiddetta “messa in sicurezza operativa” è riferibile esclusivamente alle aree occupate da attività in corso o quelle da occupare in un lasso di tempo tale che da non permettere nell’immediatezza una bonifica. Siamo di fronte al tentativo di ritardare o evitare l’attuazione degli obblighi di bonifica, con ovvi benefici per il responsabile della contaminazione e gravissime conseguenze sull’ambiente, considerando il persistente flusso di inquinanti verso valle?

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Meridiano

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Sud e cinema

SEDOTTA E ABBANDONATA DI DOMENICO D’AMBROSIO Molto spesso verrebbe da dire che il cinema italiano ha dato il meglio di sé quando ha saputo fare un’analisi della società contemporanea con i toni della commedia. Dalla fine degli anni Cinquanta fino agli inizi degli anni Settanta, in particolare, il genere della commedia - interpretato secondo la nostra sensibilità - ha dato vita ad un genere cinematografico vero e proprio, quello definito, appunto, “Commedia all’italiana”. Tra i grandi registi che hanno trovato modo di esprimere la propria creatività all’interno di questo genere c’è Pietro Germi, cineasta anomalo e complesso, che ha riscosso in vita meno successo di quanto avrebbe meritato. Nel 1964, dopo il successo ottenuto con il film Divorzio all’italiana realizzò una deliziosa commedia: Sedotta e abbandonata. Nel corso di un pomeriggio di una calda estate siciliana, i membri della famiglia Ascalone dormono per fronteggiare la calura. Gli unici svegli sono Peppino Califano, fidanzato di Matilde, e la sorella di quest’ultima, Agnese. Tra i due esplode la passione, anche perché Agnese è segretamente innamorata di Peppino, che approfitta della debolezza della giovane per concupirla. Dell’accaduto la famiglia si ac-

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corge nei giorni successivi e la notizia è un colpo soprattutto per il padre Vincenzo Ascalone, vero e proprio pater familias legato ai principi dell’onore della famiglia, che riuscirà - dopo una serie di alterne vicende - ad ottenere il matrimonio riparatore di Peppino con sua figlia Agnese. Ciò che più conta nel film, però, non sono né la godibilissima trama né le interpretazioni azzeccatissime di una serie di attori e caratteristi di primo livello, ma l’analisi lucida ed impietosa che il regista svolge sui costumi siciliani (in parte condivisi dall’intera Italia meridionale all’epoca). Lo sguardo è impietoso e mette in luce l’ipocrisia dei costumi locali (soprattutto il grottesco senso dell’onore che sembra dominare le scelte degli abitanti del posto) e l’assurdità della legislazione italiana dell’epoca, in cui il matrimonio veniva considerato elemento capace di porre rimedio ad alcuni reati. La figura che giganteggia nel film è quella del padre, interpretato magnificamente da Saro Urzì, che non esita ad immolare sull’altare dell’onore familiare la felicità delle proprie figlie, il futuro del genero Peppino (che sarà costretto a vivere accanto ad una donna che lo amava ma ha finito per disprezzarlo per la

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sua vigliaccheria) ed alla fine anche la propria vita. I tempi sono cambiati, e dalla realizzazione di questo capolavoro sono trascorsi oltre cinquant’anni. Eppure, siamo sicuri che quella Sicilia, quel Sud in cui le apparenze contano più della realtà ed in cui occorre a tutti i costi tutelare alcuni “valori” ritenuti fondamentali siano totalmente “altri” rispetto alla Sicilia ed al Sud contemporanei?


Libri

Foto

L’ANNO DEL DRAGONE

RITRATTO

DI DOMENICO LAMBOGLIA

CONGO 2012

Il mondo è dei coraggiosi. È di chi mette da parte tutte le paure perché vede solo opportunità. È questa l’estrema sintesi del romanzo autobiografico di Mario Volpe, L’Anno del Dragone (Oxiana edizioni, ottobre 2015). Volpe racconta la storia di un imprenditore pioniere e del figlio che lo segue nei suoi viaggi esplorativi di una nazione, della sua cultura e del suo mercato. Il romanzo si apre con un rammarico, quello di aver bruciato il passaporto, ovvero l’aver rifiutato inizialmente di viaggiare, quindi di non accettare in toto il “viaggio” della propria vita. Spesso tra le righe si percepisce chiaramente la nostalgia per il padre scomparso nel 2009, e per quel mondo che aveva scoperto grazie a lui. Una nostalgia che affiora nelle descrizioni dei viaggi in aereo e dei personaggi incontrati. Lo fa affidandosi alla verità, essa stessa romanzo. L’autore intreccia nostalgia e ammirazione per il proprio genitore. Un indomito Dragone che combatte quotidianamente contro la malattia: il morbo di Von Willebrand. L’intuito imprenditoriale, il coraggio e la sua voglia di vivere sono il leitmotiv del libro. Così come le trasformazioni della Cina con l’avvento del capitalismo: la cronaca imparziale di un’abnorme massa di credenti

convertitasi subitaneamente al dio denaro. Ci parla dell’evoluzione del mercato e delle dinamiche commerciali. Di come la tecnologia abbia semplificato il suo lavoro. Ci parla dei rapporti interpersonali e di quanto siano fondamentali per chi si occupa di commercio. Delle colazioni, dei pranzi e delle cene di lavoro. “Ogni rapporto e relazione umana che lasci un segno nella propria vita passa, a mio avviso, attraverso un convivio”. Il viaggiatore è ricco e la vera ricchezza non sta nel possedere denaro o cose. È nella conoscenza dell’altro e della sua cultura. È nell’avere una mente aperta che ti permette di capire i giusti insegnamenti. “Claudio, sottoposto come misura estrema ad un trapianto epatico a Torino, si spegne nel febbraio del 2009 nella città della Sindone, proprio dove aveva iniziato il suo successo commerciale. Il Dragone rientra, in aereo a Napoli, accompagnato dalla sua famiglia, lasciando la sua anima nella sua seconda casa: la Cina”.

Uguaglianza (Treccani): “La condizione per cui ogni individuo o collettività devono essere considerati alla stessa stregua di tutti gli altri, e cioè pari, uguali, soprattutto nei diritti politici, sociali ed economici.” Gianmario Pugliese in quarta di copertina

Titolo: L’Anno del Dragone Autore: Mario Volpe Editore: Oxiana Pagine: 216 Anno: 2015 Prezzo: 14,00 €

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DI GIANMARIO PUGLIESE


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