Dossier #4 29 agosto 2014

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# 4 Territori nella crisi Norme, diritti e valori


Progetto di ricerca: Progetto di ricerca: Politecnico di Torino, École Polytecnique Fédérale Politecnico di Torino, École Polytecnique Fédérale de Lausanne Coordinato Coordinato da: da: Prof. Cristina Bianchetti (DIST, POLITO) Prof. Cristina Bianchetti (DIST,

de Lausanne

POLITO)

Referente università partner:partner: Referente università Prof. Elena Cogato Lanza (LAB-U, EPFL) Prof. Elena Cogato-Lanza (LAB-U,

EPFL)

Gruppo di ricerca: Gruppo Armando di ricerca: Alessandro (DAD, POLITO), Grazia Brunetta (DIST, POLITO), Antonio De Rossi (DAD, Alessandro Armando (DAD, POLITO), Brunetta (DIST,Dario POLITO), Giovanni C POLITO), Alessandro Fubini (DIST, POLITO), PatriziaGrazia Lombardi (DIST, POLITO), Negueruela POLITO), Antonio De Rossi (DAD, POLITO), Alessandro Fubini (DIST, POLITO), Patri del Castillo (ENAC, EPFL), Luca Ortelli (LCC, EPFL), Luca Pattaroni (LASUR, EPFL), Giacomo Pettenati POLITO), Dario Negueruela (ENAC, Ortelli Luca Pattaro (SCUDO, POLITO), Dafne Regis (SCUDO, POLITO),EPFL), Angelo Luca Sampieri (DIST, (LCC, POLITO),EPFL), Giulia Sonetti (SCUDO, POLITO), Paola Viganò (LAB-U,POLITO), EPFL), Angioletta Voghera POLITO)POLITO), Angelo Samp Giacomo Pettenati (SCUDO, Dafne Regis(DIST, (SCUDO,

Giulia Sonetti (SCUDO, POLITO), Paola Viganò (LAB-U, EPFL), Angioletta Voghera (

progetto grafico - impaginazione: Agim Enver Kërçuku


Indice

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Una nuova complessità. Introduzione Cristina Bianchetti

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Spazio pubblico Cristina Bianchetti

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La nozione di «cadre de vie» : tra eredità strumentale e eredità sostanziale Elena Cogato Lanza

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Norma e progetto Angelo Sampieri

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Un patrimonio “minore”Capitale fisso sociale e ricostruzione di contesti territoriali Angoletta Voghera

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Una nuova complessità * Introduzione

Cristina Bianchetti professore di Urbanistica, DIST, POLITO

* Una versione precedente di questo scritto è stata presentata al seminario Un’agenda urbana per l’Italia, 2829 maggio 2014, Gran Sasso Science Institute 1.

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Siamo soliti ritenere di poter condividere alcuni concetti perché funzionano come concetti interpretativi. Ovvero perché condividiamo in larga massima, un giudizio sulle pratiche sociali e le esperienze in cui essi figurano. La difficoltà di una riflessione sulla città europea contemporanea può essere ricondotta alla rottura dei nessi tra concetti ed esperienze. Una rottura che implica la necessità di tornare ad osservare non solo alcuni luoghi, ma anche alcune nozioni, interrogandosi su come esse si cristallizzano in più situazioni, in più momenti, mobilitando attori diversi. Come prendono forma entro alcune situazioni. Assumendo cioè che la loro ridefinizione sia un problema pratico. Le pagine seguenti pongono attenzione al riconfigurarsi di concetti relativi allo spazio urbano a partire da una ricerca in corso sulle implicazioni territoriali della crisi1. Ci è sembrato importante tornare ad osservare l’Europa, nella convinzione che ci sia oggi una più evidente specificità della città europea; che questa si esprima in un sistema di questioni vasto, ma non illimitato; che richieda nozioni, strumenti e progetti adeguati. Abbiamo pertanto proceduto osservando situazioni territoriali specifiche con gli strumenti delle nostre discipline. Ne abbiamo osservate dapprima undici. Poi altre tredici. Senza la pretesa di disegnare nuovi sfondi, produrre descrizioni esaustive, costruire cataloghi di casi esemplari. Sono situazioni ordinarie di territori urbani, montani, agricoli, in uso o che faticano ad essere ancora utilizzati entro i più consueti paradigmi economici. Individuati perché ad un primo sguardo parevano svelare qualche aspetto di interesse attorno al mutare di norme, diritti, valori. Osservata entro questo punto di vista (pragmatico e non perfezionista), la città europea ci appare essenzialmente un caleidoscopio mutevole. Uno sfondo altamente complesso. Si potrebbe obiettare che la città è, per definizione, un caleidoscopio mutevole e che in passato vi sono stati altri momenti in cui è parsa uno sfondo altamente complesso. E’ tuttavia nel medio periodo che la complessità appare con un’evidenza eccezionale. In altri termini, oggi appare molto chiaro il salto radicale e definitivo con le forme dell’urbanizzazione e dell’abitare degli ultimi decenni del Novecento. E’ dunque entro questa prospettiva (degli ultimi venti, trenta anni) che dobbiamo porci, se vogliamo argomentare la nuova complessità e provare a guardare in avanti. .

Il progetto Territori nella crisi, è stato selezionato nel Bando “Internazionalizzazione della ricerca” promosso dal Politecnico di To-rino e dalla Compagnia di San Paolo. E’ condotto in partnership con l’EPFL (responsabili Cristina Bianchetti e Elena Cogato Lanza) ed è stato avviato nell’ottobre 2013. Progetto, esiti e materiali sono nel blog http://territoridellacondivisione.wordpress. com/

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Un dibattito attorno ad un’Agenda urbana deve, a nostro giudizio, partire da questa complessità: dalla rottura tra concetti ed esperienze. Detto in altri termini, la città europea squassata dalla crisi appare oggi più complessa che negli schemi descrittivi, interpretativi, concettuali e operativi, messi a punto negli anni Novanta. Questo scarto pone un problema importante per la comprensione e la progettazione di adeguate politiche. Il rischio, evidente, è usare armi spuntate. La sfida dunque è tornare su nozioni che per la loro densità risultano quasi intrattabili. Ma che nondimeno hanno costruito, declinandosi e intrecciandosi in vari modi, il


campo del progetto e delle politiche urbane. Indichiamo di seguito qualche spunto all’interno di questo percorso. Si tratta di schegge di un ragionamento sostenuto dalle situazioni indagate, cui è demandato il compito di rendere evidenti le forme, anche contraddittorie, di quella che abbiamo chiamato una nuova complessità della città europea.

Cosa significa oggi essere protetti? La non congruenza tra spazi costruiti e popolazioni insediate si coglie oggi in forma esemplare all’interno dei quartieri di edilizia pubblica: a Bellavista (Ivrea), come a Mirafiori (Torino). Quartieri nei quali la sovrap-posizione tra morfologie spaziali e sociali ha avuto una forma programmatica e che possono essere pensati come il supporto ricco della città moderna. Un supporto la cui aspirazione era non solo quella di proteggere e dare risposta ad un diritto sociale basilare, ma costruire questa risposta nella forma più simile a quella che altre popolazioni, meno disagiate, trovavano nel mercato. La non congruenza di oggi è resa palese dal dira-darsi di individui, interazioni, risorse. A Bellavista gli abitanti sono un terzo di quelli originari in rapporto ad una popolazione urbana rimasta pressoché costante. E’ nei quartieri di edilizia sociale che la città si svuota, più che altrove. In quegli spazi che sono stati costruiti per rispondere ad un diritto e che si trovano oggi in una situazione di sospensione. La patrimonializzazione da parte del MAAM e i riconoscimenti dell’Unesco non fanno altro che palesarne, paradossalmente, la minorazione. Oggi il quartiere modello disegnato da Luigi Piccinato alla fine degli anni Cinquanta è una pallida cartolina del moderno e delle narrazioni (sociali ed urbanistiche) che ne sono state premessa e sfondo. Campo d’azione per associazioni sostenute con fi-nanziamenti di importanti fondazioni private. A Biella una parte non residuale del patrimonio immobiliare privato è donato alla Caritas diocesana che ha costruito, a partire da questi spazi abitativi, una rete di accoglienza importante, capace di implementare il piano-casa pubblico. La donazione (che trova le sue ragioni nei costi di gestione e nella difficoltà del mercato dell’affitto) ridefinisce il valore degli immobili entro transizioni esterne ai meccanismi di mercato. Giocando, in modo ribaltato, il ruolo che in passato giocava l’esproprio, vera e propria ossessione delle politiche urbanistiche novecentesche: entrambi legittimati dalla pubblica utilità (benché del primo si possa dire che è evidente anche l’utilità privata). L’esito è un modello ibrido costruito su formule specifiche quali il co-housing fraterno e l’accoglienza diffusa. Più in generale, l’esito è il ricomporsi di soggetti, pratiche pubbliche, forme di protezione e di presa in cura degli spazi, oltre che degli individui. Esauriti i modelli di regolazione sociale del Novecento, la nuova individualizzazione lascia i soggetti soli. E questo è un tema che riemerge ovunque. Far fronte alla solitudine implica la necessità di attivare nuove risorse materiale e culturali. Nuovi legami orizzontali. Tutti gli episodi di partage che abbiamo indagato (Bianchetti, 2014) trovano qui una ragione strutturale che li rende meno frivoli di quanto si possa desumere dal loro essere, spesso, poca cosa: temporanei, 1.

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circoscritti, marginali. Le nuove protezioni sociali si riscrivono in questa cornice. La condivisione cambia il significato dell’essere protetti (in passato affidato in misura non irrilevante, alla proprietà privata fortemente sostenuta dall’azione diretta dello stato, Pizzorno, 1974). Nel campo dell’abitare, ma anche della sanità, dell’assistenza sociale, dell’istruzione la protezione si cala in altri spazi, è demandata ad altri soggetti e ad altre logiche: logiche fai-da-te, dell’affido, forme di auto-organizzazione che hanno un carattere selettivo, in opposizione agli ideali universalistici del welfare novecentesco. Si tratta di una metamorfosi molto osservata. Quello che vale ricordare è come occuparsi di welfare, dal nostro punto di vista, significhi essenzialmente occuparsi di questo brusco salto, che non è solo di scala. Riguarda protezioni che si localizzano, si radicano, riscrivono diversamente territori e soggetti attraverso un sostanziale indebolimento delle basi universalistiche. Laddove a volte è l’eterogeneità degli usi a reinterpretare la diversa forma della protezione. Altre volte è l’ispessirsi di relazioni orizzontali tra individui. E lo stesso termine di welfare si ricostruisce fuori dal nesso stretto con la variabile antropologica del lavoro. Per questo è difficile immaginare che efficaci progetti territoriali tesi a confrontarsi con il tema delle protezioni sociali si possano limitare alla manutenzione degli spazi del welfare novecentesco, senza rimettere in discussione radicalmente il modo in cui questa nozione si riscrive nella città (e nella società) della crisi. Quando si torna pionieri in montagna, quando si alloggia negli appartamenti delle reti solidali di Biella; quando ci si rinchiude nell’antiurbanesimo del co-housing ben radicato nei sobborghi ricchi di città ricche, come Ginevra, o nel cuore simbolico più potente della città europea, in BernauerStraße; quando si occupano gli spazi messi a disposizione per gli squatters da Rolex; o si rendono abitabili i suoli duri della dismissione industriale ad Eindhoven con il sostegno di un associazionismo nostalgico delle lotte urbane si ridefinisce, nello spazio, quello che i giuristi chiamano «un mondo nuovo dei diritti» (Rodotà, 2013: 4). Diritti che germogliano dall’infinito pullulare di iniziative diverse, da una molteplicità sempre cangiante di soggetti, «con una spontaneità ed un vitalismo che sarebbero insofferenti di ogni collocazione in qualche schema istituzionale». La deflagrazione dei diritti legati all’abitare è una delle connotazioni più evidenti di una crisi che assomma caratteri economici, demografici e democratici. In tutti questi casi (che sicuramente non rappresentano la condizione maggioritaria dell’abitare contemporaneo, ma sono sempre più frequenti), le pretese universalistiche del diritto all’abitare deflagrano e sfociano in un insieme aperto e contraddittorio di prerogative, poteri, immunità. Non è peraltro una storia recente, se si fa riferimento alla genealogia giuridica della nozione di bundle of rights (Hohfeld, 1919; Marcuse, 1994). Ma oggi appare con più chiarezza il modo in cui le prerogative, i poteri, le immunità rivendicate si fondino su un principio di autonomia, piuttosto che su un principio di legittimazione esterno (Supiot, 2011). Così come era in passato, quanto il diritto all’abitare si reggeva su un’idea di giustizia distributiva impegnata a misurare risorse e opportunità che avrebbero dovuto essere rese disponibili in ugual misura agli individui. Qualcosa di molto lontano dalle ragioni, oggi quasi universalmente rivendicate, di linee d’azione tese a costruire (Appadurai, 2011)

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La pluralizzazione e l’autonomizzazione dei diritti trova nello spazio abitativo uno dei campi di espressione più chiari (Bianchetti, 2013) e pone infiniti problemi, il più rilevante dei quali è quello (classico) della ricerca dell’equilibrio tra interesse collettivo e interesse individuale nella trasformazione della nozione stessa di diritto. O meglio, nella declinazione soccorrevole e ospitale oggi praticata. Non è più la riscrittura di cui parlano Bobbio e Rodotà (1990, 2011), avendo in mente il profondo e incessante modificarsi delle norme che conferiscono al diritto un ruolo ordinante per il corpo sociale. A quei movimenti tellurici, in profondità, fa riscontro un diverso movimento in superficie, nell’uso comune del termine, al di fuori della sua «formattazione giuridica» (Mattei 2012). Un movimento di progressiva estensione che pone non pochi problemi. «Tra diritti uguali, vince la forza» è la celeberrima affermazione del primo libro del Capitale (Marx, 1977-1867). I diritti rivendicati nella città contemporanea in rapporto all’abitare funzionano in modo diverso. Una volta abbandonate le ambizioni di validità universale vincono tutti, o piuttosto non vince nessuno.

Cosa significa essere guidati? Lo spazio della città europea è sempre più segnato da sistemi complessi di norme che influiscono sui comportamenti individuali e finiscono col contribuire, attraverso la retorica della sicurezza, alla determinazione dei valori e dei prezzi, producendo una sorta di riattualizzazione in chiave sicuritaria delle teorie di Karl Polany (1977). Nel contempo l’etnografia del controllo è divenuto quasi un genere letterario. Ma su questo punto aveva ragione Michele Sernini (2005). L’enfasi eccessiva rischia di ridurre la città ad un meccanismo che ne è l’ombra. Non è a questa presenza della norma, invadente e intrusiva ben oltre le logiche lobbistiche delle gated community, che abbiamo posto attenzione, quanto alla rigidità di un nuovo funzionalismo che ha la pretesa di farci abitare meglio. Sono in molti a riflettere su questo punto. Tutt’altro che liquidato (Bruno, I. et all, 2014, Aut Aut 2013). Tanto che appaiono astratte e consolatorie, le pretese di coloro (Lipovetsky, 2006; Da Cunha, Guinard, 2014) che sostengono come si sia ormai al punto di passare da un modello tecnocratico e funzionalista, con i suoi severi criteri di razionalità, a nuove culture del comfort, orientate ad un mieux-vivre, insofferenti di modelli rigidi. Al contrario, le norme sembrano diventare sempre più numerose, hanno la pretesa di conferire qualità, comfort, sicurezza, riduzione di costi, razionalizzazione dei processi. Quartieri ecologici e smart cities (i primi realizzati, le seconde frenate dagli alti costi e sostenute solo laddove ci sono cospicui capitali finanziari) sono gli esempi più chiari di questa ipertrofia degli aspetti normativi nello spazio urbano: indicatori di performance, certificazioni, dispositivi che definiscono garanzia di un buon uso dello spazio. E, come nel vecchio funzionalismo, la misura torna ad essere dispositivo di riduzione della complessità; la fiducia si razionalizza affidandosi agli indici; la qualità diventa un’assicurazione della qualità.

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Oggi siamo di fronte ad una paradossale contrapposizione. Da un lato una critica feroce e ingenua, al funzionalismo. Non nuova. Ma rinnovata sulla base del richiamo forte e insistito a principi di autonomia, autodeterminazione, mobilitazione dal basso, rifiuto del piano. Posizioni che si inseriscono in una tradizione disciplinare di cui è stata ricostruita più volte la genealogia. Non-Plan è più che il bel titolo di un fortunato articolo degli anni Sessanta (Banham et all, 1969; Hughes, Sandler, 2000). Sono i riflessi di un radicalismo tornato di moda. Dall’altro lato, il tentativo di riscrivere i contorni della ville habitable costruita sugli usi e le loro interazioni nello spazio, che orienta a «far parlare» i luoghi, renderli leggibili, cogliere le loro potenzialità, trasformarne i valori, restaurarne i significati, modificare le condizioni di accessibilità, regolare i dispositivi di sicurezza e circolazione, organizzare le forme e le centralità, conciliare preoccupazione di efficacia rispetto a prestazioni, usi e volontà di abbellimento (Da Cunha, Guinard, 2014). In altri termini, la ricostruzione di un discorso disciplinare che dichiara di ispirarsi alla riduzione delle ineguaglianze, all’integrazione, alla solidarietà. E si muove compatto lungo direzioni abbastanza prevedibili. Dall’altro ancora, una cultura del protocollo e della valutazione altrettanto pervasiva che tratta lo spazio, al pari del vecchio funzionalismo, come inerte, disponibile, modificabile. Anche quando, in virtù dell’ecologismo, ha la pretesa di restaurarlo. E’ su questo piano (quello delle questioni ambientali, delle analisi sul consumo di energia e dei dispositivi per la sua riduzione, degli adeguamenti, della produzione di altre fonti energetiche) che gli aspetti normativi tornano ad essere importanti. Tornano a riguardare progetti di città, di spazi pubblici, di edifici. Carlo Olmo ha scritto che per rendere accettabile il rischio, la previsione ha preso, nel Novecento, le forme del programma taylorista prima, fordista poi (Olmo, 2010). Oggi la previsione, nella forma di un’interrogazione sul futuro (meno rigida e forse più sostantiva), prende le forme di una risposta al diverso programma che la crisi ecologica ha contribuito ad imporre.

Cosa vuole dire vivere bene? Forme di antiurbanesimo che dichiarano la secessione dalla responsabilità nei confronti di un corpo collettivo nel quale non si riconoscono. Mixité programmatiche che mettono insieme individui soli e cambino dall’interno uno spazio abitativo pensato per altre popolazioni. La ricerca di «un rifugio in un mondo senza cuore» (Lasch, 1996) e la convinzione di trovarlo entro un diverso rapporto con la natura e il territorio. Cosa vuol dire vivere bene (al di fuori di un approccio etico o di filosofia politica – Butler 2014)? Alcune delle situazioni esplorate sembrerebbero enfatizzare la capacità di scegliere in modo autonomo come vivere e come comportarsi, salvo poi riconoscere che questa possibilità di scegliere è assai meno ampia di quel che si tende affermare. Non è solo questione di luoghi, cioè di poter scegliere dove vivere. Ma di rivendicare una forma di libertà propria della tradizione repubblicana: libertà di fare, di partecipare alla cosa pubblica, di mettere in atto strategie concrete di inclusione, come di difesa dalla solitudine. Ovvero essere coinvolti e avere voce (Hirschman, 1982). 1.

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A Madrid un’opposizione aspra tra nuovi blocchi sociali, logiche di finanziarizzazione della città e del territorio, proprietà privata e diritti collettivi prende la forma inaspettata, di una pratica situazionista di massa. A Can Battlò la libertà si traduce in un’appropriazione che ha forte connotazione politica. A Les Grottes (Ginevra) in forme conviviali. Meglio, nell’antico gioco dell’extimité di cui parla Lacan (2006), applicato allo spazio urbano entro logiche non individuali (entrambi i caratteri sono ovviamente esterni alla riflessione lacaniana): si esibisce il proprio mondo interiore, costruendo su questo legami densi con chi è prossimo. Al pari che per le forme dure, contrastative, anche l’extimité dilata lo spazio pubblico, lo riempie della presenza intima dei corpi, delle emozioni, dei turbamenti (Sennett, 2005). E’ un potenziamento nella fase dell’affaiblissment, della minorazione. Qualcosa che rende lo spazio pubblico un campo di contrapposizioni e conflitti. Di negoziazioni continue come è evidente a Madrid, Barcellona, Ginevra, fuori di tutte le retoriche, le utopie e i progetti novecenteschi. Se nel moderno è il carattere istituzionalizzato dello spazio pubblico, la sua normatività, a sottolineare la dipendenza dell’individuo dal sociale e a dichiarare che lo spazio pubblico è «per tutti», nella città contemporanea, lo spazio pubblico è «per alcuni»: per gli abitanti di Les Grottes, i comitati di Can Battlò, i vecchi squatters, le élites culturali, quelle artistiche o creative, i cohausers, gli anziani di Bellavista. Quello che osserviamo sono i modi in cui lo spazio pubblico si ridisegna entro relazioni che Urbinati (2013) direbbe «elastiche» tra individui e gruppi. Relazioni nelle quali gli individui si associano e dissociano per le ragioni più disparate, usano lo spazio in un modo in cui interesse individuale e benessere sociale si intersecano e sovrappongono. Generando presunti o reali conflitti tra valori. Si ritrovano qui le intuizioni deweyane sulla pluralità del pubblico (Dewey, 1927). E tutto questo ne cambia lo statuto, aprendo uno straordinario campo di lavoro nel quale mettere alla prova la migliore tradizione del progetto di suolo (contraria ai principi over designed nello spazio, come nei valori, Secchi, Viganò, 2014). E più ancora, quell’approccio umanista, (che il pensiero strutturalista avrebbe dichiarato «tenero», Gehl, 2010) che ha la pretesa di ridisegnare lo spazio pubblico, attraverso legami tra forme, funzioni e usi, entro le retoriche della «mise en paysage». Il mutare dello statuto dello spazio pubblico contemporaneo pone al progetto e alle politiche nuove domande, individua un campo sfuggente entro il quale è difficile individuare gerarchie o centralità (come nei piani degli anni Novanta o nelle numerose esperienze di riqualificazione urbana coeve). Mentre sono evidenti le molteplici forme di conflitto a seguito di appropriazioni più o meno bene intenzionate. E’ bene che i luoghi riconosciuti come centrali delle città siano progettati al meglio di come la migliore cultura progettuale è in grado di fare. Ma non possono essere dati per scontata la composizione di attese e valori. La ricomposizione dei conflitti. Agibilità e comfort sono valori ritenuti irrinunciabili. Altri complicano il quadro. Un ecologismo intransigente e dispotico che detta comportamenti virtuosi e si appropria di piazze, slarghi e spazi sospesi. Una sorta di nuovo francescanesimo: l’osservanza di codici attenti al riciclo e alla messa in scena di una grande operosità. Il mito contemporaneo della frugalità (come modello sociale ambiguo oltre che cinico, in anni di riduzione dei consumi), come scelta riservata a pochi e del tutto compatibile con il mercato.

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Ecologismo, responsabilità, vicinanza, reciprocità, solidarietà tendono a naturalizzare gli spazi entro modelli riproducibili che hanno una grande forza. In Valle di Susa hanno la pretesa di riscrivere (meglio sarebbe dire inventare) tradizioni locali, costruire nuove economie, lavorare nell’interno di uno dei conflitti più aspri tra quelli che hanno segnato gli ultimi anni, nel nostro paese. Ad Auberilliers, pratiche artistiche ispirate all’ecologismo e alla condivisione, sostenute dall’autorevolezza di Marjetica Potrč, si insinuano negli squarci della dismissione con la pretesa di incidere sulle implicazioni spaziali di una redistribuzione globale dei settori labour intensive.

Norme, diritti e valori La non univocità della nozione di patrimonio; i nuovi meccanismi di protezione sociale; il mutamento di statuto dello spazio pubblico; le forme di colonizzazione legate all’abitare; il ridefinirsi di valori economici, simbolici, relazionali che si separano dai beni e dallo spazio (vero incipit di molte delle storie della crisi di questi anni) costruiscono la nuova complessità della città europea. Non si afferma nulla di originale sostenendo che si tratta di questioni cruciali per il progetto urbanistico e per politiche che vogliano costruirsi su un’interpretazione non riduttiva delle modalità di sviluppo e organizzazione della città e del territorio, superando quella distanza tra concetti ed esperienze di cui abbiamo detto. Nella ricerca Territori nella crisi abbiamo tentativamente e nei limiti strutturali del lavoro, messo alla prova concetti, ipotesi, problemi pubblici, politiche. Senza partire da una definizione a priori di cosa fosse patrimonio, suolo produttivo, spazio pubblico, spazio del welfare. Ma vedendo come queste nozioni si ridefiniscono (implicitamente e “per pezzi”) nelle singole situazioni che abbiamo indagato. Non abbiamo ovviamente esiti chiusi su un tema di tale ampiezza e articolazione. Ma possiamo dire che comunque si volga l’attenzione, è evidente una densità (di forme, di norme, di usi e di poteri) che lo spazio ha mantenuto e accentuato sotto il convergere di crisi di diversa natura, negli stessi anni. Le situazioni che abbiamo indagato ci permettono di avanzare un’ipotesi quasi banale, ma che ci pare non sempre tenuta in dovuto conto: la crisi nelle sue diverse forme, non segna i territori univocamente di un segno meno. Il più delle volte depotenzia legami, economie, interazioni, ma qualche volta contribuisce ad attivare meccanismi di presa in cura, costruisce grumi di potenzialità, rimescola aspetti cui si attribuisce valore, ridefinisce conflitti. Cambia le carte e i giochi. Nessuna cinica esaltazione delle difficoltà, come è stato fatto troppo spesso lungo il Novecento, entro le nostre discipline. Ma uno sguardo attento all’ispessirsi del territorio a seguito di crisi che hanno manifestazioni e origini differenti (mutamento dei rapporti tra capitale e lavoro; cadute tendenziali del saggio di profitto; restrizione dei meccanismi di redistribuzione del prodotto; irrigidirsi del rapporto tra economia e risorse; invecchiamento della popolazione; crescita di diseguaglianze; crisi democratica, quelle richiamate più frequentemente). Manifestazioni e origini differenti che, in questa fase, sembrano sommare la propria forza. La metafora della desertificazione, dell’abbandono, dello svuotamento 1.

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racconta solo parte della storia, come ci è parso evidente avvicinandoci alla più grande friche d’Europa, ad Aubervilliers a nord di Parigi, o ricostruendo storie minute, individuali, di luoghi e persone nei distretti italiani di Biella o di Sassuolo. Utilizziamo questa idea della densità che si ispessisce sotto i colpi delle crisi (in modo forse non del tutto intuitivo), per indicare il moltiplicarsi di prerogative, diritti, immunità che segue la perdita del carattere universale dei sistemi di protezione. Il moltiplicarsi di norme, codici, protocolli che definisce l’abitare contemporaneo. L’articolazione conflittuale dei valori che segnano spazi pubblici e privati. A valle di questo ispessimento appare con più chiarezza una nuova complessità. E la definitiva lontananza dalla città del Novecento. Il diverso spessore cambia il progetto. La densità si rappresentano in modo preciso nello spazio. Meglio, attraverso lo spazio. Prerogative, diritti, immunità, valori, codici, protocolli, norme costruiscono un territorio diverso. Rimescolano aspetti che riguardano distanze, prossimità, impermeabilità, porosità, accessibilità, nuove continuità o il loro spezzarsi. Riproponendo tutti i temi che concernono la flessibilità o la gerarchia. L’intimité e l’extimité. Un’intera stagione del progetto sta esplorando questi nuovi caratteri spaziali. Procedendo con descrizioni «foglia per foglia», direbbe Henri Gheon; con la costruzione di mappe cui sono demandate indagini che vogliono innanzitutto rendere discutibili nuovi problemi; con esplorazioni di soluzioni possibili o della forza operativa (non solo concettuale), di vecchie e nuove figure retoriche. E’ una stagione del progetto interessante della quale sarebbe molto utile ricostruire nuove letture critiche (anche per mettere alla prova l’impressione che vengano utilizzati strumenti e linguaggi di un sapere tecnico transitato, forse un po’ troppo in fretta, dagli anni Novanta). Il diverso spessore cambia le politiche. La densità della nozione di spazio è ciò che le politiche urbane hanno spesso sottovalutato. Almeno le politiche sulla programmazione complessa. Giocando con le parole, potremmo dire che raramente queste ultime si sono confrontate con la complessità, almeno nel modo in cui è qui intesa. Accontentandosi di evocare corto-circuiti un po’ astratti tra questioni importanti: lotta alla povertà, riduzione delle diseguaglianze, mixité, integrazione, solidarietà. Buoni principi per tutti o quasi, gli usi. Con poca attenzione ad alcuni errori che ormai sono sotto gli occhi di tutti: l’insistenza sulla crescita edilizia delle politiche urbane (in particolare nel nostro paese) e le sue ripercussioni sul territorio; il legame con il gettito tributario locale, sorta di ricatto per le amministrazioni; la scarsa attenzione ai supporti (infrastrutturali, ma non solo). Una riflessione sul modo in cui si ripresentano diritti, norme, valori nella città contemporanea forse può aiutare uno strumento pragmatico quale è un’Agenda urbana, ad operare le necessarie selezioni per la costruzione di strategie, meccanismi o politiche spaziali che abbiano l’ambizione di far corrispondere forme d’azione e obiettivi emancipativi. Certo non è semplice: le connotazioni programmatiche e normative proprie di un’agenda e la sostanza interpretativa (assai più opaca e frammentaria) di molte indagini territoriali non stanno esattamene sullo stesso piano. Non si riversano le une nelle altre meccanicamente (come pretendono di fare i dettati prescrittivi che indicano ciò che l’Agenda deve comprendere). Né si implicano di necessità. Richiedono un fitto tessuto di mediazioni linguistiche, concetti quasi allegorici, brogliacci che sappiano fare i conti con un’idea di territorio come snodo problematico di forme, usi, poteri. Con residui di indecifrabilità e opacità. 1.

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Certo non è semplice, ma potrebbe eventualmente aiutare a far fronte al rischio che l’Agenda frani in un serbatoio indifferenziato, capace di contenere tutto: quadro di riferimento per le politiche urbane che, volendo essere organico, estensivo e comprensivo, finisce con rincorrere modelli più o meno aggiornati che fanno dello spazio un bene astratto, ne consumano velocemente le dimensioni simboliche, giuridiche, normative. L’utilità di un lavoro interpretativo è dunque da ribadire, entro un’accezione non riduttiva di quelle che Ota de Leonardis (2009) chiama «le basi informative» delle politiche che non sono dati, ma giudizi su cosa è pertinente e cosa no, cosa è rilevante (per chi) e cosa lo è meno, quali descrizioni paiono consunte, quali, semplicemente sbagliate.

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disegno di Vittorio Polidori

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Spazio pubblico

Cristina Bianchetti professore di Urbanistica, DIST, POLITO

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Lo spazio pubblico torna al centro di una nuova formazione discorsiva che è costruita a partire dal nesso tra qualità urbana e giustizia spaziale. Il primo termine, non privo delle ambiguità di sempre, si ridefinisce intorno a qualità dell’abitare, comfort, servizi, nuova estetica, cadre de vie. Il secondo è inteso come distribuzione egualitaria di questa stessa qualità in un contesto di diversità e diseguaglianza. La pretesa è che, insieme, qualità urbana e giustizia spaziale, possano costruire una città abitabile. Produrre qualità è indicato come obiettivo prioritario dell’urbanistica. Più importante della regolazione dei suoli. O del corretto funzionamento del territorio. O, per meglio dire, regolazione e funzionamento si ridefiniscono come espressione di una città abitabile. Tutto si gioca su aspetti percettivi, di sensibilità, di comfort. Sulla necessità di rinforzare identità e abitabilità per un soggetto bisognoso di vedere soddisfatte le sue richieste. Questa formazione discorsiva ha un alto livello di politicità. Non perché vuole essere giusta (cioè perché dichiara attenzione alla nozione di giustizia spaziale e agli autori che l’hanno riportata al centro del dibattito). Ma per il suo rovescio: perché pone al centro un individuo scarnificato, bisognoso di comfort qualità, rassicurazione. La ricerca di comodità e consolazione non è certo un male, sebbene ci sia da interrogarsi sulla priorità acquisita in un momento di crisi. Sotto l’insegna della giustizia e della qualità, è in atto una riappropriazione violenta della città, in nome di un umanesimo astratto, rivendicato come nuovo traguardo. Meglio sarebbe dire di un nuovo funzionalismo. Lo spazio pubblico è il campo di questa riappropriazione.

Azioni lo spazio pubblico dopo che la modernità è passata Together è un film sperimentale realizzato nel 1955 da Lorenza Mazzetti, studentessa italiana della Slade School of Fine Art di Londra, in collaborazione con Lindsey Anderson. Protagonisti sono gli artisti Michael Andrews e Eduardo Paolozzi, nel ruolo di due fratelli sordo-muti. Entrambi presenti nei circuiti intellettuali londinesi degli anni Cinquanta. Presentato al National Film Theatre 1.

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nel febbraio 1956, accompagnato da un polemico manifesto a favore del cinema d’autore, realizzato a basso costo al di fuori del normale circuito produttivo, il film segna la data di nascita ufficiale del movimento Free Cinema, antecedente della Swinging London e della Nouvelle Vague francese. In un frammento del film che rappresenta Trafalgar Square di notte, accompagnato dalla colonna sonora di John Fletcher, Londra, ancora ferita dalla guerra, è per intero spazio pubblico. Uno spazio dilatato e potente del quale cogliamo bene i caratteri fondativi: la potenzialità magnetica a ripercorrere a ritroso la propria storia; la vocazione ad accogliere e incorporare esperienze e differenze di coloro che lo attraversano: bambini, anziani, militari, borghesi, coppie, individui soli, gruppi di amici. Lorenza Mazzetti non poteva aver letto il libro di Jurgen Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica che sarà pubblicato solo sei anni dopo l’uscita del film. Ma qui c’è un’idea dello spazio pubblico habermasiana, ovvero l’idea di uno spazio capace di rendere visibile l’istituzione politica, spazio virtuoso della cittadinanza, dello scambio interpersonale fatto non solo di parole, ma di sguardi, gesti, mani che si intrecciano, andature che si allineano. Uno spazio che richiede un codice di buona condotta, in cui sono evidenti le regole di un gioco sociale. Lo spazio notturno di Lorenza Mazzetti è la scena esplicita di una «démocratie procédurale» che Alain Touraine riferisce al «patriotisme de la Constitution», posizione della quale dà una versione lievemente minacciosa: «cette [démocratie procédurale] ne se contente pas des règles formelles; elle assure le respect des libertés personnelles et collectives, elle organise la représentation des intérêts, elle met en forme le débat public, elle institutionnalise la tolérance»1 . Laddove l’istituzionalizzazione della tolleranza ricorda l’ironia sarcastica di un autore che certo non piacerebbe a Touraine, Slavoj Žižek. Lasciata alle spalle la città del Novecento (e con un concetto di cittadinanza che è tornato ad occupare molta parte della riflessione della filosofia politica) che ne è oggi dello spazio pubblico? La drammaturgia e la scenografia, così meticolosamente indagate dalle correnti della sociologia interazionista e dai «riti d’interazione» di Goffman2 sembrano completamente ribaltate. Lo stare in pubblico certamente non è più improntato a quella misura, prudenza e tatto necessari all’«ordine negoziato» della Trafalgar Square di Mazzetti. Nondimeno, quando si lamenta la fine dello spazio pubblico (piazze vuote, luoghi pericolosi, situazioni compromettenti), si racconta solo una parte di una storia assai più interessante. Il depotenziamento non segna la sparizione. Al contrario, oggi osserviamo un dilatarsi dello spazio pubblico che nel contempo perde i suoi caratteri fondativi. Molte azioni lo riempiono e se ne appropriano. Nello spazio pubblico ci si muove lentamente o in gruppo, secondo stravaganti performance artistiche. Si corre, si pratica parkour o altre discipline che usano suolo ed edifici come supporto di movimenti acrobatici. Si dorme, mangia, studia. Si prega. Si gioca in spazi che sono attrezzati per altro (reinventando così spazi e giochi). Si coltivano fiori, ortaggi in ogni angolo disponibile. Lo spazio si riempie di pratiche ludiche, artistiche, di sopravvivenza e di condivisione dei più diversi tipi, condotte da differenti gruppi. Spesso le une ridefinite contro le altre (esemplare al contrario del political correctness: l’uso del gardening ad arginare la presenza di popolazioni marginali). Numerose ricerche hanno costruito, almeno dal 2008, repertori, cataloghi, guide delle azioni che occupano lo spazio pubblico. Hanno ridisegnato i contorni di un «pubblico minore»3 che usa a proprio modo lo spazio ed è fortemente inventivo.

1. A. Touraine, Pourrons-nous vivre ensemble ? Egaux et différentes, Fayard, Paris, 1977, p. 20. 2. E. Goffman, Les rites d’interaction, Minuit, Paris, 1974. 3. C. Bianchetti, “Un pubblico minore”, Crios, n. 1, 2011, pp. 43-51.

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Non è necessario aderire alle controversie o alle celebrazioni, né impegnarsi in meticolose ricerche di tipo antropologico per capire che, se lo spazio pubblico perde la dimensione complessiva e generale, non può per questo dirsi liquidato. Riemerge in una forma diversa, entro un’effervescenza continua di episodi, movimenti, azioni che hanno la pretesa di rappresentare il pubblico nella città contemporanea. Lo spazio pubblico moderno deflagra, ma non per svuotamento. Cambia statuto. I casi indagati dalla ricerca Territori nella Crisi aiutano a delineare questo mutamento di gerarchie e valori.

Ginevra, Barcellona, Madrid, Parigi genealogie che si sfilacciano

4. E. Cogato Lanza et all., De la différence urbaine, Mētis Presses, Gèneve, 2013. 5. C. Bianchetti, a cura di, Territori della condivisione. Una nuova città, Quodlibet, macerata, 2014; M. Eleb, J-L. Violeau, Entre voisin. Dispositif architecturale et mixité sociale, Les Éditions de l’Épure, Paris, 2000.

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Cosa osserviamo nello spazio pubblico di Les Grottes? Piccoli segni che rimandano ad associazioni e abitanti: pupazzetti, scritte, piccoli manufatti; aiuole ovunque; spazi aperti accuratamente recintati per allevare galline nel centro della città; una vegetazione spontanea che invade lo spazio tra le case e accoglie sedie, tavoli e ingombri personali; un uso non tradizionale di patrimonio pubblico di pregio. Dispositivi, oggetti, situazioni che fanno intuire legami densi, empatia, emozioni, affettività. Oltre ad una evidente esibizione di un nous, entro una città segnata da altre esibizioni: innanzitutto quelle del denaro e del potere. Rivendicazione di autonomia e differenziazione. E un certo protagonismo: prendersi cura, mantenere, riutilizzare parti intere di città. Indubbiamente una forte e continua attenzione allo spazio pubblico, ma anche la sua appropriazione a mezzo di segni, disegni, pupazzetti, azioni, rappresentazioni. Un’occupazione dichiarata, che non si limita al frontage, nuovo suolo sacro agli eco-quartieri di tutta Europa. Ingombro ovunque di tricicli, giocattoli, vasi di fiori, biciclette. Ma invade lo spazio tra le case, quello dei lotti non edificati, delle strade. Lo spazio pubblico di Les Grottes è uno spazio molle che può essere segnato, scalfito, modellato. Il valore economico solitamente mineralizza lo spazio, lo rende inscalfibile; le pratiche faticano a lasciarvi traccia, tuttalpiù qualche segno sui muri. A Les Grottes il suolo (in gran parte di proprietà pubblica) vale oro. E nondimeno è arrendevole, molle, si può riempire, svuotare, ridisegnare, attraversare in tutti i modi. Questa è la particolarità e la civetteria di un quartiere che rivendica la differenza come valore4. E’ nello spazio pubblico che si costruisce una particolare ambiance. E’ qui che si dichiara la resistenza alla normalizzazione (dei progetti, delle politiche, dei regolamenti). Quelle azioni che potrebbero apparire l’invenzione frivola di qualcuno (coltivare lattuga, allevare galline nel centro della città), hanno la pretesa di opporsi a norme, protocolli, standard tutti definitivi altrove. Fanno dello spazio pubblico il campo per rivendicare una diversa città. La questione che questa parte della città di Ginevra pone ad una riflessione sullo spazio pubblico è l’esibizione di una logica dell’entre nous, dell’entre voisin5 che occupa letteralmente lo spazio pubblico, lo riscrive come spazio condiviso entro piccole cerchie: cerchie delle singole associazioni, dei co-housers, di coloro che si riconoscono nella storia di Les Grottes; di coloro che, magari non riconoscendosi, continuano a celebrarla, come una storia esemplare, educativa. Cerchie sovrascritte le une sulle altre e ben sedimentate. Attraverso momenti simbolici, feste, piccole celebrazioni, attraverso


quella che Boltanski riconoscerebbe come una nuova convivialità, si costruisce l’ossimoro di uno spazio pubblico che non è per tutti. Qui si incrinano le gerarchie legate alla nozione di pubblico. Gerarchie che sono chiare nella Londra di Mazzetti, dove è il carattere istituzionalizzato dello spazio pubblico, la sua normatività, (i codici e le grammatiche condivise) che sottolinea la dipendenza dell’individuo dal sociale. Per questo, quello spazio è per tutti, mentre in questi casi è per alcuni: per gli abitanti di Les Grottes, i comitati, i vecchi squatters, le élites culturali, quelle artistiche e così via. Uno spazio che si ripropone continuamente entro una «relazione elastica» tra individuo e gruppo. Una relazione nella quale gli individui si associano e dissociano per le ragioni più disparate, usano lo spazio pubblico in un modo in cui interesse individuale e benessere sociale si intersecano e sovrappongono. Il che ovviamente non esclude scontri, conflitti, sopraffazioni e prese di distanza. Sul lato opposto, Can Battlò a Barcellona e le mareas ciudadanas a Madrid difendono uno spazio pubblico che potrebbe dirsi tradizionale, quello del welfare e dei sistemi di protezione sociale messi a punto nella seconda metà del secolo scorso e duramente compromessi dalla crisi economica. Nel caso della Plataforma Can Battlò, è la produzione di servizi che avviene a partire da un processo negoziato tra più attori, all’interno di quello che è considerato un suolo sottratto alla città. In un primo tempo dall’attività industriale, in seguito dai progetti dell’immobiliare che ne è proprietaria. Progetti bloccati dalla crisi che qui funge da detonatore. Tanto che l’atto fondativo (dopo l’abbattimento del muro) è la realizzazione di una debole griglia di percorsi interni che prima ancora che funzionale, è affermativa di una reinventata permeabilità. Can Battlò è la pretesa di rifondare la città dove non c’è, creare nuovi spazi pubblici, dialogare con l’intera città a partire da un luogo e da una connotazione operaia rivendicata orgogliosamente. Qualcosa di simile a quanto avviene ad Olinda, a Milano, anche se con modalità diverse. Ma anche qui, a partire da un luogo sottratto alla città (l’ex ospedale psichiatrico) che diventa fulcro di nuova urbanità. Anche qui un’azione che frantuma la segregazione spaziale a mezzo dello spazio pubblico e rivendica una città non dissimile da quella moderna. A Madrid i movimenti spontanei e destrutturati delle mareas coniugano questioni locali di accessibilità e rivendicazioni di giustizia e democrazia, attraverso forme dell’azione pubblica che possono essere iscritte all’immaginario situazionista più che alle tattiche dell’azione politica organizzata. Nel 1996 Serge Paugam diffonde i risultati di un’ambiziosa ricerca sull’esclusione sociale6. L’intenzione è fare il punto sul malfunzionamento della società urbana utilizzando un nuovo paradigma, quello dell’esclusione, appunto, «à partir duquel notre société prend conscience d’elle-même». Un quadro a tinte fosche che mette al centro (già come aveva fatto il pauperismo un secolo e mezzo prima) una questione di désocialisation. Il richiamo potrebbe sembrare incongruo, ma il successo della nozione di esclusione negli anni Ottanta è dovuto alla presa di coscienza collettiva di una minaccia. Dopo venti anni, vicende come quelle spagnole, ci dicono che la presa di coscienza di una minaccia può portare non solo all’esclusione, ma alla dilatazione dello spazio pubblico e alla riconquista «the level of the street, with unforeseen emotional strength and apparent de-structuration». Al centro è il (vecchio) problema della qualità della partecipazione all’azione collettiva. Dove ciò che è fatto valere in questo caso, è una più evidente connotazione emozionale e morale che sembra riecheggiare le antiche rivendicazioni («occasionali e convulse») sul «giusto» prezzo del grano. Il salto all’economia morale di Edward

6. S. Pugam (sous la direction de), L’Exlusion. L’etat des savoirs, Ed. La Découverte, Paris, 1996.

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Thompson7 è, di nuovo spericolato, ma sostenuto da un sentimento comune: un senso di legittimità costruito sulla « comune convinzione di difendere […] diritti […] e dalla convinzione di godere della più ampia approvazione della comunità» come scriveva Thompson dei rivoltosi del XVIII secolo. L’aspetto più interessante dell’esperienza spagnola rimane comunque un altro: il legame tra informalità delle azioni (dello squat, delle resistenze agli sgomberi, delle mobilitazioni) e la difesa del ruolo istituzionale di protezione sociale proprio dello stato: uno strano connubio, dove il welfare ha preso il posto del pane, l’istituzione, quello dei beni di sussistenza. In altri termini il caso spagnolo mostra come soggetti, meccanismi di mobilitazione, idee di protezione ridefiniscano se stessi, attraverso un’azione sulle condizioni di accessibilità dello spazio. Ancora una volta, «Lefebvre est incontournable!»8. Ma più che alla ridefinizione di idee di diritto e cittadinanza, qui interessa la qualità localizzata dell’azione. Il suo radicarsi e ridefinirsi in uno spazio che non si vuole pubblico in modo generico. Infine lo spazio pubblico istituzionale, ovvero i nuovi Chrystal Palace: spazi che pongono la questione di ciò che sta «tra pelle e ossa»9. Spazi di successo, vissuti in uno «stato di distrazione». Centquatre a Parigi mostra che non è esaurita l’azione istituzionale di costruzione dello spazio pubblico. E il confronto con Place de la Republic è istruttivo. Da un lato l’atmosfera protetta di un interno, dall’altra lo spazio liscio del moderno. Solo che qui lo spazio liscio non è un prato tra le case. Ma uno spazio sovrastato dalla statua di Marianne. Reso liscio ad uso di pratiche che possano attraversarlo e disporne. A vantaggio della patrimonializzazione. A svantaggio dei san papiers. Con qualche esibizione muscolare gestita, come sempre in questi casi, sulla dimensione: 120 metri per 180, il più ampio spazio pedonale di Parigi.

7. E. Thompson, “L’economia morale delle classi popolari inglesi nel secolo XVIII”, in Id., Società patrizia e cultura plebea. Otto saggi di antropologia storica sull’Inghilterra del Settecento, Einaudi, Torino, 1983, pp. 57-136. 9. A. Da Cuhna, “Introduction générale” in Id. e S. Guinand (sous la directions de), Qualité urbaine, justice spatiale et projet, Presses Polytechniques et Universitaires Romandes, Lausanne, 2014, p. 20. 9. A. Vidler, La deformazione dello spazio. Arte, architettura e disagio nella cultura moderna, postmedia, Milano, 2009, p. 205 10. Ivi. 11. A. Vidler, Il perturbante dell’architettura, Einaudi, Torino, 2006.

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Dopo la città claustrofobica di fine ottocento, il sogno modernista si traduce nello spazio razionale e trasparente10. Uno spazio niente affatto semplice: concentrato, ascetico, ontologico. Quando è pubblico, è capace, aggiunge Habermas, di includere le differenze. Diventa loquace, eloquente, analitico. Mostra un’energia fluente che determina immagini di densità concentrata, come quelle del film che abbiamo richiamato. Dopo che la modernità è passata, lo spazio pubblico cambia, di nuovo, in modo radicale. Les Grottes, Can Battlò, le piazze di Madrid, Centquatre e la Place de La Republique: spazi lontani dal sogno modernista. Opachi più che trasparenti, familiari, più che perturbanti11. Le genealogie si sfilacciano. Il carattere liscio è fatto a pezzi nella produzione di proiezioni soggettive, ripetitive: quelle dello stare tra vicini di Les Grottes; della volontà di produrre urbanità e servizi di Can Battlò; di difendere diritti e spazi istituzionali a Madrid. Fino a quelli, ancora più semplificati, tesi a creare atmosfere protette, dell’intervento pubblico.


Corpi codici umanisti e letture relazionali

Come tutti sanno Foucault è stato capace di irridere all’umanesimo che appellava «tenero». Oggi gli attacchi allo strutturalismo sono altrettanto violenti di quelli che lo strutturalismo portava all’umanesimo. E l’irrisione si rivolge a quel mondo che aveva voluto sostituire il bisogno dell’uomo. L’attacco agli attaccanti è intriso di nostalgia dolorosa per lo spazio, non solo per il soggetto. Una nostalgia per un mondo ancora storicizzato. Pieno di storie. Se non più quelle del progresso, dello sviluppo e della vita pubblica, ormai spente, ma quelle private di ciascun luogo e di ciascun individuo. Entro un sentimento non dissimile di nostalgia viene spesso richiamato il lavoro di Jan Gehl, improntato ad un umanesimo moralistico e laico. Attento a tradurre precetti morali in direttive tecniche e metodiche. Ricco di sottointesi pedagogici. La sua è una prospettiva operativa, codificata da manuali, progetti, prese di posizione. Jan Gehl osserva come «si sta in pubblico» e conseguentemente ripensa lo spazio. Le osservazioni costruiscono un catalogo implicito degli usi legittimi che possono essere fatti dello spazio pubblico: muoversi, stare fermi, seduti, in piedi, all’ombra, in piena luce. E in modo altrettanto implicito aprono un comodo varco per un nuovo funzionalismo. Le azioni del progetto, (pensate per opposizione: assemblare o disperdere; integrare o segregare; accogliere o rifiutare; aprire o chiudere) sono misurate sulla grammatica di un soggetto scarnificato, astratto. L’approccio umanista-funzionalista (vero e proprio ossimoro) ha anch’esso grande successo anche se appiattisce gli uni sugli altri spazi che sono pubblici in modo diverso, come è possibile mostrare senza necessariamente dover scomodare John Dewey12. Se l’approccio umanista costruisce uno spazio pubblico per l’uomo, un approccio relazionale ne distingue più d’uno. Almeno tre. Il primo è, in modo quasi controintuitivo, quello dell’intimité. Meglio, lo spazio dello stare da soli. Non tra le mura domestiche, alla ricerca di un rifugio in un mondo senza cuore, come avrebbe detto Christopher Lasch, ma nello spazio pubblico. Lo spazio dell’intimità è lo spazio dello stare al di fuori dello sguardo dell’altro. Quello per il quale, «L’inferno sono gli altri», come scriveva Sartre nel 1944. Vero rovesciamento dell’idea tradizionale di pubblico. Lo spazio dell’intimità non è lo spazio privato. Rimanere all’interno della grande dicotomia moderna pubblico/privato – del loro lento ridefinirsi nel corso del XVIII, non aiuta. Lo spazio dell’intimità è lo spazio che dà protezione. E’ il nascondiglio. Il rifugio13. Il luogo della sospensione del tempo. Dove ci si può raccogliere, protetti, isolati. E’ lo spazio nel quale ci si sottrae alla sorveglianza, all’azione, all’intorno. Il rimanere fuori dal potere totalitario dell’Altro, fuori dallo sguardo invadente, intrusivo, benthamiano, il diritto a rimanere nascosto, a mantenere il silenzio è ciò che fa valere il soggetto contro l’Altro. La figura dell’intimità implica dunque una relazione con il potere e una dimensione politica che solitamente viene riconosciuta solo alla dimensione pubblica. Lo spazio dell’intimità è segnato dalla distanza. Una distanza che è fisica (non necessariamente dura: un filtro di vegetazione spontanea vale per alcuni versi, quanto un muro), ed è ciò che permette di evitare il contatto, condizione sulla quale Canetti, prima di altri, ha scritto pagine molto acute. Una topologia degli

12. J. Dewey, Comunità e potere, La Nuova Italia editrice, Firenze, 1971 (ed. or. 1927). 13. G. Simmel, Sull’intimità, Armando, Roma, 1996 (1901, 1906, 1907, 1908).

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spazi dell’intimità disegna il contrario dello spazio trasparente, visibile, inondato di luce e igienizzato dell’ortodossia moderna. E’ lo spazio opaco fatto di spazi di resistenza. La cultura contemporanea si è misurata con questa condizione, basti ripensare ai gusci di Sloderdijk, agli spazi di immunità, i rifugi, recinti, involucri, abiti o scatole di Vito Acconci. Alle House di Rachel Witheread (ma anche agli spazi uterini di Tzara, richiamati da Vidler). Lo spazio pubblico dell’intimità trova il suo ribaltamento in quello dell’extimité. Extimité è una categoria introdotta nel XVI Seminaire, da Lacan14 a indicare quel movimento che ci spinge a mettere in luce una parte della vita privata, sia fisica che psichica. Si esibisce il proprio mondo interiore, costruendo su questo scambi con altri individui. Allo stare nascosti si sostituisce il desiderio di comunicare il proprio mondo, costruire legami densi con chi è prossimo, esibire il proprio sé. E’ il diritto a relazioni calde nello spazio pubblico. Anche qui c’è un rapporto con il potere: la sovraesposizione del sé è stata a lungo soffocata nelle convenzioni, nell’educazione (cioè nelle forme di apprendimento di come si deve stare in pubblico - per parafrasare Goffman), nella repressione di quello che è giudicato un esibizionismo fuori luogo. A differenza che nel primo caso in cui l’individuo si nasconde nello spazio pubblico, qui l’individuo si espone, il che costruisce un rapporto complicato poiché da un lato è manifestazioni del desiderio, dall’altro deve fare i conti con le esigenze e le regole di convivenza. L’extimité dilata lo spazio pubblico, lo riempie della presenza intima dei corpi, delle emozioni, dei turbamenti. Mette in atto un vero e proprio potenziamento. Ma può renderlo un campo di contrapposizioni e conflitti. Di negoziazioni continue. Lo spazio dell’extimité è lo spazio della prossimità, dei legami tra individui. Una topologia degli spazi pubblici dell’extimité costruisce luoghi riparati. Luoghi nei quali si negozia il desiderio di esporsi con le regole del vivre ensemble. Coincide con un’economia del corpo nello spazio pubblico. Non è la costruzione di spazi pacificati, come sono gli spazi privati dell’esperienza del corpo. E’ una topologia di bolle, reti, pieghe, interni: le inquietanti oasi naturalistiche ne l’Ile de Seguin ad opera di Desvigne, come le più vecchie e complesse geometrie, curve, flessibili, piegate di Eric Owen Moss, di Morphosis o di Greg Lynn.

14. J. Lacan, Seminaire XVI, d’un Autre à l’autre, Seuil, Paris, 2006 ; S. Tisseron, L’intimité surexposé, Hachette, Paris, 2003 (2001). Una riformulazione recente a partire dai concetti di intimité, extimité, desir, sexualitè in C. Barbisch , Extimités: enquête sur les formes contemporaines d’expression de l’intime et du désir dans l’espace public, These N. 5750 (2013), École Polytechnique Fédérale de Lausanne, Prèsentée le 27 Juin 2013. 15. J. Donzelot, La ville à trois vitesse, Éditions de la Villette, Paris, 2009.

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Poi vi sono gli spazi del pubblico nella loro accezione tradizionale, quella dello stare con altri nello spazio pubblico. Questo è lo spazio pubblico che interessa filosofi e sociologi. E naturalmente gli architetti, i geografi culturalisti, gli storici. E’ l’arendtiano rendersi visibili reciprocamente. Condizione che è divenuta sinonimo di socialità, di scambio non programmato, di serendipity. Raccontata e rappresentata lungo tutto il Novecento come scena sulla quale le persone e le loro azioni sono esposte alla vista di tutti. Uno spazio levigato e potente. Costitutivo delle pratiche di adolescenti, anziani, individui che hanno differenti forze, posizioni, preferenze, interessi. Analogamente costitutivo di tutti gli atti di protesta o di violenza: attacchi alla proprietà, vandalismi, insulti, minacci, piccoli furti, accattonaggio aggressivo, scippi, aggressioni. Vissuto intensamente, caricato affettivamente, temuto. Percepito di volta in volta come rassicurante, pericoloso, compromettente. Se da un lato è l’accessibilità, dall’altro è l’incivilté su cui ha lavorato Donzelot a definire uno spazio aperto e denso15. Da Simmel e dalla Scuola di Chicago, la densità è un carattere della socialità. Lo spazio del pubblico è lo spazio della densità. Il pubblico è il diritto all’accessibilità, alla continuità, alla socialità. Una topologia degli spazi del pubblico è costituita da infiniti luoghi nei quali si sta insieme e dalle grammatiche che li governano. A partire dal repertorio classico degli spazi


pubblici nei trattati sui parchi del XIX, fino ai cataloghi contemporanei costruiti sui progetti di spazi pubblici che accompagnano gli episodi di riqualificazione urbana: ad Amburgo con le sue improbabili, ma affollate piccole piazze mediterranee lungo le dita dei moli portuali, come a Milano nelle sottili passerelle e negli slarghi arredati come interni, tra i nuovi grattacieli di Garibaldi Repubblica. A guardar bene, anche dopo che la modernità è passata, è ancora l’«intensità della vita nervosa» di cui parlava Simmel, i giochi delle prese di distanza, il carattere denso, mobile delle interazioni a dirci della mutata condizione dello spazio pubblico (sempre che si abbia cura di evitare il campo rischioso della psicologismo o dell’etnografia per il quale vale ancora l’avvertenza di Hall Forst a stare lontani delle logiche terapeutiche di tipo paternalistico, proprie dell’operatore sociale16). Entro la nostra triplice angolazione lo spazio pubblico può essere assimilato ad una «cornice di sequenze disarticolate di operazioni che si vanno facendo». Distanza, prossimità, densità ridefiniscono gli equilibri tra i diversi spazi pubblici, Ribaltano convenzioni stabili tra interno ed esterno (operazione peraltro che ha una genealogia modernista che è stata più volte ricostruita17). Una cornice di sequenze disarticolate è il contrario dello spazio scenografico del moderno. E’ uno spazio che viene sempre attraversato da qualcosa d’altro. E’ questo il suo valore. Il qualcosa d’altro è il corpo. Un corpo, che «non resta al suo posto», direbbe Butler18. L’idea di uno spazio pubblico libero dal corpo è un vero controsenso (e non solo perché siamo entro una cultura ossessionata dal corpo). Negli spazi dell’intimità, nell’extimité, nel pubblico, si giocano innanzitutto corpi. Interazioni nervose. Contatti ricercati o sfuggiti. Lo racconta bene Sennett utilizzando la satira amara dei quadri di William Hogarth, Beer Street e Jin Lane19). I temi progettuali che ne nascono sono quasi infiniti20, legati alla virtù dei sensi e delle emozioni, o, al contrario, alla deprivazione sensoriale di un’urbanistica moderna che ha separato, costretto, limitato i contatti. In modo esattamente ribaltato rispetto al nuovo funzionalismo, è la presenza del corpo a impedire la pacificazione dello spazio. «The intrusion of a human body into a given space is one of violence»21: la violenza come metafora della relazione non pacificata tra corpo e spazio. Ogni uso, è un’intrusione di un ordine in un altro. La cultura architettonica non è sempre stata asceticamente impassibile, né felicemente anestetizzata.

Progetti devozioni ed ex voto

Nel rivendicare una migliore abitabilità, si fa frequentemente riferimento al comfort dello spazio pubblico. E‘ quasi un’ossessione per il comfort, fuori dalla domesticity del dopoguerra, con le sue traiettorie fatte di tagliaerba e congelatori. Rideclinata entro lo spazio pubblico come elemento di giustizia spaziale. Si potrebbe facilmente acconsentire: perché del comfort dello spazio aperto non dovrebbe godere ciascuno? Il problema non è la redistribuzione ugualitaria, quanto la naturalizzazione del concetto. Che richiede qualche maggiore precisazione.

16- H. Foster, “L’artista come antropologo”, in Id., Il ritorno del reale. L’avanguardia alla fine del Novecento, Postmedia, Milano, 2006 (1996). 17. B. Colomina, Privacy and Publicity. Modern Architecture as Mass Media, MIT Press, Cambridge, Mass., 1996. 18. J. Butler, Qu’est-ce qu’une vie bonne?, Payot, Paris, 2014. 19. R. Sennett, “Espaces pacifiants” in Prendre place. Espace public et culture dramatique, Textes réunis par Isaac Joseph, Colloque de Cerisy, Editions Recherches, Plan Urbain, 2005, pp. 129-136 20. B. Secchi, “Dell’utilità di descrivere ciò che si vede, si tocca, si ascolta”, relazione introduttiva al II Convegno internazionale di urbanistica, Descrivere il territorio, Prato 30 marzo-1 aprile 1995. 21. B. Tschumi, “Violence of Architecture”, in Id., Architecture and Disjunction, MIT Press, Cambridgee, Mass. 1996, pp. 121-139.

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Riusciamo a dire abbastanza bene cosa sia comfort nella Londra di Mazzetti: in quel caso c’è un’importante tradizione che è possibile ricostruire anche a partire da intelligenti antologie22. E’ una tradizione di attenzione alla storia, alla forma, alle dimensioni e articolazioni dello spazio pubblico. Ha radici nella renovatio urbis degli anni 80, ha dato esiti di grande sofisticatezza riducendo in frammenti esemplari storie altamente complesse, restituendo ricchezza di significati e robustezza formale che erano andate perdute. Costruendo progetti attenti a che tutto funzionasse, che lo spazio fosse comodo, i materiali di qualità, la ricerca estetica non banale, che il progetto fosse minuzioso entro una attenzione colta al passato. Con il mutare del concetto di pubblico nella città contemporanea, questa tradizione si trasforma in una sorta di pratica ascetica nella quale troviamo l’eco di un’urbanistica attenta al progetto degli spazi aperti e al disegno del suolo, che interpreta lo spazio pubblico come un’ampia superficie unitaria entro la quale si stabiliscono particolari relazioni visive, ritmi, articolazioni.

22. T. Avermaete, K. Havik, H. Teerds, eds, Architectral Positions. Architecture, Modernity and the Public Sphere, Sun, Amsterdam, 2009 23. A. Da Cuhna, S. Guinand, “Qualité urbaine, durabilité et action collective : éléments de réflexion », in A. Da Cuhan, cit. p. 36. 24. Public Space. The Familiar into the Strange, project by Juul | Frost Architects, The Architectural Publisher B Copenhagen, s.d. 25. «Modernity coincides with the publicity of the private», B. Colomina, Privacy … cit. p. 8

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Oggi quella tradizione viene richiamata da chi pensa di trovare in essa «la clé de la qualité urbaine». Il passaggio non è scontato. Il cortocircuito tra progetto di suolo, comfort e qualità è ritenuto «costitutif d’une géographie des aménités, de goȗts et des ambiances dans lequelles sont rèvélées nos relations à l’espace public»23. Entro la tradizione del disegno di suolo, aménités, goȗts e ambiances non erano certo al centro. Anzi, non c’entravano affatto. Le ambizioni erano, per così dire, più alte. Oggi aménités, goȗts e ambiances sono riposizionate al centro, assurgono a principi buoni per tutti. Ma non sono gli unici. Nei nuovi manuali sullo spazio pubblico (che si presentano sotto le più diverse vesti) si ritrovano sempre gli stessi richiami alla virtù della densità, diversità, permeabilità; alle necessità di organizzare centralità e accessibilità; ad avere attenzione ad aspetti ecologici, protezione e comfort; alla percezione, alla leggibilità; agli attori, ai saperi ordinari, alle collaborazioni intra-disciplinari e alle pratiche partecipative. Quella che abbiamo chiamato una diversa formazione discorsiva assume qui la sua connotazione neo-liberista. Immutata come una litania. E consolatoria nella sua pretesa di costruire buoni principi. Entro un atteggiamento che (nobilitandolo) si potrebbe dire, da bricoleur, punta a «to crystallize a thought-fusion» entro l’ingovernabile letteratura novecentesca sullo spazio pubblico. Mobilita Sennett, Lynch, Jacobs, Simmel, Deleuze e Guattari, Lefebvre, Eco, Bordieu, Bauman. Un racconto intossicato di se stesso che riprende all’infinito posizioni note. Costruisce genealogie di innegabile plasticità. Accetta tutto, non respinge nulla: nomadismi, eterotopie, spazi dei diritti e spazi voluttuosi, ritmi della vita quotidiana e catalizzatori di energie e intelligenze. Costruisce mappe concettuali soccorrevoli e ospitali. Se l’intento è fornire buoni principi (ma per quali progetti?), la povertà delle uscite è esemplare24 e lascia del tutto inevase le domande. Come costruire una leggibilità dello spazio pubblico, cercando di fare i conti con un soggetto che non è predefinito nei suoi comportamenti nello spazio come vorrebbe Jan Gehl? Non ci si può certo affidare a Jane Jacobs e Kevin Lynch. Non solo perché costoro hanno in mente il plot ufficiale del pubblico novecentesco (come peraltro è ovvio che sia). Ma per la loro fiducia della possibilità di creare un nuovo ordine simbolico, una nuova «immagine della città», un orientamento, una gerarchia, intesa come fattore fondamentale della buona pianificazione. Sono veramente posizionati altrove rispetto allo spazio pubblico con+temporaneo.


Sennett, Lynch, Jacobs, Simmel, Deleuze e Guattari, Lefebvre, Eco, Bordieu, Bauman usati come ex-voto. C’è da far rimpiangere la sofisticata tradizione di progetto di suolo degli anni Ottanta. In ogni caso è difficile ricostruire da qui un diverso campo di lavoro che potrebbe, in modo più modesto, partire da alcune semplici posizioni che solo il progetto può sviluppare. Recuperando un po’ di quelle scritture provvisorie e sperimentali (residuo moderno, verrebbe da dire con una vena di rimpianto!), che tra codici funzionalisti ed ex voto novecenteschi non trova più alcuno spazio. Un diverso campo di lavoro sullo spazio pubblico potrebbe partire da posizioni che chiariscano come nella città contemporanea, questo è semplicemente privo di uno statuto speciale. Non è un tema a sé, se non per amministrazioni e promotori immobiliari necessitati di legittimare il proprio fare. Non ha più la forza di quel movimento che Beatrix Colomina chiama «publicity of the private». Un movimento che consuma il privato e arriva a segnare per intero la modernità25. Non è confinato nei cosiddetti luoghi centrali che costruivano una parte importante dei piani regolatori e della loro legittimazione. Né è confinato in un valore definito una volta per tutte, sia pure esso la civicness, come nella Londra di Mazzetti. E uno spazio privato della sua durata: secondo grande ossimoro, dopo quello di uno spazio che non è per tutti. Usando un linguaggio cinematografico, possiamo dire che non riguarda solo i luoghi onscreen, ma anche quelli off-screen, fuori dal mirino della cinepresa, che si attivano in modo selettivo. Lo spazio pubblico non è spento o acceso una volta per tutte. Non celebra la fissità, come nel caso della Londra di Mazzetti, ma l’occasione. Quando è on-screen è attraversato da corpi, movimenti, intenzioni, progetti che possono andare d’accordo o configgere (la scarsa durata del gardening a fronte degli usi marginali è la divertente ed esemplare rivincita dei secondi sui primi). Prefigurazioni, configurazioni, dispositivi di progetto si dovrebbero misurare su un sostanziale, profondo ribaltamento di gerarchie, valori e grandezze che definiscono lo spazio pubblico. Catturando al volo e combinando quella miriade di dettagli attraverso i quali i ribaltamenti più radicali si palesano. Mettendo al lavoro una sorta di micrologia che, nelle migliori tradizioni, non muore in se stessa, non si accontenta del dettaglio, ma mette alla prova schemi concettuali e idee. Come quando, per osservare (quasi in modo speculare) il mutare dei valori attribuiti all’abitare nella città contemporanea, si osservano le fattorie degli squat olandesi, i rustici dei nuovi montanari nelle valli occitane, gli orti dei co-housers ginevrini26. Micrologia certo, ma non gusto del dettaglio. Non è semplice. Se uno spazio rappresentativo in senso moderno di democrazia e cittadinanza non fa più parte della nostra cultura, dei suoi programmi e delle sue utopie, bisogna cercare altrove. Abbiamo bisogno di altre rappresentazioni e altri spazi. Provare a trattare il mutamento dello spazio pubblico senza rimanere intrappolati nelle implicazioni di vecchi e nuovi umanesimi, o di concetti buoni per definizione, è una sfida altissima. Da questo punto di vista lo spazio pubblico, nel suo carattere equivoco e semanticamente indeterminato, è ancora come diceva Tocqueville, il grande «campo di battaglia» sul quale giocare la nozione stessa di città. Come lo è stato nel moderno, seppure ormai tutto ci distanzi dal moderno. Per questo nuovo campo di lavoro la nuova formazione discorsiva non è di grande utilità. Anzi, lavora contro. Disegna il progetto dello spazio pubblico come il più democratico, il più duttile, il più capace di rispondere alle aspettative (di tutti). Si riduce ad una sorta di pubblicità progressista che le forze economiche (prima

26. C. Bianchetti, a cura di, Territori della condivisione, … cit

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ancora che quelle culturali e disciplinari) fanno del proprio sviluppo tecnologico e produttivo. Utilizzando retoriche umaniste, trasformando il progetto per lo spazio pubblico nell’espressione di un’improbabile arcadia logo-ludica, dove si sta bene, si è più giusti e sostenibili. La polvere dorata del patrimonio culturale e della città creativa ne sono parte. Come il vago aroma delle «qualités immateriélles de confort, de protection et d’embellisement», fino alla ricerca di una nuova estetica urbana che, vista da vicino, non è nuova affatto. Il territorio che questa formazione discorsiva disegna è quello della garanzia e della simulazione. Garanzia nel confronto dell’accordo con un pubblico e una cultura disciplinare dominanti. E simulazione di rischi già passati e neutralizzati. Lo spazio pubblico non comporterà più traumi. Gli accordi sono pienamente ristabiliti. Una formazione segnata da conservatorismo e restaurazione, mascherati da nuovo umanesimo e attenzione ecologista. A disegnare un progetto che esprime pochi dubbi e non interrompe i rapporti con l’ambiente, il ceto, la cultura delle trasformazioni urbane. Nuota secondo corrente e con buona lena.

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La nozione di «cadre de vie» : tra eredità strumentale e eredità sostanziale

Elena Cogato Lanza professore di Teoria dell’urbanistica, LAB-U, EPFL

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1. Avrebbe mai immaginato Ivan Illich che il termine di «convivialité» avrebbe

invaso il discorso urbanistico dell’inizio 21° secolo ? O Henri Lefebvre che il «droit à la ville» potesse essere promosso dai poteri pubblici nel senso di una «urbanité» generalizzata, di una «mixité» come una finalità indiscussa e indiscutibile della pianificazione ? La contestazione degli anni 1970 della società industriale da una parte e della città funzionalista dall’altra hanno lasciato in eredità un vocabolario che sembra aver durabilmente attecchito nel linguaggio tecnico contemporaneo. Senza polemica, sottolineamo come le intenzioni di protesta, di rottura – se non di rivoluzione – siano state lentamente sedate, mentre il fascio di nozioni che le enunciava si è mostrato disponibile ad una risignificazione pacificata e pacificante. L’occasione di cogliere tale parabola ci è stata data dallo studio condotto sul quartiere delle Grottes a Ginevra1 , punto di partenza delle note che svilupperò qui di seguito intorno alla fertilità operativa di tale fascio di nozioni, concentrandomi in particolar modo su quella di «cadre de vie».

1. E. Cogato Lanza, L. Pattaroni, M. Piraud, B. Tirone, De la différence urbaine. Le quartier des Grottes / Genève, Ginevra, Metispresses, 2013. 2. I. Illich, La convivialité, Paris, Seuil, 1973 (1973). 3. C. Bianchetti, «Lieux et droits : en quoi se traduit le droit collectif à l’habiter», in E. Cogato Lanza et alii, De la différence urbaine, cit., pp. 237-257. 4. M. Breviglieri, «Une brèche dans la ville garantie ? Espaces intercalaires et architectures d’usage», idem, pp. 213-236.

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La «convivialité» indica oggi un’insieme di pratiche di governance, una partecipazione addomesticata e, allo stesso tempo, un’appropriazione pacificamente diversificata dello spazio. Tutto ciò in risonanza con la radice etimologica del termine che richiama alla condivisione della tavola, tra convivi, e molto meno in linea con la definizione datane da Ivan Illich nel 1973, quando convialità si riferiva alla natura della relazione produttiva individuo/collettività realizzabile in una società che ha operato l’inversione del sistema produttivo industriale dalla superproduzione a quella dell’austerità liberatrice2 . Il «droit à la ville» oggi, come rivendicazione pratica, ha dimostrato di passare per una sua diffrazione in una serie di diritti minori, circoscrivibili e concretizzabili, capaci di essere ascoltati senza la messa in discussione delle procedure standard dell’accesso a beni e servizi – accesso ad un appartamento sovvenzionato, modalità d’uso dello spazio pubblico, etc. – ma approfittando di un margine di negoziabilità negli interstizi3 . Diritti minori e soprattutto non generalizzabili, al punto che all’universalità dei diritti soddisfatti dal welfare sembra sostituirsi a poco a poco la rivendicazione di una serie teoricamente infinita di preferenze. Mixité e densité sono oggi valori comunemente condivisi : le due nozioni hanno subito negli anni recenti una pesante normalizzazione, con la loro traduzione in una serie di parametri quantitativi, o con la loro associazione ad una serie di caratteri spaziali standardizzati, nella geometria, nella materialità e nell’estetica. Il droit à la ville si è mutato in «ville garantie»4 : garantire l’accesso ad una urbanità come rappresentazione di uno spazio liscio e accogliente che rimuove i conflitti e, soprattutto, le occasioni di conflitto. Per quel che riguarda il «cadre de vie», infine, se ne fa oggi un duplice uso: secondo un’accezione pacificante, che presuppone una convergenza di intenti dell’insieme degli attori dell’urbano – il cadre de vie come dimensione aggregante


di svariate politiche, scelte e progetti nei settori dell’immobiliare, dei servizi , dei trasporti, etc. –; e secondo un’accezione restrittiva, come sinonimo di tutto ciò che esce dall’ambito del lavoro – vedi ad esempio le descrizione di parti di città come opportunità di lavoro e cadre de vie. Nel suo celebre La ville à trois vitesses5 , Jacques Donzelot afferma il ruolo cruciale della nozione di «cadre de vie» nella critica all’urbanistica funzionalista, e in particolare nella rivendicazione di una dimensione qualitativa della città. In altre parole, contrariamente ad una rivendicazione quantitativa che portava sul «niveau de vie», quella del cadre de vie ha denunciato un deficit di urbanità: se un certo livello di confort e di salario sembra assicurato («e que l’on gagne»), quello che manca è l’esprit de la ville («ce que l’on partage»). Che nell’ambito dei conflitti sociali, fino a quel momento rivolti a questioni quantitative, faccia irruzione una rivendicazione qualitativa non è un’orginalità assoluta, continua Donzelot: basti richiamare la posizione di Engels che aveva impugnato la questione delle abitazioni nel quadro della critica della all’organizzazione della produzione, né alla lotta del sindacato. L’evocazione di Engels permette inoltre a Donzelot di situare l’opposizione tra Lefebvre et Castells: per il primo il droit à la ville merita di essere perseguito per se stesso, nel senso dell’affermazione della superiorità del valore d’uso su quello di mercato, e nel senso di un’attesa in merito al cadre de vie; per Manuel Castells, al contrario, non si tratterebbe che di un sottostrumento della lotta sindacale. Vi è controversia sul cadre de vie come valore – è o non è un valore in sé, vale o no come posta in gioco per se stesso – mentre nessuna controversia si ha sulla definizione del termine. Il che è del tutto comprensibile, in un momento di forte messa in discussione di qualsiasi frontiera nel sapere, nelle competenze e nel potere: se la priorità è nel senso della demolizione del sapere esperto a favore della partecipazione, della sperimentazione sociale e politica nel quotidiano, la diatriba terminologica non ha pertinenza. Come cita Christian Lalive d’Epinay, il personaggio di Humpty Dumpty lo dice ad Alice: la questione del significato delle parole dipende strettamente dalla questione di «chi è il capo»6 . Se tale questione viene rimossa, l’interesse per il significato cade. Nella prospettiva di queste note, poco importa una genealogia del termine (la cui emergenza si situa a cavallo tra il discorso colto, scientifico, e quello della rivendicazione e della partecipazione) per valutarne la fertilità progettuale. Ciò che mi interessa è infatti mettere in luce la portata operativa del concetto di cadre de vie, dove l’operativo pertiene alle strategie analitiche, descrittive o compositive di un processo di conoscenza mirato al progetto: la portata operativa non risiedendo in modo stabile nella nozione stessa, ma negli incroci e risonanze oggettivamente verificabili tra nozione, operazioni tecniche, modalità di visualizzazione e temi progettuali. E’ così che quando Christian Lalive d’Epinay abbozza un saggio di costruzione del concetto di «vie quotidienne» nel 1983, enuncia come due compiti chiaramemte distinti da una parte un lavoro di sociologia del linguaggio (la storia dei significati) e dall’altra un lavoro sugli ambiti della praxis associati al termine. Lalive d’Epinay si dedica al secondo per approdare alla vie quotidenne come dialettica tra routine ed evento, e alla necessità di definirne le tipologie. In riferimento alla nozione di cadre de vie, fomuliamo le seguenti domande: E’ possibile identificare una discontinuità nei metodi e negli strumenti del progetto relativa all’emergenza della nozione di cadre de vie? E’ possibile ritrovare una rottura che sia pertinentememte collegabile a quella che Lefebvre intendeva

5. J. Donzelot, La ville à trois vitesses et autres essais, Paris, Editions de la Villette, 2009. 6. Ch. Lalive d’Epinay, «La vie quotidienne. Essai de constriction d’un concept sociologique et anthropologique», Cahiers internationaux de Sociologie, Vol. 74, 1983, pp. 13-38. 1.

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produrre nell’urbanistica funzionalista rivendicando al cadre de vie un valore? E’ possibile andare al di là della constatazione, per le nozioni chiave delle lotte urbane degli anni 1970, di una pacificazione o di un addomesticamento7 per ritrovarne le molteplici sfaccettature a cavallo tra il discorso e le tecniche? Come tracciare un bilancio che non presupponga, a priori, che una interpretazione pratica sia più di un’altra legittima? Cosa la nozione di cadre de vie ci permette di capire oggi, dei territori della crisi? Segnaliamo per ultima l’unica preoccupazione storiografica che ci muove: relativamente alla fortuna crescente di cui gode Lefebvre, cosa scopriamo inseguendo la pista del cadre de vie?

2. Alla ricerca di indizi che ci permettano di identificare il potenziale cognitivo-

operativo del cadre de vie partiamo da due declinazioni recenti, l’una associata ad una ricerca di sociologia urbana terminata nel 2011 e intitolata Incidences du «rapport au cadre de vie» sur la mobilité des loisirs, e l’altra ad alcuni progetti elaborati nello stesso periodo nel quadro della consultazione internazionale del Grand Paris.

7. L. Pattaroni, «Politiques de la différence. Critique et ouverture des possibles dans l’ordre de la ville», in E. Cogato et alii, De la différence urbaine, cit., pp. 259-283. 8. N. Louvet, H. Nessi, O. Coutard, V. Kaufmann, Incidences du «rapport au cadre de vie» sur la mobilité des loisirs, DGLAN/Plan Urbanisme Construction Architecture, Paris, 2011. 9. Ibidem, p. 7. 10. Nel documento sintetico firmato dallo stesso gruppo di ricerca come 6-t, Incidences du rapport au cadre de vie et du contexte sur la mobilité des loisirs, DGLAN/Plan Urbanisme Construction Architecture, Paris, senza data, p. 1. 11. Ibid., p. 2.

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La ricerca condotta da Vincent Kaufmann et Nicolas Louvet8 è rappresentativa di una corrente importante della tematizzazione del cadre de vie dalla sociologia urbana, che associa cadre de vie e mobilità, e che considera le dialettiche di mobilità/arresto, routine/evento, nomadismo/appartenenza. Gli autori precisano che il cadre de vie costituisce «un référentiel plus large que la simple localisation résidentielle»9 e che serve loro come concetto chiave per identificare l’incidenza della struttura urbana – città densa o città diffusa – sulla mobilità del tempo libero. La ricerca conclude infatti smontando l’assioma secondo il quale la città densa sia più sostenibile della città diffusa, poiché le mobilità del tempo libero vi sono in assoluto più inquinanti ed energivore. La conclusione ci interessa non in sé, ma in quanto mostra chiaramente come qui il «cadre de vie» attraversa scale e dimensioni molteplici: dall’alloggio alla struttura urbana complessiva (o «contesto urbano», secondo gli autori). Si trova nel cuore di una «controversia scientifica maggiore»: quella sul legame tra «forme urbane e sviluppo sostenibile»10, affrontata attraverso un salto di scala vertiginoso da una problematica circoscritta (le preferenze in materia di mobilità nel tempo libero) ad una globale (l’opposizione tra tra città densa e città diffusa dal punto di vista ambientale). Il documento finale della ricerca indica una varietà di luoghi precisi che, tenuti insieme dalle pratiche, articolano il salto di scala e costituiscono tutti una sfaccettatura del poliedro «cadre de vie» – la disponibilità di un giardino privato, il barbecue, l’offerta dei trasporti pubblici, il carattere e le componenti dello spazio pubblico di prossimità, la pianta del quartiere. Essi si compongono ad alcuni fattori non spaziali – la disposizione di un capitale monetario o culturale, per es. – ma anche (è ciò è fortemente sottolineato) alle rappresentazioni individuali/sociali dello spazio, che vengono schematizzate in un grafico. I ricercatori sostanziano un’idea complessa del cadre de vie, multidimensionale (sui registri funzionale, sensibile e sociale) e «non determinista» . Il cadre de vie serve mettere in luce la ragione delle scelte dei soggetti, e dalle quali si deduce il significato dei luoghi


(appartenenza, ricerca di evasione, soddisfazione): finalmente, il cadre de vie è «une unité d’observation»12, è il montaggio multidimensionale prodotto dai ricercatori. Il cadre de vie come quadro delle decisioni, dei comportamenti e degli affetti spaziali, come espace vécu Lefebvriano, è simultaneamente uno strumento di ricerca sapiente e maturo, che si appoggia sulla nozioni di «logique d’action» e di «reflexivité de l’acteur». Consideriamo ora i progetti elaborati da Finn Geipel e Giulia Andi, e da Bernardo Secchi e Paola Viganò per il Grand Paris. Nel 2007 il Ministero francese della Cultura lancia la consultazione nel quadro di una rinnovata fiducia nel progetto urbanistico alla grande scala, nella sua presa sulla complessità reale del territorio, e nel suo contributo a costruire insieme le condizioni di funzionalità e di appartenenza. L’agglomération parisienne de l’après Kyoto, come recita il titolo, si riferisce ad una rottura di paradigma necessaria in risposta agli accordi di Kyoto; nello stesso tempo, in quell’anno si riconosce globalmente l’entrata in una fase di crisi, che spiazza chi poteva interpretare un progetto per il Grand Paris nella prospettiva di una semplicistica crescita economica. Geipel e Andi associano la nozione di «cadre de vie» ai suoi test di ristrutturazione della trama urbana di 1 x 1 km, entro una articolazione del progetto che li fa avanzare in simultanea con la visione multipolare alla grande scala, organizzata tra l’altro sulla base di una mobilità intermodale coprente (mobilità dolce, trasporto pubblico e car sharing). Un articolazione tra, da una parte, una rappresentazione precisa e schematica della grande scala, sviluppata su un unico tema e, dall’altra, la considerazione della consistenza materiale e funzionale dei paesaggi dell’agglomerazione nelle loro diverse e specifiche forme. Una démarche affine si ritrova in Secchi Viganò, dove la visione alla grande scala si fonda sul concetto di porosità. Estratti di territorio di 3 x 3 km e test di 1 x 1 km vengono studiati in parallelo al progetto della porosità sull’area complessiva di 50 x 50 km. Il salto di scala si realizza attraverso un montaggio di osservazioni: la carenza di porosità nella vasta Parigi extra muros viene esemplificata tramite il ricorso all’esperienza immediata del singolo – il fatto di uscire dalla porta di casa e di non potersi muovere a piedi, perchè dipendente dalla disponibilità di una macchina –; mentre la carta statistica che rappresenta la porosità esistente su tutta l’area dell’agglomerazione (100 x 100 Km) è esattamente il mosaico delle carte elaborate per ogni tassello di 1 x 1 Km. Un constatazione alla grande scala si enuncia attraverso una carta statistica strettamente riferita alla materialità e geometria dello spazio sensibile, della realtà tangibile che condiziona direttamente i comportamenti di ogni individuo. I progettisti usano il concetto di cadre de vie per definire il supporto spaziale e materiale di ogni pratica, e affermare come qualsiasi azione intrapresa nel Grand Paris – nel campo dell’abitare come in quello della produzione – ne sia direttamente condizionata, ne sia facilitata o ostacolata. In questo riconosciamo una delle forme prese dalla critica concreta al determinismo funzionalista e alla sua astrattezza, questa critica di lunga durata che ha seguito traiettorie molteplici: la traiettoria dell’urbanistica descrittiva, dell’attenzione fenomenologica per «ciò si vede si sente e si tocca», svincolandosi da un approccio «bidimensionale» e astratto dell’urbanistica, senza tuttavia rinunciare al concetto di piano. Cadre, cadrage, unité d’observation. La metafora pittorica del cadre de vie, quella per la quale cadre è cornice, limite di una porzione del mondo visibile,

12. «permettant de comprendre les tenants et les aboutissants des pratiques des ménages sur un territoire», ibid. p. 3.

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si prolunga su un registro analitico. Il linguaggio di Lefebvre guardava all’arte in modo più spericolato, quando rivendicare il droit à la ville era anche attivare la sua potenzialità ad essere opera, oeuvre d’art13. Una posizione terribilmente problematica quella di Lefebvre. Non è un caso che la fotografia abbia per prima tentato il riscatto dell’architettura moderna: pensiamo alle campagne fotografiche che inquadrano il nuovo paesaggio del grand ensemble, che fissano i «cadres» della vie moderne, mostrando ad esempio le sistemazioni paesaggistiche dello spazio esterno a prova di una qualità tangibile, di una possibilità di familiarizzazione di quelle forme construite assolutamente estranee a tutto ciò che si era conosciuto prima. Un tentativo di andare oltre la riduzione funzionalista delle tre dimensioni dell’abitare, del lavorare e del se ressourcer, e del loro soddisfacimento quantitativo; le fotografie intendevano mostrare che c’era comunque qualcosa di più. Ricordiamo ancora i cadrages fotografici utilizzati dagli Smithson per demolire la griglia delle scale spaziali della carta d’Atene, per affermare che le relazioni tra scale delle strutture spaziali e scale delle strutture sociali son ben più imprevedibili ed aperte. Sono momenti di una lunga associazione tra «cadre» e «vie» che sostengono la nostra ipotesi, formulata a partire dagli esempi più recenti che abbiamo prima analizzato. L’ipotesi per la quale sì, alla nozione di cadre si associa una discontinuità nei metodi e negli strumenti del progetto, che pertiene ad alcune operazioni in particolare: quelle relative ai passaggi di scala, alle associazioni tra unità di misura. Il cadre de vie si accompagni a bruschi e discontinui salti di scala tra dimensioni estreme; si associa ad un’attenzione forte alla dimensione sensibile. Tali operazioni sostanziano una concezione multidimensionale complessa e non deterministica della vita, riferendo questo termine alle dinamiche sociali, collettive e individuali, per la quale è opportuno approntare uno sguardo selettivo, strumento di un vero e proprio progetto di lettura. Una selezione che da cadre in senso pittorico si è mossa verso un cadrage come estratto, échantillon, sample.

13. H. Lefebvre, Le Droit à la ville, Paris, anthropos, 1968, p. 53.

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I cadrages del Grand Paris come l’unité d’observation di Kaufmann ci parlano di un rapporto con il reale svincolato da rigide definizioni, dall’autorità di parametri quantitativi e funzionali. Sono gli strumenti di una apprensione qualitativa della città, quelli che assumono deliberatamente la responsabilità di costruire dispositivi selettivi. E’ interessante sottolineare che il cantiere del Grand Paris, lanciato dal Ministero della Cultura francese sotto la presidenza di Nicolas Sarkozy, è simultaneo all’incarico dato dallo stesso presidente all’economista Joseph Stiglitz di condurre una riflessione sugli effettivi indicatori della buona salute dell’economia del paese che siano alternativi al parametro quantitativo del PIL (prodotto interno lordo). E che avrà come risposta da Stiglitz una focalizzazione intorno alla nozione qualitativa di bien-être: è il livello di benessere che conta, per il quale non si dà una definzione a priori ma che si costruisce dall’osservazione e il montaggio di una serie di indicatori sperimentali, in presa diretta con le pratiche, le rappresentazioni sociali se non addirittua con l’affettività. Sull’onda lunga della contestazione dell’approccio quantitativo e funzionale che, come segnalavamo, si rivela oggi sì in una continuità di vocabolario, ma che si attualizza anche in approcci analitici e operativi.


3. Spostiamoci ora negli Stati Uniti, restando però in una cronologia coincidente

con una presa di distanza dal funzionalismo da parte dell’ala non ortodossa dei Ciam (ormai matura nei suoi strumenti), con le lotte urbane e con le tappe del pensiero di Lefebvre. E’ del 1977 il noto film The Powers of Ten, viaggio per immagini dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo firmato dai due architetti Charles et Ray Eames. Il film è la versione finale di una prima versione che data del 1968, Trial Version, lo stesso anno del Droit à la ville. Il film si apre su una coppia che fa un pic-nic in un parco di Chicago: la telecamera li inquadra dall’alto, secondo un punto di vista zenitale, centrato sul quadrato del plaid, superficie sulla quale sono allungati i corpi e disposte le vettovaglie. Partendo da una distanza di 1 metro, la telecamera si allontanerà progressivamente verso l’alto, allontanando il punto di vista e allargando il campo visivo secondo un multiplo di dieci ogni dieci secondi. Una volta oltrepassata la terza dimensione, e entrata nella quarta dell’infinitamente grande, la telecamera riprende un movimento inverso di avvicinamento, fino a ritornare ad inquadrare la coppia dall’altezza di 1 metro, per poi avvicinarsi ancora fino al punto di penetrare nella mano dell’uomo e progressivamente rappresentare la più piccola dimensione conoscibile del quark. L’incarico per questo progetto di ampio respiro viene da IBM (International Business Machine), in una fase critica per la società multinazionale che si trova a fronteggiare un cambiamento di paradigma produttivo, da un’economia di oggetti materiali a un’economia dell’informazione: «the larger transformation of a modern economy, based on the production of material objects, to a postmodern or informational economy, based on the production of signs. From their early designs for office and consumer objects—such as their famous chairs—they moved increasingly into exhibition and media productions for clients such as IBM»14 . Il soggetto del film è direttamente legato al potenziale offerto dall’informatica, e allo stesso tempo affronta il tema della transizione tra le scale spaziali, confermando come questo identifichi, tra il 1968 e il 1969, un campo di esplorazione non solo tecnica ma anche concettuale e culturale di grande pregnanza. Il film è costruito come l’articolazione visivamente continua di una serie di arresti prefissati, corrispondenti ad una unità di misura prestabilita e elaborati ciascuno secondo codici e parametri di riduzione visiva del reale pertinenti. Il film è concepito in modo analogo ad alcune creazioni artistiche sperimentali (musicali o letterarie) che si strutturano su una serie di operazioni preordinate e un’apertura all’indeterminato: nel film degli Eames, è indeterminato il senso che scaturirà dagli accostamenti. Ciò che The Powers of Ten ci mostra – ciò che si rende intelleggibile visivamente – è innanzitutto il fatto che le relazioni significative tra le diverse scale sono discontinue : vi è una relazione significativa tra il pic-nic e la meteorologia, per esempio, ma non appare visivamente rilevate una relazione tra il pic nic e la scala della dimensione urbana15. Seconda cosa che svela il film, è che i pattern geometrici delle nostre rappresentazioni del reale operano per scarti nettissimi: lo schema geometrico, la sua densità, non si precisano dal grande al piccolo, ma si succedono per scarti. Ciò è nettissimo nell’attraversamento della mano, dove dalle ramificazioni venose si transita verso una supetficie sfumata puntiforme, grappoli di sfere, o ancora tracciati elicoidali. Il libro che accompagna il film, firmato da Philip et Phylis Morrison con gli Eames, ci conferma che la continuità è solo illusione, e tesse l’elogio dello scatto discontinuo. In particolare per parlare del cambiamento : «Varie immagini statiche in sequenza,

14. M. Dorrian, « Adventure on the Vertical », Cabinet, N. 44, Inverno 2011-2012, http:// www.cabinetmagazine.org /issues/44/ dorrian.php. 15. Nel passaggio di scala graduale : non si perde l’effetto di inclusione (dal grande al piccolo, il grande è sempre condizione del piccolo, il piccolo sempre incluso nel grande)/ il passaggio brusco : il grande è certo tra le condizioni (necessarie ma non sufficienti) del piccolo, il piccolo svela una degli infiniti esiti possibili del grande.

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scelte in modo da rivelare la natura del mutamento, riescono spesso sul piano cognitivo, se non su quello evocativo, a ottenere risultati paragonabili a quelli della riproduzione del flusso del moto stesso. La chiave sta nella sequenza.»16 Mano a mano che le scale vengono attraversate, inoltre, il film fa apparire sempre più opaco il complesso mondo delle motivazioni : perchè quel pic-nic lì e in quel momento ? di quali desideri, quali intenzioni, quali scelte è il risultato? La scelta del pic-nic è la scelta di una condizione di massima immanenza, un hic et nunc che non ha altro scopo che il piacere del presente, che non ci permette di presuppore alcuna routine, alcun ritmo, che non ci lascia capire nulla della relazione tra l’uomo e la donna se non quella di incarnare una piena intesa nel presente. Quale situazione più opaca di questo pic-nic per interpretare la sua iscrizione in una serie di contesti spaziali : il parco, la parte di città, la città e il lago… fino al sistema solare ? Quale situazione più ambigua? La ricezione del film conferma la prepotenza di tale ambiguità: «The unknown has surrounded us. The world of the everyday seems now like an illusion», scrive Alan Lightman nell’articolo intitolato «A Sense of the Mysterious»17. L’esattezza delle operazioni di misurazione e la corrispondenza a queste di codici della rappresentazione visiva specifici non impediscono al mistero di dominare il world of the everyday: il mistero del quotidiano. La densità del mistero sembra direttamente proporzionale al dispiegamento delle misure, soprattutto perché alcune di quelle misure delimitano con esattezza il quadro di ciò che ci è familiare. Il libro stabilisce esplicitamente questa relazione tra dimensione metrica e familiarità: «Sei ordini di grandezza bastano a coprire il campo delle cose che ci sono familiari» (dal decimo di millimetro al KM), quindi sei potenze di dieci entro le totali 42 potenze: «42 potenze di dieci abbracciano l’arco delle nostre conoscenze certe : oltre quei limiti abbiamo solo indizi e congetture»18. Torniamo ora a Lefebvre, esaminando questa volta l’introduzione alla seconda edizione della Critique de la vie quotidienne (1958), continuando la nostra ricerca dell’emergenza della problematica del brusco salto di scala tra cadres/cadrages e della dialettica familiarità/mistero. Lefebvre si appoggia si di un’attenta lettura di Brecht per affrontare il tema dell’ambiguità di ciò che è familiare. In particolare, si riferisce alla poetica dello «straniamento», realizzata in modo esemplare nella scena iniziale del dramma teatrale Galielo Galilei. Così si apre la scena: «Galilée se lave le buste et s’ébroue – Pose le lait sur la table.» E’ innegabile che questa scena sia, in sé, un concentrato del Powers of Ten: Galileo, l’occhio sull’universo infinito, sistema il latte sulla tavola. Il latte sulla tavola, una caraffa sul piano rettangolare, funziona come il pic-nic sulla coperta : si tratta di due «finestre» aperte sul reale, in tensione con la dimensione massima immaginabile dello spazio. L’appoggiare il latte sulla tavola in quel momento nasconde l’occhio sull’universo di Galileo; in Powers of Ten la prima scena del pic-nic come semplice realtà ravvicinata ci nasconde le relazioni possibili o in atto con le altre scale. 16. Philip et Phylis Morrison con lo studio di Charles et Ray Eames, Potenze di dieci, Bologna, Zanichelli, 1986 (1982). 17. Alan Lightman, «A Sense of the Mysterious», in Donald Albrecht et al., The Work of Charles and Ray Eames: A Legacy of Invention (New York: Harry N. Abrams, 2005), pp. 122–123. 18. Ibid. p. 4.

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La dimensione epica nasce per Lefebvre dal momento in cui il familiare si mostra sì come reale, ma allo stesso momento come una maschera: la familiarità è reale, ma è una maschera, riconosciamo gli esseri familiari ma non li conosciamo. Allo steso modo, la dimensione epica nasce in Powers of Ten quando la telecamera arretra e la distanza comincia a scardinare una relazione di immediata evidenza della scena rappresentata: continuamo a conoscere il pic-nic, eppure si svela come chiave per un’altra intelleggibilità del mondo visibile.


Nella sua introduzione del 1958, Lefebvre continua: «Nous ne savons jamais bien d’où surgissent les actes, les décisions, les événements. Mais les résultats, brutalement, sont là. L’arrière-fond des hommes, des femmes, nous échappe : ce tréfonds n’est peut-être qu’une brume insaisissable, et non une substance profonde […] Mais là, devant nous, il y a un enfant, un malade, un mort. Il y a un mariage à organiser ou à briser, un logement à trouver. Il y a une souffrance à subir ou à éviter – un plaisir à prendre ou à gâcher.»19. Arriviamo così, inseguendo la pista del cadre de vie, a considerare non più il cadre, ma la vie : «le caractère infiniement complexe profond et contradictoire de la vie», nelle parole di Lefebvre, che si manifesta prima di tutto nel carattere ambiguo di ciò che ci è familiare. E quindi nell’ambiguità come valore, e nella stessa consapevolezza dell’ambiguità come valore. La vie quotidienne importa per il suo valore epico, presenza e disvelamento di ambiguità; Lefebvre è ben lontano da una considerazione del quotidiano come dimensione riconfortante; perché ai suoi occhi l’ambiguità della vita quotidiana ha un contenuto, che è l’alienazione dell’individuo. «Brecht a magnifiquement discerné le contenu épique de la vie quotidienne : la dureté de l’acte et de l’événement, l’exigence de jugement. […] Il y a joint une conscience aigue de l’aliénation, dans cette même vie quotidienne.» Questa coscienza è indissociabile di un’apprensione visiva della realtà: «Pour bien voir les gens, nous avons besoin de les mettre à bonne et juste distance. Comme les objets devant nos yeux. Alors se révèle leur multiple étrangété : par rapport à nous, mais aussi à en eux et par rapport à eux mêmes […]. […] l’étrangeté du quotidien, c’est-à-dire la contradiction interne du familier, qui contient à la fois le banal et l’extraordinaire.»20. A premessa della lotta contro l’urbanistica funzionalista e contro l’impoverimento dello spazio della città, si trova una lunga battaglia per l’ambiguità, una lunga battaglia per la considerazione della «multidimensionalità dello spazio preso dentro logiche temporali molteplici». Tutte queste citazioni potrebbero servire da commento al lavoro degli Eames. I quali scrivono: «Il mondo è una fantasmagoria di eventi i cui ritmi relativi di svolgimento nel tempo sono altrettanto importanti delle dimensioni della scena in cui avvengono. Il modo fisico è in moto, in modo manifesto (come nel nostro ambiente quotidiano) o in modo più occulto (come all’interno della materia molecolare). A volte il ritmo è così lento che il mutamento sfugge allo sguardo, come nel cosmo alla scala più vasta»21.

4. Nel 1992 sono pubblicati postumi gli Eléments de rythmanalyse di Lefebvre. Pur esprimendo uno spostamento dell’approccio della differenza e dell’ambiguità da una questione di spazio ad una questione di tempo, tramite la nozione di ritmo, il tema del «cadre» si presta ad una rinnovata declinazione. Il Capitolo III, potentemente lirico, è intitolato significativamente «Vu de la fenêtre», e non può non ricordarci che Barthes aveva già associato l’emergenza della sua riflessione sui ritmi a partire da ciò che egli vede dalla finestra. Ma se la finestra di Barthes è monorientata – lo sguardo si volge dall’interno verso l’esterno – quella di Lefebvre funziona nei due sensi. La finestra, o meglio il balcone, incorniciano tanto ciò che

19. H. Lefebvre, Critique de la vie quotidienne, vol. 1, « Avant-propos de la deuxième édition », Paris, L’arché, 1958, p. 25. 20. Ibid., p. 27-28. 21. Ph e Ph Morrison con lo studio di Charles et Ray Eames, Potenze di dieci. Le dimensioni delle cose nell’universo ovvero cosa succede aggiungendo un altro zero, (1982), 1990, Zanichelli Bologna, p. 8

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sta fuori che ciò che sta dentro, e per cogliere i ritmi bisogna «se situer à la fois dehors et dedans. Un balcon fera parfaitement l’affaire»22. La reversibilità è di nuovo più vicina agli Eames – nel senso della considerazione relativa della realtà inquadrata: partecipa delle infinite relazioni tra scale e fenomeni, e attiva una visione implicata. Descrivendo ciò che vede dalla finestra, incrociandolo a ciò che sente (i ritmi si rivelano in una dimensione sonora), Lefebvre sottolinea la varietà delle scale dimensionali: scale geografiche quando considera le provenienze degli individui; scale instituzionali quando evoca le logiche che presiedono l’organizzazione dello spazio. La finestra da cui guarda Lefebvre non è scelta casualmente: inquadra tra le altre cose il Beaubourg, il «Palazzo» come lo definisce l’autore. Ai nostro occhi, forse uno dei tentativi più avvincenti di superamento dell’ordine scalare funzionale e modernista, spinto da una energia di sperimentazione sociale straordinaria. Per Lefebvre, un oggetto che ha disintegrato l’untita di ritmo e di scala: aumentando lo choc delle velocità, delle traiettorie, dei ritmi. Nonostante la tonalità nostalgica che si ritrova nell’interesse di Lefebvre per l’euritmia, inversamente da quello di Barthes per gli idioritmi, Lefebvre continua : «Les leçons de la rue seraientelles épuisées, dépassées, et les enseignements de la fenêtre? Certes pas. Ils se perpétuent en se renouvelant. La fenêtre sur la rue n’est pas un lieu mental, d’où le regard intérieur suivrait d’abstraites perspectives ; lieu pratique, privé et concret, la fenêtre offre des vues qui sont plus que des spectacles ; des perspectives mentalement prolongées. De la sorte que l’implication dans le spectacle entraîne l’explication de ce spectacle». Di nuovo, la familiarità serve non di conforto ma come un’ottica rivelatrice: «La familiarité le conserve [ndr: le spectacle] ; il disparaît et renaît, avec la quotidienneté du dedans et celle du dehors. Opacités et horizons, obstacles et perspectives s’impliquent car ils se compliquent, s’imbriquent jusqu’à laisser entrevoir ou deviner l’Inconnu, la ville géante. Avec ses espaces divers affectés de temps divers : les rythmes»23. Alla fine del percorso che abbiamo tracciato in queste note, ritorniamo sulla nostra ipotesi per dettagliarla ulteriormente. Gli scarti di scala sono le operazioni che dischiudono la dialettica tra le dimensioni del familiare e del misterioso. La fanno apparire, rendendo così manifesta l’ambiguità. Quando la finalità è esplicitamente progettuale, lo scarto di scala è un’operazione tecnica entro un’impresa di rappresentazione del reale, della vita, in tutta la sua ambiguità, a fondamento di un progetto che parteciperà di questa ambiguità.

22. H. lefebvre, Eléments de rythmanalyse. Introduction à la connaissance des rythmes, Paris, Syllepse, 1992, p. 44. 23. Ibid. p. 48.

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Nell’associazione tra alcune operazioni progettuali e la nozione di cadre de vie (che passa praticamente attraverso associazioni esplicite e risonanze) si delinea l’eredità strumentale di questa nozione. L’eredità sostanziale va al di là dell’operazione tecnica, e quindi del soggetto tecnico che la impugna; l’eredità sostanziale si propaga al di là dei ruoli sociali: si realizza nell’assunzione di una fondamentale ambiguità, nella sua esplicitazione in termini di estranea familiarità, nella sistematica ricerca di un carattere multidimensionale. Tirare dentro, in sprazzi d’istante, logiche e significati che stanno altrove. Nelle proprie scelte entro le molteplici dimensioni della vita: il ritornello del locale/ globale, come orizzonte costantemente richiamato di scelte, rivendicazioni o enunciati critici, ne è la manifestazione più pervasiva. Atti di rottura, progetti di autonomizzazione, comportamenti militanti, presuppongono un margine di creatività dato dall’ambiguità fondamentale delle relazioni tra le scale. Tale


ambiguità è propizia alla attivazione di intrecci di ambiti diversificati, gli ambiti del vivere e del produrre; del produrre un servizio, dell’offrirlo e del riceverlo – ambiti che il trattamento amministrativo dei bisogni e delle risorse continua a far fatica ad incrociare tra loro. Ogni enunciato sulla relazione tra locale/globale costruisce un scala che è contemporanemente una scelta di punto di vista, tanto nella comprensione del reale che nella motivazione dell’agire: è ripensamento parziale sulla produzione, l’uso e la condivisione delle risorse; atto di strategie di protezione di fronte all’incertezza.

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Norma e Progetto

Angelo Sampieri ricercatore in Urbanistica, DIST, POLITO

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1. La domanda apre il volume di Jonathan Hughes & Simon Sadler (edited by), Non-Plan. Essays on Freedom Participation and Change in Modern Architecture and Urbanism, Architectural Press, 2000. Il riferimento è al celebre articolo: Banham R., Barker P., Hall P., Price C., 1969, “Non-Plan: An Experiment in Freedom”, New Society , vol. 13, no. 338, 20 March. 2. Sull’argomento ha insistito una letteratura ampia. Forme di innovazione prodotte da pratiche deregolative, nuove tecnologie, disposizioni, consuetudini e progetti placebased, sono solo alcuni dei fattori che hanno ridiscusso e profondamente incrinato quella ‘razionalità moderna’ che garantiva operatività intrecciata a norma e progetto. Su questi temi si considerino i contributi: E. Ben-Joseph, The code of the city. Standards and the hidden language of place making, The MIT Press, Cambridge, MA, 2005; E. BenJoseph and Terry S. Szold, Regulating Place. Standards and the Shaping of Urban America, Routledge, London and New York, 2003. 3. Si considerino, quale esempio, le attività del Comitato europeo di normazione (CEN) e di normazione elettrotecnica (CENELEC): http:// www.cencenelec.eu. 4. A. Supiot, Lo spirito di Filadelfia. Giustizia sociale e mercato totale, et al., 2011. 5. M. Breviglieri, Une bréche critique dans la «ville garantie»? Espace intercalaires et architecture d’usage, in E. Cogato Lanza, L. Pattaroni, M. Piraud, B. Tirone, Le Quartier des Grottes / Genève. De la difference urbaine, MetisPresses, Genève 2013, pp. 213-236. 6. G. Neave, The Evaluative State, Insitutional Autonomy and Re-engineering Higher Education in Western Europe, Palgrave Macmillan, 2012.

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Should architecture obey, deny or subvert the ‘logic’ of the plan?1. La domanda ha segnato un secolo. Il dibattito su architettura e piano, progetto e norma, si è in gran parte consumato attorno a questo interrogativo. E si è chiuso, a fine secolo, col depotenziamento delle ragioni tanto dei cultori dell’autonomia quanto dei sostenitori del non-plan. Caduta la tensione2, paiono oggi irrimediabilmente svuotate anche le posizioni di chi si è speso nell’immaginazione di spazi poco, o diversamente normati, seppure entro contesti economici, politici, sociali esistenti, così come quelle di coloro che hanno insistito sulla necessità di infrangerli a partire da logiche di trasgressione, enfatizzando il primato degli usi, e riconducendo alla moltitudine delle loro azioni il progetto. La domanda è inattuale. Come inattuale è la posizione di chi attribuisce ad architettura e piano, progetto e norma, un’autonomia perseguibile attraverso il contrasto, la contesa, moti di obbedienza e sovversione. Resta, come ovunque evidente, l’ingombro di un corpo normativo che oggi come un tempo tratta lo spazio come qualcosa di inerte, di passivo. Resta la pretesa del progetto di animarlo, renderlo più denso e malleabile. Fuori dal conflitto però, la tensione sembra disciolta in un campo d’azione elastico e fluido, accogliente per tutti, creativo ed ecologico, sostenibile e garante di reciproche sostenibilità. Il mutamento che ascriviamo all’attuale crisi economica, ecologica e demografica, incide profondamente questo campo, riabilitando questioni che, fuori dall’annosa tensione, ridefiniscono ruoli, azioni e condizioni della norma come del progetto. Ciò che osserviamo di questo mutamento è da un lato un quadro normativo che tende ad irrigidirsi e moltiplicarsi entro il raggiungimento di standard di qualità accettabili nel rispetto di una minore disponibilità di risorse, dall’altro occasioni di progetto sempre più puntuali, limitate nei mezzi, nel tempo e nello spazio. Luoghi eterogenei, ma ovunque segnati da una forte intenzionalità, tesa, nelle esperienze più interessanti, ad aggirare, eludere o reinventare il sistema regolativo che la limita. L’elasticità del campo si incrina. Si polarizza attorno ai nodi di una maglia contratta e perentoria le cui emergenze sono da un lato indicatori di performance, organizzazioni di accreditamento e pratiche di certificazione e controllo, dall’altro ricorrenze puntuali, ai margini o fuori di questo sistema di regolamentazione. Nicchie, che si condensano entro ambiti circoscritti e interstiziali apparentemente capaci di fendere la maglia contrappuntandone l’inespressività. Nulla a che vedere con il vecchio campo di battaglia. Eppure si ricompone qui una tensione che riabilita posizioni note che consideravamo per molti aspetti sorpassate. Riacquista vigore la critica al processo di normalizzazione perseguito attraverso i nuovi standard, primi tra tutti quelli imposti dall’Unione europea, agli ostacoli che essi pongono a competizione e mercato, innovazione e ricerca3. Critiche alla governance dei numeri dopo il governo delle leggi4. Alla ville garantie ed agli usi limitati che essa veicola ed ordina5. Critiche alla cultura del protocollo ed a quella della valutazione6, spesso sostenute da nuovi slogan che invitano ad utilizzare


in modo emancipativo il potenziale insito in datascapes e strumenti statistici7. Critiche talvolta radicali, come quelle di chi legge in questo nuovo ordine un regime: il modo stesso di esistere dello stato nella sua configurazione neoliberale8. Una condizione che nel progetto per la città europea trova uno snodo essenziale, segnato da un’ascesi prestazionale che sigla in modo inequivocabile l’evoluzione tecnica delle competenze che si confrontano oggi con lo spazio. Si ricompatta la critica come la difesa. Il processo di normalizzazione, oggi come un tempo, porta con sé un’idea di giustizia che non può essere liquidata in nome di varietà, qualità e libertà, che peraltro anche la norma si impegna a garantire. Rispetto al passato si tratta certamente di un processo più ambiguo, che muove strumenti e competenze nuove, che gioca sul consenso di tutte le parti, mercato, consumatori di prodotti e spazi, organizzazioni e autorità pubbliche. Un sistema regolato da organismi di normalizzazione che si dichiarano indipendenti e che operano a livello internazionale piuttosto che locale. Poi c’è l’ambiente e la sua tutela a sovrastare la regolamentazione di spazi circoscritti e misurabili, il cui governo è ancora una volta demandato a indicatori e statistiche. Tutto si gioca su di un piano diverso dal passato, più ramificato e complesso, che assume come cruciali domande che non sappiamo da chi espresse e lascia implicite le responsabilità di chi determina risposte. Producendo esiti certamente diversi dal passato, entro obiettivi che hanno la pretesa di essere però gli stessi. Nulla legittima la domanda di un tempo. Eppure, la vecchia tensione tra norma e progetto, spazzata via da logiche capitaliste di trasformazione del territorio, pare rianimata dall’evidenza, in alcuni luoghi della città europea, di forme di progettualità dai tratti vagamente sovversivi, non solo emergenziali, che tornano a riproporre in modo paradossalmente antimoderno una questione propria della modernità, dichiarando uno scacco alla regola ed una propria autonomia che sembra voler ridiscutere il processo di normalizzazione in corso in altre parti della stessa città. Tornare ad osservare questa tensione pone più di un problema e numerose sono le cautele da assumere rispetto alla possibilità di trattare un campo imprendibile come quello tracciato dalle relazioni tra pratiche normative e progettuali. Seppure entro una loro parziale declinazione, strumentale a sottolineare l’inattualità di vecchi argomenti e la distanza dalle passate condizioni, il testo che segue prova anche a mettere in evidenza i modi in cui attorno alle nuove forme di questo dibattito si ricompone, o meno, un discorso attorno al progetto ed alle sue nuove condizioni.

Norme L’idéal d’une ville durable conciliant compétitivité financière, diversité sociale et protection de l’environnement passe de nos jours par le renouvellement de certains espoirs à connotation scientiste9. E’ posizione comune ritenere che la città sostenibile sia espressione di una riabilitazione e di un potenziamento di approcci scientisti e di un razionalismo ortodosso. E che il passaggio da l’homme moderne a l’homme durable non sia che un ajustement structurel aux exigeces économiques de production de notre société contemporaine10. Frequente è anche osservare la messa in scena di questa riabilitazione entro specifici laboratori, gli ecoquartieri,

7. I. Bruno, E. Didier, J. Prévieux, Statactivisme. Comment lutter avec des nombres, Zones, Paris, 2014. 8. AA.VV., Critica della cultura della valutazione, in aut aut, n.360, 2014, pp 3-157. 9. L. Pattaroni, Le nouvel esprit de la ville. Les luttes urbaines sont-elles recyclables dans le «développement urbain durable»?, ‘Mouvements’ n. 65 printemps 2011. 10. V. Renauld, Fabrication et usages des écoquartiers. Essai critique sur la généralisation de l’aménagement durable en France, Presses Polytechniques et Universitaires Romandes, Lausanne, 2014, p. 107.

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11. Les écoquartiers: un laboratoire pour la ville durable?, sezione monografica di ‘Espaces et sociétés’, n. 144-145, n. 1-2 / 2011. 12. Quelle ville durable, numero monografico di ‘Espaces et sociétés’, n. 147, n. 4, 2011. 13. J. Boissonade, Le développement durable face à ses épreuves. Les enjeux pragmatiques des écoquartiers, in ‘Espaces et sociétés’, n. 147, n. 4, 2011, pp. 57-75. 14. V. Pinto, La valutazione come strumento di intelligence e tecnologia di governo, in in aut aut, n.360, 2014, pp 16-42. 15. H. Lefebvre, Le droit à la ville, Anthropos, Paris, 1968. 16 A. Mayer, Les écoquartiers de Fribourg. 20 ans d’urbanisme durable, Le Moniteur, Paris 2013. 17. E. Cogato Lanza, L. Pattaroni, M. Piraud, B. Tirone, Le Quartier des Grottes / Genève. De la difference urbaine, MetisPresses, Genève 2013. 18. Andrea Branzi, Le projet à l’époque de la crise de la globalisation: vers une «nouvelle charte d’Athènes», in Le Visiteur, n. 18, 2012, pp. 49-54. 19. A titolo esemplificativo, si rimanda alle attività del CEN e CENELEC.

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alle cui prestazioni si pretende che risponda l’adeguamento dell’intera città11. Restano ancora da disarticolare bene i nessi della nuova triade che ne organizza i principi. E che la ridisegnano competitiva, socialmente eterogenea ed ecologica, dopo che è stata resa sana, funzionale e bella. Ma è ovunque evidente la rigidità delle nuove disposizioni, così come la categoricità della loro codificazione. Per essere competitiva la città deve essere densa, comporsi di un’eterogeneità morfologica che sia specchio di una mixité funzionale e sociale. Deve essere creativa, valorizzare lo spazio pubblico ed intensificare qui le relazioni tra gli abitanti. Deve favorire l’abitare ecologico e il contatto con la natura, risparmiare energia, riciclarla, gestire e consumare in modo adeguato le risorse. Deve potenziare il trasporto pubblico e intensificare la mobilità dolce. Deve garantire partecipazione alla vita pubblica e alle scelte relative alle trasformazioni12. Si tratta nel complesso di disposizioni aperte, proprie di una macchina molto articolata, che negli ecoquartieri esibisce, senza troppe mediazioni, tutta la rigidità del proprio funzionamento, la scarsa flessibilità e la poca tolleranza all’errore. Nelle critiche più severe, attente alla ripercussione di questo funzionamento sugli usi, si tratta del prodotto di un approccio sistemico che trasforma stili di vita discordanti in devianze13. Nelle posizioni più caute, l’accento è sul trasferimento di una responsabilità collettiva ad un collettivo di abitanti, ove un tempo si leggeva l’imposizione di una disciplina. Il passaggio è interessante, perché mette bene in luce il fatto che la norma non è soltanto da rispettare, ma da diffondere e da adempiere con convincimento14. Tanto che quella dimensione partecipativa che si voleva in passato orientata ad influenzare e modificare scelte, è adesso promossa quale concertazione coesa attorno al migliore adeguamento possibile rispetto a parametri dati. E come tale svuotata di qualsiasi forza emancipativa: non c’è conflitto né differenza negli ecoquartieri, ma uno snodo essenziale per ricostruire da capo, e con argomenti più forti di un tempo, l’attacco di Lefebvre15. Del resto i più celebrati adeguamenti in chiave ecologica sono in corso ove un tempo era antagonismo e sovversione: Vauban a Friburgo16, come Les Grottes a Ginevra17. Ecoquartieri che hanno la loro radice là, nelle lotte urbane e nelle occupazioni. Una diversa critica guarda alla scarsa innovazione spaziale che questi quartieri costruiscono. Alla riproposizione di soluzioni tradizionali irrigidite entro un funzionamento inflessibile. Della vecchia tradizione torna la ricerca dell’unità minima per l’ottenimento della massima complessità sociale, la composizione di parti autonome in forma di unità di vicinato, consuete sequenze di spazi aperti ben scandite in privati, collettivi, pubblici, e distintamente articolate a partire dai piccoli nuclei di negozi attorno alle fermate del tram. Fatte fuori le auto e le grandi attività commerciali, si semplificano le scansioni e si ripetono le sequenze, entro un ordinamento spaziale elementare ed altamente tecnologico al contempo. Talvolta nitidamente manifesto, trasparente, come nella Solar City di Linz, altrove opacizzato dall’esibizione ripetuta di forme di appropriazione e stili di vita. Nel complesso, un ordine coerente con le posizioni di chi reclama la necessità di sospendere una tradizionale ricerca spaziale per codificare la pervasività del nuovo funzionalismo entro i principi di una nuova Carta d’Atene18. Nei quartieri fortemente connotati, come quelli che si professano sostenibili, o che rispondono alle prestazioni del paradigma ecologico, non è difficile cogliere l’ipertrofia normativa che li compone entro i formati di cui ricorrono celebrazioni e critiche. Al loro esterno la città si adegua, nel conseguimento di standard di qualità, comfort e sicurezza accettabili, nell’obiettivo di ridurre costi e razionalizzare processi, nell’osservanza di un accordo normato tra produttori e consumatori (di spazi, materiali, oggetti, processi, servizi)19. La pervasività delle


disposizioni è dirompente, e la lampadina (una per tutti, subito, ed a basso consumo energetico) nella quale Enzensberger vede solo il compiacimento dell’industria d’illuminazione, piuttosto che una buona direttiva ecologica, è buona metafora di quella spirale tecnocratica20 attraverso la quale l’Unione europea come un tutore benevolo, si prende cura della nostra salute, dei nostri comportamenti e della nostra morale21. Ma il fenomeno è ancora più ampio. E lo si coglie bene dove la crisi incide oggi maggiormente, dove in assenza di qualsiasi risorsa, resta solo la necessità di fare, con niente, quel che si può, per adeguarsi a norme, diritti e valori della nuova città ecologica22. Come intervenire su vecchi quartieri di edilizia pubblica, spesso di elevata qualità architettonica, rimasti marginali rispetto alle nuove centralità urbane, energeticamente insostenibili e inadeguati rispetto agli usi di una popolazione insediata ormai anziana e dimezzata rispetto alle origini? Ove un tempo si sarebbe lavorato sul ridisegno di spazi interni ed esterni, potenziandone l’attrattività e il comfort attraverso l’invenzione di nuove connessioni e l’integrazione di nuove funzioni23, oggi si gioca la carta della tutela e della patrimonializzazione24. Quanto si può fare è mettere un vincolo. Sospendendo azioni che possano essere incisive in ragione di norme tese alla conservazione, o di standard prestazionali capaci di garantire minimi adeguamenti energetici e funzionali degli edifici. Lampadine, doppi infissi e, nel migliore dei casi, un ascensore. Non si può fare di più. O meglio, qualcosa in più si può fare, in ragione di quella vivacità che pretende di rianimare l’inespressività dei quartieri. Esattamente come in quelli ecologici, si può promuovere la partecipazione e la solidarietà, sostenere gruppi associativi che possano mettersi al lavoro, organizzare attività, occuparsi della manutenzione degli spazi e della reciproca assistenza. Ravvivare come possibile ambienti altrimenti deserti. Ove questo non basta, si possono attuare politiche che incrementino la mixitè sociale. Fino a soluzioni programmatiche che insediano giovani studenti nelle case di anziani pensionati25. Un paradosso26, che negli ecoquartieri promuove il disordine attraverso un buon coordinamento degli usi creativi27, e nei quartieri di edilizia pubblica assume come dogma la diversità28 e la codifica come fosse una morfologia.

Progetti Cultori dell’autonomia del progetto e nostalgici delle lotte urbane stanno assieme entro una critica che appare ingenerosa quando rivolta ai luoghi in cui la crisi incide profondamente corrodendo spazi, usi, economie. Poco opportuna anche quando osserviamo il modo in cui far fronte alle difficoltà entro quella più ampia cultura della misurazione che prende forma in disposizioni precise ed in modo altrettanto preciso riconfigura, con tratti essenziali, i territori europei. Ma la scarsa pertinenza del consueto attacco è ancor meglio coglibile se si osserva un movimento apparentemente inverso rispetto a quello appena messo in evidenza. Compresente negli stessi territori. Un movimento che ha la pretesa di denunciare una certa, seppure ambigua, autonomia rispetto a norme e parametri tesi a codificare come e dove abitare, lavorare, come e dove esprimere forme di socialità e creatività. Senza il ricorso alla lotta, tanto meno entro una tradizionale idea di progetto. Piuttosto, in modo allusivo rispetto a valori e codici correnti, perseguibili

20. J. Habermas, Nella spirale tecnocratica. Un’arringa per la solidarietà in Europa, Laterza, Roma-Bari 2014. 21. H. M. Enzensberger, Il mostro buono di Bruxelles ovvero L’Europa sotto tutela, Einaudi, Torino 2013, p. 78. 22. C. Bianchetti, Una nuova complessità (bozza). 23. Si considerino progetti e realizzazioni che, per lo meno dagli anni novanta, si confrontano in Europa con la riqualificazione dei quartieri di edilizia sociale a partire dalla riprogettazione degli spazi aperti. 24. Il riferimento è al quartiere Bellavista di Ivrea, così come trattato nella ricerca Territori nella crisi. E. M. Bello, A. E. Kërçuku, Bellavista, Ivrea. Cos’è patrimonio pubblico?, in Territories in crisis. Full papers of the Masterclass, http://territoridellacondivisione. wordpress.com, pp. 258-273. 25. Il riferimento è al quartiere Mirafiori Sud a Torino così come trattato nella ricerca Territori nella crisi. I. Vassallo, Mirafiori Sud, Torino. La progettazione programmatica della mixité, in Territories in crisis. Full papers of the Masterclass, http://territoridellacondivisione. wordpress.com, pp. 290-303. 26. Paradoxes de la mixité sociale, numero monografico di Espaces et sociétés’, n. 140141, n. 1-2, 2010. 27. R. Sennett, The uses of disorder: personal identity and city life, NewYork/London, Norton, 1970. 28. C. Bianchetti, Il dogma della mixitè e il problema della condivisione, in C. Bianchetti (a cura di), Territori della condivisione. Una nuova città. Quodlibet, Macerata 2014, pp. 74-79.

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29. Il riferimento è a Le 56 Eco-interstice di Parigi, realizzato a partire dal 2006 a SaintBlaise dallo studio Atelier d’Architecture Autogérée, ma gli episodi ricorrono ormai in tutta Europa. A titolo d’esempio, si consideri il network Urban Tactis e le attività proposte da studi di progettazione, comitati e associazioni ad esso riconducibili: http:// www.urbantactics.org/network/network. html. 30. C. Bianchetti (a cura di), Territori della condivisione. Una nuova città. Quodlibet, Macerata 2014. 31. Si consideri il caso B5. Brabantstad. Forme leggere del vivre ensemble nei territori della dismissione, in C. Bianchetti (a cura di), Territori della condivisione. Una nuova città (cit.), pp. 80-86. O ancora: G. Pettenati, Val Maira. Piemonte. Razionalità minimali, in Territories in crisis. Full papers of the Masterclass, http://territoridellacondivisione. wordpress.com, pp. 314-320. 32. Il riferimento è al quartiere Can Battlò di Bercallona, così come trattato nella ricerca Territori nella crisi. S. Calastri, E. Roca, Can Battlò, Barcellona. Nuovi urbanesimi, in Territories in crisis. Full papers of the Masterclass, http://territoridellacondivisione. wordpress.com, pp. 136-147. Si considerino anche i casi di Lione ed Olinda. Milano così come indagati in C. Bianchetti (a cura di), Territori della condivisione. Una nuova città (cit.) 33. Si consideri ad esempio il numero della rivista ‘Lotus’ Capability in Architecture (n.152, 2013). 34. A. Appadurai, Modernità in polvere, Meltemi, Roma 2001.

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però attraverso margini rilevanti di indipendenza e autogestione. Il fenomeno è puntuale e non estensivo. Si dà in forma di nicchie, riserve, eco-interstices29 che assumono il carattere di piccole lacerazioni entro quella maglia ben tessuta che le nuove codificazioni disegnano. Stati d’eccezione entro i quali gruppi di abitanti conquistano luoghi e costruiscono mondi protetti e omogenei al loro interno. Ove stare tra simili, dirsi altrove e comportarsi altrimenti. Con qualche enfasi, la ricerca Territori della condivisione30 ha associato questo fenomeno all’antiurbanesimo classico, riconoscendo nei luoghi che esso compone il tentativo di sperimentare modelli insediativi alternativi e oppositivi rispetto alla città e alle sue regole. A questo movimento è ascrivibile una grande varietà di esperienze. Molte abitative, e per lo più riconducibili ad un universo cooperativo fatto di comunità che colonizzano spazi abbandonati della città come della campagna: centri storici, distretti industriali, frange incolte della periferia, villaggi e valli alpine31. Ma non solo. Le traiettorie dei nuovi associazionismi, non solo abitativi, si raggrumano entro spazi sempre più frequenti nella città, dando luogo a piccole centralità specializzate molto coinvolgenti, dove ci si incontra e ci si sostiene, si lavora, si trascorre assieme il tempo libero e si ricostruisce là comuni impegni e parziali forme di cittadinanza32. Il fenomeno è interessante per molti motivi. Non tanto per la radicalità delle esperienze, che per lo più assumono come radicale soltanto il quadro dei valori correnti. E neppure per l’esemplarità degli spazi che esse costruiscono, seppure segnati da tratti distintivi ormai registrati da rassegne ed atlanti, ed archiviati tra i prodotti più pregevoli della stagione (di crisi) del progetto capacitante33. Rispetto all’ipertrofia normativa che sembra altrove governare tutto, il fenomeno è interessante perché ha la pretesa di ritrattare ordini codificati. Entro almeno tre distinte direzioni. Ridiscutere ordini spaziali e valori dei suoli in ragione di una libertà di movimento che conduce a rifondare luoghi fuori da piani e gerarchie prestabilite. Scassare la progettazione programmatica della mixitè, in ragione di un’omogeneità (di gruppi e associazioni) molto effervescente, a dimostrazione che la diversità non è garanzia di espressività e creatività. Perseguire prestazioni, performance e standard di qualità con mezzi propri, lavorando d’astuzia, entro processi autogestiti. Nel complesso, una costellazione impegnata a costruire un movimento inverso rispetto a quello altrove rigidamente regolato, che riabilita così vecchie tensioni tra norma e progetto, ma che in nome di eventualità, omogeneità ed autogestione, spazza definitivamente via gli argomenti che durante il secolo scorso l’hanno sostenuta in nome dell’autonomia del progetto e della resistenza. Eventualità, omogeneità ed autogestione sono tre caratteri essenziali di questo fenomeno. Tre caratteri che lo riconducono ad un progetto. Ad un atto intenzionale, fondativo di nuovi luoghi nella città (nonché di località nel senso in cui Appadurai intende la produzione di legami sociali nello spazio34), segnati da specifici caratteri estetici e simbolici (spesso esito di una tradizionale attività di progettazione condotta da tecnici), e dotati di uno specifico funzionamento che ambisce a raggiungere, e spesso migliorare, parametri e prestazioni correnti. Luoghi che se da un lato hanno forma e carattere di nicchie omogenee dai tratti antiurbani, sotto il profilo capacitante e prestazionale sono assunti come esemplari per la città. Che difatti li emula entro il proprio diverso funzionamento, edulcorandone qualsiasi dimensione anarchica e oppositiva, ed enfatizzando ciò che davvero conta per l’insieme: performances e capabilities. I fraintendimenti rispetto alle originali posizioni di Sen, che insiste sulla necessaria distinzione tra capacità individuali e di gruppo (riferendo l’approccio delle capacità alle prime, seppure nella facoltà di raggiungere combinazioni di funzionamenti) e che sottolinea la


necessità di spostare l’attenzione sui mezzi individuali per fare quelle cose a cui, per un motivo o per l’altro, si assegna un valore, sono numerosi35. Resta opaca, ad esempio, la ragione per cui il raggiungimento di un’eccellente prestazione energetica debba costituire l’obiettivo cui individualmente si assegna valore, quando il concetto di capacità è strettamente connesso con l’aspetto della libertà relativo all’opportunità, considerato in termini di opportunità «comprensive» e non di meri sbocchi «conclusivi»36. Altre ambiguità persistono in questa ormai ribadita trasposizione dell’approccio delle capacità al progetto per la città. Il punto non è però l’ascrizione ad un approccio codificato, quanto invece la rilevanza di queste forme progettuali entro i modi in cui la città si sta trasformando ai tempi della crisi. Esistono certamente altre modalità, meno incisive però rispetto alla tensione che esse stabiliscono sul piano di una ritrattazione delle norme. Se non è, come evidente, nei termini della sovversione che alcuni progetti si impegnano a dichiarare, si tratta di capire in che forma ed attraverso quali modi.

Una tensione debole Ipertrofia normativa e puntuali effervescenze sociali37 capaci di fondare e autogestire luoghi nuovi, sono i due poli che riabilitano la vecchia tensione. Da un lato un funzionamento strutturale rigidamente normato (le nuove città ecologiche come gli adeguamenti dei quartieri pubblici), dall’altro un pullulare di soluzioni faidate, o con i tuoi simili, con pochi mezzi, in modo astuto, ed a margine, ma non propriamente contro, il regime normativo corrente. Una tensione debole, se si considera la rapida istituzionalizzazione di molti dei caratteri che connotano le nuove effervescenze, e la facile normatizzazione delle domande che esse esprimono. L’abitare entro formati cooperativi si può non solo regolare ma anche agevolare e promuovere, si può rivedere la normativa sulla mobilità ove condiviso il rifiuto dell’automobile. Quella sull’illuminazione pubblica ove richiesto buio e silenzio. Quella sul commercio di cibo dove la presenza di orti urbani e la produzione di prodotti di qualità non certificata soppianta le garanzie della grande distribuzione. Quella sull’uso degli spazi pubblici dove eventi temporanei e performance animano luoghi altrimenti inospitali. Se l’esito del conflitto si riduce agli adeguamenti di una normativa ritenuta ovunque arretrata, gli effetti appaiono particolarmente esigui. Nulla rispetto alle intenzioni denunciate entro presunti nuclei di resistenza e autonomia. Tanto che la convinzione, in alcuni luoghi manifesta, che la città congiuri contro chi ci vive, mobilitando abitanti di buona volontà ad ordire progetti tesi a ridiscutere il complessivo funzionamento, cade, risolvendosi in un tradizionale adeguamento di spazi che necessitano di essere diversamente regolati. In tal senso la tensione è sì debole, e neutralizzata dall’istituzionalizzazione di pratiche, usi e spazi che perdono così qualsiasi pulsione sovversiva, resta però d’interesse il processo attraverso il quale questa produzione di nuove norme avviene. E cosa produce. Quei nuclei antiurbani, osservati quali riserve del progetto capacitante, espressione di un potenziale concentrato, eversivo ed esemplare al contempo38, esplodono nella città. Per emulazione, ed attraverso nuove forme di regolamentazione, si propagano e si diffondono. Fino a conferire un aspetto nuovo alla città europea.

35. A. Sen, L’idea di giustizia, Mondadori, Milano 2010, pp. 240-244. M. Nussbaum, Creare capacità. Liberarsi dalla dittatura del Pil, il Mulino, Bologna 2012. 36. Id. p. 241. 37. Le effervescenze sociali che Durkheim indicava quale prodotto di un rituale religioso capace di animare gruppi di individui rendendoli più coesi è da intendersi qui in riferimento alla grande animosità che i progetti condivisi esprimono, e non all’esito di un particolare rito. E. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, Meltemi, Roma 2005 (ed. or. 1912). 38. Sul potenziale eversivo dei nuclei antiurbani ottocenteschi, di matrice socialista, si veda: M. Onfray, Politiche della felicità. Controstoria della filosofia V, Ponte alle grazie, Milano 2012.

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Dove competitività, eterogeneità ed ecologia, ovvero la triade che ascrive questa stessa città entro un orizzonte sostenibile, si palesano attraverso una fisionomia specifica, fortemente connotata dai caratteri e dagli usi elaborati in quelle nicchie vivaci, coese e partecipate, finora impegnate a dirsi altro rispetto al resto. Caratteri ed usi che permangono superficiali. La struttura resta rigida, inscalfibile. Lo si dice chiaramente in riferimento alle nuove città ecologiche ed al loro progetto invisibile39: il funzionamento non deve essere percepibile dal punto di vista estetico, è piuttosto un substrato tecnico che fa funzionare un quartiere che però mantiene una sua pelle40. E il lavoro sulla pelle è tutto affidato all’esuberanza delle nuove pratiche. Si usi pure la città con più libertà. Le norme possono cambiare, adeguarsi al co-housing, alle nuove forme di approvvigionamento e commercio (purché local and slow), ad una nuovo paradigma estetico e simbolico, più selvatico, istintivo, rustico, vernacolare. La lampadina però resta per tutti la stessa. Così come l’obiettivo prioritario che la città è chiamata a perseguire: ridurre le emissioni di gas serra del 20%, alzare al 20% la quota di energia prodotta da fonti rinnovabili e portare al 20% il risparmio energetico, tutto entro il 202041. Se la tensione si risolve in questo, tutta l’effervescenza e l’animosità sociale che sembra germogliare nelle città, ricorre essenzialmente per dare forma e carattere ad una struttura che ambisce a denunciarsi più flessibile e meno ipertrofica possibile (in risposta a quella deregolazione ovunque reclamata) ma che non è in realtà in discussione e continua ad orientare le trasformazioni attraverso quella cultura della valutazione che è prodotto e nutrimento di un unico orizzonte davvero fermo: il riequilibrio energetico e la conservazione ambientale. Poca cosa, ma di grande impatto simbolico. Una condizione che, se da un lato riduce enormemente le potenzialità del progetto rispetto alle regole imposte, costringendolo per molti aspetti entro un ruolo quasi decorativo, per altri aspetti gli conferisce un apparente enorme riverbero. Un po’ come accade in molte architetture della pubblicistica corrente: c’è un’infrastruttura molto rigida, che nella sostanza vincola tutto, e poi c’è una pelle molto irridescente, mutevole, variegata, che enfatizza ulteriori possibili interventi, modifiche, aperture42. Azioni che sembrano incidere, ma che in realtà restano in superficie. I caratteri di queste nuove superfici, oltre le quali il progetto non sembra oggi potersi esprimere, descrivono, oltre ad una sua nuova condizione, una nuova immagine della città. Una città molto animata, creativa, sorprendente, pervasa di azioni che continuamente ne riscrivono in modo personalizzato la superficie. 39. Come nelle posizioni di Thomas Herzog: http://www.ambienteambienti.com/accadealtrove/2010/01/news/solar-city-la-nuova “citta-del-sole”-2325.html 40. Id. 41. Si fa qui riferimento al Piano 20 20 20, relativo alle direttive EU post Protocollo di Kyoto. 42. Il paragone è riduttivo, ma è un po’ quello che appare in modo immediato nelle architetture di Lacaton e Vassal o di Alejandro Aravena. Due tra i più noti studi di progettazione che sembrano oggi tornare ad indagare le potenzialità normative del progetto di architettura. Esemplare i volumi Plus. Les grands ensembles de logements Territoires d’exception, GG, 2004; Elemental. Incremental Housing and Participatory Design Manual, Hatje Cantz, 2012. 43B. Secchi, Progetto di suolo, in ‘Casabella’, n.520-521, 1986, pp. 19-23.

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La superficie democratica della città europea Tornare a discutere di norma e progetto ci sbalza entro un dibattito che non ha più gli argomenti robusti che ponevano durante la modernità i due poli in tensione. Neppure la crisi, l’ipertrofia normativa che la governa, ed i progetti tesi a sovvertire questo governo, hanno la forza di riabilitare la questione nei termini e nella consistenza di un tempo. L’osservazione svela per lo più distanze. La distanza, incolmabile, da un progetto che, in opposizione ai principi di un’urbanistica regolativa, per alcuni riduzionista43, provava comunque a costruirsi attraverso la produzione di norme. Facendo esperienza della città, descrivendo e traducendo


pratiche, attraverso abachi, linee guida e disposizioni capaci di coprire la varietà di usi ed economie. Cogliendo differenze essenziali tra le cose, e traducendo differenze e diritti a differire, in forme. Di questo non sembra restare molto, neppure la possibilità di regolare suoli attraverso quegli standard tanto avversati che distribuivano in città esigui tasselli a prato a garanzia di un’idea di giustizia. Adesso le città sono verdi e basta, e non vi è ragione di circoscriverne parti protette. Ma la distanza è radicale anche da un progetto che, in tempi più recenti, aveva la pretesa di oltrepassare il regime normativo, reinventandolo per intero. Facendosi esso stesso infrastruttura, rendendosi fluido, mutevole, adattivo, strategico, come è stato durante la breve stagione in cui il paesaggio ha provato a sovvertire le tradizionali regole dell’urbanistica in nome di nuovi e più incisivi connubi44. Una riflessione su norma e progetto rende oggi evidenti queste distanze. Sia da un progetto capace di lavorare con la norma per sovvertire attraverso di essa un complessivo funzionamento, sia oltre, attraverso l’invenzione di nuove macchinazioni, nella forma di paesaggi, capaci di assorbire e reinventare per intero il regime normativo. Caduta la tensione, quella del progetto resta un’azione che si gioca per lo più in superficie. E che in superficie, ha come ruolo prioritario quello di nascondere la rigidità di spazi rigidamente normati. Attraverso usi e forme fortemente personalizzate capaci di esprimere un ampio grado di libertà (fino a cambiare le norme senza sovvertirne il funzionamento). Sono questi i caratteri che, esperienza dopo esperienza, connotano sempre più distintamente gli spazi della città europea. Una città spesso detta stanca e noiosa45. Ma anche molto animata. In riferimento a Georges Teyssot che, riprendendo le parole di Michael Dean (the dream of this continent is expressed in lawns), leggeva nel prato americano la sede simbolica di un’idea di democrazia46 potremmo parlare di una nuova superficie democratica della città europea. Ove là vi era il prato, qua vi è un coacervo di azioni ad espressione di una sorta di eccitazione continua. The dream of this continent is expressed in actions: ai tempi della crisi, della spirale tecnocratica che la governa, e che regola le trasformazioni della città entro prospettive inflessibili, il sogno assume il carattere di un’infrazione di soccorso.

44. Il riferimento è al Landscape Urbanism. Non tanto alla rilevanza disciplinare che il neologismo in un decennio ha assunto (molto relativa, per lo meno in Europa), quanto al potenziale operativo che il connubio ha sembrato aprire. 45. La posizione è ricorrente. Si consideri quale esempio il seminario Is Europe… boring? organizzato da An Institute of Ideas tenutosi a Londra il 20-12-2012. http://www. eurozine.com/timetotalk/europeboring201012-institute/ 46. G. Teyssot, The American Lawn, Princeton Architectural Press, New York 1999. Michael Dean, In search of the Perfect Lawn, Black Moss Press, Windsor, Ontario 1986.

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Un patrimonio “minore� Capitale fisso sociale e ricostruzione di contesti territoriali Angioletta Voghera ricercatore in Urbanistica, DIST, POLITO

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Il “capitale fisso sociale” comprende il “sistema di infrastrutture e servizi che qualifica l’ambiente locale e consente la riproduzione del capitale umano”1 costituendo il riferimento per la definizione di azioni politiche e progetti e per la costruzione di coalizioni di interesse (Mazza, 2004a). Il capitale fisso è traccia materiale dell’azione sociale e comprende infrastrutture, spazi e suoli densi di valore collettivo che, con la crisi economica, sociale ed ambientale, paiono “sospesi” in attesa di essere riconosciuti come valori e ricostruiti attraverso “azioni” istituzionali o sociali, aprendo nuove possibilità al progetto, alla creazione di rinnovate pratiche operative. Il capitale fisso sospeso lo ritroviamo nei luoghi della produzione, nelle reti che innervano il suolo, negli spazi aperti, nei manufatti, che ne costituiscono una ricca articolazione, differente per natura del paesaggio del welfare e della produzione. Sono strutture a differente grado di persistenza, in cui elemento nodale è il suolo; il suolo è il supporto connettivo su cui la pianificazione agisce tradizionalmente ordinando usi e forme, imponendo un ordinamento sociale che è essenziale per il riconoscimento e la riproduzione di valori condivisi rappresentati nel controllo dello spazio (Mazza, 2004b). 1. Nella letteratura nazionale e internazionale il capitale fisso sociale è parte del capitale territoriale, concetto complesso, al centro del dibattito di matrice economica, sociale e geografica dagli anni Novanta. Il capitale territoriale comprende l’insieme del capitale che si è fissato nel territorio attraverso l’azione continua di attori sociali (pubblici e privati); non include solo i beni pubblici e il capitale produttivo, ma anche fattori intangibili, immateriali, di governance locale (capitale sociale; Putnam, 1993; Bagnasco, 2002), oltre che il capitale incorporato nei luoghi sotto forma di appartenenza, di capitale relazionale (Camagni, 1999), di capitale civico (definito come “those persistent values and shared beliefs”; Guiso, Sapienza e Zingales, 2010) o di asset di conoscenza (Foray, 2000; Storper, 2003), utile per superare sfide complesse (Camagni, 2004). 2. Putman (1993) si riferisce al “senso civico”: tessuto di valori, di norme, istituzioni e associazioni che è alla base dell’impegno civile, caratterizzato da solidarietà, fiducia e tolleranza; esso è capace di stimolare la partecipazione alla vita politica per il desiderio di promuovere e difendere interessi e valori collettivi.

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In questa situazione di “sospensione” del capitale fisso, il controllo dello spazio può essere lo strumento per ricostruire questo capitale? Che contributo può essere assegnato alla “capacità di assecondare processi territoriali e sociali virtuosi”, senza ipotesi di pianificazione o di azioni di pilotaggio centrate su una forte cultura del progetto (Lanzani, Pasqui, 2011)? Nell’attuale crisi importante è la capacità di riconoscere quei germi competitivi e di innovazione connessi alla società e al territorio che possono essere alla base di uno sviluppo radicato e meno esposto al movimento di capitali, ad una domanda forte di governo, a rilevanti investimenti. Decisivo può essere riconoscere la “civicness”2, le reti sociali di impegno civico che costituiscono una componente essenziale del capitale sociale (Putman, 1993) intesa come strumento per contrastare lo spreco di beni comuni, per riattivare quei processi di patrimonializzazione non privatistica (Donolo, 2006; De Leonardis, 1997), ricostruendo infrastrutture e spazi “sospesi” che potrebbero trarre vantaggio dall’essere caricati di nuovi valori simbolici (Bianchetti, 2011). La patrimonializzazione sembra essere oggi una delle risposte più invocate per la ricostruzione del capitale fisso sociale, spesso fuori da ordini spaziali e valori dei suoli definiti dal piano.


Che cosa significa oggi, nel contesto della crisi patrimonializzazione? La patrimonializzazione ha trovato ampia discussione nel volume Il patrimonio e l’abitare (2010) in relazione al suo significato non di acquisizione di beni, o di “eredità”, ma di riconoscimento nel presente di un valore condiviso, di protezione di qualcosa che si ritiene valga (Bianchetti, 2014, Territori nella crisi). Patrimonializzazione è la capacità di costruire “narrazioni” dei luoghi, una “mitologia collettiva” entro cui ci si possa identificare; è un processo complesso e articolato di conferimento di valore che si esprime attraverso forme potenziate di conservazione (le aree vincolate, i territori eccellenti, i siti UNESCO) - vistose direbbe Rykwert - ma anche in pratiche d’uso e piccole azioni di cura quotidiane che identificano il senso più ampio dell’abitare (Andriani, 2010). E’ quindi una pratica ambigua, sfuggente che contrappone la capacità di durare ad una singolare fragilità (Bianchetti, 2010). Una fortissima attenzione alla patrimonializzazione emerge dai casi discussi nella ricerca. Ad Ivrea per esempio lo ritroviamo nelle forme potenziate dell’Unesco e in quelle “minori” di Bellavista. Ad Ivrea si pratica la “via alta” allo sviluppo basata sulla tutela, sul turismo, su innovazione e qualità e sull’abbandono della logica della rendita (Donolo, 2006) attraverso il riconoscimento della città tra i siti protetti dall’UNESCO (2012), che comprendono l’intero patrimonio delle architetture della città, valorizzate con l’istituzione del Museo dell’Architettura Moderna (MAAM); il MAAM si sviluppa lungo un percorso di circa due chilometri, collegando le testimonianze dell’architettura e dell’urbanistica olivettiana. Ad Ivrea, accanto alle forme potenziate di riconoscimento di valore, troviamo forme di patrimonializzazione “minore” in cui la cura è pratica che passa in carico alle comunità, che promuovono la manutenzione e la gestione del quartiere Bellavista, patrimonio di pregio, ma di limitato valore economico e sociale (Territori nella crisi, Dossier #1). In Valle di Susa la patrimonializzazione di valori, memorie, saperi e luoghi è il punto di partenza e nel contempo l’esito delle visioni per la ricostruzione del territorio promosse dall’associazionismo. I processi di patrimonializzazione del capitale fisso sociale “minore”, difficilmente possono essere oggetto di azioni conservative “tradizionali”; sono più difficili da considerare in politiche e progetti istituzionali, nelle pratiche di controllo ordinario dello spazio. In questa categoria rientra molta parte del patrimonio che i casi discutono nella ricerca: le infrastrutture “minori” nelle valli alpine (borgate, suoli e infrastrutture della produzione agricola, spazi delle stazioni in dismissione, nuovi attraversamenti), i servizi dei quartieri di edilizia sociale, i presidi sanitari depotenziati del biellese, gli spazi del welfare del Novecento, i suoli e gli edifici adibiti ad attività produttive sottoutilizzati o abbandonati. Essi costituiscono esempi di capitale fisso sociale con caratteri di ordinarietà (CEP, 2000), in condizioni di abbandono anche molto recente: spazi emarginati, rifiutati che appaiono territori “spaesati” (Tarpino, 2012), macerie e vuoti a perdere - per usare il linguaggio dell’antropologo Marc Augè - che punteggiano il paesaggio italiano dalle valli alpine, alla pianura padana, alle periferie industriali, alle aree costiere e fluviali. Sono territori fragili, ai margini delle azioni di sviluppo, apparenti tracce lasciate in eredità agli attori sociali più che al territorio. La crisi moltiplica tali situazioni complicando, caso per caso, l’individuazione delle soluzioni più appropriate; tuttavia, nelle sue contraddizioni, pone in evidenza movimenti pur molto lenti che, in virtù di una ricerca di dialogo tra memoria del passato e sguardo al futuro, manifestano un protagonismo dei territori che potrà forse porre le basi per politiche rinnovate. 1.

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3. Il riciclo è tema molto presente in letteratura. Si vedano le ricerche di Greenstein R. Sungu-Eryilmaz Y. (2004) che esaminano le potenzialità progettuali di terreni urbani sottoutilizzati, abbandonati e vuoti attraverso lo studio di azioni locali istituzionali e delle comunità. Lo ritroviamo anche nelle ricerche che, in continuità con Wasting away di Kevin Lynch, guardano al progetto paesaggistico come processo capace di tenere insieme l’evoluzione dei fenomeni in atto e di guidare le capacità adattive dei luoghi (temi esplorati in Italia nel PRIN 2007 coordinato da A. Maniglio Calcagno, Il progetto di paesaggio per i luoghi rifiutati; pubblicato in Maniglio Calcagno A., 2010). La ricerca avvicina i metodi e le tecniche del progetto ai processi biologici del paesaggio che prevedono deperimento, smaltimento, digestione, riciclo. Temi questi che trovano continuità con gli studi delle scuola di Chicago di Burgess e Park in cui un pool multidisciplinare di urbanisti, sociologi ed esperti di real estate utilizzano concetti provenienti dall’ecologia per interpretare e costruire modelli normativi di città (Cradle to cradle. Remaking way we make), basati sull’evoluzione dei cicli di materia ed energia, che mettono in gioco una trasformazione radicale e allargata dell’esistente. O nelle visioni ecologiste di Light J. (2009) che legge le trasformazioni della città americana tra gli anni Venti e Sessanta secondo la metafora del “ciclo di vita” della città che, adattando modelli delle scienze naturali, ha molto influenzato la pianificazione. Inoltre è fortemente presente anche nelle recenti politiche e progetti territoriali e paesaggistici che, in linea con la Roadmap 2050 dell’UE, si propongono di avviare processi per il risparmio energetico, per la lotta al cambiamento climatico (Gran Paris 2009, New York 2030, Amsterdam climate change action plan) che comportano una ridefinizione complessiva dei tessuti esistenti, della loro densità, dell’accessibilità, degli spazi agricoli, dell’acqua e dell’energia, avvicinando il costruito alle dinamiche della natura (si veda la proposta progettuale “100% recycle” del sistema urbano parigino attraverso ristrutturazione e riqualificazione dell’esistente, autosufficienza energetica, mixitè, densificazione dell’abitare collettivo; Secchi B., P. Viganò, 2011). Esempi di quest’attenzione si ritrovano nel riciclo strategico delle risorse territoriali della città diffusa veneta nei suoi aspetti di tessuto residenziale e produttivo a maglie larghe, interpretato secondo il valore di embodied energies, da progettare consapevolmente (Fabian, Giannotti Viganò, 2012). Il riciclo trova anche riferimento negli studi internazionali sulle shrinking cities o nelle indicazioni normative e programmatiche tedesche (politiche di tutela del suolo, Ministro dell’ambiente Merkel 1998) o olandesi (Agenda Landschap, 2008). In Italia alcune riflessioni sono oggetto di attenzione nel PRIN in corso Recycle che si propone di trovare strumenti per innescare

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Nel quadro articolato delle diverse accezioni di patrimonio “minore”, alcuni temi per i caratteri di marginalità geografica, economica o sociale sono di più complessa trattazione: il recupero delle borgate, la riconversione delle aree della produzione industriale e artigianale della valle di Susa e del Biellese che costituiscono tracce materiali di un passato dell’abitare e del lavorare incapace di ripetersi. Infrastrutture che hanno esaurito il loro potenziale originario e del quale nel dibattito disciplinare si sottolinea di frequente, talora astrattamente, la necessità di trasformazione, in genere rimandando a due piani d’azione che pongono entrambi enfasi sul cambiamento degli stili di vita e di consumo del territorio e sul ritorno alla creazione di un paesaggio qualificato: il riciclo e “l’aver cura”, che mettono in campo soggetti, competenze e pratiche diverse.

Riciclare e aver cura Il riciclo nel dibattito nazionale e internazionale è oggi una parola chiave3, “un nuovo paradigma del progetto” che richiede specifici strumenti di studio e di azione (Viganò, 2012), una strategia che in senso vasto assume - con la crisi significati profondamente nuovi, dal rinaturalizzare al riurbanizzare. Sono pratiche che si pongono accanto alla strategia di contenimento di suolo e collocano al centro dell’attenzione l’utilizzo del patrimonio disponibile come materia fondamentale del progetto, lavorando con azioni di riconoscimento, ricomposizione, risignificazione del capitale fisso sociale. Nella ricerca è emblematico, per l’intreccio tra pratiche di consolidamento e di rarefazione, il caso di Aubervilliers a Parigi; Aubervilliers, la più grande friche d’Europa, dopo la crisi, vede attivarsi pratiche di riuso e di trasformazione del patrimonio dismesso in tempi diversi, con usi diversi, in condizioni di mixitè, caratterizzate dalla coesistenza tra declino e abbandono, in cui le sostituzioni interstiziali cercano di contrastare lo sgretolarsi del capitale fisso e contribuiscono a ricostruirne il valore. Il progetto di riciclo, anche quando non muove da pratiche di governo del territorio tradizionali, ha un ruolo decisivo: può contribuire a massimizzare l’efficienza e a minimizzare l’impatto ambientale, economico e sociale dei paesaggi dell’abbandono con esiti urbani, ecologici, produttivi e di senso che coinvolgono una molteplicità di spazi brown, grey e green. Nelle pratiche di riuso questi spazi paiono investiti da contaminazioni che mettono in gioco tessuti urbani e ecosistemi, capaci di delineare network paesaggistici multiscalari costituiti da luoghi aperti abitati e multifunzionali4, attraverso innovative prassi d’uso e progetti puntuali relativi alle componenti di maggior persistenza, aprendo la strada anche ad azioni resilienti, temporanee e auto-rigenerative (Waldheim, 2006), in sintonia con la complessità dei processi e dei tempi di trasformazione ambientale e di riappropriazione sociale. Il riciclo è tuttavia un terreno di sperimentazione del progetto difficile da realizzare, che chiama in gioco metodi e pratiche diverse e che, con la crisi, vede crescere il protagonismo degli attori locali e delle associazioni, aprendo ad uno


spazio “ibrido” del progetto, che coinvolge la moltitudine e l’intersecarsi di diversi attivismi che creano un nuovo soggetto collettivo, potenziale referente per la costruzione di spazi e per l’azione politica. In questa direzione Domenico di Siena cita il riuso di spazi pubblici inutilizzati, spazio bianco, dove i cittadini hanno il diritto di creare e che può fornire una sede fisica alla sentient city (che si distingue dalla smart city) perché raccoglie e diffonde i messaggi della moltitudine (http://urbanohumano.org/category/ italiano/). La rete è oggi un interessante supporto per la sperimentazione di processi di creazione collettiva, permettendo ai cittadini di auto-organizzarsi anche per gestire e trasformare collettivamente lo spazio che abitano, generando nuovi beni comuni che si collocano al di fuori delle regole di mercato e della crisi.

nuovi processi di rigenerazione, nuovi cicli di vita nell’architettura, nei vuoti, nei paesaggi della memoria. Il riciclo dello spazio è anche al centro di riflessioni di matrice socio-economica che pongono attenzione all’importanza della riqualificazione della città diffusa (Perulli, Pichierri, 2010; Calafati, 2010). 4. Interessanti gli esiti di ricerca e di sperimentazione progettuale del “landscape urbanism” dell’ultimo decennio, discusse nel libro di Sampieri e Viganò (2011).

Le comunità infatti assumono un ruolo centrale per la sperimentazione di pratiche anche operative di patrimonializzazione “minore”, di presa in carico dei valori locali, con riferimento a strategie internazionali che promuovono forme di recupero e di uso nuovo di suoli urbani, residui infrastrutturali e marginali (comanagent, URBES Initiave, IUCN; Convenzione Europea del Paesaggio, 2000). Al centro di queste forme sta la capacità di avere cura che può essere intesa in modi molto diversi: espressione di un diritto, manifestazione di una volontà, soluzione di un problema, appropriazione di un luogo (da parte di alcuni in nome di tutti). Implica un noi capace di muoversi come soggetto collettivo secondo una logica di condivisione (Bianchetti, 2014) che è espressione di un impegno, di responsabilità e di un’attenzione che può coinvolgere lo spazio, affermando nuovi valori. L’aver cura implica una variazione di valore dal punto di vista simbolico, relazionale, culturale, economico, perché apre a nuovi sguardi sui luoghi o anche al recupero della memoria, generando un arricchimento di significato dello spazio. L’aver cura si articola in forme diverse che possono essere definite come più leggere, occasionali, strumentali (Bianchetti, 2014/blog) e che determinano la partecipazione a manifestazioni in luoghi molto diversi tra loro e non utilizzati ora a causa della crisi ora di un insufficiente presidio pubblico, portando ad ammettere l’assegnazione di usi temporanei. Tema ricorrente in molti casi nazionali e internazionali, europei come americani (Haydn, Temel, 2006), che traggono origine nel situazionismo legato ai movimenti di Francoforte, Amburgo, Berlino degli anni Settanta dove alla cura viene riconosciuto il ruolo di invenzione dello spazio, un articolarsi molto vario di usi, anche inaspettati, che si contrappone all’organizzazione funzionale. Un modello d’azione riproposto in modo diverso nei luoghi occupati dalle comunità della Germania negli anni Ottanta, negli usi delle aree dismesse negli anni Novanta e nei più recenti movimenti di occupazione ad opera di reti associative e culturali. Attraverso queste pratiche emerge un nuovo approccio nell’uso dello spazio pubblico e privato, un uso effimero, che nasce per tentativi ed errori e che porta all’occupazione di quote marginali del capitale fisso, sospese, non in uso; questo approccio anche in ragione della crisi, sta guadagnando crescente legittimità (urban pioneers; Overmeyer, 2007).

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Focalizzando l’attenzione sugli esiti, queste pratiche producono interazione tra i membri di una comunità e pongono attenzione ai temi della condivisione, dell’agire nello spazio “con poco”, fuori dal mercato e dalle istituzioni trasformando gli spazi del pubblico in modo frammentario, non programmaticamente costruito. Si produce un pubblico minore depotenziato (Bianchetti, 2011) ma capace di generare cittadinanza, di attivare, con l’occasione dell’azione spaziale, gli individui trasformandoli in attori. Sono pratiche di patrimonializzazione ricche di entusiasmo e la legittimazione politica può ucciderle. Da un lato, può diminuire la forza creativa dell’innovazione sociale (la vivacità, l’autonomia e la flessibilità dei soggetti cooperanti; Crosta, 1998); dall’altro, il percorso di istituzionalizzazione può produrre, con i suoi meccanismi tecnici e procedurali, il rischio di omologazione e di svuotamento di senso (Mayer, 2001). Tuttavia sono sempre più numerose le procedure e i processi di istituzionalizzazione del riuso temporaneo: uffici comunali e sportelli per l’assegnazione di uffici e terreni vuoti, contratti in comodato d’uso temporaneo per laboratori, uffici, abitazioni, ateliers (Bologna), concessioni d’uso temporaneo per eventi festival, concerti o performance (Torino). Un ruolo importante è assunto dalle associazioni (Cityminded a Bruxelles, SegnalaTO, Fondazione Mirafiori a Torino) che mettono in contatto proprietari con utilizzatori, definiscono scenari d’uso possibile, promuovono bandi di idee, svolgendo un importante ruolo di mediazione, talvolta con il supporto o in sinergia con le istituzioni (“Case del Quartiere” a Torino, Temporiuso a Milano). Guardando alla città di Torino si rintracciano moltissimi esempi in proposito: le iniziative di occupazione collettiva di luoghi come residenze per studenti, spazi per la creatività e la cultura locale (Verdi15Occupata, VerdiLab, Corso Farini 20), le azioni di cittadini che segnalano spazi dismessi (Brad) o sottoutilizzati della città (SegnalaTO) o le associazioni che mettono a disposizione le strutture industriali dismesse come spazi per l’arte e la creatività urbana (Bunker o il Basic Village che in giugno ha ospitato il Festival dell’Architettura). Molti sono gli esempi nella ricerca di ricostruzione del capitale fisso minore: “Bella vista viva”, associazione per la condivisione e cura degli spazi comuni, i territori del welfare depotenziato del biellese che, con la crisi, vedono un progressivo ritrarsi del pubblico e passano in carico alla Charitas e all’associazionismo, le azioni di sviluppo di attività produttive e rurali legate alla filiera della Canapa promosse da Entinomia e CanapaValleSusa.

Fenomenologia dell’azione progettuale pubblica Dalla ricerca emerge la vivacità dell’azione locale di riuso e di cura, di patrimonializzazione del capitale fisso sociale “minore”. Gli stessi casi evidenziano le difficoltà dell’urbanistica nell’affrontare con i propri strumenti regolativi e progettuali i problemi che l’abbandono di questo capitale pone. La crisi infatti interviene a moltiplicare le situazioni, complessificare le criticità e rende necessario sviluppare prospettive nuove in tema di progetto di riciclo, di 1.

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trasformazione e cura dello spazio non solo connesse ad una più elevata sensibilità ecologica, ma a problemi e criticità ambientali (Lanzani, 2013), economiche e sociali anche prodotte da un’urbanizzazione mal fatta, definita da regole non adeguate (Petzet e Florian Heylmeyer, 2012). Il contributo delle istituzioni e il ruolo degli aspetti normativi (regole, vincoli, opportunità) costituisce una delle forme meno indagate che permettono al progetto di misurarsi con le diverse forme di capitale sociale “sospeso”. Quale valenza possono ancora avere le pratiche ordinarie di pianificazione per orientare - in una prospettiva di nuova operatività - da una lato, la patrimonializzazione locale intesa come capacità locale di cura del capitale fisso “minore”, dall’altro, la ricostruzione del capitale fisso sospeso, il suo “rientro” in processi economici e sociali? Se guardiamo a Aubervilliers le azioni di trasformazione e riuso muovono da pratiche “architettoniche” che rimettono in gioco spazi, assegnano usi nuovi e sembrano negare il valore delle pratiche ordinarie dell’urbanistica. L’urbanistica pare oggi concentrarsi sui temi della qualità dei servizi, del paesaggio, proponendo una nuova estetica (Cunha, Guinand, 2014). Produrre qualità è stato da sempre obiettivo della disciplina5, attraverso indicazioni per la leggibilità, la permeabilità, la conservazione del patrimonio, la valorizzazione e il recupero del capitale fisso; ma il centro dell’azione progettuale del piano è tradizionalmente la regolazione degli usi del suolo, essenziale per il riconoscimento e la riproduzione di valori condivisi, fonte principale per la definizione di politiche e progetti. Nell’attuale condizione di declino, stagnazione economica, abbandono di parte del patrimonio l’urbanistica dovrebbe ripensare intelligentemente il proprio ruolo cercando di identificare e prevenire gli effetti più gravi della crisi, nella consapevolezza che la funzione di pratica di regolazione e accompagnamento dello sviluppo rischia di venir meno (Lanzani, Pasqui, 2011). Occorre ripensare strumenti e pratiche per intercettare le azioni innovative locali, cercare di limitare i costi ambientali e paesaggistici e avviare processi di ricostruzione del patrimonio “minore”, generando un’idea diversa di sviluppo, che deve prevedere il coinvolgimento delle comunità. L’urbanistica dovrà cercare di sostenere un’idea diversa di sviluppo, che intrecci opportunità economiche e pratiche sociali in modo plurale, contribuendo a definire condizioni di sostegno, reinventando politiche che, in carenza di risorse, possano allargare le condizioni di cittadinanza. Si tratta di azioni e pratiche che possono produrre la conservazione tradizionale di parte del patrimonio, un suo riuso anche parziale, in forme innovative e anche temporanee, rafforzare le potenzialità di rigenerazione ambientale, sostenere le pratiche sperimentali e di patrimonializzazione locale che stanno emergendo; è però necessario che si contempli anche l’ipotesi che una parte del patrimonio non sia non riciclabile. La letteratura nazionale e internazionale intercetta alcuni di questi temi, cercando di discutere il contributo dell’urbanistica nell’attuale condizione di crisi nell’ “esprimere giudizi sui luoghi”, definire “condizioni e regole per l’uso” e “ridefinire entro quadri normativi le relazioni tra i soggetti” coinvolti nell’azione (Lanzani, 2013)6.

5. Si veda il saggio nel Dossier Spazio pubblico di Cristina Bianchetti. 6. Si vedano le posizioni di Lanzani alla Siu di Napoli (2013).

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In quest’ottica è possibile identificare una fenomenologia dell’azione progettuale pubblica che metta in campo sia gli attori responsabili del governo del territorio sia le comunità e che produca forme talvolta potenziate di conservazione ma anche azioni di patrimonializzazione “minori” di cui è più difficile ipotizzare gli esiti in tempo di crisi. E’ possibile delineare alcune principali categorie dell’azione pubblica per la trasformazione del capitale fisso sociale: - la regolazione, - l’istituzionalizzazione/la legittimazione delle pratiche di presa in cura da parte della comunità, attraverso l’individuazione di procedure, regole e risorse per sostenere la patrimonializzazione locale, - l’abbandono di aree e il trasferimento dei diritti edificatori, - la rinaturazione. La regolazione degli usi del suolo e la definizione di strumenti per l’azione progettuale capaci di attivare pratiche di valorizzazione e riuso del capitale fisso è funzione tradizionale dell’urbanistica. Le trasformazioni del capitale fisso possono essere condotte anche attraverso interventi comunemente previsti dai piani urbanistici (come i piani attuativi, gli interventi di manutenzione straordinaria, demolizione e ricostruzione, progetto) e che contribuiscono alla sua conservazione Non mancano esempi nella ricerca. Il recupero del patrimonio insediativo delle borgate occitane piemontesi da parte dei nuovi colonizzatori è oggetto di interventi di manutenzione dell’edificato e degli spazi pubblici che prevedono procedure ordinarie di autorizzazione e spesso un impegno diretto da parte del nuovo colonizzatore nella realizzazione materiale dell’opera. Le pratiche di valorizzazione territoriale legate allo Scenario strategico Valle Susa, oggi in corso di discussione presso il MISE, puntano a costruire un quadro complessivo di patrimonializzazione del territorio che - con il concorso di fondi pubblici e il sostegno finanziario e procedurale di quelli privati (bandi, incentivi fiscali) - promuoverà interventi per il recupero di stazioni, la definizione di nuove connettività, la realizzazione di parchi lineari e il recupero di spazi agricoloproduttivi e industriali dismessi. E’ un’attività che vanta fondi straordinari, sviluppata prevalentemente attraverso l’aggiornamento di strumenti urbanistici ordinari in relazione alle azioni progettuali di sistema e puntuali di recupero, ricostruzione, progetto. Un’azione che si può legare con le traiettorie di sviluppo dell’associazionismo valsusino che rilanciano pratiche tradizionali, in continuità col passato, cariche di valori e legami con il territorio e che hanno l’obiettivo di accompagnare le scelte e partecipare alle trasformazioni in atto. Molti sono oggi i processi di istituzionalizzazione pubblica di pratiche di patrimonializzazione locale che prevedono, in attesa che si possano avviare condizioni ordinarie per la trasformazione, il riuso temporaneo degli spazi non utilizzati. L’affitto o il commodato a soggetti terzi come la comunità possono essere lo strumento di riconoscimento delle pratiche, prevedendo anche il coinvolgimento di associazioni per la presa in cura del bene e in carico dei costi di tassazione (residenze temporanee, per studenti, spazi flessibili di co-working, che prevedono l’uso temporaneo di parti del manufatto e con una durata pari ai contratti di locazione). In questo caso l’urbanistica, espressione delle istituzioni, accompagna le azioni comunitarie, talvolta le promuove, generando un paesaggio costruito attraverso trasformazioni per piccoli adeguamenti legati alle pratiche d’uso. 1.

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Nella ricerca ne sono esempio AlloggiAMI di Mirafiori Sud a Torino e Can Battlò a Barcellona. Il progetto AlloggiAMI di Mirafiori Sud che, attraverso azioni per produrre mixitè, mette in contatto la comunità locale e i proprietari garantendo un alloggio alla popolazione di studenti universitari stranieri; inoltre attraverso la fondazione Mirafiori, che coinvolge gli abitanti in attività di gestione del verde pubblico (orti e giardini), offre un ambiente più curato e sicuro per superare il degrado del patrimonio e la marginalità sociale del quartiere. Il processo di riuso e la realizzazione della nuova piattaforma di servizi pubblici di Can Battlò, dopo una fase di grande vivacità comunitaria, aspira oggi ad essere riconosciuta dalla istituzioni per legittimare e regolare l’uso dello spazio pubblico. Una possibile azione è l’abbandono o il sottoutilizzo del capitale fisso territoriale in aree marginali con scarsa dotazione infrastrutturale (aree montane, aree rurali caratterizzate da un paesaggio misto residenziale e produttivo, aree costiere o fluviali), il cui valore risiede prevalentemente nell’oggetto e di cui si potrebbe ipotizzare il trasferimento dei diritti edificatori, consentendo una riqualificazione paesaggistica. In questo caso l’urbanistica è chiamata a giocare un ruolo importante di natura progettuale, capace di promuovere la riqualificazione e il consolidamento delle risorse paesaggistiche e creare le condizioni per la cura e la difesa di pochi beni comuni, ricreando condizioni di cittadinanza. In Val di Mosso (Biella) gli edifici legati al passato produttivo si svuotano e non paiono oggi emergere condizioni per il riuso. Il trasferimento di diritti edificatori può forse essere lo strumento per creare opportunità di conservazione selettiva di pochi beni e rendere possibile una rigenerazione ecologica diffusa. Possibile anche la transizione verso uno stato di nuova natura di quella porzione di “patrimonio irriciclabile” in ragione di costi, localizzazione, impossibilità di attivare meccanismi locali di trasferimento dei diritti edificatori; in questo caso occorrerebbe definire nuove forme di regolazione, che consentano l’avvio di processi di rinaturazione, creazione di nuovi paesaggi – con evoluzione spontanea secondo il modello del terzo paesaggio di Gilles Clement- con interventi come l’immissione di terra, la creazione di aree per la fitodepurazione e per la bonifica, laddove necessario, o la demolizione parziale o completa dell’edificato. Questo è un processo che necessita di riflessione per comprendere in quali contesti possa essere attivato, con il concorso di quali attori e con quali incentivazioni (anche economiche). In altri casi potrebbe riguardare la semplice messa in sicurezza per la conservazione del patrimonio in stato di rovina, una trasformazione in “stato di maceria”, memoria in abbandono del passato che continua a vivere un’esistenza metafisica. La fenomenologia dell’azione è ampia e comprende anche ricette che, già elaborate dopo la crisi della modernità e dell’industrializzazione, hanno contribuito ad avviare forme potenziate di conservazione del patrimonio, progetti di recupero, incentivazioni per il rinnovo urbano, della dotazione di infrastrutture, di servizi o a promuovere azioni che puntano sul turismo, sulla cultura, sullo smartness (al centro oggi dell’Agenda urbana Europea e per l’Italia). Tuttavia queste azioni si basano su paradigmi economici ed urbanistici tradizionali, probabilmente insufficienti per il superamento della crisi. 1.

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Le azioni pubbliche qui ipotizzate richiedono interpretazioni diverse del ruolo, dei limiti, delle potenzialità delle pratiche urbanistiche. Queste ultime possono avere ancora una valenza rispetto alle trasformazioni dell’economia, della società e del territorio conseguenti alla crisi e possono permettere al progetto di misurarsi con le diverse forme di capitale sociale sospeso; possono contribuire inoltre ad inserire nei diversi contesti spunti e germi per attivare traiettorie virtuose, aiutando a generare potenzialità future, dando spazio agli attori locali e sostegno alle pratiche innovative.

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