REGOLAMENTO Art.1 – La coop. soc. Se.Po.Fa’ onlus, con sede a Napoli, indìce la I edizione del Concorso Letterario Nazionale per racconti inediti “Radici Emergenti”. Il Concorso si propone di incentivare la diffusione dell’Arte della scrittura e del racconto, favorendo gli autori meritevoli che non hanno ancora conosciuto la notorietà presso il grande pubblico. Il Concorso è aperto a tutti e a tutte le età (anche i minorenni possono partecipare, in caso di qualificazione come finalista è necessario la presenza di uno dei genitori per il ritiro del premio). L’iscrizione al concorso è gratuita. L’iniziativa ha lo scopo di promuovere e stimolare la scoperta di nuovi talenti, invitandoli ad affrontare la tematica delle radici, del loro essere ben piantate nel terreno, da cui prendono il sostentamento quotidiano, ma allo stesso tempo il loro spingere verso l’alto, della difesa del territorio e dell’ambiente, tematiche di cui si fa promotrice la coop. soc. Se.Po.Fà. Art.2 - Il concorso prevede la sola sezione di “Racconti” e si fa riferimento al seguente regolamento: Il Tema: le radici, lo slancio verso l’alto, la cura del territorio. Ogni singolo racconto non dovrà superare la lunghezza massima di 6000 battute, spazi bianchi compresi. La formattazione è libera. Il tema è: “Radici Emergenti”, nel senso specificato nell’art.1. Art.3 – L’opera e la scheda di partecipazione dovranno essere spediti per mezzo posta elettronica, in un unico messaggio, all’indirizzo e-mail coop.sepofa@gmail.com entro e non oltre le ore 24 del 15 maggio 2016 (farà fede l’ora di ricezione della e-mail). Art.4 - Le opere che partecipano al Concorso devono essere inedite, pena l’esclusione. Per inedite s’intende mai pubblicate sia in forma cartacea sia in forma digitale (ebook o su Internet) fino alla data dell’annuncio dei finalisti. Art.5 – I finalisti (min. 10 max. 20), saranno selezionati da una giuria di qualità composta da personalità del mondo della letteratura e dell’informazione di settore e cioè: Pino Imperatore – Presidente di Giuria, scrittore Iris Corberi – Direttrice BioEcoGeo, giornalista Pietro Dommarco - Direttore “Terre di Frontiera”, giornalista e scrittore Giuliano Pavone – scrittore Pino Sassano – scrittore
I premi saranno così distribuiti: Tutti i finalisti scelti (min. 10 max. 20) vedranno la propria opera pubblicata nella raccolta “Radici Emergenti”, con uscita ottobre 2016, sia in formato cartaceo che elettronico (e-book) edita dalla casa editrice Infinito Edizioni, partner della coop. soc. Se.Po. Fà. L’ente promotore del concorso provvederà, poi, alla promozione del libro su territorio nazionale. I Premi 1° Classificato: pubblicazione dell’opera sulla rivista di settore “Bio Eco Geo”, partner della coop. soc. Se.Po.Fà, 5 copie del libro “Radici Emergenti” e una targa premio del concorso; 2° Classificato: 4 copie del libro “Radici Emergenti” e una targa premio del concorso 3 Classificato: 3 copie del libro “Radici Emergenti” e una targa premio del concorso 4° Classificato: 2 copie del libro “Radici Emergenti” 5° Classificato: 1 copia del libro “Radici Emergenti” Premio Menzione Speciale “Terre di frontiera”, per l’opera che meglio rappresenta i valori e lo spirito del progetto editoriale “Terre di frontiera”, partner della coop. soc. Se.Po.Fà, con pubblicazione dell’opera scelta sulla rivista on-line “Terre di frontiera”, e targa premio. Art.6 - I finalisti saranno informati della decisione della giuria almeno venti giorni prima della Serata di Gala di premiazione “Radici Emergenti”, in programma nel mese di ottobre 2016, in concomitanza dell’uscita del libro. In caso di rinuncia o di altri impedimenti, anche per cause non imputabili agli stessi finalisti, è prevista l’esclusione. Art.7 - Il materiale inviato non verrà restituito. Art.8 - La casa Editrice Infinito Edizioni, partner della Coop.Soc. Se.Po.Fà, provvederà alla pubblicazione delle opere premiate in formato cartaceo ed elettronico (ebook). Art.9 – I partecipanti al concorso cederanno i diritti d’autore per l’antologia a titolo gratuito alla coop. soc. Se.Po.Fà, che si farà carico delle spese di edizione con il marchio Infinito Edizioni.
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l’editoriale
l’isola del quorum di Pietro Dommarco Il referendum del 17 aprile sulla durata delle concessioni di coltivazione di
idrocarburi a mare, entro le 12 miglia dalla costa, si è concluso con un nulla di
fatto. Solo il 32,15 percento degli aventi diritto al voto si sono recati alle urne, di cui l’85,84 percento ha votato Sì ed il 14,16 percento ha votato No. Il resto schede bianche (0,66 percento) e schede nulle (1,06 percento). Quorum, pertanto, non raggiunto. L’unica regione italiana ad aver superato la soglia del 50 percento +1 è stata la Basilicata, con il 50,16 percento (96,40 percento di Sì). Una vera e propria “isola del quorum”, in cui la ventennale attività di estrazione di greggio - dal più
grande giacimento in terraferma d’Europa - ha forgiato, nel tempo, una coscienza critica (seppur in ritardo). Anche rispetto agli impatti su ambiente, salute ed
economie locali. Sul dato dell’affluenza in Basilicata - così come su quello della città di Taranto (42,51 percento) e dell’intera provincia (41,74 percento), di poco
superiori alla media regionale (41,65 percento) - ha influito il clamore mediatico suscitato dall’inchiesta della Procura di Potenza che ha coinvolto i progetti di Eni (Centro olio di Viggiano) e Total (Tempa Rossa), in Basilicata e Puglia.
Ed è proprio su questo abbiamo costruito il nostro speciale, cercando di raccontare - mettendo da parte i numeri referendari - cosa accade in queste “isole”. Passando per quelle dinamiche e quegli sviluppi che per anni le hanno estromesse dalla cronaca nazionale, relegandole in una dimensione locale regolata da norme proprie, in cui l’attivismo di pochi e storici comitati locali ha pagato il prezzo dell’emarginazione di lotta condotta su altri fronti.
Abbiamo costruito il nostro racconto tenendo conto della strada tracciata dagli inquirenti. Né più né meno. Citando i documenti in nostro possesso. Consapevoli che le misure di custodia cautelare e le ipotesi di reato non rappresentano condanne definitive non potevamo esimerci da una ricostruzione dei fatti.
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Non smettere mai di scrivere perché non ti viene più in mente nulla Walter Benjamin
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in questo numero
8-28 32 44 50 52
In copertina
L’isola del quorum
Rifiuti connection
IL CASO MARLANE Gela profonda
RAFFINERIA VERDE, FUTURO NERO Multinazionali
CLIMA DI TENSIONE
58 60 64
Panorami
IL PARCO DELLA PACE Panorami
IL CAMMINO SILENZIOSO Orientamenti
SARAS AL CONSIGLIO DI STATO
Multinazionali
PROCESSO AL M(U)OSTRO
Meridiano
70
RIACE E I LUOGHI DELL’ANIMA
71
SUD E CINEMA
72
CONOSCERE PER DELIBERARE
74
LA FOTO DEL MESE
40-41 È LA STAMPA, ONLINE, BELLEZZA!
Direttore responsabile Pietro Dommarco
mensile indipendente
numero 3 anno 1 / maggio 2016
Un progetto di Associazione Culturale Ossopensante Codice Fiscale 97870810583 Sede legale: Via Montello 30 - 00195 Roma www.ossopensante.org Terre di Frontiera Testata registrata il 23 dicembre 2015 al n.359 del registro della Stampa del Tribunale di Milano www.terredifrontiera.info
Hanno collaborato Emma Barbaro, Antonio Bavusi, Rosario Cauchi, Francesco Cirillo, Alessio Di Florio, Roberta Dommarco, Domenico D’Ambrosio, Domenico Lamboglia, Vito L’Erario, Francesco Panié, Andrea Polizzo, Vincenzo Portoghese, Gianmario Pugliese, Andrea Spartaco, Daniela Spera, Simone Valitutto Copertina e impaginazione Ossopensante Lab
Contatti redazione@terredifrontiera.info Twitter @terre_frontiera
Si ringrazia per la gentile concessione
Campagna ad inserzione gratuita
Oilgate
TEMPA ROSSA, STORIA DI ORDINARI FAVORI DI DANIELA SPERA / twitter @Spera_Daniela
Il caso mediatico Tempa Rossa, portato alla ribalta nazionale dall’inchiesta della Procura di Potenza sul petrolio lucano, si inserisce nel contesto del nuovo progetto petrolifero il cui iter autorizzativo coinvolge due regioni: la Basilicata e la Puglia, nelle rispettive zone di Corleto Perticara, nella valle del Sauro, e Taranto, nell’area portuale
Stop Tempa Rossa / Foto di Maurizio Greco
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Terre di Frontiera / anno 1 numero 3 - maggio 2016 / www.terredifrontiera.info
#oilgate #raccontifossili #stoptemparossa #puglia
Il progetto Tempa Rossa è rimbalzato sui grandi media nazionali - diventando oggetto di dibattiti televisivi - dopo quanto rivelato da alcune intercettazioni telefoniche che hanno coinvolto Gianluca Gemelli - compagno dell’ex ministro allo Sviluppo economico, Federica Guidi, e il dirigente Total, Giuseppe Cobianchi. Gemelli, dietro suggerimento di Cobianchi si è impegnato a far appro“approvare un vare un emendamento emendamento finalizzato a sbloccare finalizzato a le procedure autorizzasbloccare le tive del progetto. Come procedure da noi raccontato nel autorizzative” precedente numero (Terre di Frontiera, n.2 aprile 2016).
riguarda Taranto: trasporto, stoccaggio e opere accessorie ai terminali costieri. Non solo, ma in esso si specificava al punto b) ‘dopo il comma 3’ , al 3-bis e al 3-ter, che anche per queste opere si applicava la facoltà, da parte del governo, di autorizzare in via definitiva il progetto in caso di mancata intesa con le regioni interessate. L’emendamento andava a colmare il vuoto normativo presente nel Decreto n.133 del 12 settembre 2014 - convertito con modificazioni dalla Legge n.164 dell’11 novembre 2014 - noto come “Sblocca Italia”.
All’art. 2 dopo il comma 223 aggiungere i seguenti: Al fine di semplificare la realizzazione di opere strumentali alle infrastrutture energetiche strategiche e di promuovere i relativi investimenti e le connesse ricadute anche in termini occupazionali, all’articolo 57 del decreto legge 9 febbraio 2012 numero 5, convertito con modificazioni dalla legge 4 aprile 2012, numero 35 sono apportate le seguenti modificazioni: a) al comma 2, dopo le parole ‘per le infrastrutture e insediamenti strategici di cui al comma 1’ sono aggiunte le parole ‘nonché per le opere necessarie al trasporto allo stoccaggio al trasferimento degli idrocarburi in raffineria alle opere accessorie ai terminali costieri e alle infrastrutture portuali strumentali allo sfruttamento di titoli concessori esistenti comprese quelle localizzate al di fuori del perimetro delle concessioni di coltivazione’ e dopo la parola ‘autorizzazione’ sono aggiunte le seguenti: ‘incluse quelle’.
La delibera comunale Perché questa fretta? E cosa stava accadendo a Taranto? La forte pressione esercitata dai movimenti locali contrari al progetto Tempa Rossa aveva indotto il Comune di Taranto, il 5 novembre 2014, a votare una Delibera (n.123) con la quale, in sostanza, si vietava il prolungamento del pontile Eni, utile all’attracco delle petroliere. Nell’ambito dell’approvazione del piano regolatore portuale veniva esclusa tale opera. Il Comune di Taranto, tuttavia, andava oltre l’esclusione del prolungamento del pontile, inserendo anche il divieto a costruire i due serbatoi, utili allo stoccaggio del greggio, che non rientravano nel perimetro di competenza del porto di Taranto, ma in un’area di competenza dell’Eni, “il Comune essendo previsti all’indi Taranto terno del parco serbasi pronuncia toi di sua proprietà, in in merito prossimità della raffinead una serie ria. Non solo, il Comune stabiliva nella Delibera, di divieti” in maniera unilaterale, la revisione dell’Atto di intesa Città-Porto. E, infatti, in variante allo strumento urbanistico vigente, adottava il nuovo piano regolatore del porto ‘con esclusione delle opere che interessano gli interventi Tempa Rossa con conseguente revisione dell’Atto d’intesa Città-Porto di cui alla delibera di C.S. n. 116/06 perfezionato con delibera di C.C. n. 41/07’.
Ed è questo il passaggio che si riferisce proprio al progetto Tempa Rossa, nella parte che
A questo punto Cobianchi si attiva: “So che il ministro in prima persona si è adoperato
Cerchiamo di capire il contenuto della norma in questione, proposta nel dicembre del 2014 (modifica n.2.9818 al DDL n.1698/2014) ed inserita nella Legge n.190 del 23 dicembre 2014 (Legge di Stabilità 2015).
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nelle settimane scorse con la regione Puglia per cercare di promuovere questo incontro, che sarebbe stato importante […] Purtroppo da quello che so la regione Puglia non ha dato una disponibilità a questa roba, per motivi politici sostanzialmente, da quello che ho capito (imminenti elezioni regionali, ndr), quindi adesso si cercherà di far passare nella legge di Stabilità un po’ quello che è necessario far passare […] ovviamente c’è tutta una serie di iniziative che con […] si sta cercando di portare avanti anche sul piano, mi lasci dire, giuridico nei confronti delle delibere che sono state prese al comune di Taranto.’’ I ricorsi e il conseguente emendamento E quelle azioni legali, infatti, non tardano ad arrivare. A farci comprendere gli interessi in ballo è la varietà dei soggetti coinvolti. A presentare ricorso, accanto alle società petrolifere Eni, Total Italia, Shell Italia, Mitsui Italia, figurano anche il Comandante Gennaro Cimaglia, capo pilota del Porto di Taranto in quiescenza, Valentino Gennarini, amministratore dell’agenzia marittima Società Nicola Girone srl, l’avvocato Lara Polidori, il chimico Ugo Vit-
Stop Tempa Rossa, il porto ai tarantini / Foto di Maurizio Greco
torio Carone e la ‘Fondazione Taranto Onlus’. Ecco le motivazioni che accompagnano la ri10
chiesta di annullamento al Tar Puglia di Lecce: ‘Incompetenza, eccesso di potere in tutte le figure sintomatiche, in particolare, sviamento, difetto assoluto di istruttoria, mancanza di contraddittorio procedimentale, difetto di motivazione, travisamento dei fatti e dei presupposti, illogicità manifesta contraddittorietà inter“Eni, Total, na ed esterna’. Un gioco Shell, Mitsui, da ragazzi. Già, perché il capo pilota nel 2011 lo stesso Codel Porto di mune di Taranto aveva Taranto fanno espresso parere favoricorso” revole di compatibilità ambientale al progetto e, ancora prima, un’altra Giunta aveva incluso nel piano regolatore portuale il prolungamento del pontile. Ma c’è il timore che questo non basti a sbloccare il progetto. Nelle osservazioni fornite da Eni si legge: ‘Le società attraverso i rispettivi rappresentanti […] propongono le loro osservazioni a tutela del ‘pubblico interesse’ quanto al contenuto della delibera di Consiglio Comunale n. 123 del 5 novembre 2014 nella parte in cui si dispone l’esclusione delle opere che interessano gli interventi ‘Tempa Rossa’ (prolungamento del pontile petroli, serbatoi ed ogni altra opera relativa). Ritengono le società che la formulazione delle osservazioni presentate ed argomentate, corrisponde al pubblico interesse perché ad esse è affidata la realizzazione del progetto di sviluppo del giacimento di idrocarburi denominato Tempa Rossa qualificato come infrastruttura strategica di preminente interesse nazionale ai sensi della legge 21/2001 numero 443 (cosiddetta ‘legge obiettivo’) il quale ha già ricevuto in sede preliminare definitiva la necessaria approvazione da parte del Comitato interministeriale’. Ma la Legge Obiettivo si riferisce solo ai pozzi in
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Basilicata e non comprende le opere connesse al trasporto, stoccaggio ed export via mare. Ecco che qualcuno provvede tempestivamente a colmare questo vuoto normativo e Gemelli lo conferma con un sms a Cobianchi (dirigente Total): “Buonasera Dott. Cobianchi, Le confermo che Tempa Rossa è stata definitivamente inserita come emendamento del governo nella legge di Stabilità. Buon we. Gianluca”. L’emendamento aveva dunque lo scopo di dare valenza di ‘pubblica utilità’ e ‘strategicità’ a quella parte ‘dimenticata’ del progetto, al quale poteva in questo modo applicarsi la legge ‘Sblocca Italia’ Si tratta, in realtà, di una vera e propria forzatura. La ‘pubblica utilità’ non è giustificata da un aumento di soli 24 posti di lavoro al porto di Taranto, escludendo la fase di cantiere di due anni, mentre la ‘strategicità’ non ha ragione di esistere, dal momento che il greggio ‘Tempa Rossa’ non coprirà il fabbisogno nazionale ma sarà esportato all’estero. Questa parte del progetto è però di vitale importanza, come anche si evince dalla relazione del P.M.:’Il Gemelli si manifesterà propositivo nell’assicurare al Cobianchi Giuseppe della Total interessamento della propria compagna ovvero del ministro Guidi affinché quell’emendamento, foriero di ricadute assolutamente favorevoli per le attività della Total, e di rimando anche per le proprie attività imprenditoriali, potesse ricevere approvazione’. Gemelli fa capo alla “Ponterosso Engineering“ che aveva subito ottenuto l’inserimento nella bidder list per partecipare a una gara indetta da Total nel settore ingegneristico. Risultato ottenuto in seguito ‘al considerevole peso specifico rivestito da Gemelli, non in quanto tale, ma in quanto soggetto dotato di significativa contiguità rispetto a quegli ambienti governativi aventi competenza istituzionale nella soluzione di problematiche che stavano a cuore alla Total’, scrive il pm. I comitati non si arrendono Sebbene si tratti di una triste pagina della storia della politica italiana, gli eventi hanno segnato un momento storico per Taranto. Quanto fatto emergere dalla magistratura
di Potenza dimostra, ancora una volta, che il lavoro, spesso silenzioso, dei comitati locali è temuto e induce chi ha le redini del potere a compiere passi falsi. Si legge nella relazione del pm: ‘’Al contempo Cobianchi si soffermava ad illustrare le difficoltà che la Total riscontrava nel portare avanti il progetto soprattutto in riferimento alla questione ‘Taranto’: ‘è un grosso motivo di preoccupazione […] per questo progetto […] è quello che sta succedendo a Taranto […] lì l’opinione pubblica è in buona parte contraria’’ […]’’a parte la Basilicata, lei sa, c’è una parte importante del progetto che si sviluppa a Taranto […] e lì la situazione è anche abbastanza complessa, diciamo, quindi […] stiamo cercando. Vediamo speriamo bene. So che anche a livello centrale con i ministeri, insomma i colleghi di Roma hanno dei contatti continui, frequenti, quindi mi auguro che quello che viene dichiarato a livello governativo poi possa trovare appli“la battaglia cazione insomma […]’’. contro Gemelli dall’altra parte Tempa Rossa risponde: ‘ci stanno provando, ci stanno provancontinua e do, mi creda,…’. si prevede
molto dura”
Ma la battaglia contro Tempa Rossa continua e si prevede ancora molto dura. La palla va ora al governatore pugliese, Michele Emiliano, che può riaprire un tavolo di confronto con il ministero dello Sviluppo economico. Sì, perché mentre la stampa locale considerava ormai chiusa la partita, il comitato Legamjonici faceva notare che il ministero dello Sviluppo economico - tramite il dirigente della IV Divisione, Mercato e logistica dei prodotti petroliferi e dei carburanti, Guido Di Napoli - con determinazione conclusiva del procedimento, attivato su istanza della società Eni per l’autorizzazione e l’adeguamento delle strutture di logistica, presso la raffineria Eni di Taranto - in data 30 novembre 2015 dava esito positivo, concludendo che ‘sussistono pertanto i presupposti per l’emanazione del relativo provvedimento di autorizzazione, previa intesa della Regione Puglia, ai sensi dell’art. 57 del decreto legge 9 febbraio 2012 n.5, convertito
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nella legge 4 aprile 2012 n.35.’ Il Presidente Michele Emiliano vuole lasciare cadere l’intesa. Dopo centocinquanta giorni e una volta concessi ulteriori trenta giorni in caso di inerzia, il Ministero dello Sviluppo economico (Mise) rimette gli atti alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, la quale, entro sessanta giorni dalla rimessione, provvede ad autorizzare definitivamente. Il 21 dicembre 2015, parte l’appello del Comitato Legamjonici e del Coordinamento Nazionale No Triv rivolto al Presidente della Regione che, tuttavia, non si pronuncia in merito, commettendo l’errore di sottovalutare la questione che presto gli sarebbe esplosa tra le mani. Il 28 dicembre 2015, il Comune di Taranto convoca i comitati locali. Legamjonici, in questa occasione, elenca una serie di iniziative da mettere in campo. La più urgente riguarda l’impugnazione del provvedimento di non assoggettabilità a VIA (Valutazione d’Impatto Ambientale), rilasciato dal ministero dell’Ambiente, relativo all’impianto di recupero vapori connesso al progetto Tempa Rossa: le società non avevano mai specificato quali idrocarburi avrebbero recuperato e quali sarebbero stati immessi in atmosfera. Il timore è che nell’aria vadano a finire quelli aromatici, i più pericolosi. Legamjonici, infine, invita il Comune di Taranto a chiedere il pronunciamento della Regione Puglia in risposta al Mise. Il Consiglio comunale, accogliendo le richieste del comitato, vota una delibera. Allo stesso tempo prende atto della decisione del Tribunale amministrativo regionale che dà ragione ai ricorrenti e abbandona l’ascia di guerra, anche temendo una richiesta di risarcimento danni da parte delle compagnie petrolifere. La vertenza Tempa Rossa resta ancora aperta. Ora la Regione Puglia può prendere tempo. Nel frattempo, i comitati locali non resteranno di certo a guardare.
Racconti fossili
nel numero precente aprile 2016
IL PETROLIO SPORCA
Il terremoto giudiziario sull’oro nero / pagina 8
LA SPADA DI DAMOCLE DELL’ORO NERO
Tempa Rossa, il nuovo affare oil&gas / pagina 11
GELA, OMBRA DISASTRO AMBIENTALE
L’intervista del mese / pagina 28
PER APPROFONDIMENTI www.legamjonici.it / alla voce Tempa Rossa
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BASILICATA SPA DI ANDREA SPARTACO / twitter @andreaspartaco
Il decennale sfruttamento del petrolio lucano, alla luce dell’inchiesta della Procura di Potenza, fa emergere il profitto a tutti i costi, la falsificazione dei rifiuti, il loro smaltimento a chilometri di profondità o in impianti non idonei a trattarli. Sullo sfondo una terra ricca di corsi d’acqua che oggi restituiscono tutto fuori. Quasi a voler lanciare un ultimo sos
#oilgate #raccontifossili #basilicata
Affioramenti da falda superficiale / Foto di Andrea Spartaco Terre di Frontiera / anno 1 numero 3 - maggio 2016 / www.terredifrontiera.info
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“Costa Molina 2” è un pozzo perforato fino a 4.117 metri sotto terra. Nel 1999 cedette l’incamiciatura e cosa sia accaduto a falde acquifere superficiali e profonde non è dato sapere. Stando a fonti Eni, in quel pozzo, sono finiti 2.500 metri cubi al giorno di acque di produzione (di strato e di processo, ndr). Si sa che l’area è a rischio sismico ma dal 2 giugno 2006 le acque di strato sono reiniettate tra 2.890 e 3.096 metri sotto terra, senza interruzione, con una portata massima di 2.800-3.000 metri cubi al giorno. Si sa, anche, che tre ore dopo la prima reiniezione venivano registrati eventi di microsismicità indotta. Ma solo quattro anni dopo, l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente iniziò il Piano di monitoraggio delle acque sotterranee e di reiniezione delle aree attraversate dalla condotta, comunicando a Regione Basilicata, Provincia di Potenza e Comuni di Montemurro e Viggiano che in alcuni piezometri lungo la condotta erano stati superati i limiti di legge per ferro ed idrocarburi. Ma Arpab non analizzava tutto. E li considerò siti contaminati senza far nulla per caratterizzare i reflui smaltiti sottoterra. Nel 2013 Arpab nella sua attività di controllo sulle acque interessate dal passaggio della condotta, in località Contrada La Rossa di Montemurro, comunicò ancora alla Regione d’aver riscontrato il superamento dei limiti di legge per ferro e idrocarburi, ma solo l’Ufficio Ciclo dell’Acqua non autorizzò la reiniezione, precisando che i documenti Eni erano carenti sugli impatti dell’attività. A marzo 2014 la multinazionale di San Donato Milanese inviò le integrazioni specificando la composizione delle acque, con additivi non specificati, ferro, magnesio, bario, cadmio, solfati, cloruri, idrocarburi, benzene, etelibenzene, toluene. Sostanze riscontrate in acque e suoli di altre aree petrolizzate lucane, compresi gli affioramenti che hanno bruciato suoli e ucciso pecore proprio a Contrada La Rossa. Non vedo non sento non parlo Il tempo continuò a scorrere e nonostante gli Enti sapessero nessuno fece nulla. Nel 2014 intercettati nell’ambito dell’inchiesta che ha portato oggi anche al sequestro del pozzo “Costa Molina 2” per smaltimento illecito di 14
rifiuti pericolosi, nel solo mese di gennaio Eni reiniettava 55.887 metri cubi di acque di strato. Quali sostanze sono state reintrodotte lo capiamo in parte dai certificati di analisi acquisiti dal Nucleo Operativo Ecologico (NOE) che riguardano due giorni di febbraio. A fine condotta troviamo ferro, bario, calcio, magnesio, idrocarburi C10-C40, idrocarburi n-esano, toccano valori da centinaia a migliaia di microgrammi per litro. E poi cloruri, solfati, solfuri, rame, cromo totale. Eni non segnalava problemi e non ha mai interrotto la reiniezione come prescritto nel caso. Del resto, scrive il Noe, nemmeno gli Enti tenuti a far rispettare le prescrizioni hanno ottemperato. Il motivo lo capiamo dai funzionari della Regione Basilicata preposti ai controlli e coinvolti nell’inchiesta dell’Antimafia. Di questi fatti nessuno doveva farne menzione. Dovevano stare tutti muti. In un’intercet“coinvolti tazione in cui Antonio funzionari Lisandrelli di Eni si della Regione informa da Carmela Basilicata Criscuolo - del gruppo omonimo coinvolto nel preposti traffico illecito - sull’eai controlli” sito dell’interrogatorio davanti al NOE, il primo dice a un certo punto “comunque non è che nomi così niente spero, no!”. E la seconda, per rassicurarlo, gli ripete di “no”. Cinque volte. L’importante è non far nomi e far sparire carte compromettenti. Stando alle intercettazioni Carmela Criscuolo “ha potere decisionale nella gestione dei flussi di rifiuti” perché organizzava sia la gestione dei trasportatori della rete di imprese di cui era parte, sia quelli dell’altra rete di imprese con a capo Ecosistem srl, con cui si sentiva tramite Antonio Curcio, pur non avendo nessun motivo per contattarsi dal punto di vista contrattuale. Il pozzo dei veleni è un affare Tutto si fa per profitto. Perché per migliorare il petrolio sporco estratto in Basilicata da inviare alla raffineria di Taranto bisogna inquinare la Basilicata. Come, lo spiegano le telefonate. I tecnici Eni dicevano chiaramente che per migliorare la qualità dei fluidi inviati alla raffine-
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ria si sarebbero “sporcate” le acque destinate alla reiniezione o inviate a smaltimento. E stando agli accertamenti in uscita dal Centro Oli Val D’Agri (Cova, ndr) erano “direttamente immesse a profondità chilometriche senza subire ulteriori trattamenti”. In un anno la Procura accerta che a “Costa Molina 2” sono stati reiniettati 854 milioni di chili di acque reflue in “totale difformità” rispetto all’autorizzazione per la presenza di inquinanti. Una cifra astronomica e un’operazione fatta grazie al supporto del laboratorio Cori srl del Gruppo Criscuolo, in cui i campioni di acque reflue che dovevano essere reiniettate o smaltite venivano “pretrattati” prima di finire al laboratorio preposto alle analisi. Solo le analisi di campioni pretrattati diventavano poi carte ufficiali. Una prassi di camuffamento finalizzata a ottenere valori notevolmente abbattuti di inquinanti. Nelle conversazioni è “evidente” che all’interno del ciclo produttivo del Cova vi fossero problematiche tecnico-impiantistiche e che la qualità del petrolio inviato a Taranto era connessa a quella delle acque reiniettate o smaltite negli impianti. Al telefono, i colleghi a Taranto fanno presente che bisogna porre rimedio ai problemi della raffineria per via del petrolio che arriva dalla Basilicata. Dunque l’Eni lo sa, ma meglio sporcare le acque sparate sotto terra o scaricate ai depuratori che una raffineria che deve produrre al top dei quantitativi. Paradossale se consideriamo i dati della Camera di Commercio di Taranto del 2013. Quando iniziano le intercettazioni i prodotti petroliferi hanno in export lo stratosferico incremento del 1.605%. In che senso quindi, il petrolio lucano è utile alla strategia energetica nazionale? Giocare col culo degli altri Del resto in Eni sanno anche che il Cova sfora le emissioni in aria. E a loro - come si dicono al telefono - qualche volta gli si è addirittura “gelato il sangue” vedendo i superamenti dei limiti degli inquinanti. Ma bisogna inventare motivi plausibili, si dicono. Cercare altre cause per non palesare i persistenti problemi. Conta il profitto. “Il Centro Olio s’intasa troppo spesso - dice Vincenzo Cirelli a Lisandrelli - ora inizia a fare il resoconto dal 2011, hai
prodotto di più, ti sei fermato di più, hai fatto più casini, non soltanto ambientale ma anche di altre cose, ma ne vale la pena di produrre di più?”. Questi, dice Lisandrelli riferendosi ai tecnici della produzione, “giocano con il culo degli altri”. E lo sa pure il responsabile del Distretto meridionale Ruggero Gheller quello che succede. Bisogna cercare scuse per non dare agli Enti le dovute informazioni. La Procura rispetto alle emissioni di idrogeno solfora“la Procura to (H2S, ndr) del Cova per emissioni accerta incidenti capidi H2S accerta tati ai lavoratori e parla incidenti tra di “ostinata pervicacia i lavoratori nel nascondere la reale del Cova” entità del problema ambientale e i rischi connessi alla salute”. Ma i lavoratori sono merce di scambio per ottenere appalti, fornire voti a politici che gli appalti li fanno vincere agli amici, come il “protocollo Vicino”, messo su dal sindaco di Corleto Perticara, nella Valle del Sauro, in provincia di Potenza. Pure l’Arpab, in alcuni controlli, aveva confermato valori superiori a quelli giornalieri di H2S nell’aria all’esterno del Cova. E mentre lavoratori venivano rico“i cittadini verati, la gente attorno denunciavano denunciava bruciore agli bruciore occhi, mal di gola, mal agli occhi, mal di testa, e coltivazioni di gola e e aziende morivano, mal di testa” Gheller parlando d’una riunione tenutasi in Regione Basilicata su una diffida dell’assessore regionale all’Ambiente, Aldo Berlinguer, per gli sfiaccolamenti continui dice “questo qua (Berlinguer, ndr) fa questa roba chiaramente per far vedere che lui ce l’ha duro nei confronti dell’Eni no?!”. Manipolazione mediatica e spionaggio L’importante è mantenere l’apparenza, tanto che per Gheller - che ha la produzione in testa - è opportuno “prendere una pagina su un quotidiano, una su Gazzetta del Mezzogiorno proprio col marchio Eni” per dire cosa era suc-
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cesso in italiano semplice. E per dare la spiegazione adeguata allo scopo aveva già visto le carte della diffida. Chi gliele aveva passate? Per evitare la diffida ci dovevano pensare le controdeduzioni di Egidio Giorgio, uno che dice di lavorare con Arpab e Eni. Uno “ondivago” con accesso ai dati Arpab sul monitoraggio sulla qualità dell’aria e a cui non a caso si rivolge Lisandrelli per informazioni sui dati delle centraline in possesso dell’Arpab. Per la Procura fa anche di più. Spiega a Lisandrelli come veniva gestito il monitoraggio ambientale da Arpab, evidenziando l’inattendibilità dei dati e come lavora l’Ente che deve proteggere l’ambiente lucano. “Fanno questa cosa incredibile - dice - di chiedere all’Eni … avete inquinato?”. E continua affermando d’aver sentito dire dai dirigenti Arpab “no, queste sono responsabilità e … chi se le prende? I Dirigenti non se le prendono, il Direttore non se le prende”. Se le prendono i lucani, avvelenati da chi fa solo spot sulla sostenibilità. Per queste performance di “spionaggio” per Eni Giorgio andava fatto “santo subito”. Pure Salvatore Lambiase, dirigente dell’Ufficio Compatibilità Ambientale della Regione Basilicata è molto apprezzato dall’Eni per la solerzia nell’aiutare a revocare il procedimento di diffida. La revoca, dice la Procura, è un vero e proprio assurdo, con Lambiase che si premurava d’avvertire telefonicamente Roberta Angelini, la Responsabile Sime a Viggiano che la revoca era pronta. Ottenuta la revoca illegale la Angelini richiamava Lambiase per complimentarsi sebbene agli atti mancasse la risposta della Provincia di Potenza. Ma Lambiase, pagato dai contribuenti lucani, tiene più ai profitti Eni, tanto da ricordare alla Angelini le imminenti scadenze dei provvedimenti concessori e avvertirla addirittura che il NOE stava indagando. Sodalizio criminale di Stato? A spiegare l’organizzazione criminale è sempre la Procura di Potenza. Nel corso degli anni i rifiuti liquidi del Centro olio di Viggiano sono stati gestiti in forza di contratti fatti da Eni, che si sono susseguiti. Ma, al momento degli accessi della Procura, in essere ce n’erano due con raggruppamenti temporanei di imprese. Le centinaia di milioni di chili smaltiti 16
in precedenza ormai sono acqua passata. Il primo raggruppamento, del giugno 2013, vede a capo la Ireos spa di Genova che si occupa di intermediare rifiuti presso impianti di trattamento, e poi Iula Belardino srl e Criscuolo Eco-Petrol Service srl per il servizio di raccolta e trasporto, e Tecnoparco Valbasento spa per lo smaltimento. L’altro raggruppamento vede capogruppo la Ecosistem srl, la Econet srl e la Pronti Interventi Sida con base a Lamezia Terme in Calabria. A loro volta questi raggruppamenti hanno subappaltato a ulteriori trasportatori e impianti “il procuratore al punto di creare una nazionale connessione tra decine Antimafia e decine di imprese. parla di Quella che il Procuratore Capo della Direzione organizzazione Nazionale Antimafia, criminale” Franco Roberti, ha chiamato organizzazione criminale a base imprenditoriale. Il primo contratto mette insieme tra i trasportatori BNG srl - sempre del Gruppo Iula - già condannato in passato per smaltimento illecito e con “forma mentis” atta a eludere l’esatta caratterizzazione dei rifiuti dice la Procura. E poi Semataf srl del Gruppo Castellano, ampiamente conosciuto dall’Antimafia che via Fincast srl detiene pure una quota della Finpar spa della famiglia Somma, che a sua volta possiede il 37,7% delle azioni di Tecnoparco. Anche Michele Somma, amministratore in Tecnoparco e presidente di Confindustria lucana è conosciuto dall’Antimafia che agli inizi del 2000 fece emergere strane relazioni, venendo informato persino sugli esiti di summit tra boss di Camorra, ’Ndrangheta e imprenditori. E poi Decom Trasporti del Gruppo Sta srl di Matera che intermedia rifiuti per Tecnoparco, Di.TRa srl, Garrammone snc, Meta Service srl, Sicula Ciclat Soc Coop., Ciclat Ambiente Soc. Coop. Il secondo vede trasportatori come Consuleco srl, De Cristrofaro srl, Depuraque srl, Econet, Coger, Solvic, Sea, STL, Cons. Nucl. Ind.Le di Vibo Valenzia. Oltre agli impianti principali di smaltimento Tecnoparco e Econet-Ecosistem, in subappalto compaiono nell’organigramma, De Cristofaro, Depuraque,
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Affioramento Serra Pizzuta / Foto di Andrea Spartaco
Ecodeco srl, Ecolombardia srl, Fenice spa, Iam spa, Mida, Rizzi Arcangelo ecologia, Tortora, Vipro srl, Hera Ambiente, Teseco, Uniproject srl, Consuleco srl, Gepi srl, Ecocontrol srl. Alcuni già conosciuti dalle procure. Questioni di pedigree? Oggi la Procura scrive che la Ireos è in mano a Emilio Munari, ma sono i lavoratori ad aver messo su il traffico. Qualche anno fa il giornalista Mario Molinari descrisse Ireos come appartenente a due società, la Emh srl di Munari e la Vernazzola srl con una quota di minoranza in mano a Gianluigi Tealdo, direttore tecnico e consigliere della Ireos, arrestato nel luglio 2004 insieme a Renato Pistone di Eurocav, nell’ambito di un’inchiesta della Procura di Alessandria con le accuse di traffico e gestione illecita di rifiuti. Il “lavaggio”,
scrisse pure il Secolo XIX, avveniva attraverso la Elciter srl del gruppo Ireos e la Elci srl sua controllata. La maggiore quantità di rifiuti liquidi del Cova finisce a Tecnoparco - centrale per l’Antimafia - e a cui si chiede di lavorare anche di notte. Fino a non molto tempo fa vari cittadini raccontavano di ingenti traffici notturni di autobotti verso il depuratore Pantanello di Ferrandina in mano a Tecnoparco. Nel 2011 dal suo tubo di scarico si sversava un liquido brunastro e maleodorante che colorava di nero il fiume Basento anche controcorrente. Il NOE riscontrò non conformità e inviò notizia di reato alla Procura di Matera. Due mesi dopo l’intervento sullo scarico di Pantanello - che per Tecnoparco avrebbe incrementato il fatturato - attorno a un tubo della fogna industriale più a monte, che portava reflui, era stato appositamente effettuato un grosso scavo
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Mucche si abbeverano vicino scarichi di idrocarburi e metalli pesanti / Foto di Andrea Spartaco
e sventrato in modo che reflui neri e maleodoranti se ne andassero nel Basento senza arrivare a Pantanello. Tra il 2011 e il 2012 mentre arrivavano centinaia di milioni di chili di reflui petroliferi erano anche state fatte analisi private allo scarico di Tecnoparco di Pisticci, e nel Basento fuori legge finivano idrocarburi, metalli pesanti e organoalogenati. Vicino quello scarico mucche si abbeverano e si coltiva. In ogni modo tra il 2013 e il 2014 per la Procura a Tecnoparco finiscono 369.499,07 tonnellate di rifiuti dalla vasca TA002 del Cova, e 42.606,75 dalla vasca TM001. Ai primi hanno assegnato un codice rifiuto arbitrario nonostante poteva essere trattato quello appropriato. I secondi sono stati smaltiti illecitamente perchĂŠ non potevano essere trattati. La geografia dello smaltimento illecito I rifiuti petroliferi lucani prendono altre vie in 18
Italia. Nell’impianto foggiano della De Cristofaro tra 2013 e 2014 vengono illecitamente smaltite 24.089,66 tonnellate di rifiuti pericolosi. Lo stesso per le 4.365,94 portate alla S.OL. Vi.C srl di Canosa di Puglia, le 28.004,3 alla I.A.M spa di Gioia Tauro, le 3.182,77 alla Consuleco srl di Cosenza, le 6.879,16 alla Uniproject srl ad Ascoli Piceno. Per le 83.864,66 finite alla Econet di Lamezia Terme la Procura scrive che poteva trattare quei rifiuti pericolosi ma sono stati caratterizzati con falso codice. Stessa cosa alle 13.482,42 finite all’impianto Depuracque di Chieti, le 2.733,52 alla MIDA srl di Crotone, le 1.544,78 alla Hidrochemical Service srl di Taranto, le 3.383,03 alla Coger srl vicino Firenze, le 1.989,15 alla Hera Ambiente srl di Ravenna. La caratterizzazione arbitraria di rifiuti porta a quantificare un abbattimento dei costi sino al 272% con un profitto illecito tra 10 e 37 milioni di euro sullo smaltimento
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di circa seicento milioni di chili complessivi a cui viene assegnato il codice 161002 anziché il 190204 che richiede trattamenti specifici per idrocarburi e boro, e 130508 che in Italia vede pochissimi impianti in grado di gestirli. “Dal 2011 a oggi - mi rispose tempo fa il dirigente Ufficio Suolo e Rifiuti Arpab Matera, che stava nel Consorzio industriale di Matera, con quota societaria in Tecnoparco - le acque di falda della barriera a valle del Sin Valbasento (circa 5 chilometri a valle di Tecnoparco dove arriva la maggior quantità di rifiuti petroliferi, ndr), non sono state oggetto di campionamento da parte di questo Ufficio. Si fa presente che si tratta di piezometri integrativi della rete regionale realizzati nel 2007 e campionati da questo Ufficio nel 2010, nell’ambito dello studio condotto da CNR e Arpab per la determinazione dei valori di fondo naturale per metalli e metalloidi”. Durante le indagini del 2014 espletate da Arpab e Ispra, nell’ambito di un progetto preliminare di bonifica, scriveva ancora, che lo stato di conservazione di quei piezometri a valle era precario e l’Ispra non li ritenne idonei ai fini dell’aggiornamento dello stato di qualità delle acque sotterranee. I dati a disposizione raccontano che in quelle acque sotterranee esiste una pesante contaminazione proprio da boro, e poi manganese e solfati ritrovati in altri contesti petrolizzati. Sostanze tossiche. Più a valle c’è, invece, la Piana di Metaponto, l’area più agricola della Basilicata.
COSTA MOLINA 2, L’ESPOSTO ALLA PROCURA DI MAURIZIO BOLOGNETTI
Chi sul pozzo di reiniezione “Costa Molina 2” conduce una battaglia da anni, è Maurizio Bolognetti, giornalista, segretario dei Radicali Lucani e componente della Direzione nazionale dei Radicali Italiani. Lo ha fatto anche con un esposto - datato 22 settembre 2014 - inviato alla Procura della Repubblica di Potenza e a quella di Lagonegro, nonché al Nucleo operativo ecologico (Noe) del capoluogo lucano. Alcuni passaggi della denuncia di Bolognetti sono illuminanti. Come, ad esempio, la questione che riguarda la reiniezione della acque di produzione in area sismica. “Sempre in relazione al pozzo
Costa Molina 2 / Foto di Maurizio Bolognetti
Costa Molina 2” si “fa presente che l’autorizzazione concessa dalla Regione Basilicata alla reiniezione delle acque di produzione petrolifera potrebbe essere stata rilasciata in aperta violazione della Delibera del Comitato dei Ministri per la tutela delle acque dall’inquinamento del 4 febbraio 1977.” Infatti, nella delibera del 1977, tra le prescrizioni ed indicazioni si legge che: “lo scarico nel sottosuolo può essere adottato come mezzo di smaltimento di effluenti industriali solo nei casi in cui sia dimostrato che non esistono soluzioni alternative tecnicamente ed economicamente valide”. Nel testo si afferma inoltre che “deve essere accertata e debitamente documentata l’esistenza delle seguenti condizioni: che trattasi di formazioni geologiche atte a ricevere gli effluenti, sicuramente isolate dalla superficie e dai serbatoi contenenti acqua dolce e/o altre risorse utili; che dette formazioni siano situate in zone tettonicamente e sismicamente favorevoli; che siano stati eseguiti tutti gli studi e le ricerche necessarie a garantire la sicurezza ecologica nel senso più lato; che in fase di esecuzione gli impianti vengano costruiti con le migliori tecniche disponibili; che in fase di gestione si garantisca un adeguato e continuo controllo delle operazioni di iniezione e dei loro effetti. I pozzi di iniezione dovranno essere realizzati in modo da garantirne la perfetta tenuta nell’attraversamento degli strati soprastanti e della roccia di copertura, escludendo ogni discontinuità che possa permettere il riflusso degli effluenti iniettati verso gli orizzonti più elevati e verso la superficie”. Maurizio Bolognetti denuncia che “ci potremmo trovare di fronte alla violazione di quasi tutte le sopra elencate prescrizioni/cautele/indicazioni. Di certo appare evidente che l’area in cui è ubicato il pozzo Costa Molina 2 è tutt’altro che “tettonicamente e simicamente favorevole”.
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IL BARATTO MALATO DI EMMA BARBARO
Intervista al vicepresidente della Commissione parlamentare Antimafia, Claudio Fava. Si è parlato di Oilgate, del ruolo di Eni, di traffico di rifiuti, di bonifiche e di profitto, che spesso domina sulla salute
#raccontifossili #antimafia
“Mi rendo conto che c’è un’enorme confusione sul problema della mafia. I mafiosi sono in ben altri luoghi e in ben altre assemblee. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione. Se non si definisce questo equivoco di fondo, non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale. Questa è roba da piccola criminalità, che credo abiti in tutte le città italiane, in tutte le città europee. Il problema della mafia è molto più tragico ed importante e rischia di portare al decadimento culturale definitivo l’Italia (...)”. Questa fu l’ultima intervista di Giuseppe Fava, rilasciata a Enzo Biagi nel corso della trasmissione Filmstory. Era il dicembre 1983. Pochi giorni dopo il giornalista siciliano sarebbe stato ammazzato nella sua Renault 5 con cinque proiettili calibro 7.65 alla nuca. La mafia era un fenomeno che già allora sfuggiva al controllo dello Stato, finendo in alcuni casi per confondersi con lo Stato stesso. Oggi, che cos’è la mafia? Claudio Fava, attuale vicepresidente della “Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali”, ha da tempo raccolto la sfida che fu di suo padre. Quando si tratta di ambiente, rifiuti, energie, bonifiche, non ha remore a parlare di business. Le organizzazioni di stampo mafioso non sono monadi. E l’utilizzo del vincolo associativo nell’ottica di innescare un meccanismo
di subalternità, di perenne sudditanza, non appartiene solo alle mafie. È di chi fonda il consenso sul ricatto psicologico del posto di lavoro, sulla coercizione morale, sul baratto tra salute e benessere economico. L’intervista all’onorevole Fava nasce nell’ottica di ripristinare quel filo conduttore che, sulle emergenze e sui reati ambientali lega indissolubilmente le nostre regioni, da Nord a Sud e viceversa. La maxi inchiesta coordinata dalla Procura di Potenza, come quella attualmente conclusasi con il rinvio a giudizio a Gela, non rappresentano casi isolati. Così come non sono isolati il traffico illecito dei rifiuti, il loro sversamento, le bonifiche. È il sistema-Italia. Talmente affezionato all’idea del mafioso nella villa bunker da riuscire di rado ad ammettere che oggi la mafia è il subappalto compiacente nell’eolico, nell’edilizia, nei trasporti, nel commercio, nel turismo. E l’ambiente, in parte, ne rappresenta il core business.
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l’intervista Vicepresidente, partiamo dalla maxi inchiesta della Procura di Potenza. Il Procuratore Nazionale Antimafia, Franco Roberti, ha definito il sistema Basilicata come “un’organizzazione territoriale di stampo mafioso”. Si parla di codici CER modificati, rifiuti sver-
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sati illecitamente, emissioni fuori controllo. Lei che idea si è fatto? Che si tratta di un’organizzazione di tipo mafioso esattamente come dice Roberti. Per rientrare a pieno titolo in questa fattispecie non è affatto necessario immaginare conventicole siciliane o calabresi: è sufficiente pensare a un’organizzazione che usa il vincolo associativo per condizionare, per creare subalternità, per costruire un reticolo di aree di interesse utili ai profitti illeciti. Ed è il caso, se verranno confermate le accuse mosse dalla Procura, di ciò che sta accadendo in Basilicata. Anche il lobbysmo esasperato, quando si accompagna ad ogni sorta di frequentazione, quando sceglie di creare ostacoli, quando ha elementi intimidatori nel modo in cui viene proposta o sollecitata una scelta, fa parte della cultura mafiosa e può essere considerato una fattispecie criminale di tipo mafioso. Ammetterà tuttavia che tanto nel caso della Val d’Agri, quanto in quello di Gela, con accuse piuttosto pesanti che dovranno essere confermate nei vari gradi di giudizio, sulla graticola c’è una delle più grandi multinazionali italiane: Eni. E se il sistema è quello che Roberti descrive e lei conferma, fatto cioè di amicizie, clientele, lobbysmo esasperato, complicità con i poteri forti, anche quelli della politica, la domanda viene spontanea: Eni è uno Stato nello Stato? Per me bisogna distinguere le responsabilità penali dal ruolo complessivo che ha sempre esercitato Eni. La sua storia più che descriverla come ‘Stato nello Stato’ ci dice che Eni è una società con struttura pubblica che ha avuto una sua capacità di politica estera che spesso si sovrapponeva, anticipava o prescindeva quella italiana. Questo accadeva ai tempi di Mattei e ancora oggi, se pensiamo alla Libia, dobbiamo immaginare che la diplomazia dell’Eni è molto più avanti di quella italiana sia sul piano operativo che in quello dei contatti territoriali e politici. Un dato storico che all’inizio credo sia stato anche interessante, utile, importante. Basti pensare al modo in cui Mattei ha ritenuto di dover rilanciare una politica propria, di tipo industriale, divenuta poi una politica estera a sostegno dei Paesi
non allineati spesso sfruttati dalle multinazionali del petrolio. Una politica che in ogni caso ha lasciato un segno positivo, forse troppo positivo vista la sorte di Mattei. Eni ha sempre avuto una significativa “anche il autonomia, profili d’imlobbismo presa, interessi e una esasperato proiezione sul territorio estero che spesso si è fa parte sovrapposta alle scelte della cultura della politica italiana. È mafiosa” accaduto in passato che la politica estera nazionale poi abbia seguito quella dell’Eni accodandosi e ribadendone le scelte. Forse questo non è accaduto solo all’estero. È un fatto che, in molte parti del Paese, le multinazionali, e non solo, spesso si siano sostituite al vuoto di programmazione di una certa politica, di una certa classe dirigente. Ancora oggi, specie al Sud, sopravvive la mentalità secondo cui “è meglio morire di tumore che morire di fame”. Il posto fisso, il miraggio di un futuro pieno di aspettative, la possibilità di poter accedere in maniera facilitata a certi beni di consumo: ma è giusto tramandare alle future generazioni il principio secondo cui è necessario barattare la propria salute in cambio di un posto di lavoro? “una certa Questa è una vecchia cultura bugia. Risale ai tempi in cui nel polo petrolchimisindacale co di Priolo persino una ha giustificato certa cultura sindacale il degrado giustificava condizioni ambientale” di degrado ambientale, con impianti obsoleti che venivano smontati da porto Marghera e rimontati in Sicilia, nell’ottica di sottolineare l’opportunità di un lavoro alternativo a vent’anni di vita sotto terra nelle miniere di zolfo. I minatori che dopo anni tornavano alla luce, proprio di questo erano convinti. Però che questo luogo comune, che era già abbastanza violento sul piano
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culturale cinquant’anni fa, possa essere riproposto oggi in un Paese che si è affacciato al terzo millennio e dovrebbe aver introdotto non soltanto elementi di modernità ma anche di dignità nel lavoro, è inaccettabile. È inaccettabile il ricatto salute contro lavoro. Se qualcuno l’accetta, lo sollecita o l’accompagna va combattuto. Sono quei principi attraverso i quali noi istituzionalizziamo la rassegnazione, o meglio, il diritto alla rassegnazione nei confronti delle devastazioni ambientali che minacciano la nostra salute e delle devastazioni morali che riguardano la nostra società. Pensiamo al modo in cui ci si è acconciati ed abituati alla presenza dei poteri mafiosi sui nostri territori. Il principio è lo stesso: rinuncio alla mia dignità, accetto di essere suddito di uno Stato parallelo mafioso, in cambio ottengo qualche licenza edilizia in più, qualche concessione, qualche favore in più. È un baratto malato. Un baratto in nome del profitto. Come quello del traffico di rifiuti. Pensiamo alle recenti indagini di Potenza e di Gela, che parlano di rifiuti che viaggiano fino al Molise, all’Abruzzo, all’Emilia Romagna. Pensiamo alla Terra dei Fuochi, in Campania, e alle rivelazioni di qualche anno fa del pentito Carmine Schiavone. Può aiutarci a delineare una sorta di ‘geografia della munnezza’? Può dirci se le Istituzioni sono riuscite a ricostruire qualche tassello in più dai tempi dell’audizione di Schiavone? L’immondizia paradossalmente non ha odore. Segue i cammini che sono funzionali ai traffici e alle organizzazioni criminali. Se è più facile trovare depositi in cui sversare al Nord piuttosto che al Sud, non c’è né ideologia geografica né odore che tenga. Ovunque ci sia la complicità di un territorio disposto ad ospitare quegli sversamenti, ovunque tutto questo possa rappresentare un titolo di profitto. Non ci sono posti sicuri. Questo è accaduto e accade anche in zone del Paese che vengono definite “civilissime”. È stato scoperto che persino le fondamenta di alcuni edifici sono state in passato oggetto di sversamenti di rifiuti. E pensare che quella immondizia concima la base dei condomini. Oggi forse c’è una consapevolezza diversa da quella 22
che c’era nel passato. Ci sono anche strumenti giudiziari e processuali che prima non avevamo. Però credo che siamo ancora abbastanza indietro. Al momento abbiamo solo la capacità di tamponare una “il grande estrema versatilità delle ricatto organizzazioni mafiose salute contro di camuffarsi sul territorio, di frantumarsi in lavoro mille rivoli uno ad uno, è del tutto difficili da intercettare. inaccettabile” Penso al movimento a terra, che è uno dei passaggi funzionali al traffico dei rifiuti, e al fatto che è un dato investigativo ormai acquisito da molti decenni che esso sia coacervo di subappalti garantiti a poteri mafiosi o a poteri collegati alla mafia. Al punto da arrivare a sostenere che in alcune province della Sicilia o della Campania è difficile immaginare l’apertura di un cantiere senza che vi sia, nella fornitura del calcestruzzo piuttosto che nel movimento a terra o nei contratti di guardiania, una presenza naturale e fisiologica di organizzazioni legate alla mafia. Questo riguarda anche il modo in cui i rifiuti sono divenuti un business naturale e centrale nel bilancio delle mafie. Su questo siamo nettamente in ritardo. Le organizzazioni mafiose si sono adeguate ai “chi delinque nostri strumenti, hanno ha trovato trovato contromisure che le rendono un po’ contromisure meno evidenti e un po’ che li rendono più invisibili alla capapiù cità che noi abbiamo invisibili” di rintracciarne i movimenti. Siamo ancora alla ricerca dei mafiosi che fanno investimenti nei terreni, nei frutteti, negli immobili, e nel frattempo le aziende collegate alle mafie si sono prese l’eolico, la sanità, la grande distribuzione, il turismo. Una esplicitazione sul mercato segno di un capitalismo d’avanguardia. Abbiamo a che fare con persone che sanno perfettamente come e dove investire i propri soldi.
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Rifiuti e paesaggio / Foto di Roberta Dommarco
Sono stati presi anche i porti. Se è difficile avere tracciabilità dei rifiuti sul movimento a terra possiamo solo immaginare cosa significhi in mare, lì dove si concentra la maggior parte dei business commerciali mondiali. Il più grande porto container del Mediterraneo, quello di Gioia Tauro, è stato in passato oggetto dei traffici di clan e cosche calabresi di rilievo, dai Piromalli ai Pesce. Si parlava del passaggio di rifiuti, armi, stupefacenti. Anche su questi controlli siamo abbastanza indietro? Gioia Tauro rappresenta un core business per la ‘ndrangheta, è il più grande porto container del Mediterraneo. Ed è meno complicato che altrove, attraverso i container, far arrivare quantitativi sufficienti di stupefacenti. Quelli che vengono sequestrati, per le indicazioni che ci arrivano dalla DNA rappresentano circa il 10 percento del passaggio reale, nonostante sistemi di controllo sempre più evoluti, efficaci e penetranti. Ma è anche complicato immaginare un controllo che possa intercettare droga su un traffico di questa portata ogni giorno. Mi ricordo vent’anni fa la villa di Piromalli sulla collina che domina il porto di Gioia Tauro come fosse una torretta di avvistamento e
una rivendicazione del proprio potere su quel territorio. E ricordo quel cartello, sul cancello. Non c’era scritto, come si può immaginare, “Attenti al cane”. C’era disegnata una 44 magnum, come a dire “Attenti a noi”. Il tutto fatto anche con un goliardico senso di impunità, in un’area sita a circa 50 metri di distanza dal porto. L’importanza di quel porto sulle rotte del narcotraffico e non solo, è naturale. Al di là del narcotraffico, concentriamoci sui rifiuti. Spesso i comuni cittadini hanno dubitato anche della capacità dello Stato, considerato nella sua funzione politica, di riuscire ad interpretare certe emergenze. Viene da pensare alla famosa audizione del pentito Schiavone, secretata dal 1997 al 2013, dall’allora Presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti Massimo Scalia (Verdi). Perché tacere verità scomode per tanti anni? Perché lasciare i cittadini all’oscuro di quel che il Parlamento già sapeva anni fa? Come si regola, sul punto, la Commissione Antimafia? Non posso rispondere al posto di Scalia, è evidente. Ma posso dire che noi dell’Antimafia secretiamo quando c’è richiesta da parte
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dell’audito e naturalmente ci riserviamo anche di decidere di considerare la ricevibilità di questa eventuale richiesta. Generalmente quando ci sono inchieste in corso, quando si entra nel dettaglio e si fanno nomi, è più che opportuno e indispensabile secretare. Sulla riservatezza di talune informazioni che disegnano scenari, ecco, su quello la valutazione è rimessa a ciascuno di noi. Io sono per rendere pubblico tutto ciò che non ostacola l’inchiesta giudiziaria perché ritengo che sia fondamentale che l’opinione pubblica venga informata anche utilizzando, leggendo, interrogando e interpretando gli atti del nostro lavoro, non soltanto ascoltando le conclusioni a cui siamo arrivati. Abbiamo assodato che ambiente, rifiuti e bonifiche rappresentano un business. La domanda vien da sé: è la legislazione sui rifiuti, sulle ecomafie, sugli ecoreati a non essere stringente o c’è a monte una mancanza di controlli? Perché si sa, qualche volta in Italia accade che vi sia una certa commistione tra controllore e controllato, non garantendo così alcuna terzietà. Questo, allora, è un Paese fatto di regole o di amicizie? È un Paese fatto di regole, ma anche di eccezioni. È un Paese in cui spesso ad ogni regola si trova una degna contromisura. È un Paese in cui le cosche mafiose hanno anche costruito le carceri perché hanno vinto gli appalti per andarle a costruire. Dobbiamo fare un salto di qualità e immaginare le organizzazioni criminali come perfettamente capaci di creare un business che può essere anche quello della bonifica e non solo quello dell’interramento dei rifiuti. Al di là del significato simbolico che ciò assume per noi, cerchiamo di comprendere il significato che ciò assume per loro. La bonifica è un modo per garantirsi margini di profitto e, contestualmente, essere in grado di controllare il territorio rispetto a una difficoltà palese. È l’appalto sicuro che consente di ricostruire ciò che essi stessi hanno devastato. Su questo dovremmo essere un po’ meno rigidi e più capaci di prevenire i ragionamenti della controparte. Anche su questo spesso siamo in ritardo.
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Il ritardo culturale di un Paese spaccato e, in parte, ancora troppo tollerante… È vero, c’è un pezzo di Paese che tollera e una parte che si oppone a queste soglie così basse di tolleranza. Bisogna fare in modo che a prevalere sia chi si oppone. C’è uno stretto legame di convenienze e reciprocità tra organizzazioni mafiose e territorio. E con questo, “quando siamo chiari, occorre ci sono misurarsi non soltaninchieste to ricorrendo al codice in corso è penale e ai processi, ma più opportuno anche costruendo sedisecretare” menti civili che facciano comprendere da che parte conviene stare. Dobbiamo giocare sul loro stesso livello, quello della convenienza. È complicato, ma invitabile. Il consenso di cui godono non è legato solo ad omertà e paura ma anche a condizioni di reciprocità. Ad elargizioni che dispensano sul territorio. Su questo lo Stato deve essere in grado di rispondere ad armi pari utilizzando stesso linguaggio, non soltanto evocando paradiso e inferno. Sul piano della convenienza gioca pure larga parte della classe dirigente, che poi persino si scaglia contro quegli stessi organi dello Stato preposti a combattere le mafie e ad innescare, complessivamente, quel cambiamento culturale a cui lei fa riferimento. Come si può rispondere, sul piano culturale, a chi ha affermato e afferma nelle altee sfere che “certa Antimafia andrebbe eliminata”? Certe frasi, messe in bocca ad un signore (l’imprenditore Gemelli) che raccatta emendamenti dalla propria fidanzata (l’ex Ministra allo Sviluppo Economico Federica Guidi) per costruire il suo quartierino d’affari, alla Alberto Sordi cinquant’anni dopo, suona quasi come un complimento. Non preoccupa né indigna. Merita il gesto dell’ombrello, come si usava nella commedia italiana degli anni cinquanta. O meglio, una pernacchia, con più semplicità.
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TEMPA ROSSA E IL MONITORAGGIO CHE NON C’È DI PIETRO DOMMARCO / twitter @pietrodommarco
Il centro olio Total di Corleto Perticara, in provincia di Potenza, sta sorgendo in assenza di un piano di monitoraggio ambientale. Siamo nella valle del Sauro, ma sembra di vivere nel Far West. Non solo perché, per realizzarlo, è stato mutato il paesaggio e spianata una montagna Quello di Tempa Rossa è un progetto petrolifero che risale agli anni Novanta, quando la multinazionale francese incassa le autorizzazioni necessarie per l’esplorazione e la perforazione del pozzo “Tempa Rossa 002”. Nel 1999, invece, prende forma l’attuale concessione di coltivazione “Gorgoglione”, il cui titolare principale è l’Eni divisione Agip. Nel 2001 il Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe) – con deliberazione n.121 del 21 dicembre 2001, con ultimo aggiornamento nel 2012 – inserisce Tempa Rossa nel programma per le infrastrutture pubbliche e private e degli insediamenti produttivi opera strategica a livello nazionale, accordando ad Eni divisione Agip, Enterprise Oil, Total-Fina-Elf e Mobil Oil un finanziamento pari a 230,340 milioni di euro. Il giacimento - considerato strategico – è stimato in 420 milioni di barili equivalenti di greggio, di cui 100 mila barili recuperabili. L’Ufficio minerario nazionale prima, ed il Cipe poi, aprono le porte allo sfruttamento della seconda grande riserva di petrolio lucano, dopo la concessione di coltivazione Val d’Agri dell’Eni, nell’omonima valle. Così, il 19 novembre 2004 – dopo che Eni decide quasi a sorpre-
#oilgate #raccontifossili #temparossa #basilicata
sa di uscire di scena e cedere le sue quote ai francesi – l’ufficio stampa della Giunta regionale della Basilicata rende noto uno schema di accordo stipulato con Total, che viene approvato il 22 novembre 2004, con delibera n.2618. Per la prima volta viene messo nero su bianco l’impegno da parte di Total di finanziare la re“1,5 milioni alizzazione della rete di di euro per monitoraggio ambien20 anni, in tale: 1,5 milioni di euro cambio delle per venti anni in camautorizzazioni bio delle autorizzazioni necessarie” necessarie “per dare inizio ai lavori di sviluppo e coltivazione del giacimento Tempa Rossa”. In sostanza, nessun punto zero ante operam, ma solo post operam, ovvero “a partire dall’anno in cui la concessione Gorgoglione entrerà in produzione”, compresa l’ultimazione dei lavori del centro olio di Corleto Perticara. Infatti, di monitoraggio ambientale si parla anche nella deliberazione di Giunta n.622 del 3 maggio 2006 relativa al giudizio favorevole di compatibilità ambienta-
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Tempa Rossa e gli orizzonti mutati / Foto di Pietro Dommarco
le, al parere favorevole sulla valutazione di incidenza e all’autorizzazione paesaggistica per il progetto Tempa Rossa; nella deliberazione di Giunta n.1363 del 19 settembre 2006 di autorizzazione alla sottoscrizione dell’accordo quadro tra Regione Basilicata e compagnie petrolifere; così come nella deliberazione di Giunta n.1888 del 19 dicembre 2011 e la successiva n.952 del 18 luglio 2012 di aggiornamento delle autorizzazioni ambientali. Le opposizioni delle associazioni. Cronistoria dei fatti Nel mese di marzo 2012 l’Organizzazione lucana ambientalista (Ola) denuncia la colpevole assenza della rete di monitoraggio ambientale nella concessione Gorgoglione. E lo fa chiedendo all’allora presidente della Regione Basilicata, Vito De Filippo, di anticipare i tempi per la realizzazione del progetto, senza attendere 26
la messa in produzione del giacimento, ed evidenziando che “chi ha ispirato le clausole temporali dell’accordo del 2006 tra Regione e compagnie per la concessione Gorgoglione non ha tenuto conto dell’esperienza negativa maturata in Val d’Agri, per quanto attiene il monitoraggio ambientale, subordinando l’attivazione della rete di monitoraggio alla messa in produzione del giacimento e perdendo così la possibilità di stabilire il punto zero delle emissioni. Attivando oggi la rete di monitoraggio ambientale significherebbe correre ai ripari, prima che sia troppo tardi, riducendo e controllando da subito i rischi, salvaguardando concretamente e prioritariamente la salute e l’ambiente dei residenti”. Gli studi di parte Il 30 ottobre 2013 la Regione Basilicata presenta un’indagine ambientale e socio-economica
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denominata “punto zero” del progetto Tempa Rossa. Lo studio - denominato Base (Before extraction activities study of environment) - riguarda i territori dei comuni di Corleto Perticara, Gorgoglione, Guardia Perticara e Pietrapertosa, estero anche ad altri 13 comuni interessati dall’area di coltivazione Gorgoglione. Ma dall’indagine ambientale, affidata alla Libera università internazionale degli studi sociali (Luiss) e alla Golder Associates di Torino, emergono da subito dei dubbi proprio sull’imparzialità dei soggetti interpellati. La Golder Associates, infatti, appartenente ad un grande gruppo mondiale nato in Canada, a Toronto, risulta aderente ad Assomineraria, l’associazione mineraria italiana che mette insieme le principali società operanti nel settore petrolifero nazionale. Il cronoprogramma del progetto è chiaro: entro la fine del 2015 è prevista la consegna del report finale – di cui ad oggi non c’è ancora traccia – ed nel primo semestre di quest’anno l’inizio dell’analisi degli indicatori sullo stato delle componenti ambientali, sociali ed economiche, con l’obiettivo di “di scattare una fotografia attuale nei tredici comuni di competenza […], stato ambientale e socio-economico delle componenti di interesse, necessario per la verifica dei trend evolutivi delle medesime durante l’esercizio delle attività estrattive con particolare riguardo all’ambiente”. Le scoperte di Corleto Con un ordine del giorno del 2 ottobre 2014, validato dalla delibera n.85, la Giunta comunale di Corleto Perticara - presieduta dall’ex sindaco Rosaria Vicino, finita agli arresti domiciliari a seguito dell’inchiesta della Procura di Potenza - prende atto dell’assenza della rete di monitoraggio e del punto zero, dando mandato al primo cittadino di affinché “interessi il Presidente della Giunta Regionale Marcello Pittella per un incontro urgente per fare il punto sullo stato del progetto di monitoraggio di Tempa Rossa, per stabilire un cronoprogramma delle attività”. “Il progetto Base – si legge nella delibera della giunta comunale – ha anche l’obiettivo di monitorare i cambiamenti socio-economici dell’area. Si sono succeduti – è scritto in delibera – diversi incontri
al fine di concretizzare il progetto di monitoraggio dell’area con i soggetti interessati quali il Dipartimento Ambiente della Regione Basilicata, l’Arpab, i comuni del progetto Tempa Rossa (oltre a questo Comune anche Guardia Perticara e Gorgoglione), la Total, senza che sino ad oggi ci siano “indagine stati risultati tangibiaffidata alla li”. Una posizione che Luiss e alla sempre l’Organizzazione Golder lucana ambientalista ha definito “paradossale Associates ed inquietante”, sottodi Torino” lineando come i fatti confermino “sempre di più quanto già da tempo denunciano gli stessi cittadini ed i comitati circa l’inesistenza delle azioni di salvaguardia dell’ambiente e della salute nella Valle del Sauro, divenuta terra di nessuno, abbandonata al destino petrolifero dalle loro istituzioni ed occupata dalle compagnie minerarie”. L’ex sindaco Vicino ha risposto tacciando di “malafede” l’associazione ambientalista. Tangibilità dei fatti Conti alla mano, l’attuazione della rete di monitoraggio risulta congelata da poco più di 11 anni. In un contesto territoriale in cui l’unica fotografia ambientale è fornita dallo stato dei lavori del Centro olio che hanno alterato i connotati geografici e sociali della località Piani del Mattino, che lo ospita, tra Corleto Perticara e Gorgoglione, con agricoltori e allevatori costretti a chiudere le loro attività, sostituite da un paesaggio industriale stravolto, su quelli che un tempo erano “i lavori del pascoli e campi coltiCentro olio vati, che hanno ceduto hanno alterato il passo ad “espropri i connotati di pubblica utilità contingibili ed urgenti”, a geografici pozzi petroliferi, a discae sociali” riche di rifiuti e fanghi petroliferi - sequestrati ed ancora bonificare – e allo smaltimento delle acque reflue derivanti dalle attività estrattive autorizzato nel tor-
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rente Sauro, secondo quanto disposto dalla stessa Regione Basilicata nelle autorizzazioni ambientali contenute nella già citata deliberazione di Giunta n.1888 del 19 dicembre 2011. Questo, in attesa che la Total individui il pozzo di reiniezione. I battibecchi istituzionali Agli inizi di gennaio 2015, i sindaci dei comuni interessati dalla concessione di coltivazione Gorgoglione, in una vera e propria disputa istituzionale, dichiarano – non senza responsabilità - che “in merito alla richiesta di convocazione di un tavolo istituzionale”, trasmessa al governatore lucano, Marcello Pittella, “non c’è stata nessuna novità”. Ma informano dell’esistenza di un documento intitolato “Protocollo di monitoraggio ambientale” che la Total ha trasmesso al Comune di Corleto Perticara, alla Regione e all’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente (Arpab), dalla cui elaborazione, a detta dei primi cittadini, “al contrario del metodo di coinvolgimento che era stato individuato nei vari incontri sin dal 2011 per ultimo in quello di ottobre 2013, hanno tenuto fuori gli enti territoriali”. Sollecitando “la convocazione di un tavolo istituzionale” - in quanto “non si può che manifestare indignazione per il mancato coinvolgimento attivo” – e rigettando il Protocollo di monitoraggio ambientale. “Sono sinceramente dispiaciuto per la posizione assunta dai sindaci” […] “Leggere sulla stampa titoli del tipo la Regione offende i territori, mi induce a credere che la probabile non conoscenza di alcuni passaggio tecnico-amministrativi contenuti nell’Autorizzazione integrata ambientale, abbia innescato uno spiacevole cortocircuito istituzionale al quale porre immediatamente rimedio”. Questa la risposta del presidente della Regione Basilicata, Marcello Pittella. Tutto da rifare Con deliberazione di Giunta n.1877 del 22 dicembre 2015 la Regione Basilicata decide di revocare il progetto preliminare della rete di monitoraggio ambientale, stabilendo una nuova procedura di evidenza pubblica per le varie fasi, già in ritardo di attuazione, con 28
“l’apertura ad osservazioni e contributi di merito da parte di tutti i portatori di interesse”. Nella deliberazione regionale di azzeramento si legge che “[…] per gli esiti dell’attività del monitoraggio ambientale di Baseline (punto zero) definito di concerto con Arpab - prescrizione n.11 - “Progetto di Monitoraggio Ambientale”, la D.G.R. n. 712 del 29 maggio 2015 necessita una rivisitazione al “i sindaci fine di: a) garantire che avviano una il “Progetto per la defivera e propria nizione della baseline disputa ambientale e sociale con la e territoriale” possa essere elaborato e Regione” realizzato dalle migliori strutture scientifiche di eccellenza previa indagine di mercato e confronto, in considerazione delle ricadute che lo stesso ha sul territorio e dell’importanza che rivestirà sulla tutela della salute dei cittadini; b) rimodulare i contenuti previsti dal progetto preliminare onde evitare una sovrapposizione di attività con la prescrizione n.11 “Progetto di Monitoraggio Ambientale“. La Regione, insomma, motiva la revoca “per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto non prevedibile “la revoca al momento dell’adozione del provvedimento il motivata per provvedimento ammisopraggiunti nistrativo ad efficacia motivi di durevole può essere reinteresse vocato da parte dell’orpubblico” gano che lo ha emanato...”. Alla Total viene chiesto di anticipare “in una soluzione l’importo di euro 1.334.000,00” quale costo di un progetto “realizzato dal Dipartimento Ambiente […], attraverso esecutori terzi di alta competenza tecnico scientifica nel settore di riferimento” di cui ancora non c’è traccia. Intanto, la salute e l’ambiente nei comuni della concessione di coltivazione Gorgoglione possono attendere.
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Rifiuti connection
CASO MARLANE: VELENI IN TERRA E PANTANO IN AULA DI ANDREA POLIZZO
In Calabria c’è una vasta area industriale dismessa che ucciderebbe le persone e coverebbe veleni nella pancia. Condizionale d’obbligo se si legge la vicenda Marlane attraverso il filtro del processo penale per le morti bianche di oltre cento operai di Praia a Mare, in provincia di Cosenza, e per inquinamento dei terreni circostanti lo stabile Il processo Marlane si è concluso il 19 dicembre 2014 con una sentenza di primo grado emessa dal collegio giudicante del Tribunale di Paola: tutti assolti da tutto. Non ci sono responsabili né per le lesioni e gli omicidi colposi né per il disastro ambientale. Oggi, a distanza di più di un anno dall’appello presentato alla Corte d’appello di Catanzaro dall’accusa e da alcune delle parti civili, non è ancora stata fissata la data del secondo grado. Ma in questa vicenda, come vedremo, sono molti gli aspetti rimasti in un limbo. Da un conte piemontese al colosso vicentino della lana. Se il progresso uccide e sporca La Marlane (da Maratea Lane, ndr) era una fabbrica tessile a ciclo completo sorta a Praia 32
#rifiuticonnection #calabria
a Mare nell’ambito delle gesta imprenditoriali risalenti agli anni Cinquanta del Conte piemontese Stefano Rivetti di Val Cervo. Gesta - come raccontano fonti dell’epoca - compiute nell’ambito dell’espansione degli interessi del lanificio di famiglia, ma sfruttando i fondi della nota Cassa per il Mezzogiorno. Dopo appena un decennio, però, i conti iniziano a non tornare e parte una serie di passaggi di mano. Nel 1969 è assorbita da Eni che sette anni dopo la accorpa alla Lanerossi spa (rilevata nel 1962, ndr) e che nel 1987 cede tutto a Marzotto. In Calabria il gruppo di Valdagno chiude bottega nel 2004 dopo qualche timida protesta dei 200 operai dell’unico reparto rimasto in attività a carico di Marzotto. Il reparto è quello della tessitura, poi delocalizzato in Repubblica Ceca dove il costo del lavoro è cinque volte inferio-
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Scavi di fanghi rossi / Foto tratta dalla Relazione “De Rosa“
re a quello in Italia. Ma chiudono anche filatura (circa 100 operai della cooperativa Fi.li.vi.vi) e i noti “rammendi” esternalizzati da Marzotto negli anni a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta. Alle spalle di queste ditte - si è sempre detto - c’erano politici locali e sindacalisti. Stessa sorte per altri servizi ceduti all’esterno: forniture, pulizie e mensa. Anche queste scompaiono. Nel punto più alto della sua parabola la Marlane di Praia a Mare impiegava oltre 1000 operai per rispondere anche alle commissioni statali, soprattutto tessuti per le divise dell’esercito. È facile dunque comprendere come lo stabilimento, per decenni, abbia rappresentato il motore economico del territorio, portando ricchezza in termini salariali e di indotto e, nel bene o nel male, stravolgendone il tessuto sociale. La sua chiusura ha rappresentato un colpo di spugna. I tanti operai diventano cassintegrati e, oggi, lo sono ancora in gran parte. L’indotto lentamente scompare. Oggi della Marlane rimangono letteralmente solo
le pareti e, nonostante l’esito del processo, il sospetto che dopo esser stata pane, sia stata veleno. Per gli operai, ammalatisi e morti a causa di patologie tumorali. E per l’ambiente circostante, a causa di quanto si presume sia sotterrato nei terreni circostanti. Il pane e il veleno. Nebbia in “Val Padana”. Le morti bianche Di morti bianche tra le tute blu della Marlane si inizia a parlare nel 1973. A inaugurare la lunga scia di morti sono Sarubbi e Mandarano, due operai addetti alla fase del “carbonizzo” dei tessuti, una lavorazione effettuata con bagno di una soluzione di acido solforico che elimina le parti cellulosiche. Ma tra il 2009 e il 2011 - ovvero tra la chiusura indagini e l’avvio del processo - fra le carte degli inquirenti finiscono circa 120 nominativi di ex operai che hanno contratto patologie tumorali. Molti di essi sono morti e l’elenco dei defunti ancora oggi viene tristemente aggiornato. Secondo la
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tesi accusatoria, per decenni, all’interno della fabbrica i processi produttivi sarebbero stati svolti senza le necessarie cautele. L’attenzione degli inquirenti si concentra in particolare sui reparti di tintoria e tessitura. Dal primo si sprigionano vapori tossici che invadono anche gli altri reparti. La fabbrica, infatti, a partire dagli anni Settanta è un ambiente unico dopo l’abbattimento delle pareti che separavano le fasi di produzione. I fumi nocivi provengono dalle enormi vasche per la colorazione dei tessuti in bagno di acqua bollente e coloranti chimici. Vasche che avrebbero dovuto lavorare a tenuta stagna ma che - raccontano anche in aula alcuni operai - venivano lasciate aperte per accelerare il processo di coloritura. Gli operai la chiamano nebbia in Val Padana. Molti di loro lo ricordano nell’aula “Beccaria” del Tribunale di Paola durante gli interrogatori. Secondo le testimonianze “non si vedeva a un palmo di naso” e l’aria “era irrespirabile” tanto che in alcuni casi, nei mesi estivi in particolare, bisognava spesso uscire dallo stabilimento per respirare. Dal reparto di tessitura, invece, provengono polveri nocive frutto dei processi lavorativi. Qui, i racconti degli ex operai e dei loro congiunti si fanno ricchi di dettagli. Soprattutto su come quelle polveri arrivavano fin dentro le loro case, trasportate dalle tute da lavoro. Non si attaccavano solo ai vestiti, ma anche alle vie respiratorie. Capitava - è stato raccontato in aula - che nei fazzoletti con cui ci si soffiava il naso si ritrovasse della polvere scura. Sempre secondo le testimonianze, in questo contesto gli operai lavorano privi dei Dispositivi di protezione individuale (Dpi), mascherine soprattutto, senza la necessaria tecnologia per il ricambio dell’aria o l’aspirazione delle polveri dagli ambienti di lavoro e in assenza di controlli medici periodici. Per i giudici però gli imputati non sono da ritenere colpevoli per insufficienza di prove. Lo si legge nelle motivazioni della sentenza di primo grado, depositate a marzo del 2015. “Il Collegio - si legge a pagina 58 - ritiene che le risultanze acquisite nel corso del giudizio non valgono a conferire pieno fondamento all’ipotesi accusatoria in relazione al reato di cui all’articolo 437 del 34
Codice Penale, non essendo emerse prove certe in ordine alla penale responsabilità degli imputati” Per i giudici, cadendo l’accusa di rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro risultano esaurite anche quelle relative alle lesioni colpose e all’omicidio colposo. E sulle testimonianze rese in aula i togati si spingono fino a ritenere che “alla luce delle risultanze contrastanti delle deposizioni è dunque necessario vagliare l’attendibilità delle stesse tenuto conto che molti testimoni sono costituiti parti civili e, “vasche dunque, portatori di un tenute aperte interesse economico personale”. Di questo per accelerare interesse economico il processo personale parleremo di più avanti. Ci sono altri coloritura” elementi che hanno giocato a favore dell’assoluzione. Tra essi il miglioramento delle condizioni di lavoro a partire dal 1975. Sono state prodotte le fatture di acquisto di aeratori di ultima generazione (al tempo, ndr) ma non bisogna dimenticare - e la stessa Corte lo fa notare - che alcuni accertamenti peritali su di essi non sono stati possibili poiché dopo la dismissione dell’impianto gli aeratori sono stati smontati e portati via insieme a telai e altri macchinari. Riecco il limbo in cui finiscono alcune parti di questa storia. Il resto è citazione della consolidata giurisprudenza in merito: affinché vi sia rilevanza penale non è sufficiente omettere o rimuovere i presidi atti a prevenire infortuni sul lavoro, ma serve l’attitudine almeno astratta, anche se non bisognevole di concreta verifica, a pregiudicare l’integrità fisica dei lavoratori. Serve la prova che i presidi non adottati o rimossi siano idonei a prevenire infortuni e disastri. Inoltre non c’è dolo se chi omette o commette il reato non è consapevole di creare pericolo. Ma anche il tempo ha il suo peso nel giudizio. La Corte giudicante ammette “la difficoltà di valutare, ora per allora, le condizioni dei luoghi, trattandosi di indagine su una realtà industriale dinamica e che non esiste più,
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svolta a distanza di molti anni dalla chiusura della fabbrica e che rende impossibile fondare su tali basi un giudizio di responsabilità degli imputati”. Anche questa sa di limbo. Come pervase di incertezza, risultano le prove sulle dotazioni o meno dei Dpi e, forse soprattutto, le sostanze chimiche utilizzate in fabbrica. I coloranti - ad esempio - e le loro importantissime schede di sicurezza. Secondo l’accusa, negli atti del processo ne finisce soltanto un piccola parte e alcuni operai testimoniano che queste, in molti casi, venivano fatte sparire. Sta di fatto che un pool di periti, incaricato dal Tribunale nel corso del processo, non è riuscito a fornirne un elenco completo e si è limitato a concludere che per certo alla Marlane si è utilizzato Cromo esavalente, coloranti azoici e trielina. Per il resto, tanto i periti quanto i pm non sono stati in grado di produrre alcuna prova che nella fabbrica di Praia a Mare si utilizzassero coloranti capaci di rilasciare una delle 22 ammine aromatiche individuate dalla normativa europea come sostanze estremamente pericolose. È verosimile - concludono i giudici - che nella Marlane si utilizzassero cromo esavalente e ammine aromatiche che costituiscono un fattore di rischio cancerogeno rispettivamente per il polmone e la vescica. Ciò esclude dunque patologie ad altri organi. Ma anche in merito a quanto risulta verosimile non è provata la causalità individuale. Dunque, caso per caso. Come affermato dalla Cassazione, nel caso di malattie multifattoriali è necessario verificare altre ipotesi di causa per individuare la più plausibile soggetto per soggetto. Nel concludere in questo tono i giudici effettuano un richiamo alle risultanze dell’indagine epidemiologica richiesta ai consulenti tecnici. “Non è stato accertato il nesso causale - scrivono nelle motivazioni tra l’esposizione professionale delle vittime alla sostanza cancerogena e l’insorgenza delle neoplasie secondo il grado di elevata probabilità logica o credibilità razionale richiesto dalla giurisprudenza delle Sezioni unite penali della Corte di legittimità (Sentenza Franzese, 30328 del 2002) per pervenire a un giudizio di condanna, non essendo al riguardo sufficiente la mera probabilità statistica di produzione dell’evento emersa dal complesso delle in-
dagini peritali”. E a questo punto vengono riportati alcuni dati sintetici. Il risultato dello studio epidemiologico dice che su una coorte di 984 soggetti esaminati (702 uomini e 282 donne, 823 vivi e 161 deceduti) sono emerse con certezza 5 patologie neoplastiche in eccesso rispetto a quelle attese: 3 tumori al polmone e “emerse 2 alla vescica. La concon clusione dei periti è che certezza sia provato il nesso di 5 patologie causalità per un caso di neoplastiche tumore alla vescica (Luin eccesso” igi Pacchiano) e per tre casi di tumore polmonare (Biagio Fiorenzano, Aldo Martoglio e Rosario Presta). La terra e il veleno. Riempi la buca. Il disastro ambientale Secondo le testimonianze di alcuni ex operai Marlane, per anni, nei terreni che circondano lo stabilimento sarebbero state interrate tonnellate di rifiuti pericolosi, per lo più scarti derivanti dai procedimenti lavorativi, persino risulte di ristrutturazioni dello stabilimento. Ma soprattutto fanghi della depurazione. Alcune di queste tute blu dicono che si trattava di specifici ordini dei dirigenti locali. La prassi descritta è questa. Nei fine settimana, ad alcuni viene chiesto di fare un po’ di lavoro straordinario, ovvero scavare profonde buche nel terreno da riempire di fanghi e altro. Gli altri che, nel frattempo, sono addetti alla manutenzione si girano dall’altra parte e si fanno i fatti loro. L’area industriale dista poche decine di metri dalla riva del Mar Tirreno e si ipotizza inoltre che parte di quei rifiuti possano essere stati avviati anche in quella direzione. È l’estate del 2006 quando alla Procura della Repubblica di Paola giungono le prime denunce circa gli interramenti. Sono gli ex operai Sica, Cunto e Pacchiano a interessarne il pm Francesco Greco che apre un fascicolo su sette persone. Ad ottobre dello stesso anno, la Procura dispone il sequestro dell’area e lo svolgimento delle prime analisi ambientali. Dopo il dissequestro la Marzotto avvia uno studio di caratterizzazione dell’area. L’anno successivo, a novembre,
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Scavi di fanghi neri / Foto tratta dalla Relazione “De Rosa“
un secondo fascicolo è aperto sulla posizione di quattro persone dal pm Antonella Lauri che dispone un nuovo sequestro dell’area e una campagna di indagini ambientali che prevede scavi, carotaggi e analisi delle acque di falda. Dati finiti nella perizia svolta per la Procura da Rosanna De Rosa del Dipartimento di geologia dell’Università della Calabria. Il nuovo sequestro blocca l’iter di caratterizzazione avviato da Marzotto. E ancora, nel 2008, altri accertamenti ambientali sono svolti nei terreni Marlane limitatamente alle acque sotterranee. Il procuratore capo di Paola, Bruno Giordano, riunisce i procedimenti in un unico fascicolo. La perizia “De Rosa” è inquietante e l’eco allarmistica che ne segue si trascinerà fino al processo e oltre nonostante - per dovere di cronaca e completezza - lo studio sia stato letteralmente demolito in aula dal Collegio difensivo. Nella parte inerente “Discussione dei dati e prime considerazioni” si legge: “Impressionante è la quantità di un colorante azoico riscontrato in quantità diverse nei reperti 36
esaminati. Si tratta chiaramente di un composto utilizzabile dalla Marlane per le operazioni di colorazione dei tessuti. È impressionante la sua percentuale relativa nel reperto Z 4-2 che ammonta a 646 gr./kg Si tratta, in pratica di una superficie di terreno fondamentalmente costituita dal colorante “la perizia in parola. La facilità De Rosa con la quale può essere è inquietante estratto dalla matrice, con un’eco e purificato, potrebbe allarmistica suggerire, in un’operazione di bonifica, il e duratura” suo recupero e la sua commercializzazione”. E ancora, nelle conclusioni della relazione: “I risultati degli accertamenti dimostrano come le zone sottoposte a prelievo sono da definirsi inquinate ed alcune di esse, vedi la Z 4-2 estremamente pericolosa per la salute dell’uomo e per l’ecosistema. Le sostanze chimiche rilevate sono nella maggior parte dei casi,
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riconducibili all’attività di un azienda operante nel settore della colorazione dei tessuti. Il disastro ecologico che si può ipotizzare dall’analisi dei dati, richiede ulteriori indagini anche sul territorio circostante e nelle falde acquifere”. Chi partecipa alla campagna scavi racconta quanto visto con i propri occhi. Dal suolo smosso dalla benna di una ruspa fuoriesce di tutto: rocchetti di plastica utilizzati in fabbrica per raccogliere i fili da tessere, lana di vetro in quantità enormi, fusti metallici semi arrugginiti con marchi di aziende chimiche, bidoni di plastica. Ma, soprattutto, strati di fanghi di diverse tonalità di colore: dal grigio chiaro a quello scuro, al nero, al marrone fino al giallo, al rosso e di consistenza untuosa e melmosa. Le risultanze di questi scavi e la già nominata relazione “De Rosa” hanno costituito la base su cui fondare l’accusa di reato ambientale a carico degli imputati. Sono state riprese da numerose perizie tecniche di parte, compreso lo studio ambientale commissionato dal tribunale ad un pool di esperti a procedimento in corso. Nessuno degli imputati però è stato condannato per questo reato ambientale e per quelli minori. Anche in questo caso, tutti assolti perché le analisi effettuate sui terreni della ex fabbrica tessile di Praia a Mare del Gruppo Marzotto sono insufficienti a provarlo, e sono state anche svolte male. Nelle motivazioni i giudici respingono le accuse perché mal strutturate e correlate a riferimenti normativi superati o mal interpretati. Chi ha scavato in “nessun quattro momenti diversi imputato in quell’area tra il 2006 è stato e il 2008 è stato incomcondannato pleto e chi ha analizzato per reati per contro della Procuambientali” ra i campioni ottenuti ha commesso errori di valutazione. Un terreno contaminato - stando al Decreto legislativo n.152 del 2006, “Norme in materia ambientale” - può considerarsi tale solo dopo una serie di passaggi. Alle analisi su campioni di matrici ambientali dei terreni e delle acque che devono provare superamenti delle Concentrazioni di soglie di contaminazione (Csc)
deve seguire un’analisi di rischio specifica del sito. È in questa fase che si ottengono comparazioni con le cosiddette Csr, ovvero Concentrazioni soglia di rischio che, se superate dai valori riscontrati, aprono la strada a una eventuale bonifica. “Nel caso in esame - si legge nella sentenza Marlane - i risultati delle indagini condotte in occasione degli scavi del 2006 e del 2007 depongono nel senso che tutti i valori di concentrazione rilevati, sia per i terreni che per le acque sotterranee, risultano ampiamente inferio“le risultanze ri alle corrispondenti degli scavi Concentrazioni soglia di costituiscono contaminazione. Dinanzi la base su a detto risultato - proseguono i giudici - è cui fondare ovvio che i terreni e le l’accusa” acque sotterranee del sito Marlane devono essere considerati “non contaminati” e non deve essere effettuata, per queste matrici, alcuna analisi di rischio ambientale e sanitaria sito-specifica”. Inoltre, i giudici tengono conto del fatto - emerso in fase dibattimentale - che il consulente dell’accusa Rosanna De Rosa ha fornito dati allarmanti in merito ad alcuni campioni che, però, tali non erano. È il caso, ad esempio, del campione denominato 25/14 che presenta consistenti superamenti delle soglie di contaminazione per alcuni elementi chimici come il cromo, il cromo esavalente e, in parte modesta, per lo zinco. Ma quel campione non è una matrice ambientale, bensì un rifiuto: un bidone ammaccato contenente sostanze chimiche. Quando viene ritrovato, il perito non dispone il prelievo, e dunque l’analisi, di una campione di terreno circostante che da quel rifiuto potrebbe essere stato contaminato. Altri campioni, prelevati nel 2007, presentano il medesimo problema. In altri casi è stata indicata una tabella di comparazione dei valori errata. “Ma se anche - conclude la Corte - si fossero riscontrate Concentrazioni soglia di contaminazione si sarebbe dovuto comunque parlare di terreno potenzialmente contaminato” e dunque non di certo “dell’esistenza di una situazione effettiva e concreta di pericolo per la salute della
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popolazione stanziata nel territorio dei comuni di Praia a Mare e Tortora in difetto di un’analisi di rischio”. Nel 2007 e nel 2008 è indagata la falda acquifera, ma non è evidenziata la presenza di nessuna delle sostanze rilevate analiticamente nei rifiuti. “Perciò - si legge ancora nella sentenza - le sostanze potenzialmente inquinanti presenti nei rifiuti interrati, non hanno mostrato alcuna capacità di diffusione e migrazione verso le matrici ambientali (suolo, sottosuolo, materiali di riporto e acque sotterranee, ndr)”. Inoltre la corte ritiene “irrealistici” i cosiddetti percorsi di migrazione individuati dal pool di periti incaricato dal Tribunale: ovvero non sarebbe reale la possibilità che le sostanze contenute nei rifiuti possano propagarsi nell’ambiente attraverso il vento, le piogge o a causa di incendi poiché interrati. Per di più, le analisi sulla falda acquifera hanno dato esito negativo circa la presenza di sostanze inquinanti. Secondo il parere di altri esperti sulle caratteristiche degli incendi boschivi, citato dalla corte, risulta “stroncata”, in definitiva, l’ipotesi dei periti secondo la quale con il calore generato da fiamme si possano sprigionare sostanze irritanti per l’uomo dalle benzoaniline interrate. Insomma, il pensiero dei giudici è che seppur è provato che si siano verificati interramenti, non si può parlare di pericoli per la pubblica incolumità e tanto meno di disastro ambientale. Quanto ai pericoli per la salute umana, la Corte cita le conclusioni con esiti negativi derivanti dall’indagine epidemiologica svolta dai propri periti che “non hanno individuato alcun impatto sanitario nella popolazione dei comuni di Praia a Mare e Tortora correlabile allo stabilimento Marlane. In particolare, gli esperti si sono espressi nel senso che non sono stati individuati scostamenti significativi di patologie neoplastiche o comunque correlabili alle sostanze ritrovate nell’ambiente circostante”. La sentenza assolutoria è appellata. Duro attacco ai giudici Contro la sentenza di primo grado si è immediatamente schierata la Procura della Repubblica di Paola presentando appello a marzo del 2015. Un vero e proprio attacco frontale ai giudici e alla decisione di assolvere con for38
mula piena gli imputati. “Una sentenza viziata nelle motivazioni”, scrivono i magistrati in un documento di circa 60 pagine. Che ha dichiarato insufficienti le prove per i reati contestati. Eppure per la Procura di Paola sarebbero gravi le omissioni del Collegio giudicante che nell’esprimere il suo giudizio non avrebbe tenuto conto della gran mole probatoria emersa nel dibattimento. Non sarebbero state prese in considerazione, ad esempio, molte evidenze emerse dalle consulenze tecniche prodotte dalle parti nonché dalla perizia ambientale commissionata dallo stesso tribunale. Secondo i pm, la sentenza tiene conto di quanto riferito in aula da alcuni testimoni ritenuti poco attendibili per avere rapporti di tipo economico o fiduciario con i soggetti citati come responsabili civili. Di contro sono cancellate con un colpo di spugna “cancellate le molte testimonianze con un colpo di ex operai o dei loro familiari, perché contedi spugna le stualmente anche parti testimonianze civili e “dunque - secondi ex operai do i giudici - non attene familiari” dibili perché portatori di un interesse economico personale”. Il procuratore capo di Paola, Bruno Giordano, e i pm Camodeca e Gambassi, nell’impugnare la sentenza di primo grado, chiedono alla Corte d’Appello di Catanzaro di condannare gli imputati Storer, Favrin, De Jaegher, Lomonaco, Rausse, Bosetti, Benincasa, Cristallino, Ferrari, Priori e Marzotto per i reati ad essi rispettivamente ascritti a pene che saranno richieste dai pm nel secondo grado di giudizio. Chiedono inoltre di rinnovare la perizia già disposta dal Tribunale di primo grado e di annullare l’ordinanza pronunciata dal Collegio giudicante nell’udienza del 19 settembre 2014, con la quale è stata rigettata la loro richiesta di modifica del capo di imputazione delle lesioni colpose, relativo ad alcuni ex operai, in omicidio colposo. Oltre al limbo le trattative. A chi importano allora verità e giustizia? La vicenda Marlane, però, si segnala anche per alcune trattative che potrebbero mettere
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il lettore nella condizione di concludere che proprio i principali interessati alla verità e alla giustizia siano stati i primi a non crederci. Nelle udienze del 15 e del 22 novembre 2013 arrivano prima le avvisaglie e poi le conferme che il grosso delle parti civili rinuncia alla propria costituzione nel procedimento. Stiamo parlando di oltre 200 persone, tra operai ammalati ed eredi di quelli defunti, che decidono di accettare un indennizzo proposto da Eni e Marzotto, responsabili civili. Ad ognuno di loro una cifra che si aggira tra i 20 e i 30 mila euro. 7 milioni di euro: questa la cifra approssimativa che Eni, per due terzi, e Marzotto, per la parte restante, pagano alle parti civili del processo Marlane e ai loro avvocati. Comunque, una somma ben al di sotto degli oltre 200 milioni di euro richiesti nel processo. “La considero una vittoria degli avvocati - dice uno dei risarciti, figlio di un operaio morto per tumore - per essere riusciti a costringere Eni e Marzotto a risarcire oltre 200 persone in un processo che probabilmente vedrà la sua fine tra circa 10 anni”. Quanto alle singole somme, sarebbe passato il principio della proporzionalità, con un risarcimento maggiore agli ex operai ammalati e minore per le altre posizioni. Tra queste ultime sono ricompresi i familiari degli operai deceduti e, anche se in un numero ristretto, gli eredi di persone morte per tumore e residenti nei quartieri limitrofi all’ex area industriale. In alcuni isolati casi vengono risarciti anche familiari di dipendenti deceduti nonostante prestino servizio in fabbrica solo per alcuni mesi o in stabilimenti del gruppo diversi da quello di Praia a Mare. Questa prima trattativa attraversa lentamente e sottotraccia il processo. L’accordo - è trapelato - è chiuso di notte in uno dei tanti alberghi della costa tirrenica tra i legali delle tute blu e alcuni rappresentanti del Collegio difensivo. Tra questi ultimi avrebbe svolto un ruolo predominante Giancarlo Pittelli, l’avvocato di Eni, che nel 2013 difende anche Francesco Furchì accusato del tentato omicidio di Alberto Musy già candidato sindaco di Torino per l’Udc. Pittelli è inoltre noto per essere stato, tra l’altro, coordinatore regionale di Forza Italia in Calabria, deputato e senatore per il centrodestra, ma anche uno degli artefici, nel 2011, della crisi
del Governo Berlusconi IV chiusasi poi con le dimissioni del premier. Pittelli è solo uno dei supertogati chiamati dai colossi industriali del Nord a giocare la parte dei lupi in un processo scomodo, importante, ma tenuto in un tribunale di periferia, forse non pronto per un tale onere. Nel Collegio difensivo, a vario titolo, sfilano in aula avvocati penalisti del calibro di Niccolò Ghedini (l’avvocato di Berlusconi), Angelo Giarda (difensore di Alberto Stasi per l’omicidio di Chiara Poggi), Nico D’Ascola (Olindo Romano e Rosa Bazzi, strage di Erba). Con il ritiro delle costituzioni parte civile delle tute blu ed eredi, escono di conseguenza dall’elenco dei responsabili civili la Regione Calabria e il Comune di Praia a Mare. Entrambi restano costituiti come parte civile insieme al Comune di Tortora e alle sigle ambientaliste e sindacali, ma l’ente praiese esce sorprendentemente da questo elenco nel 2015. A settembre per la precisione. E lo fa come conseguenza di una seconda trattativa su “Proposta irrevocabile presentata dalla Manifattura Lane Gaetano Marzotto e figli spa. Acquisizione aree e immobili da inserire nel patrimonio comunale”. In sintesi, il Comune di Praia a Mare accetta porzioni dell’ex area industriale di proprietà Marzotto e in cambio ritira la costituzione parte civile, rinuncia all’appello contro la sentenza di primo grado e ad ogni altro contenzioso con il privato. Nell’elenco dei beni immobili passati all’ente pubblico sono comprese parti dell’opificio (due campate da destinare ad attività commerciali), un deposito, il depuratore aziendale confinante con quello comunale e diverse migliaia di metri quadrati di terreno che comprendono anche una piccola parte dell’area oggetto delle indagini ambientali della Procura. La Marzotto, oltre a guadagnarci da un punto di vista legale, ottiene il nulla osta ad eventuali utilizzi della parte rimanente della proprietà in rispetto al piano regolatore che identifica l’area come mista, industriale-residenziale. Inoltre, si impegna a terminare entro un anno dalla Delibera comunale (30 settembre 2016, ndr) il piano di caratterizzazione nell’area oggetto di scavi e in cui sono state trovate sostanze inquinanti e, eventualmente, a procedere a bonifica.
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PECORE AL PASCOLO SU DISCARICA Accade a Scicli, in provincia di Ragusa. Un video riprende un gregge nella zona di San Biagio. Il sito fino al 2009 ha ricevuto i rifiuti del comprensorio modicano fino al suo esaurimento. Da allora, però, il processo di recupero dell’area non è mai stato completato. E prossimamente un’altra discarica accoglierà gli scarti dei lavori sulla Siracusa-Gela, in una discarica di inerti autorizzata da Comune e Consorzio autostrade siciliane. Nella zona, nel raggio di pochissimi chilometri, insistono anche altre discariche abusive, bonificate solo in parte. I residenti denunciano: “Questa oramai è diventata una zona tossica, con molte esalazioni. Le malattie autoimmuni che si registrano sono notevolmente aumentate.”
DODICI NUOVI INCENERITORI
Un mese di tempo, aveva concesso il ministero dell’Ambiente alla società TG Energie Rinnovabili srl, per integrare la documentazione del grande campo eolico offshore davanti alla costa che va da Torchiarolo a Brindisi-Torre Mattarelle. Pena la chiusura dell’istruttoria di Valutazione d’impatto ambientale (Via) allo stato degli atti disponibili. Quindi, un no quasi certo al progetto. È arrivata dunque ad una svolta l’operazione che prevede la realizzazione di 36 grandi torri eoliche entro le due miglia dalla costa, della potenza ciascuna di 3 megawatt, produzione affidata ad aerogeneratori Vestas, per un totale di 108 megawatt, che un cavidotto prima sottomarino, poi interrato, porterà sino ad una cabina di ricezione nella zona di Cerano.”
Il decreto-legge “Sblocca Italia” ha reso “strategica” la costruzione di nuovi inceneritori, togliendo potere alle Regioni e velocizzando i tempi per realizzazione ed attivazione. Per non rischiare di rimettere mano al progetto, il ministero dell’Ambiente vuole evitare studi più approfonditi. Sostenendo che non serve. In cantiere, ci sarebbero 2 milioni di tonnellate di rifiuti aggiuntivi da bruciare in un anno, ovvero quasi il 30 per cento in più di adesso. “Non incide direttamente sulle componenti ambientali”, e non è possibile sapere se comporterà “il superamento dei livelli di qualità” dell’aria. È questa la singolare osservazione contenuta nel Rapporto preliminare al Piano nazionale inceneritori presentato a metà aprile. I nuovi inceneritori sorgeranno al centro e al Sud, dato che il Nord già copre il suo fabbisogno. Il Governo ha deciso anche in quali regioni: Umbria, Marche, Lazio, Campania, Abruzzo, Puglia, Sardegna e Sicilia. Il Forum dei movimenti per l’Acqua - partendo da uno studio dell’Arpa Emilia Romagna - ha quantificato che il surplus di incenerimento comporterà ogni anno la produzione di 450 mila tonnellate in più di scorie e ceneri, 2 mila tonnellate di ossidi di azoto, 545 chili di mercurio e altrettanti del velenoso tallio.
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EOLICO IN MARE, SVOLTA A BRINDISI
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CO2 IN AUMENTO Se fino al 2014 le emissioni di CO2eq dell’Italia sono diminuite del 19,8 per cento rispetto all’anno di riferimento (1990) e del 4,6 per cento rispetto all’anno precedente, il 2015 ha invece segnato un leggero aumento: un 2 per cento. Sia chiaro, si tratta comunque di un leggero rialzo, che fa restare il nostro paese ben al di sotto, di circa il 17.7 per cento, del valore assegnato in ambito comunitario (13 per cento). Lo rende noto l’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), con il suo annuale “Inventario delle emissioni dei gas ad effetto serra”, diffondendo la serie storica 1990-2014 delle emissioni atmosferiche nazionali e i primi dati preliminari del 2015.
PRIVATI DELL’ACQUA
Il Comune di Arborea ha richiesto alla Regione lo stralcio integrale del paragrafo del Piano energetico regionale in cui si fa riferimento al metano come risorsa endogena potenziale. “Non solo il metano è una fonte fossile, contrariamente a quanto si legge nel Pears”, dichiara il sindaco Manuela Pintus. “Il punto è che, dopo aver ripercorso sommariamente le tappe riferite ai permessi di ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi rilasciati dalla Regione Sardegna e insistenti nell’isola, ‘Eleonora’ e ‘Igia’, il Piano energetico fa riferimento a un nuovo interesse di natura economica al reperimento di materie prime energetiche che avrebbe spinto alcune società, in questi ultimi anni, a richiedere il rilascio di nuovi permessi di ricerca per riprendere le ricerche di idrocarburi nel sottosuolo isolano.”
Il Pd è uno dei partiti che appoggiarono il referendum sull’acqua bene comune, l’ultimo a raggiungere il quorum nel 2011. Il 20 aprile, però, proprio per iniziativa dei democratici, la gestione del servizio idrico ha fatto un altro passo verso la privatizzazione. La Camera dei deputati ha, infatti, licenziato la proposta di legge sulla tutela, il governo e la gestione pubblica delle acque con 243 voti a favore, 129 contrari e 2 astenuti. Dopo il voto è stata bagarre in aula, con le opposizioni che hanno messo in atto una protesta e dispiegato le bandiere con la scritta “2 Sì per l’acqua bene comune”. Il conflitto tra maggioranza e opposizione, tra Pd schierato per la privatizzazione - pur senza ammetterlo - e M5S, Sel e SI sull’altro fronte, si combatte intorno all’articolo 6. È questo il cuore del ddl di iniziativa popolare presentato ormai nel 2007 con 400 mila firme: prescrive l’affidamento del servizio idrico solo a enti di diritto pubblico pienamente controllati dallo Stato, garantendo un anno agli enti per l’adeguamento. Il provvedimento approvato alla Camera non reca più la formula che garantiva l’affidamento in via prioritaria a società interamente pubbliche.
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LA SARDEGNA E IL PIANO ENERGETICO
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Lo speciale marzo 2016
IL MIRAGGIO INDUSTRIALE
Il petrolchimico nella Piana di Gela / pagina 20
IL PETROLCHIMICO E LE MALFORMAZIONI
Intervista al professor Benedetto De Vivo / pagina 23
UNA STORIA LUNGA UN CLORO-SODA
Lavoro e salute / pagina 29
Gela profonda
RAFFINERIA VERDE, FUTURO NERO DI ROSARIO CAUCHI
A Gela si gioca una partita apertissima. Su diversi fronti. Dal progetto Green Refinery ai posti di lavoro andati in fumo, tra cassa integrazione e licenziamenti. Dalle mancate bonifiche alla richiesta di risarcimento danni da parte dei cittadini. Siamo tornati a nella Piana del Signore
Da mesi le ciminiere in contrada Piana del Signore sono mute, quasi immobili. I segnali di fumo con i quali gran parte dei gelesi ha convissuto per decenni non ci sono più. Sembrano dissolti come la maggior parte dei posti di lavoro tra gli impianti della raffineria Eni. Niente fumate bianche. Niente nuvoloni neri che spesso fuoriuscivano durante le fasi del ciclo produttivo di raffinazione, e non solo. “Stiamo affrontando una fase di riconversione senza precedenti nella storia dell’industria locale”. Lo hanno ribadito più volte, non solo i rappresentanti sindacali a tutti i livelli, ma anche gli esponenti di due giunte che si sono date il cambio. Quella dell’ex sindaco Angelo Fasulo - primo cittadino che pose la firma, nel novembre 2014, al Protocollo d’intesa sugli investimenti di Eni in città - ha lasciato posto a quella di Domenico Messinese, espulso dal Movimento 5 Stelle pochissimi mesi dopo l’insediamento. Un’espulsione che, per molti, sa proprio di Eni. Il gruppo consiliare del M5S fin da subito ha bacchettato le scelte della giunta sul fronte delle politiche industriali. Per i grillini seduti in consiglio comunale, il sindaco Domenico Messinese, e il suo vice Simone Siciliano, appaiono fin troppo concertativi quando si tratta di avviare tavoli di confronto con i manager di San Donato Milanese. La multina44
#gelaprofonda #raccontifossili #sicilia
zionale, anche a conclusione del vertice dello scorso 19 aprile tenutosi al ministero dello Sviluppo economico a Roma, ha ribadito una linea ormai consolidata. “Confermiamo i nostri investimenti su Gela”. Un totale, stando ai numeri del Protocollo d’intesa, di 2,2 miliardi di euro. Il core business del ‘Cane a sei zampe’, adesso, è in mare: esplorazione e trivellazione, costruzione della nuova piattaforma “Prezioso K”, la fanno da padroni. Assorbono circa 1,8 miliardi di euro. Il resto è destinato appunto alla riconversione. Niente più raffinazione di greggio ma via libera alla Green Refinery - la raffineria verde - per la produzione di carburanti “sostenibili”. Una nuova fase produttiva che, però, non trova riscontro tra le decine di operai dell’indotto di raffinazione che da mesi fanno i conti con il fermo dei cantieri. Uno stop totale. Che significa ammortizzatori sociali e licenziamenti. La crisi nera di quella che, un tempo, sembrava l’unica valvola di sfogo alla disoccupazione in questo lembo di terra molto più a sud del Sud, si legge sui volti degli operai Smim, Elettroclima, Eurocoop, Sudelettra, solo per citare le aziende più importanti. A 115 operai della Smim, dopo settimane di tira e molla, le lettere di licenziamento sono state recapitate qualche ora prima della processione del Venerdì Santo. I funzionari della
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Stabilimento Eni / Foto di Rosario Cauchi
Prefettura di Caltanissetta e quelli dell’Ufficio del Lavoro si trovano a fronteggiare agende virtuali stracolme di convocazioni targate “indotto”. Un processo di crisi che, anche qualora dovessero partite i primi cantieri della Green Refinery, difficilmente potrà mai trovare un punto di convergenza. Troppi lavoratori rispetto alle nuove richieste della multinazionale. Sono gli stessi lavoratori al centro di fascicoli e faldoni. Questa volta diversi da quelli tenuti negli uffici dell’Inps o dell’Inail. Per i magistrati della Procura di Gela, infatti, la fabbrica Eni di contrada Piana del Signore e gli impianti della controllata Enimed - che gestisce il settore delle estrazioni - sarebbero l’anello di congiunzione sia rispetto ai danni ambientali riscontrati lungo l’intero territorio, sia davanti alle tante morti “sospette” che continuano a spezzare la vita di decine di famiglie. Il 10 marzo di quest’anno, il procuratore capo Lucia Lotti - ufficialmente assegnata alla Procura di Roma dopo otto anni di servizio in città - ha annunciato la chiusura di una maxi inchiesta,
con ventidue indagati, tutta legata alle attività di Eni sul territorio. Come abbiamo avuto modo di raccontarvi in esclusiva sul primo numero (numero 1, anno 1 - marzo 2016, ndr), con l’inchiesta “Gela profonda”, tra le ipotesi di reato contestate ad ex dirigenti del gruppo e a tecnici, ci sono il disastro ambientale e la mancata effettuazione degli interventi di bonifica prevista dalla legge. Una sorta d’indagine madre che, al suo interno, ne ricomprende altre, traendo spunto da procedimenti addirittura già conclusi con sentenze passate in giudicato. Carte su carte Il cuore della maxi inchiesta della Procura di Gela è stato messo nero su bianco in migliaia di documenti. Una dettagliata ricostruzione delle presunte violazioni da parte della multinazionale, talmente gravi da aver mutato gli equilibri ambientali di una città che vorrebbe guardare oltre le ciminiere di contrada Piana del Signore e i pozzi disseminati ovunque. A
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poche ore di distanza dall’annuncio arrivato dagli uffici del procuratore, una nota di Eni ha subito cercato di porre le distanze dalle accuse mosse. “L’impatto ambientale dello stabilimento industriale di Gela - si legge - è stato oggetto sia di una valutazione preventiva da parte delle autorità amministrative competenti in fase di rilascio delle autorizzazioni necessarie ad operare, sia successivamente, nell’ambito delle attività di monitoraggio e controllo svolte dagli enti preposti. Tutte le analisi effettuate hanno sempre confermato l’osservanza delle norme, disposizioni e prescrizioni impartite per la corretta gestione delle attività industriali e in particolare, in relazione al rispetto delle norme in materia di emissioni in atmosfera, scarichi idrici e bonifiche. I risultati delle indagini ambientali realizzate dagli enti pubblici competenti sulle matrici ambientali circostanti lo stabilimento confermano l’assenza di un inquinamento diffuso nell’area e soprattutto di rischi per la popolazione della città di Gela”. Quindi, per Eni, sarebbe tutto in regola. Carte bollate “I cittadini gelesi hanno diritto ad un ambiente salubre. Le procedure di disinquinamento e quelle di bonifica, dettate dalla legge, non sono mai state rispettate”. Gli avvocati Luigi Fontanella, Laura Vassallo e Giuseppe Fontanella lo hanno ribadito anche davanti al giudice civile Virgilio Dante Bernardi, chiamato a valutare il ricorso d’urgenza, sottoscritto da oltre 500 cittadini. Si chiede l’immediato stop di tutte le attività dell’azienda milanese sul territorio e l’avvio delle procedure di bonifica dettate dalla legge. A costituirsi in giudizio, è stato anche il Comune di Gela, rappresentato dall’avvocato Mario Cosenza. La mossa dell’amministrazione è scattata dopo la citazione da parte dai legali che hanno proposto il ricorso d’urgenza. Il legale nominato dall’ente, però, ha risposto con una sorta di “colpo ad effetto”, chiedendo che Eni preveda un fondo da 80 milioni di euro da mettere a disposizione di tutti i lavoratori e delle loro famiglie. Non solo per i danni alla salute ma anche a seguito dello stop ai cantieri. “Sono stati rispettati tutti i parametri di legge”, ha spiega46
to al giudice l’avvocato Lotario Dittrich legale delle società Eni. “Solo il ministero - continua - è legittimato ad agire qualora ravvisi un danno ambientale. Se passasse un principio diverso, tutti i cittadini di Milano potrebbero presentare ricorso per le percentuali di PM10 in atmosfera tre o quattro volte superiori a quelle registrate a Gela”. Il giudice Bernardi ha deciso di riservarsi qualsiasi decisione. I cittadini chiamano in causa il Consiglio dei ministri Si è aperto un altro fronte. Questa volta davanti ai giudici del tribunale civile di Caltanissetta. Decine di famiglie hanno scelto di citare in giudizio, non solo l’Eni, ma anche il Consiglio dei ministri, il ministero dell’Ambiente, l’assessorato al Territorio, l’ex provincia di Caltanissetta, la Regione e il Comune. L’obiettivo è di ottenere risarcimenti per gravi patologie contratte, per i casi di malformazioni neonatali, per il rischio di consumare alimenti contaminati. Si punta a far emergere la presunta responsabilità di quelle autorità che si sarebbero dovute occupare della prevenzione e della tutela ambientale. Così, nel calderone sono finite pure l’Arpa Sicilia, il Dipartimento della protezione civile e l’Ispra. In sostanza, non avrebbero svolto in maniera efficiente le funzioni delegate. Un filone giudiziario che scatterà in questi giorni. È stato l’avvocato Emanuele Maganuco, nell’interesse delle famiglie colpite, a depositare ricorsi e documentazione. Il Comune di Gela ha risposto nominando un legale. “Non auguro a nessuno di dormire la notte respirando da una bombola d’ossigeno. Quando lavoravamo tra gli impianti della fabbrica Eni, nessuno ci informava della pericolosità delle sostanze con le quali entravamo in contatto”. Parole di Antonio Di Fede, un operaio dell’azienda Smim, per decenni impegnato nell’indotto della raffineria Eni di contrada Piana del Signore, che ha scelto di denunciare e di costituirsi parte civile nel giudizio penale avviato contro i vertici e i responsabili della sicurezza proprio della società. Il processo, come molti altri, è ancora in corso davanti ai giudici del tribunale di Gela. Che seguiremo per voi nei prossimi numeri.
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Si ringrazia per la gentile concessione
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Multinazionali
CLIMA DI TENSIONE DI FRANCESCO PANIÉ / twitter @francesco_panie
L’accordo sul clima in seno alla COP 21, firmato il 22 aprile nella Giornata della Terra da 174 Paesi, è una lista di buone intenzioni senza impegni vincolanti sui punti chiave: il taglio delle emissioni, gli aiuti ai Paesi vulnerabili, il rispetto dei diritti umani. I margini per adattarsi a un clima impazzito sono quasi nulli
#cop21 #clima #giornatadellaterra
Ma ci hanno presi in giro? La domanda è quanto mai opportuna, perché fino a qualche mese fa il pericolo del riscaldamento globale sembrava meno minaccioso. Intendiamoci, non che ci trovassimo in una situazione idilliaca, anzi. Ma a livello planetario, le numerose ricerche scientifiche su cui si fonda l’azione politica internazionale prevedevano un certo margine. Per la precisione ci assicuravano che, per conservare una discreta possibilità di scampare a disastri naturali di portata inimmaginabile, dovevamo evitare un aumento delle temperature, entro fine secolo, di 2 gradi rispetto all’era preindustriale. Una stima proposta dall’IPCC, il gruppo di esperti sui cambiamenti climatici che informa le Nazioni Unite. A partire dal 2016, invece, la situazione sembra improvvisamente precipitata. Lo dimostra un’ondata di nuove ricerche dal taglio assai più catastrofico. Secondo un articolo dell’International Institute for Applied Systems Analysis, pubblicato a febbraio su Nature, fino ad oggi abbiamo sbagliato a calcolare la quantità di carbonio che l’umanità può ancora emettere in atmosfera prima di oltrepassare la soglia critica dei 2 gradi. Se il ritmo di crescita delle emissioni rimane inalterato, entro il 2050 avremo consumato il nostro cosiddetto carbon budget. Questo significa che i tempi sarebbero dimezzati, poiché il punto di non ritorno non
sarebbe più fissato al 2100. L’analisi è condivisa anche dalla Concordia University, che a gennaio è giunta a conclusioni simili. La rivista Plos One ha ospitato poche settimane fa una tesi ancor più catastrofica, sostenuta da due ricercatori australiani. Essi sono convinti che l’aumento di 2 gradi rispetto al periodo antecedente la rivoluzione industriale verrà raggiunto già nel 2030. Eppure, sulla valutazione dell’IPCC si sono costruiti gli impegni dei 196 Paesi che hanno “Entro il 2050 partecipato alla COP 21, potremmo la conferenza sul clima consumare di Parigi. A dire il vero, all’apertura di quello il nostro che indubbiamente è carbon stato l’evento dell’anno, budget” i piani di taglio delle emissioni inquinanti depositati dai partecipanti non risultavano abbastanza ambiziosi: nel migliore dei casi, avrebbero prodotto un aumento del riscaldamento globale di 3 gradi contro i 2 “accettabili” entro la fine del secolo. Nessuno si è molto preoccupato, durante la COP, della discrepanza tra le promesse e le reali necessità. Ma oggi non si può più voltare la faccia di fronte a uno scenario che sembra nettamente peggiore di quanto previsto.
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I rischi che corriamo per il potenziale grossolano errore della scienza più accreditata sono smisurati. Se l’IPCC si sbaglia – e non è più tanto peregrino pensare che si sbagli – potremmo subire impatti irreversibili del cambiamento climatico già nei prossimi decenni. Quando ancora non saremo preparati ad incassare il colpo. Due team di ricercatori statunitensi hanno affermato il mese scorso su Nature, che l’aumento del livello dei mari sarebbe stato ampiamente sottostimato dall’ultimo rapporto dell’IPCC. Secondo gli esperti ONU, infatti, gli oceani potrebbero salire al massimo di 52-98 centimetri entro il 2100. Il nuovo studio suggerisce invece che l’aumento reale potrebbe essere di 1,5 metri, una minaccia ben maggiore per megalopoli come New York e Shanghai, ma soprattutto per i piccoli Stati insulari che rischiano di venire inghiottiti dall’Oceano. E questo è solo uno degli impatti possibili. Altre zone del mondo, non bagnate dal mare, potrebbero trovarsi a fronteggiare lunghe e tremende siccità, altre ancora fenomeni alluvionali di portata mai vista prima. Tutto questo metterà a repentaglio la disponibilità di acqua, la sicurezza alimentare e la salute delle comunità più vulnerabili. Le Nazioni Unite prevedono che entro il 2050 potrebbero migrare – solo per cause legate ai cambiamenti climatici – fino a 250 milioni di persone. Possiamo impedirlo? Sembra piuttosto difficile. Le grandi potenze restano immobili, incapaci di svezzare l’industria dei combustibili fossili da sussidi che il Fondo Monetario Internazionale stima in 5.300 miliardi di dollari l’anno. Eppure sono le compagnie del carbone, del petrolio e del gas ad avere la responsabilità del riscaldamento globale. L’Università di Oxford ha stimato che, per mantenere un 50% di possibilità di evitare gli effetti più catastrofici del cambiamento climatico, dopo il 2017 non si dovrebbero più costruire centrali elettriche basate su fonti fossili. Tutte le nuove infrastrutture energetiche dovrebbero essere zero carbon tra appena un anno. Impossibile, anche perché un report di Sierra Club e Greenpeace pubblicato di recente, stima circa 1.500 impianti a carbone in fase di costruzione o allo stadio progettuale in tutto il mondo. Possiamo anche scordarci che, sebbene il buon
senso imponga ai governi di stracciare quei piani, gli impianti verranno mai bloccati. Non è bello da dire, ma sembra che dobbiamo prepararci al peggio. Gli scienziati di cui tutto il mondo si è fidato potrebbero aver fatto cilecca. Invece di badare ai numeri, i leader globali avrebbe“gli scienziati ro potuto operare per di cui tutto il mondo si fida il bene comune molto prima, organizzando una potrebbero transizione energetica aver fatto in tempi non sospetti. cilecca” Ma la più grande conquista che hanno raggiunto – l’accordo sul clima in seno alla COP 21 – è una lista di buone intenzioni senza impegni vincolanti sui punti chiave: il taglio delle emissioni, gli aiuti ai Paesi vulnerabili, il rispetto dei diritti umani. In questo quadro, i margini per adattarsi a un clima impazzito sono quasi nulli. IL PARLAMENTO EUROPEO HA RINNOVATO L’USO DEL GLIFOSATO
Il 17 aprile 2016 - appena una settimana dopo l’uscita del nostro articolo “L’impero dei pesticidi”, a firma di Vito L’Erario - il Parlamento europeo ha rinnovato l’autorizzazione sull’uso del glifosato nel vecchio continente, per sette anni. Nonostante, da più parti (associazioni ambientaliste e promotori dell’agricoltura biologica), È stato richiesto il divieto per la vendita di erbicidi a base di glifosato. I voti favorevoli sono stati 374, contrari 225, astenuti 102. L’approvazione è avvenuta su proposta del presidnente della Commissione ambiente, Giovanni La Via (Partito popolare europeo). Ricordiamo che l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha classificato il glifosato come “probabile cancerogeno”. Un pericolo, questo, che ha innescato centinaia di querele - circa settecento - contro la Monsanto, multinazionale di biotecnologie agrarie, che ha costruito parte del suo successo sulla produzione di Organismi geneticamente modificati (Ogm).
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PROCESSO AL M(U)OSTRO DI ALESSIO DI FLORIO / twitter @diflorioalessio
Quella del Muos, il sistema di comunicazioni satellitari militari ad alta frequenza, non è solo una battaglia ambientale, ma anche strategica, militare, di dominio e controllo. Abbiamo ricostruito le principali tappe di una vicenda che da anni sta generando manifestazioni, opposizioni e processi.
Paesaggi No Muos / Foto di Fabio D’Alessandro / http://fabiodalez.altervista.org/
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#nomuos #sicilia
Niscemi è un comune di 28 mila abitanti della provincia di Caltanissetta, il cui nome fino a qualche anno fa probabilmente non avrebbe detto nulla, o quasi, a chi abita lontano dalla Sicilia. Ed è un peccato. Perché ad un ricco patrimonio urbanistico e storico Niscemi unisce siti archeologici e il SIC “ITA050007”. Una serie di cifre che, in realtà, nascondono un vero e proprio scrigno di poesia e bellezza. La sigla SIC sta per Sito d’Interesse Comunitario. Luoghi che per le loro peculiarità sono meritevoli di tutela. Il SIC di Niscemi è la sughereta più importante della Sicilia, dal 1997 anche Riserva Naturale Regionale. Un contesto che potrebbe sfruttare al meglio la posizione dell’isola nel Mediterraneo. Invece, proprio questa posizione strategica ha incentivato una fortissima militarizzazione del territorio, con la presenza di diverse basi militari NATO e Usa. Il 12 agosto 1981 il governo Spadolini decise di localizzare a Comiso una base NATO con 112 missili Cruise a testata nucleare. Fu l’inizio di anni di resistenza pacifista e antimilitarista che coinvolse un’intera generazione. Oggi, è il tempo di una nuova stagione di resistenza e difesa della salute, della sicurezza, della Pace e del territorio. Questa volta la minaccia si chiama Mobile User Objective System (MUOS) - il “MUOStro” - come l’ha definito Antonio Mazzeo, nel suo libro inchiesta. Nell’area è attiva dal 1991 una stazione di telecomunicazioni della Marina Militare USA. Il Muos è composto da cinque satelliti geostazionari e quattro stazioni terrestri, una delle quali sta sorgendo a Niscemi e che sarà composta da tre immense antenne paraboliche e due trasmettitori. Inizialmente la stazione terrestre in Sicilia era prevista nella base di Sigonella ma, successivamente, la Marina Militare USA ha deciso di puntare su Niscemi - riporta Antonio Mazzeo in un dossier - seguendo le risultanze di uno studio sull’impatto delle onde elettromagnetiche, elaborato da Analytical Graphics Inc. in collaborazione con la Maxim Systems, due società statunitensi. Le fortissime emissioni elettromagnetiche avrebbero potuto avviare la detonazione degli ordini della base militare. Per questo Sigonella fu scartata, lasciando il posto a Niscemi.
Le prime autorizzazioni e il movimento No Muos Nel 2006 il ministero della Difesa avalla la scelta del sito. Nel 2008 la Marina Militare statunitense presenta il progetto definitivo. La Regione Sicilia autorizza. Nel 2011 iniziano i lavori. In questo lustro nasce il movimento “No Muos” che - preoccupato dei rischi per sicurezza, salute e ambiente - mette in campo una forte e significativa opposizione, che arriva anche nelle aule di procure e tribunali. Nel 2012 la Procura di Caltagirone mette i sigilli al cantiere ma lo stop ai lavori dura solo un mese. Agli inizi del 2013 il presidente della Regione Sicilia, Rosario Crocetta, revoca le autorizzazioni regionali. Qualche mese dopo revocò la revoca. Nel 2015 il TAR di Palermo accoglie il ricorso dei “No Muos” e del Comune di Niscemi evidenziando i possibili impatti devastanti del Muos sulla salute e rimarcando numerose mancanze autorizzative. Ma, nonostante questa sentenza, il 27 febbraio 2015 gli attivisti “No Muos” denunciano la messa in funzione del sistema satellitare. Il 2 aprile - due giorni prima di una grande manifestazione “No Muos” nazionale la Procura sequestra nuovamente il cantiere. L’Associazione antimafie “Rita Atria”, tra le più attive, esulta affermando che “il Movimento No Muos fatto di gente normale e una piccola associazione antimafie che esiste da 21 anni” ha “vinto sul colosso mondiale bellico USA”. Ma sottolineando anche che “quella polizia di stato che anziché identificare chi continua ad operare nel cantiere del Muos li scorta. A Niscemi la illegalità viene scortata dalla polizia di stato. Ecco perché abbiamo ritenuto doveroso denunciare quella parte di Istituzioni che ha tradito il popolo italiano e il suo giuramento”. Il processo penale Il 20 maggio per il mega impianto satellitare Usa inizierà un processo penale. Probabilmente, dopo l’ultimo sequestro, il più clamoroso dei capitoli della saga legale in atto. Secondo la Procura di Caltagirone “i lavori del Muos sono stati eseguiti senza la prescritta autorizzazione assunta legittimamente o in difformità di essa, e insistono su beni paesaggistici, all’interno della riserva naturale orientata di
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Manifestazione No Muos / Foto di Fabio D’Alessandro / http://fabiodalez.altervista.org/
Niscemi in zona A, di inedificabilità assoluta, in violazione delle prescrizioni del decreto istitutivo e del regolamento inerente”. Antonio Mazzeo, sul suo blog, ha reso noto che sono sette le persone chiamate in causa dalla Procura: Giovanni Arnone, il dirigente della Regione Sicilia che ha firmato le due autorizzazioni del 2011; Mauro Gemmo, presidente del consiglio di amministrazione della Gemmo Impianti, la società che ha ottenuto nel 2007 l’assegnazione dei lavori; Adriana Parisi, titolare della Lageco, che ha costituito un’associazione temporanea d’imprese chiamata “Team Muos Niscemi” aggiudicataria dell’appalto con la Gemmo; Giuseppe Leonardi, direttore dei lavori; Concetta Valenti, Carmelo Puglisi e Maria Rita Condorelli, rispettivamente legali rappresentanti delle ditte subappaltatrici Calcestruzzi Piazza, P.B. Costruzioni e C.R. Impianti. Tra le persone citate ci sarebbe anche Mark Andrew Gelsinger che, per conto della Marina Milita54
re USA, affidò i lavori ma, in base agli accordi Italia-Usa, non può essere processato in Italia e dovrebbe comparire a giudizio negli Stati Uniti. Il decreto di ”citazione diretta a giudizio avanti il tribunale di Caltagirone in relazione al procedimento sul Muos di Niscemi” è stato notificato al Comune di Niscemi, all’Associazione antimafie “Rita Atria”, alla Regione Sicilia, al Movimento “No Muos” Sicilia e alla Legambiente. La battaglia nei tribunali civili e il rischio per la salute Negli ultimi mesi il dibattito al Consiglio di Giustizia Amministrativa è stato animato dalle operazioni di “verificazione del Muos” disposte per rinnovare quanto già effettuato dal professor Marcello D’Amore, dell’Università “La Sapienza” di Roma che, nel settembre 2014 accusò Istituto Superiore della Sanità, ISPRA e ENAV di “mancanza di rigore e di comple-
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tezza dei dati” nel valutare l’impatto delle installazioni su salute e ambiente. La nuova “verificazione” è stata definita una farsa dai “No Muos”, criticando sia la composizione del collegio di verificatori sia i test. “Le misurazioni e le simulazioni saranno effettuate nelle condizioni di esercizio (presupposte in base alle dichiarazioni di parte dei tecnici del Ministero della Difesa) in violazione della regola che prevede che siano effettuate tenendo conto dei dati progettuali e nelle peggiori condizioni d’esercizio (tutti gli impianti funzionanti alla massima potenza)”. Non solo, si lamenta anche che i tecnici di parte hanno solo quattro giorni per le loro deduzioni e che i campi elettromagnetici saranno misurati dall’Arpa Sicilia, “che è parte in causa”. Verificazioni Questa nuova verificazione nel gennaio scorso subì un rinvio su richiesta della Prefettura che, al termine di una riunione con Agenzia per la Tutela dell’Ambiente, Vigili del fuoco, Comune e Azienda Sanitaria Provinciale, evidenziò “l’impossibilità da parte dell’Amministrazione locale e degli organi tecnici sopra richiamati di indicare alcuna precauzione da adottare”. Questa volta è emerso che non ci sono rischi per la salute umana. In una relazione presentata il 4 novembre 2011 al Comune di Niscemi i professori Massimo Zucchetti e Massimo Coraddu evidenziarono che “i danni alle persone accidentalmente esposte a distanze inferiori ai 20 chilometri saranno gravi e permanenti, con conseguente necrosi dei tessuti”. In un’interrogazione del 18 marzo 2015 l’europarlamentare Eleonora Forenza (L’Altra Europa con Tsipras) riportò “che sono stati riscontrati nell’acqua della rete idrica della zona livelli medi annuali di concentrazione di nitrato sicuramente superiori a quanto previsto dalla Direttiva 98/83 CE, come implicitamente ammesso da uno stesso rapporto delle autorità USA per il 2013, e che anche il livello del cloro è assai alto e pericoloso” […] “l’esistenza di inaccettabili livelli di bromato nella base di Niscemi rivelata nella primavera 2012 dal quotidiano delle forze armate statunitensi Stars and Stripes al quale lo stesso portavoce del comando US Navy di Napoli, Timothy
Hawkins dichiarò che l’acqua delle stazioni NAS I e NAS II a Sigonella e dell’installazione di telecomunicazioni di Niscemi è stata contaminata dal bromato e al personale militare è stato ordinato di non bere più dai rubinetti” e che “i test hanno provato che la quantità di bromato è superiore al “I No Muos valore massimo stabihanno lito dall’EPA, l’agenzia definito statunitense per la una farsa protezione dell’ambienla nuova te” […] “in quanto erano state riscontrate converificazione” centrazioni di bromato oscillanti tra i 52 e i 170 microgrammo per litro, cioè da 5 a 17 volte in più di quanto permesso”, “Lo sversamento di enormi quantità di gasolio nelle falde dell’area causati da incidenti della Marina Militare Usa, documentato anche da perizie della stessa Marina USA”. L’irritazione americana Il 30 maggio 2015, la console Usa a Napoli, Colombia Barrose, in un intervista rilasciata a “La Sicilia”, ha attaccato il nostro Paese e tutti gli oppositori al Muos, affermando che “nella misura in cui gli ostacoli dovessero ancora continuare, ci sarà più attenzione e molto meno pazienza”. Un atteggiamento che l’Associazione antimafie “Rita Atria” ha definito “insopportabile aggressione” accostata a “i moniti del Sig. Luttwak e del Field Manual statunitense, ritrovato nella borsa di Licio Gelli, in cui si prospettavano punizioni per quei popoli considerati dagli statunitensi come sudditi poco disciplinati, soggetti ai re clienti scelti dall’impero centrale, previsioni che ben opportunamente molti commentatori e storici autorevoli hanno ricondotto alla esecuzione delle tante stragi rimaste impunite sul nostro territorio”. Perché, alla fine di tutto, quella del Muos non è solo una partita ambientale ma anche strategica, militare, di dominio e controllo.
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nel numero precedente aprile 2016
IL PARCO ASSEDIATO DALLE TRIVELLE La Val d’Agri tra paesaggio e petrolio / pagina 54
LA NATURA DEL SUD
Le riflessioni di Franco Tassi / pagina 59
Panorami
UN PARCO DELLA PACE, PER IL MEDITERRANEO DI ANTONIO BAVUSI
Il rilancio del ruolo dell’Italia nel Mediterraneo potrebbe passare per la valorizzazione delle risorse naturalistiche, storiche ed ambientali dell’arco ionico, che interessa tre regioni: Basilicata, Calabria e Puglia. Una sfida da cogliere. La costa ionica rappresenta un unicum di grande importanza antropologica, naturalistica, storica, archeologica ed ambientale nel mar Mediterraneo. Già all’indomani della lotta contro la realizzazione del deposito unico nazionale di scorie nucleari a Scanzano Jonico nel 2003, venne elaborata e proposta un’ipotesi di parco definito “della pace” che abbracciasse tutto il mar ionio, sull’arco lucano, pugliese e calabrese, sia in terra sia in mare. Il punto di partenza, le comuni radici storiche delle comunità del Golfo di Taranto. Centri portuali storici, ecosistemi naturali e marini - come il Santuario dei Cetacei - e dell’immediato entroterra che unisce polis e chora con eccezionali beni territoriali della Magna Grecia. Che una legge potrebbe riunificare e rilanciare in virtù di un rapporto tra territorio e comunità locali e risorse strategiche per lo sviluppo, quali l’agricoltura di qualità e il turismo. Una strategia comune che guardi al Mediterraneo, al nord Africa ed a Oriente, non più come luoghi di guerre e conflitti. Un percorso virtuoso unitario, sull’esempio delle coste della Manica, della Bretagna, della Scozia, della Biscaglia, o delle coste francesi, olandesi e greche. La costellazione dei paesaggi costieri, delle sue aree marittime, dei centri culturali, delle città e dei paesi rivieraschi, la presenza di numerose aree archeologiche della Magna 58
#parcodellapace #panorami #basilicata #puglia #calabria #marjonio
Grecia, costituiscono una straordinaria opportunità di rilancio dello sviluppo locale. Per un percorso democratico dell’Europa verso i popoli del Mediterraneo, per il rispetto della diversità delle culture, delle religioni e dell’ambiente. Temi questi affrontati a Cipro nel 2004 dai Paesi mediterranei che hanno riconosciuto nei valori di solidarietà e della cooperazione i propri principi guida. “dalla Città La stella polare per della Pace la ricerca e l’impegno di Scanzano per la convivenza tra i popoli e per la pace alla Carta nel Mediterraneo. Ma di Herakleia anche a Scanzano Jonidi Policoro” co, con la “Città della Pace e dei Bambini” o a Policoro con la “Carta di Herakleia” sottoscritta da numerosi Comuni delle regioni Puglia, Basilicata e Calabria che già si candidano alla realizzazione di questo progetto. I valori naturalistici sinteticamente rappresentati nell’ipotesi di perimetrazione per l’istituzione del “Parco dell’Arco Jonico-Golfo di Taranto” rappresentano una traccia di lavoro sulla quale potranno essere coinvolte le amministrazioni locali, i cittadini, le associazioni culturali e di categoria, le istituzioni scientifiche e culturali, gli enti e le organizza-
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L’arco jonico / Foto Archivio
zioni sindacali dei lavoratori per uno sviluppo che veda direttamente protagonisti gli attori sociali per offrire arricchimenti, spunti critici e proposte. Il perimetro potrebbe includere gli oltre 55 Siti di Importanza Comunitaria (SIC) e Zone di Protezione Speciale (ZPS), 14 aree e siti archeologici di grande importanza, 6 Province e numerose città e paesi con una popolazione rivierasca di quasi un milione di abitanti. Rischi per l’integrità Le ipotesi di privatizzazioni del demanio pubblico - da parte delle holding del grande turismo di massa, con villaggi e porti - e i nuovi “latifondi fondiari privati o da privatizzare”, le cui finalità rischiano di far arretrare le vocazioni e le attività presenti e future in quest’a-
rea regionale, mettono a rischio l’integrità e la presenza stessa delle comunità. Il “parco della pace” potrebbe rilanciare il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo sempre più trasformato in “terra e mare di frontiera”, tra occidente opulento e sud del mondo, con l’Africa e il medio-oriente al centro di conflitti planetari, povertà ed emigrazione, proprio a causa dell’accaparramento delle risorse del pianeta da parte dell’occidente ricco. I conflitti per l’acqua e delle risorse fossili, con ben 14 istanze di ricerca ed estrazioni di idrocarburi che insistono solo nel mar Jonio e con altre istanze lungo le coste nord-africane, e quelle in terraferma nel Sud Italia devono far riflettere.
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IL CAMMINO SILENZIOSO DI SIMONE VALITUTTO / twitter @simonevalitutto
«Camminare, che appare anacronistico nel mondo contemporaneo (…), è un atto di resistenza.» David Le Breton Riprendersi i propri luoghi camminandovi, percorrendoli col ritmo lento degli asini, osservandone il mutare delle forme e del senso, interrogando il paesaggio e gli abitanti, avendo come meta del viaggio un elemento potente a cui ricongiungersi. È questo il concetto alla base de “Il Cammino silenzioso”, un percorso tracciato lungo la strada dell’antico pellegrinaggio al Sacro Monte di Viggiano che attraversa la Lucania Occidentale e che unisce il Vallo di Diano alla Val d’Agri. Due territori separati dai monti, uniti dal sottosuolo minacciato e depredato, aree interne della provincia meridionale sulle quali le multinazionali petrolifere hanno riversato i propri interessi economici e egemonici. Il “riprendersi i propri luoghi” de “Il Cammino silenzioso” è un atto non solamente simbolico, legato alle dinamiche del pellegrinaggio, al rendere sacro lo spazio attraverso una traiettoria che da casa propria conduce ad un luogo di culto, ma anche - e forse, soprattutto - politico. Lo spazio attraversato dai camminatori e i ciucci è quello del confine tra Campania e Basilicata, una linea marcata se si guarda la carta geografica ma tratteggiata se si osserva la mappa culturale dei paesi adagiati lungo i due versanti dei Monti della Maddalena che fungono da frontiera di due valli speculari. Val d’Agri e Vallo di Diano sono, lo raccontano i diletti, lo scrivono gli storici, ne presentificano le tradizioni, facce 60
#camminosilenzioso #valdagri #vallodidiano #basilicata #campania
della stessa medaglia, sono “etnicamente lucani”, conservano un marchio identitario che le vicissitudini amministrative diverse non hanno ancora cancellato. Negli ultimi tempi, il legame tra i due territori si è fondato anche su basi economiche e di natura geopolitica. Le due aree sono unite dallo stesso sottosuolo, non solamente percorso dall’acqua che sgorga dalle sue fonti, ma anche dal petrolio: sfruttato dal lato che guarda a Viggiano, ambito da quello opposto. Il petro“il legame tra lio del Vallo di Diano da più di venti anni è nelle Basilicata e mire della Texaco prima, Campania è e della Shell poi, multifondato anche nazionali che vogliono su basi congiungere la coltivaeconomiche” zione di idrocarburi in Campania a quella già in atto in Basilicata. Se nei paesi campani, però, il canto delle sirene della “modernità petrolifera”, dello sviluppo affidato alle royalties e al fantomatico indotto (includendo anche chi è del Vallo di Diano e già lavora i rifiuti delle estrazioni in Basilicata, in che modo lo raccontano le recenti inchieste giudiziarie) ancora non hanno pienamente attecchito nella popolazione e nelle amministrazioni locali - e i comitati si sono già espressi in maniera netta contro il petrolio nel Vallo di
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In cammino con i “ciucci” / Foto Simone Valitutto
Diano - la minaccia è sempre nell’aria. Bisogna preservare questa terra, affidandosi a chi, a differenza dei politici locali e regionali, la ama davvero, senza remore o debolezze, da sempre, da quando questi luoghi hanno impressi un habitus, quello lucano, appunto. Così, lo scorso maggio 2015, a poche settimane dalle elezioni regionali in Campania, Ivan Di Palma, titolare dell’Asineria Equinotium e membro del Comitato “No petrolio nel Vallo di Diano”, affida la propria terra minacciata da un’idea predatoria di sviluppo un nuovo mito di fondazione del culto alla sua protettrice: la Madonna di Viggiano. Nasce “Il Cammino silenzioso”, un atto di testimonianza e di resistenza simbolica autonomo, che lega al presente alcuni elementi fermi e fissi dell’antico pellegrinaggio verso il Sacro Monte di Viggiano sul quale è salita la prima domenica di maggio in processione l’icona mariana. Il “Cammino” si è poi ripetuto anche lo scorso settembre, durante il pelle-
grinaggio che ha richiamato a Viggiano centinaia di migliaia di fedeli ad accompagnare il ritorno in paese della Madonna, unendo allo spirito inziale quello della ricerca, dell’osservazione e della trasformazione del “Cammino” in un’azione a credito. Il percorso di questa azione di supplica e ricerca parte dall’Asineria Equinotium in contrada “il percorso Arnici di Atena Lucana di supplica e percorre la contrada e ricerca Pozzi, la “Postazione parte dalla sonda Gargaruso 1” Asineria ormai abbandonata e Equinotium” località Lago di Brienza; ritorna, dopo essere entrato nel Parco Nazionale dell’Appennino Lucano, in Campania, sui Monti della Maddalena; attraversando la Foresta Cuponi, giunge all’azienda agricola “Il Pettirosso” di Ivan Bruno e della sua famiglia
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In cammino con i “ciucci” / Foto Simone Valitutto
sopra Sala Consilina. La mattina seguente il cammino prosegue, risale Monte Cavallo (tristemente noto per il permesso di ricerca idrocarburi) sbucando nella “Polveriera” nel territorio di Padula; lasciati alle spalle Mandrano e Mandranello, l’ultimo avamposto campano del “Cammino”, si entra a Pergola, la frazione di Marsico Nuovo con il pozzo “Pergola 1” che passaggio dopo passaggio diventa elemento sempre più estraneo del paesaggio, tagliata la cava di Pergola, si affaccia sulla Val d’Agri; costeggiando il fiume Agri percorre le frazioni nelle campagne tra Marsico e Paterno e poi Galaino, salendo fino a Barricelle, a “Il Querceto” di Francesca Leggeri e Tazio Recchia. Alle pendici del massiccio a cui appartiene il Sacro Monte, il terzo tratto del cammino inizia attraversando il querceto dell’azienda che ha ospitato i viandanti, fiancheggiando l’oleodotto arriva al nuovo prossimo pozzo di petrolio, il Sant’Elia, imboccato il Sentiero del Ventennale, sbuca lungo la strada che da Marsicovetere 62
porta al Sacro Monte di Viggiano; sul Volturino il percorso si fa impervio fino a “Campo Imperatore” per poi farsi ancora più duro fino a quando non sbuca, potentemente, la cappella sul Monte della Madonna Nera di Viggiano. La meta. Questo il tragitto di un’esperienza che ha coinvolto fino ad ora poco meno di una decina di camminatori di diverse età e provenienza, ognuno dei quali durante il cammino ha raccolto non solamente storie, trasmettendole secondo le proprie forme espressive e intellettuali, ma anche maggior consapevolezza di sé e dello spirito intrinseco alle terre di confine. “Il cammino silenzioso” continua anche nel 2016 e continuerà negli anni a venire ad attraversare la Lucania provandone a fissare i mutamenti, le sconfitte, gli atti d’orgoglio, con l’implicita speranza che la Madonna da un lato e l’azione stessa del vivere in maniera profonda la terra calpestata, seminino nuove coscienze.
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Orientamenti
PROGETTO ELEONORA, VERSO IL CONSIGLIO DI STATO DI VINCENZO PORTOGHESE
Il 9 giugno 2016 il Consiglio di Stato dovrà pronunciarsi in merito al progetto Eleonora, presentato dalla Saras spa, per la perforazione di un pozzo esplorativo finalizzato alla ricerca di giacimenti di metano ad Arborea, in Sardegna. Già rigettato dal Tar Sardegna. La ricostruzione di una vicenda che rappresenta anche un modello di lotta in difesa dei territori
#orientamenti #progettoeleonora #arborea #sardegna
Il progetto Eleonora è un permesso di ricerca in terraferma per l’individuazione di giacimenti di gas metano in provincia di Oristano, in Sardegna, proposto dalla Saras spa. L’azienda della famiglia Moratti prevede - dopo le necessarie fasi di studio ed investigative - la realizzazione di un pozzo esplorativo nel comune di Arborea, a circa 150 metri dal Sito di Interesse Comunitario (SIC) “Stagno S’Ena Arrubia”, 4,5 chilometri dal centro abitato e a poche decine di metri da abitazioni rurali. Il pozzo esplorativo è denominato “Eleonora 01 dir”. La comunità locale, dal 2011, si è attivata con la costituzione del Comitato civico “No al progetto Eleonora” e - da subito - con decise, quanto convinte, azioni ha indotto il SAVI (Servizio Valutazioni Ambientale) della Regione Sardegna ad inserire il progetto nella procedura VIA (Valutazione d’Impatto Ambientale), costringendo la Saras a redigere uno Studio di Impatto Ambientale (SIA). Successivamente ha promosso e contribuito a costituire un pool tecnico incaricato di redigere uno studio specifico per le osservazioni al progetto
del pozzo. A seguito di tali adempimenti, così come previsto dalle normative, il SAVI indìce un’assemblea pubblica ad Arborea, con la partecipazione di tutti i soggetti interessati e portatori di interesse, nel corso della quale la Saras presenta e illustra il progetto alla cittadinanza. L’assemblea - tenutasi il 30 maggio 2013 - è molto partecipata e dura circa 7 ore, con interventi efficaci e pungenti che vedono i tecnici della Saras in gravi difficoltà nel fornire le necessarie risposte e rassicurazioni alle domande poste dalla popolazione. Nei giorni a seguire inizia la lotta contro il tempo per presentare le osservazioni. L’iter procedurale arriva al suo culmine con la Conferenza di Servizi decisoria del 29 luglio 2014, presso il SAVI della Regione Sardegna, a Cagliari. Si susseguono altre 7 ore di interventi dei tecnici di tutte le parti convocate: Saras, Enti locali e organi tecnico-istituzionali. I consulenti del Comune di Arborea, inoltre, consegnano ulteriori relazioni tecnico-scientifiche sulle contro-osservazioni formulate dalla Saras alle osservazioni prodotte dai portatori di interesse. Emerge - oltre
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alle criticità del progetto stesso - anche un aspetto di natura vincolistica a cui gli stessi dirigenti del SAVI sembrano sorprendersi. In base alle norme di tutela paesaggistica regionale l’intero comprensorio di Arborea è incluso nella “fascia costiera” e, pertanto, devono applicarsi le relative norme di tutela e salvaguardia. In base a questo sono da escludere le realizzazioni di nuovi insediamenti industriali. Gli Enti territoriali presenti (Comune di Arborea e Provincia di Oristano, ndr), oltre ad evidenziare e circostanziare l’aspetto vincolistico esprimono parere negativo. Sulle facce dei dirigenti e consulenti scientifici della Saras è visibile il panico e lo stupore allorquando i tecnici del SAVI decidono di sospendere per un congruo periodo ogni decisione, in attesa di valutare compiutamente nel merito la suddetta normativa, applicata al caso specifico della realizzazione di un pozzo di esplorazione. Il 5 settembre 2014 la Saras ricorre al Tar Sardegna per il mancato pronunciamento della Regione. Il 9 settembre 2014 con Determinazione n.19132 il SAVI chiude il procedimento dichiarando improcedibile l’istanza VIA della Saras. La società della famiglia Moratti ricorre ulteriormente al Tar con motivi aggiunti. Il Tar Sardegna, in data 13 gennaio 2015 stabilisce di rinviare l’udienza di discussione al 2 luglio 2015. La fatidica data registra il pronunciamento della sentenza che rigetta in toto, il ricorso. La Saras ricorre al Consiglio di Stato che dovrà pronunciarsi definitivamente nel merito il 9 giugno 2016. Riflessioni di merito Le motivazioni con cui il Tar Sardegna si è pronunciato costituiscono un precedente forte che offre notevoli spunti di riflessione e commenti tecnici, ponendosi quindi come una sorta di linea guida per le relazioni tecnico-scientifiche a supporto delle osservazioni da presentare agli studi di impatto ambientale. Un ruolo fondamentale, in positivo, lo giocano sicuramente le “pressioni“ ambientali esercitate dai cittadini. Entrando nel merito della disamina sul ricorso presentato dalla Saras, gli organi giudicanti del Tar Sardegna hanno voluto approfondire la tematica sotto ogni profilo, non fermandosi solo all’aspetto
specifico della “questione“ vincolistica. Di fatto viene “chiarito” dai magistrati come la realizzazione di un pozzo esplorativo, anche se non produttivo, generi una trasformazione dei luoghi “non reversibile“ e, quindi, non più configurabile come “ripristino dei luoghi” ante operam. Se a questo aggiungiamo lo sviluppo previsionale futuro con la realizzazione di più pozzi di estrazione, in caso di esiti positivi, la compromissione dei luoghi è ancora più marcata ed evidente. Altro che impatto zero e/o reversibilità. Si censura anche l’aspetto definito temporaneo, in quanto, alcune strutture dovranno per forza essere presenti in maniera permanente come: cantine di perforazione, tubazioni, tappi di chiu“realizzare sura e/o sigillatura. Asun pozzo sume allora un carattere genera una fondamentale l’aspetto trasformazione legato alla fase tipica di una perforazione, dei luoghi non reversibile” anche se non esplicitamente sottolineato nel presente dispositivo di rigetto. Se consideriamo come compromissione dei luoghi naturali, le opere e le strutture di servizio e supporto, non possiamo nemmeno escludere i reali, oggettivi e dimostrati impatti ambientali che derivano dalla “semplice“ perforazione. Si possono, pertanto, prendere ad esempio, la presenza nel sottosuolo di idrogeno solforato, radionuclidi, metalli e metalloidi. Ogni perforazione attraversa strati di roccia caratterizzati da presenza di tali elementi in “forma del tutto naturale“ che, se lasciati nelle profondità e sormontati dalle rocce sovrastanti non creano “impatti“ nell’ambiente superficiale circostante nelle varie matrici (suolo, acqua, aria), proprio perché confinati e “residenti ” a quelle profondità. Nel mentre, invece, si opera una perforazione sia pur con tutti i crismi e sistemi rassicuranti, come sovente scrivono nelle loro relazioni tecniche i proponenti dei progetti di ricerca idrocarburi, si opera inevitabilmente una compromissione definitiva e permanente dei luoghi, con l’immissione di sostanze “naturali” la cui concentrazione è superiore e/o notevolmente superiore a quella rilevata in
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superficie ante operam. Appare chiara, la “non reversibilità” del processo industriale. Avendo preso parte al pool di tecnici per conto del Comune di Arborea e dei Consorzi dei produttori, per le “osservazioni“ e, avendo altresì partecipato alla già citata Conferenza dei Servizi, ho avuto modo, insieme agli altri colleghi, non solo di esaminare compiutamente il progetto, ma anche di intesa e col supporto strategico e fattivo del Comitato civico “No al progetto Eleonora” di svolgere specifiche indagini onde rappresentare per alcuni aspetti la situazione ambientale preesistente. Il lavoro è stato svolto, insieme al collega Vincenzo Briuolo e con la cortese e preziosa consulenza del professor Domenico Cicchella. Si è redatta una specifica cartografia con i valori di radioattività di fondo naturale attraverso rigorosi criteri scientifici e mediante l’ausilio di indagini strumentali e l’identificazione dal punto di vista geofisico dei valori caratterizzanti i suoli e le acque del sottosuolo. Di contro, abbiamo potuto confutare, sia nella relazione tecnica sia in Conferenza dei Servizi - con dati di fatto - gli studi e le analisi geochimiche presentati dalla Saras e eseguiti anche dall’INGV (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia). Emerge chiaramente “il valore” delle motivazioni della sentenza del TAR Sardegna, ponendo nuovi scenari e sviluppi per la redazione di studi a difesa dei territori interessati da progetti non solo concernenti le attività di ricerca ed estrazione di idrocarburi. Non va di meno sottolineata la nota del Tar di “rimprovero” per la contraddizione della stessa Regione Sar66
Elaborazione Briuolo / Cicchella / Portoghese
No al progetto Eleonora / Foto Archivio
degna: “… Dopo aver autorizzato (sin dal 2007) lo svolgimento di un progetto di ricerca di idrocarburi in una vasta zona (tutta costiera) comprendente anche l’area di cui ora si discute ha persino dato l’avvio della procedura VIA per la realizzazione del pozzo esplorativo e solo dopo alcuni numerosi anni di correlativa attività ha poi archiviato quest’ultima procedura con una motivazione basata esclusivamente su vincoli paesaggistici da tempo esistenti …”. Chiaramente tutto ciò è emerso proprio per la spinta e la volontà del Comitato civico “No al progetto Eleonora” che ha “costretto” gli Enti interessati non solo ad aprire bene gli occhi ma, soprattutto, a rispettare le normative nazionali e regionali vigenti. In conclusione, la sentenza stigmatizza che ogni operazione tecnica-operativa non può definirsi scevra da conseguenze, e che in taluni casi sono irrimediabili.
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Sarebbe interessante aprire un confronto per approfondire e proporre modifiche “sostan-
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ri a carattere industriale e grande distribuzione commerciale; 3) nuovi campeggi e strutture ricettive connesse a campi da golf, aree attrezzate di camper.
Dati di EPA sul livello di radiazione di rifiuti intesi come attivita’ generale dei radionuclidi presenti nelle acque di produzione delle estrazioni
ziali” alle procedure di Valutazione di Impatto Ambientale e alla redazione di studi di impatto ambientale, ove venga, non solo sancito, ribadito e rispettato il “Principio di Precauzione” (articolo 301 del Decreto legislativo n.152/06), ma che siano date le stesse identiche “regole“, criteri e opportunità dei proponenti i progetti a tutti i portatori di interesse, e che vi siano organi e Enti preposti ai controlli e a rilasciare le autorizzazioni che siano garanti di terzietà. Contro questa sentenza la Saras è ricorsa il 7 gennaio 2016 al Consiglio di Stato. In data 3 marzo 2016 il Consiglio di Stato ha rinviato nel merito la decisione all’udienza fissata per il 9 giugno 2016. Se il Consiglio di Stato dovesse confermare la sentenza del TAR Sardegna, il progetto per la perforazione del pozzo “Eleonora 01 dir” sarebbe definitivamente archiviato. In caso di accoglimento del ricorso presentato dalla Saras la Regione Sardegna dovrebbe riavviare l’iter istruttorio. Normative a confronto PPR Sardegna 2006 Art. 20 - Fascia costiera. Disciplina 1. Nella fascia costiera di cui all’art. 19 si osserva la seguente disciplina: a) Nelle aree inedificate è precluso qualunque intervento di trasformazione, ad eccezione di quelli previsti dall’art. 12 e dal successivo comma 2; b) Non è comunque ammessa la realizzazione di: 1) nuove strade extraurbane di dimensioni superiori alle due corsie, fatte salve quelle di preminente interesse statale e regionale, per le quali sia in corso la procedura di valutazione di impatto ambientale presso il Ministero dell’Ambiente, autorizzate dalla Giunta Regionale; 2) nuovi interventi edificato-
PTR Campania 2008 Indirizzi strategici per il controllo del rischio estrazione di idrocarburi e di energia geotermica. Attualmente le uniche prospettive favorevoli per l’estrazione di idrocarburi nella Regione Campania sono state individuate nel Vallo Di Diano. La coltivazione di un giacimento rappresenta una sorgente di rischio sia per quanto riguarda la possibilità di incendio dei pozzi sia per ciò che concerne che l’inquinamento di falde acquifere, del terreno e/o dell’atmosfera dovuta a fuoriuscite di fluido. Il valore paesaggistico, ecologico e storico esposto al pericolo di inquinamento è elevato e sconsiglia l’attività di estrazione. Qualora, per la necessità di integrare il fabbisogno nazionale, si ritenesse opportuno in futuro non negare la concessione di attività estrattive, esse dovranno essere accompagnate da tutte le misure adeguate a garantire il territorio, le acque e la vegetazione da possibilità di inquinamento. Bibliografia Cottle, Merva K.W. and Tee L. Guidotti, M.D. 1990. “Process Chemicals in the Oil and Gas Industry: Potential Occupational Hazards.” Toxicology and Industrial Health. 6: (1) 41-56. Yousif K. Kharaka and Nancy S. Dorsey Environmental issues of petroleum exploration and production Environmental Geosciences, v. 12, no. 2 (June 2005), pp. 61–63 Environmental Protection Agency. October 1993. “Report to Congress on Hydrogen Sulfide Air Emissions Associated with the Extraction of Oil and Natural Gas.” EPA-453/R-93-045 Inserra, Steven, et al. 2002. “Community-based exposure estimate for hydrogen sulfide.” Journal of Exposure Analysis and Environmental Epidemiology. 12: 124-129. U.S. Department of the Interior, 2010. Hydrogen sulfide monitoring near oil and gas production facilities in southeastern New Mexico and potential effects of hydrogen sulfide to migratory birds and other wildlife. By Joel D. Lusk and Erik A. Kraft, pp.98. Environmental Protection Agency of the United States of America, “Report to congress on hydrogen sulfide air emissions associated with the extraction of oil and natural gas”, EPA35453/R-93-045 (1993). Fisher, R.S., 1998, Geologic and geochemical controls on naturally occurring radioactive materials (NORM) in produced water from oil, gas, and geothermal operations: Environmental Geosciences, v. 5, p. 139–150.
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Si ringrazia per la gentile concessione
Campagna ad inserzione gratuita
Meridiano
RIACE, DOVE IL SOGNO DIVENTA REALTÀ DI FRANCESCO CIRILLO
Ma che figura pessima hanno fatto tutti quei politici calabresi che a Riace, in provincia di Reggio Calabria, non ci sono mai stati. Né se ne sono mai interessati. E non ci sono mai stati per non dare soddisfazione a quel sindaco, che si chiama Mimmo Lucano, eletto primo cittadino per tre volte di seguito, senza aver mai avuto alcuna tessera di partito, e rivendicando sempre la sua storia nei movimenti rivoluzionari degli anni Settanta. Mimmo Lucano, questo sindaco “dimenticato” localmente, è rientrato globalmente nella classifica - stilata dalla rivista americana “Fortune” - dei 50 leader più importanti del mondo, ponendosi al 40esimo posto e figurando come unico italiano al fianco di Papa Francesco, Angela Merkel e Aung San Suu Kyi. Non ci sono sindaci di importanti città come Venezia, Roma, Milano, Napoli, Palermo. Ma c’è lui, il sindaco di uno sperduto paesino della Calabria. Mimmo Lucano con la sua solita umiltà ringrazia tutti, consapevole della lotta intrapresa come un Don Chisciotte solitario. Luoghi dell’anima Bisogna starci a Riace per capire cosa ha realizzato questo sindaco. Riace è un luogo dell’anima. È un luogo dove è possibile misurare la propria essenza ed umanità stando assieme a bambini, donne uomini di altro colore provenienti da mezzo mondo. Mimmo Lucano mette a disposizione questa possibilità a tutti coloro 70
che vogliono viverla. Riace è un luogo nel quale bisognerebbe portare, come per una sorta di riabilitazione, quei cittadini e sovrani d’Europa barricati contro i profughi. Che chiedono solo di poter vivere lontani dalle guerre e dalla fame provocate dai nostri stessi occidentali. Riace è un cantiere continuo di iniziative, grazie ad un solido gruppo che da decenni ruota attrono a Mimmo. Una schiera di Sancho Panza, che un giorno fanno i falegnami, un altro i pittori, un altro ancora gli spazzini. Una di queste iniziative si svolge a luglio da cinque anni, e tratta di cinematografia. Il “Riace in festival”. Una settimana di cortometraggi dedicati al tema dell’immigrazione e, dal 2015, anche delle donne. Un modo per richiamare l’attenzione sul paese e sulle tematiche dell’immigrazione. Nessun finanziamento da parte della Regione Calabria, intenta a finanziare sagre delle patate e del fungo. Ma con il sostegno ed il supporto di ReCoSol, la rete dei comuni solidali e dell’associazione “Città futura”, creata proprio dal primo cittadino. “Spiaggia e mare liberi per chi entra e per chi arriva” Mimmo Lucano spiega prima di ogni film il suo progetto e il sogno dei riacesi. Spiega come la gestione degli immigrati nel suo paese sia
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un’occasione di lavoro per i riacesi stessi. Oggi nel comune di Riace, di circa 1000 abitanti, vivono 300 immigrati sistemati in abitazioni e non in tende o case fatiscenti, attorno ai quali lavorano 70 riacesi, per assisterli e inserirli nel tessuto sociale. Le storie degli immigrati sono terribili e dovrebbero essere raccontate ogni giorno. Riace si distingue in tutto e si vede ad occhio nudo senza neanche parlare con il sindaco stesso. Il paese è pieno di murales sul tema della mafia. Una rassegna del 2009 creata con laboratori artistici - che si rinnova ogni due anni - con artisti provenienti da tutta Italia che hanno impresso sui muri del paese le vittime della mafia. È così che il paese si ravviva. Con le “vele” in legno riportanti il nome della nazione africana come segno di benvenuto e bidoncini per la differenziata che si fa casa per casa impiegando asini. In tutto il territorio di Riace trovi queste vele finanche sulla spiaggia libera. All’ingresso è scritto “Spiaggia e mare liberi per chi entra e per chi arriva”. Anche da chi, per usi privati, ha tentato di appropriarsi delle aree demaniali. La condivisione delle lotte Riace è anche luogo di incontri. Arriva Chiara Sasso da Bussoleno e parli delle lotte in corso contro la TAV, degli arresti e dei processi. Arriva Enzo Infantino da Palmi e parli del viaggio umanitario in preparazione per la Palestina e Gaza, e poi incontri Filippo da Catania e ti accordi per la manifestazione contro il Muos, che si svolge ogni anno, sempre l’8 agosto. Ogni giorno, invece, è un continuo intersecarsi di racconti di lotte, iniziative, manifestazioni, che si unificano in uno scambio continuo di esperienze e che vedono nell’immigrazione, e quindi in quel luogo “sacro” che è Riace, il centro di ogni cosa. Da qui potrebbe passare tutto. Perché oggi lo scontro in Europa, così come in ogni piccolo paese e città d’Italia, ruota attorno alla problematica esistente nei paesi medio orientali e africani. Per i prossimi venti anni ci occuperemo di questo. Di guerre, di nuovi equilibri per il controllo del petrolio e dell’acqua, di milioni di persone che scappano dalle guerre, di milioni di persone che fuggono dalla fame. Riace resta la dimostrazione tangibile che se riesce a gestire in pace e tranquil-
lità trecento profughi. Vuol dire che l’Europa potrebbe gestirne milioni dando lavoro ad altri milioni di europei. Riace è la prova provata che i paesi abbandonati possono risorgere con questa risorsa. Lo fa qualche comune vicino a Riace, come Caulonia, lo stanno provando anche se timidamente altri piccoli paesini. Manca la spinta regionale che forse potrebbe arrivare dopo “Fortune”. Una spinta che veicoli finanziamenti in questo senso, crei occasione di lavoro per i calabresi, apra ad un modo nuovo di vedere il profugo come un fratello ed una sorella e non come un peso e un cerino acceso da passare ad altri. Aspettiamo.
sud e cinema
IL GIORNO DELLA CIVETTA DI DOMENICO D’AMBROSIO
Leonardo Sciascia è stato uno degli scrittori italiani più saccheggiati dal cinema. Dopo che Elio Petri, nel 1967, era stato il primo regista a trarre ispirazione dal romanzo “A ciascuno il suo”, per il film omonimo, Damiano Damiani - un anno dopo - realizzò “Il giorno della civetta”, prendendo spunto da quello che è forse - a tutt’oggi - il romanzo più conosciuto ed osannato di Sciascia. Ambientato ovviamente in Sicilia, il film descrive le vicende di un gruppo “mafioso” che uccide un costruttore edile (reo di non aver voluto lasciare un appalto ad una ditta protetta dalla mafia) fingendo
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che il delitto sia motivato da ragioni “d’onore”. Ad indagare sulla vicenda, con lo scopo di fare chiarezza, è il capitano dei carabinieri Bellodi, proveniente da Parma. Oltre al costruttore, viene ucciso anche un altro uomo che ha visto l’assassino. Indagando sulle vicende, il capitano Bellodi capisce che il mandante degli omicidi è il boss mafioso Don Mariano Arena, coadiuvato da uno degli imprenditori edili a lui fedeli. Il capitano Bellodi riesce ad estorcere le confessioni sia dell’esecutore materiale dei due omicidi che del costruttore “mafioso” e riesce a giungere all’arresto di Don Mariano Arena, nonostante il boss sia protetto dalle sue molteplici e potenti amicizie politiche. La sconfitta è dietro l’angolo: il film si chiude con le immagini di Don Mariano Arena e dei suoi complici (rimessi in libertà) e con le inquadrature del nuovo capitano dei carabinieri. Bellodi è stato trasferito in altra sede. Il film è bello (anche se non raggiunge la profondità e la complessità del romanzo di Sciascia) e, caso abbastanza strano, a rivederlo oggi non dimostra gli anni che ha. Ha conservato - forse anche grazie all’attualità perenne delle tematiche che tratta - una sorprendente giovinezza. Non c’è spazio ovviamente per l’happy end, ma d’altra parte non ce n’è quasi mai nella letteratura di Sciascia, tutta impegnata in una razionalistica indagine sul male che caratterizza molto spesso le azioni umane. Chiunque abbia un minimo di coscienza civile non può restare indifferente di fronte alle scene finali in cui i mafiosi continuano a fare il bello ed il cattivo tempo nel paesino siciliano e “l’uomo” Bellodi è stato sostituito dal “quaquaraquà” nuovo capitano dei carabinieri, che molto probabilmente si guarderà bene dal pestare i piedi ai potenti di turno. Qualche considerazione merita il cast: Franco Nero interpreta forse il ruolo più riuscito della sua carriera, impersonando il capitano Bellodi e dandogli credibilità; Claudia Cardinale è come sempre bellissima e bravissima. Indimenticabile il Don Mariano Arena tratteggiato con maestria da Lee J. Cobb e degno di grande attenzione anche Parrineddu, la spia dei carabinieri, che Serge Reggiani disegna in maniera molto attenta.
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conoscrere per deliberare
L’IMPORTANZA DEL VOLERSI BENE DI DOMENICO LAMBOGLIA
Ci voleva il violento schiaffo della crisi per accorgersi di quanto fosse cambiato il mondo e per mettere, a poco a poco, tutto in discussione. In quest’ottica dobbiamo leggere l’opera del poliedrico Giuseppe Percoco, “L’importanza del volersi bene”. L’autore ci conduce alla riflessione su un concetto nuovo e vitale per il raggiungimento di un felice equilibrio nella propria vita: amore per sé stessi e verso il prossimo. “Dobbiamo evitare che la nostra Vita e la nostra Forza venga repressa”. Questo purtroppo succede quotidianamente perché le democrazie stanno scricchiolando sotto il peso degli interessi economici e finanziari e le donne e gli uomini, anziché unirsi per far sentire la loro voce, tendono ad isolarsi. Quello che vuol dirci Giuseppe Percoco è che la crisi non è altro che una spia. Un campanello d’allarme che ci impone di fermarci e riflettere su ciò che è accaduto, ripartendo per migliorarci. “L’importanza del volersi bene” è arricchito dal racconto autobiografico “Tutto Cuore” che ne completa l’aspetto narrativo. Un racconto che aggiunge un altro elemento al fermarci, riflettere e ripartire: la determinazione di andare avanti senza guardarsi dietro, evitando inutili ripensamenti. Mettere da parte una vita di finti agi per andare incontro a dei veri disagi in grado di farti crescere. Di renderti più forte.
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Di insegnarti lo spirito di adattamento. “Mi sforzavo di poter resistere a qualsiasi stimolo, saltavo pasti, correvo anziché riposare, studiavo quando avrei dovuto dormire, ricominciavo quando avrei dovuto mollare, e così mi abituavo a tutto, a tutto: ero l’ultimo a sentire la fame, l’ultimo a sentire la fatica, ed il primo a sentire la felicità”. “Tutto cuore” è una traccia. Un’impronta come quelle lasciate dal Jack London in “Martin Eden”. Martin Eden come Giuseppe Percoco non sente la fatica perché ha un traguardo importante da raggiungere. Spesso quando raggiungi il traguardo ti rendi conto che la cosa più bella è stata il percorso. Il percorso e le persone che incontri. “Corren-
segnalato da Terre di frontiera
do in mezzo a tanta gente, iniziai a constatare qualcosa di importantissimo, un‘altra lezione, una delle più importanti: non sono i titoli che nella vita faranno comportare di conseguenza, ci sono baroni che non sono a conoscenza neanche dei confini delle proprie terre, ci sono invece persone comuni che ogni qualvolta parlano fanno rimpiangere i propri interlocutori di non avere con sé foglio e penna”. Autore: Giuseppe Percoco Casa editrice: Youcanprint Anno: 2015 Pagine: 86 Prezzo: 14,00 €
la foto del mese in quarta di copertina
“RITRATTO DI BAMBINA SPOSA”
DI GIANMARIO PUGLIESE / twitter @Tripolino00
Il dramma della condizione delle donne in Pakistan Ancora oggi nelle regioni tribali del Pakistan è molto diffusa la secolare tradizione di cedere bambine-spose al clan rivale, come risarcimento per sanare faide, tensioni e lutti. In queste province, che godono di una semi-indipendenza, il Consiglio degli Anziani o Jiirga sostituisce anche ufficialmente le istituzioni dello Stato e decide esclusivamente sulla base del diritto islamico e delle tradizioni. Così, da un giorno all’altra, alle ragazzine, vien detto che se ne devono andare di casa, per sposare, molte volte in terze o quarte nozze, un uomo solitamente molto più vecchio di loro.
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DI GIANMARIO PUGLIESE / twitter @Tripolino00