Victoria sogna

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TimothĂŠe de Fombelle

I l l u st r ato d a M a r i ac h i a r a D i G i o r g i o

traduzione di m a r i a b a sta n z e tt i





Victoria si girò di scatto verso quello che la seguiva nell’ombra e puntò la mina della matita contro la gola dello sconosciuto. Si stava facendo notte. “Non muoverti, carogna”, mormorò. Senza fiato, lo costrinse a indietreggiare fino al muro. Era piena di speranza. Il giorno che aspettava era arrivato, finalmente… Da molto tempo, Victoria sognava pericoli, inseguimenti, amici armati di spada che per lei avrebbero affrontato duelli, fiumi da attraversare a nuoto con gli orsi alle calcagna. Sì, orsi. Voleva un berretto di pelliccia, cavalli selvaggi, missioni in Siberia o nello spazio, e per casa una palafitta. Voleva che i suoi genitori fossero ostaggio dei pigmei, impossibili da liberare. Sognava di avere un cane che le arrivasse al mento, e che la proteggesse dai leoni venuti a bere nel 7



lago dove lei si sarebbe lavata una volta al mese, come massimo. Victoria voleva una vita piena di avventure, una vita folle, una vita più grande di lei. E tutti, intorno, non facevano che ripetere: “Victoria sogna”. Perché Victoria abitava in rue de la Patinoire, a Chaise-sur-le-Pont. Il paesino più tranquillo dell’intero mondo occidentale. Frequentava la scuola media Pierre-Martial, all’ombra dei grattacieli della città di Aubépines. Nessun pigmeo aveva mai sfiorato con un dito i suoi genitori, che la costringevano a lavarsi tutte le sere. E quel che è peggio, nessun alieno si era mai innamorato di sua sorella più grande, né aveva avuto la splendida idea di portarsela per sempre su un altro pianeta. No, la sua casa non era una palafitta: era come quella dei vicini di sinistra, come quella dei vicini di destra e come quella dei vicini di dietro. Victoria non aveva né un cane, né cavalli, né veri amici. Niente. E per dirla proprio tutta, a Chaise-sur-le-Pont non c’era nemmeno un leone. E non ce n’erano neanche nel resto della regione. C’era un posto che lei si rifiutava di definire lago, anche se era circondato da un “lun9


golago”, con un “bar del lago” e una “spiaggia del lago”. Tutti bugiardi. Quel posto si sarebbe meritato il nome di lago se fosse stato pieno di fenicotteri rosa che prendevano il volo all’alba, ogni volta che lei ammarava con l’idrovolante. Invece non era altro che una pozzanghera che emanava vapori di risciacquatura di piatti. Una pozza attraversata solo da pedalò. Victoria, fra l’altro, un idrovolante non l’aveva. L’idrovolante di Victoria le volteggiava dentro la testa disegnando riccioli di fumo bianco, e le mandrie di bufali galoppavano solamente sul soffitto della sua camera, quando, distesa sul letto, sognava a occhi aperti. Non aveva nemmeno un paio di nemici dalla faccia tatuata che potessero sfidarla a un duello con la sciabola sul ponte di una nave corsara, né 10


una scimmietta addomesticata in tasca, né tantomeno un cappello da moschettiere per passeggiare al chiaro di luna. “Jo? Sei tu?” bisbigliò. Per quasi venti minuti Victoria aveva sperato in una faccenda seria. Finalmente qualcosa! Finalmente! Aveva cercato di seminare quell’ombra che la seguiva, che strisciava lungo i muri, per strada. Era inverno. Alle sei di sera era già buio. Victoria stava tornando dalla biblioteca con una borsa di libri. Non aveva mai allungato il passo, ma si era limitata a svoltare in un vicolo dopo l’altro, tenendosi alla larga dalle finestre illuminate. Sentiva una presenza minacciosa alle spalle. Victoria aveva sperato che si trattasse di un giovane vampiro, di una spia inglese o almeno di un fantasma. Invece era il piccolo Jo. “Jo!” Furiosa, non aveva nessuna intenzione di togliere la matita colorata dalla gola dell’altro. La luce del lampione baluginava intermittente sopra di loro. Jo non era davvero piccolo, ma aveva comunque un anno meno di lei. E un anno è tan11


tissimo. Un’eternità. Per Victoria, che aveva una fretta indiavolata di crescere, il tempo passava molto molto lento. Perciò, se ripercorreva a ritroso quell’anno di differenza aveva l’impressione di precipitarsi nella preistoria. Jo abitava in fondo alla strada con sua madre, a Aubépines. In qualsiasi stagione, aveva intorno al collo una sciarpa lunghissima che lo faceva somigliare al Piccolo Principe. Stessi capelli arruffati, ma neri, persino più neri di quella sera d’inverno. Per Victoria, Jo sarebbe sempre stato “il piccolo Jo”, anche se aveva già iniziato la seconda media. Perché Jo saltava gli anni scolastici con la straordinaria facilità con cui certe bambine saltano alla corda. A scuola era in anticipo di tre classi, ormai. Aveva superato Victoria qualche anno prima, passando direttamente alle medie alla fine della quarta elementare, e saltando direttamente in seconda a metà della prima media. Il tutto era avvenuto così rapidamente che Victoria l’aveva visto a malapena nella sua classe. Niente più che una corrente d’aria. “Cosa cavolo vuoi?” chiese. “Perché mi stavi seguendo?” 12



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