Rubrica curata da Chiara Casciotta
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Editoriale
Piani in bilico
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La trasformazione di Berlino
La sfida della street art
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Officine Nora
Osceno in scena
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Dezen Dezen
Pink Project
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Networkmamas
Oltre le note
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Progetto Quid
Un fioretto a cinque cerchi
intervista a Levante, Marina Rei e L’Aura
intervista a Giovanna Trillini
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Composizione meccanica Robydamatti aromatica di couscous e verdure al miele
Editoriale curato da Elisabetta Cerigioni
In questo numero vogliamo parlarvi di Sfide, dunque di coraggio, confronto e passione. Gli artisti, i cantanti, ma anche gli sportivi e tutti i creativi che incontrerete vi coinvolgeranno in un clima di contagioso entusiasmo! Siamo convinte che le sfide portino in superficie ciò che c’è di meglio in un uomo. E spesso hanno tutto il sapore della libertà, per questo è importante scegliere obiettivi sempre nuovi, attraversare le difficoltà e non arrendersi mai: tentare l’impossibile!
“È veramente bello battersi con persuasione, abbracciare la vita e vivere con passione. Perdere con classe e vincere osando perché il mondo appartiene a chi osa! La vita è troppo bella per essere insignificante”. Charlie Chaplin
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Articolo di Chiara Casciotta Foto di Laura Novara
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Rubrica curata da Chiara Casciotta
LA TRASFORMAZIONE DI BERLINO 7
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SFIDA TRA INNOVAZIONE E AUTENTICITÀ Berlino è un racconto a cielo aperto; il suo tessuto urbano fatto di edifici, strade e vuoti urbani, ci descrive una città dal carattere internazionale, territorio di confine tra arte e architettura. Emblematico è il caso dell’ex quartiere operaio Friedrichshain che porta in sé i segni della trasformazione e che ora, infatti, è punto di riferimento per la sperimentazione artistica e della vita notturna. Nel novembre del 1989, con la caduta del muro, gli abitanti di Berlino Est scappano verso l’ovest abbandonando interi edifici e Friedrichshain inizia a popolarsi di Hausbesetzer (occupatori di case) che si stabilizzano e iniziano ad organizzare progetti ed iniziative sociali. Dopo una serie di guerriglie tra l’amministrazione, contraria alle occupazioni illegali, e gli occupanti, si arriva al dialogo e infine ad un equilibrio. Prende avvio la ristrutturazione del quartiere attraverso l’autogestione dei cittadini che partecipano attivamente con manodopera e piccoli finanziamenti, ma anche grazie all’aiuto economico dell’amministrazione che in questo modo trova una rapida soluzione economica allo sfacelo architettonico di Friedrichshain e di tutti gli altri quartieri centrali di Berlino Est.
Il quartiere ha raggiunto una propria identità costruita dagli stessi cittadini e di questi ultimi continuano a sopravvivere i progetti culturali, come il RAW Tempel, ex officine per la riparazione di treni merci, chiuso dopo la caduta del muro: uno spazio multifunzionale carico di coloratissimi graffiti, in cui sono presenti locali per concerti, spazi per il tempo libero e per attività adatte ai bambini. Friedrichshain è attualmente oggetto di un nuovo processo di trasformazione, “gentrification”, avvenuto già in altri quartieri berlinesi. Gli affitti bassi di queste zone garantiscono la nascita di realtà artistiche che vanno dai laboratori alle gallerie d’arte, rendendo il quartiere alla moda, con conseguente rivalutazione degli immobili e quindi ulteriori investimenti e riqualificazioni. Lo stesso RAW Tempel sarebbe a rischio, a causa di un gruppo di investitori che vorrebbe costruire nuovi appartamenti proprio in quell’area. Questo interessante fenomeno socio-urbanistico permette una ristrutturazione urbana senza l’intervento dell’amministrazione, ma è anche vero che al contempo, a causa dell’aumento del valore immobiliare, si impedisce il formarsi di un tessuto umano commerciale ed intellettuale che
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caratterizzi il quartiere non più vissuto dagli originali cittadini. Friedrichshain, perdendo i suoi abitanti, l’anima di questo quartiere, perderebbe la sua peculiarità e le sue memorie storiche. Fra dieci anni Berlino sarà una piccola “bomboniera”, in cui regneranno ordine, pulizia e fantastiche architetture, ma passeggiando tra le sue vie percepiremo ancora la personalità multiculturale e di cambiamento tipica di questa città?
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Articolo di Chiara Casciotta
“Consiglieri� - argento dorato - orecchini - foto di Nicola Borghini
OFFICINE NORA Arte e sperimentazione nel cuore di Firenze www.officinenora.it
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Foto di Francesco Brunelli
È fuori di dubbio che il caso di Officine Nora rappresenti un fenomeno di interesse e curiosità. Artisti differenti si trovano ospiti di questo stravagante laboratorio di coworking orafo, col proposito di collaborare e confrontarsi sul tema della gioielleria contemporanea, dando vita non solo a pezzi unici, ma anche ad eventi, mostre, workshop ed esposizioni. La cornice è quella affascinante del quartiere artigiano di Firenze: punto strategico inoltre, perché vicino ai principali fornitori di attrezzi e materiali, ma anche alle più importanti scuole di oreficeria. Altro dato di pregio è l’impostazione di Officine Nora, che risulta essere assolutamente internazionale, basti pensare che attualmente vi collaborano ragazzi italiani, sloveni, americani e giapponesi. “Il nostro è un lavoro lento e complesso, ogni pezzo che realizziamo è fatto a mano ed è originale, quindi implica
una serie di prove ed esperimenti che ci permettono di arrivare ad un pezzo finito di alta qualità ma che non possono essere ammortizzati dai numeri di un prodotto in serie, come nel caso delle aziende e dei brand di gioielli. Il fatto di essere da soli a lavorare sulle proprie idee implica anche il doversi impegnare a curare aspetti importanti ma esterni al lavoro al banco, come ad esempio le foto, la presenza sui social…” - queste sono le parole di Margherita De Martino Norante, ideatrice e proprietaria del laboratorio. Ricerca artistica, studio del progetto e originalità a tutti i costi sono gli imperativi categorici di Officine Nora, che si muove su un doppio versante: quello tradizionale, dell’utilizzo di materiali preziosi, e quello dell’innovazione, per il quale i materiali più poveri, come alluminio, stoffa o resina, concorrono ad un risultato ardito e nuovo. E
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Margherita ci parla anche dei propositi e delle sfide future: “Di progetti per il futuro ce ne sono sempre molti, io e Valentina Caprini siamo state selezionate per la 9° edizione del Triennale Design Museum a Milano e il lavoro di Arata Fuchi è appena stato acquisito nella collezione permanente Cooper Hewitt allo Smithsonian Design Museum di New York. Come gruppo fra poco saremo per la prima volta al Fuori Salone di Milano e a giugno, durante Pitti Immagine 90, parteciperemo alla seconda edizione di Jewellery Selection al Museo Bellini a Firenze”. Tutto il segreto della loro vivacità espressiva è qui: nella commistione di idee, nella professionalità e nell’invenzione che resta al di fuori del già detto e del già fatto.
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Foto di Nicola Borghini
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Articolo di Chiara Casciotta
DEZEN DEZEN Il coraggio di reinventarsi www.dezendezen.com
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Rubrica curata da Chiara Casciotta
È un po’ difficile riassumere la vicenda del marchio Dezen Dezen, perché quella di Marco e Michele, i fondatori, è una sfida che affonda le radici nella Storia. Tutto ebbe inizio molti anni fa, da una attività familiare che da tre generazioni stampava foulard tradizionali esportandoli in tutto l’Est Europa. Poi vi fu la crisi degli anni Novanta, quando la guerra in Yugoslavia sancì il crollo delle richieste del prodotto. Poi, ancora, la rinascita: l’idea. I due giovani imprenditori ritrovano vecchi foulard e pensano di stampare quei disegni, intrisi di Storia e che altrimenti sarebbero andati perduti, su capi analoghi ma contemporanei: magliette, felpe, vestiti(ni), sciarpe etc. La loro sfida risiede nel saper coniugare la tradizione, ovvero l’utilizzo dell’antica tecnica di serigrafia, all’innovazione, quindi la creazione di prodotti sempre nuovi. Dezen Dezen trova nella particolarità dei disegni, nella lavorazione artigianale e di qualità, e nella stampa a mano, i suoi punti di forza. Così ogni articolo diventa
unico ed esclusivo, ben lontano da una sterile produzione in serie. “Dopo aver stampato i primi prototipi” – ci raccontano Marco e Michele – “abbiamo partecipato al Tee Day Fest di Bologna, alla fine di luglio 2014. Da allora non ci siamo più fermati, nell’ultimo anno e mezzo abbiamo partecipato ad una trentina di mercatini in più di dieci città fra l’Italia, Croazia, Slovenia, Austria e Germania”. Attualmente i promotori di questo brand creativo e anticonformista si trovano impegnati nell’apertura di un laboratorio nel centro di Trieste: “la volontà è quella di aprire uno showroom e laboratorio aperti al pubblico, dove sarà possibile vedere tutto il processo produttivo. Questo sarà seguito anche da un progetto di storytelling sui nostri social. Vogliamo mostrare al pubblico cosa e sopratutto come realizziamo i nostri manufatti”. Insomma, ecco un’altra bella iniziativa. Il nostro consiglio è di seguire il loro percorso su instagram, facebook o magari visitare il loro sito.
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Rubrica curata da Chiara Casciotta
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Sono circa 65.000 all’anno le donne, in Italia, che perdono il posto di lavoro durante la maternità. Scelta personale, effetto di pressioni o il mercato del lavoro non è in grado di accogliere questa categoria di lavoratrici? È possibile nei primi anni di vita del bambino continuare a portare valore nella società con la propria professionalità? La risposta è indubbiamente sì, ma per farlo ciascuna trova soluzioni creative per conciliare i tempi della vita. Così ha fatto Cristina Interliggi, che insieme al suo compagno Marco, ha fondato NetworkMamas, la piattaforma di telelavoro che offre servizi di consulenza a distanza. E sì, le professioniste, dalla designer alla commercialista, sono tutte mamme. “Lavoravo come grafica a tempo indeterminato e nel 2008, anno della crisi, ho perso il lavoro, in concomitanza con la maternità. Avevo la necessità di guadagnare e così ho iniziato a cercare diversi tipi di lavoro, ma ero penalizzata come mamma anche in posti da commessa. In un centro commerciale mi hanno chiesto: «chiudiamo a mezzanotte, come fai a organizzarti con la bambina?»” racconta Cristina a TFP, dando voce al dramma di molte mamme. Così, mentre nel 2012 è nata anche Flora, è arrivata l’idea della consulenza online, creando una rete di mamme imprenditrici,
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www.networkmamas.it che ha visto la luce nel dicembre 2013. È semplice: la mamma si iscrive alla piattaforma pagando un piccolo abbonamento annuale (attualmente è di 99 euro) e può mettere in vendita i propri servizi di consulenza, che vengono erogati tramite Skype, email e telefonate. Avvocati, copy, grafiche, consulenti per l’allattamento, architetti e moltissime altre professioni sono disponibili a portata di un clic. “Non immaginate mamme sperdute, le Mamas sono freelance che spesso hanno già un business online. Le più ricercate sono quelle che offrono servizi legati alla creazione di un business, quindi marketing, grafica, commercialista, copywriter, esperta SEO e Social Media Manager. La tecnologia aiuta tanto a conciliare i tempi della vita, a fare meglio e più in fretta e a lavorare anche con chi è lontano” spiega la fondatrice del network. Certo, lavorare da casa non è tutto rose e fiori, è importante organizzare tempi e spazi, oltre a predisporre un’adeguata rete di supporto, tra nonni, babysitter e asilo. Ci hanno creduto più di 800 iscritte alla community di NetworkMamas, che hanno raccolta la sfida di trovare nuovi modi di mettere a frutto le proprie competenze, senza trascurare il loro cliente top: la famiglia.
Articolo di Benedetta Consonni
NETWORKMAMAS La sfida delle mamme al lavoro
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PROGETTO QUID
Coniugare moda sostenibile e impegno sociale è una grandissima sfida. Sfida che Progetto QUID, giovane marchio di moda eco-chic, è riuscito a vincere su più fronti, grazie ad un team di professionisti che ha messo a disposizione le proprie competenze ed esperienza, ma soprattutto grazie alla volontà di unire moda, sostenibilità ambientale e impegno sociale: le collezioni del brand sono firmate da designer emergenti e nascono dal recupero locale di tessuti di fine serie del miglior Made in Italy, ri-progettati per mano esclusiva di donne svantaggiate. Non a caso in soli 4 anni di attività Progetto QUID si è già aggiudicato svariati premi, in particolare è stata la prima realtà italiana a vincere la European social innovation competition, l’iniziativa volta a scoprire e valorizzare chi si impegna per un’economia etica e sostenibile.
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A cura di Laura Ferrari
Progetto QUID è un marchio di moda sostenibile che nasce dalla volontà di sperimentare il reinserimento lavorativo di donne in difficoltà. Come è nata l’idea? L’idea nasce da un gruppo di amici, i quali hanno messo a disposizione le loro competenze per creare un progetto di valore nel loro territorio di origine a Verona. Il punto di partenza è stata la volontà di sperimentare il reinserimento lavorativo di donne in difficoltà, attraverso il loro impiego in attività produttive che rispondono alle logiche del mercato e che allo stesso tempo stimolano una partecipazione attiva alla bellezza e alla creatività. Quali sono le maggiori difficoltà e resistenze che avete incontrato durante lo sviluppo del progetto? La maggiore difficoltà è quella di continuare ad essere sostenibili economicamente, sapendo il valore sociale che produciamo ogni giorno come impresa. La sfida è quella di far conoscere il progetto in partnership con il nostro contesto sociale, reinvestendo gli utili e valorizzando il nostro brand e la nostra cultura inclusiva.
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La sfida di Progetto QUID non è solo quella di reinserire donne con un passato di fragilità, ma anche quella di unire creatività e sostenibilità ambientale, grazie all’utilizzo di tessuti di recupero. Come è stato possibile farlo? Avete sviluppato una rete di brand partner, come hanno accolto dalle aziende il vostro progetto? Fin dall’inizio abbiamo cercato di innovare che nel caso del nostro brand significa sintetizzare nei capi di moda tre componenti fondamentali: l’eccezionalità delle sarte, in maggior parte donne con un passato di fragilità; l’innovatività del team, ragazzi con una media di 27 anni; la qualità della linea dei prodotti, realizzati trasformando le giacenze dei tessuti pregiati della grande impresa della moda in capi di tendenza. Fin dall’inizio molte organizzazioni ci hanno sostenuto sia con finanziamenti sia come veri e propri partner di prodotti progettati e comunicazioni in attività di cobranding. Come nascono le collezioni Progetto QUID? Ciascun capo e accessorio QUID, ideato dai nostri giovani designer, è una creazione dallo stile unico ad alto valore etico e ambientale. A realizzare le edizioni limitate sono donne con un passato di fragilità e ogni collezione nasce dal recupero mirato delle rimanenze tessili più
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pregiate, provenienti da una rete di marchi partner d’eccellenza. Fornitori esclusivi dei tessuti QUID sono infatti i migliori marchi Made in Italy locali, che hanno visto nel progetto una soluzione intelligente al problema delle giacenze di magazzino. Siete una realtà giovane e vivace, che a solo 4 anni dalla nascita ha già sviluppato tantissime idee e collaborazioni. Che progetti avete per il futuro? La giovane età è una delle chiavi per riuscire ad aprire le porte blindate che spesso incontriamo nel nostro lavoro. Dall’inizio della nostra attività abbiamo considerato l’inesperienza come un limite da superare. Ciò ci ha portato da subito a strutturare un advisory board, composto da consolidati manager di realtà differenti che ci aiutano a ponderare le strategie in base alla loro esperienza e professionalità. Da 4 anni a questa parte siamo cresciuti in modo esponenziale, principalmente grazie alla collaborazione con aziende, quali Calzedonia, DeN Store, Altromercato, Carrera, Intimissimi. Oggi il nostro staff conta 26 donne impiegate. Progetto QUID, nel costruire il suo futuro partendo da oggi, cerca di coniugare il concetto di business inclusivo con logiche B2B, attraverso partnership con note aziende del settore della moda, interessate a potenziare la propria CSR.
Rubrica curata da Chiara Casciotta
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FOOD O MECCANICA? SEMPLICEMENTE DEIANA.
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Ricette e testi di Roberta Deiana Foto di Laura Novara
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COMPOSIZIONE MECCANICA AROMATICA DI COUSCOUS E VERDURE AL MIELE PER 2 PERSONE:
1 bicchiere di couscous integrale di farro 1 bicchiere d’acqua 1 pizzico di origano 1 punta di cucchiaino di scorzetta di limone 1 cucchiaio di miele 1 cucchiaino di peperoncino in polvere 1 carota viola 4 litchi olio evo sale
PROCEDIMENTO:
Preparare il couscous: in una ciotola unire il bicchiere di couscous, un pizzico di sale, un filo d’olio e l’origano, quindi bagnare con acqua bollente e sgranare con i rebbi di una forchetta, sino a che l’acqua non si sarà completamente assorbita. Disporre il tutto nella ciotola principale della macchina. A parte, tagliare la carota a lamelle, unire i litchi, sbucciati e tagliati in piccole falde, e condire con un pizzico di sale e due cucchiai d’olio aromatizzato con la scorzetta di limone. Mescolare bene e disporre nella ciotolina secondaria semovibile. Separatamente, mescolare il miele con il peperoncino e versarlo sul dosatore automatico superiore. Azionare la macchina a velocità uno: prima il braccio semovente unirà, a passo uno, l’insalatina aromatica al couscous, in modo tale da non inumidirlo con un contatto troppo prolungato; al contempo il dosatore aggiungerà il miele piccante, assecondando i movimenti del braccio e la rotazione della ciotola centrale. La sfida è mangiare questo piatto esattamente nel momento di massima fusione dei sapori.
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Articolo di Elisabetta Cerigioni Foto di Laura Novara Coordinamento Laura Ravetta
PIANI IN BILICO 30
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Un gigantesco nido di corde troneggia al centro e tutto in torno alla scena, o meglio, sette corde aeree fissate al soffitto che creano un groviglio sospeso. È di fronte a questo artificio spettacolare che si trova lo spettatore di Piani in bilico, la performance di e con Clara Storti e Filippo Malerba dell’ASDC Quattrox4_ laboratorio di circo. Sono loro i protagonisti della rappresentazione, ovvero i personaggi che abitano questa dimensione reale e al contempo surrealista. I due performer diventano come due coinquilini che condividono luoghi e abitudini quotidiane, mostrandoli al pubblico attraverso gesti e spostamenti insoliti, perché il loro è uno spazio costruito su fragili coordinate architettoniche ma anche, inevitabilmente, relazionali. Il linguaggio, di certo corporeo, ma sempre e comunque evocativo, è quello del circo contemporaneo, col quale si assiste ad una contaminazione di generi: tecnica acrobatica, danza e teatro. È qui che risiede il superamento dell’impostazione classica intesa come singola prodezza, a favore di una drammaturgia di più ampio respiro, in grado di raccontare una vera e propria storia. La rappresentazione, questa sfida alla gravità, assume i modi di una ricerca sulla condizione del corpo in sospensione, ma è anche
esplorazione dello spazio aereo come luogo abitabile e, perché no, accogliente: l’ingegneria della “casa” si basa sulla distribuzione delle forze e la vita si sviluppa in armonia con la struttura, proprio come accade ad Ottavia, la “città della rete” di Calvino. Ogni intersezione, ogni nodo della rete vibra all’unisono, rendendo gli inquilini fortemente connessi tra loro. E il movimento degli acrobati, il loro continuo annodare e districare il nido di corde, fa sì che la casa trasmuti in un’altra casa ancora, e così via, in un gioco di costruzione e disfacimento potenzialmente infinito. Solo nella seconda parte della performance le linee mobili vengono sciolte, restando singole e perpendicolari al terreno. Ed è in questa verticalità riscoperta che risiede l’ulteriore possibilità della creazione, di nuovi incontri e allontanamenti, entro una tela che mai diventa ragnatela, trappola. Suggestive le musiche di Marcello Gori che accompagnano la coreografia e la drammaturgia di Lara Guidetti. Non è possibile assistere allo spettacolo senza desiderare di essere lassù, a scoprire una dimensione sconosciuta, a vivere (anche noi) una simbolica quotidianità, magari tra una tazza di tè virtuale, un contatto reale…
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LA SFIDA DELLA STREET ART L’esperienza di David Campana-Panic La street art è lungi dall’aver toccato il suo punto di saturazione. Ogni giorno le città, ma anche gallerie ed ambienti di ogni tipo esibiscono questo volto fatto di colore e forme nuove. E si potrebbe mettere nel mazzo degli assi anche l’esperienza dell’artista marchigiano, David Campana (Panic è la sua tag), al quale abbiamo rivolto le nostre curiosità circa questa forma d’Arte (e ci piace nominarla con la Maiuscola) e la sua componente eversiva, nonché di sfida socio-culturale. “La parola ‘sfida’ ha in sé il concetto di competitività” – dice David – “e direi che la street art, intesa come evoluzione e naturale conseguenza della pop art, sopratutto nella definizione di ‘pop’ inteso come ‘popolare’ (cioè di tutti), abbia stravinto la sfida socio-culturale; d’altra parte, già alla fine degli anni ’70 nel South Bronx, era nata Fashion Moda che, più che una galleria d’arte, era una vera e propria organizzazione artistica che ha allestito le prime mostre in cui le opere esposte provenivano dall’arte di strada di quel periodo, cioè i graffiti”. Così la street art ha abbandonato la sua specificità di arte della strada, per entrare (anche) in spazi chiusi, dove siamo abituati all’osservazione di opere che resistono al tempo, e dunque: come ci si pone di fronte al dualismo tra conservazione di un’opera e l’effimero, implicito
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in questo tipo di arte? David spiega che “in una società, dove le dimensioni di spazio e tempo si accorciano sempre di più, anche il concetto di arte viene rivalutato, creando nuovi valori e nuovi canoni di bellezza. E anche lo stesso fine ultimo dell’arte, cioè la ricerca dell’infinito, attraversa un nuovo percorso, non più basato sulla persistenza nel tempo, ma sulla sua continua replicabilità”. Forse esistono ancora persone ritrose nei confronti della street art, ma in fondo che importa: non so quanti anni dovette penare, Cézanne, per essere preso sul serio come pittore. La vicenda artistica di David, che transita dal “fuori” al “dentro” e viceversa, prende le mosse dal suo sentire, ma anche dai mass media, dalla televisione e dalle pubblicità: “Di lavoro faccio il grafico pubblicitario e sicuramente questo ha influenzato e influenza parecchio la mia pittura. Alla base di ogni dipinto c’è comunque una costante tensione tra una condizione di omologazione socio-culturale ed uno spaesamento individuale che, per quanto possibile, reclama una propria indipendenza attraverso un atteggiamento, in qualche modo provocatorio, che vuole scuotere un tessuto sociale quasi totalmente atrofizzato”. La sfida di David, la più ambiziosa, in ragione di un confronto coraggioso (quello con l’Alighieri
Articolo di Elisabetta Cerigioni
della Commedia), resta il progetto intitolato MEDIA.COM 2014 (La Divina Commedia in versione contemporanea), vale a dire la mostra (spry on canvas) allestita in una chiesa di San Ginesio: “Che cos’è la Divina Commedia se non la storia dell’essere umano e del suo rapporto con l’aldilà? Nella società contemporanea questo rapporto ha assunto un carattere sicuramente diverso rispetto a 700 anni fa. L’avvento dei nuovi mass media ha fatto sì che ‘la conoscenza’ sia immediata e a portata di tutti, causando così un sovradosaggio di informazioni che ha scardinato le abitudini, i ritmi e i valori di un tempo. Oggi quello che conta è APPARIRE e ad assumere un ruolo fondamentale non è più il messaggio bensì ‘il messaggero’. Di conseguenza anche il rapporto con l’aldilà entra in crisi e viene quindi ridimensionato ad una condizione paradossalmente più effimera dell’immagine dentro lo schermo…”. C’è anche il fatto che vedere dei dipinti a bomboletta per molti possa essere una novità sorprendente. Perché non tutti ancora lo sanno. E allora speriamo di vedere presto tante mostre di questo tipo e tanta gente andare a vederle, magari non con quell’espressione sfasata e imbambolata di chi va per musei, senza nemmeno l’obbligo di capire, perché magari è domenica e non ha nemmeno pagato il biglietto.
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Articolo di Elisabetta Cerigioni
OSCENO IN SCENA Pianto, riso ed eccitazione sessuale sono tre reazioni involontarie che una rappresentazione può suscitare nel pubblico. Mentre i primi due sono stati ampiamente accettati e codificati nel teatro tragico e in quello comico, il terzo no: il sesso è immediatamente diventato osceno. Come se non bastasse, la sfida della sessualità per la conquista del palcoscenico è stata affiancata dal ruolo della donna, tanto che i corpi femminili sono stati ben presto allontanati dalle scene, anche nei momenti di massimo splendore dell’arte scenica: nell’antica Grecia, nell’Inghilterra elisabettiana, nel Giappone del No e del Kabuki… Si dice che la “scena oscena” sia nata nella Francia pre-rivoluzionaria del XVIII secolo, dall’incontro tra il potere aristocratico e il libero pensiero. Siamo nelle petites maisons che ospitano il théâtre de societé. Qui, proprio l’aristocrazia, assiste ai cosiddetti spettacoli “clandestini” o “libertini”. La rivoluzione francese spazzò via questi divertimenti e in una società di benpensanti diventò più opportuno evocare la sessualità
con sapienti metafore, come nella Signora delle camelie di Alexandre Dumas (1849) dove l’alternarsi di petali bianchi e rossi indica la disponibilità sessuale di Marguerite Gauthier. Tuttavia fu sempre a Parigi che il teatro dell’erotismo riprese vigore, durante la seconda metà dell’Ottocento, con l’apertura del Théâtre erotique de la rue de la Santé. Ma la vera rivoluzione (ma anche liberazione) sessuale si verificò a metà del secolo scorso, tra spettacoli “a luci rosse” e artisti e musicisti che rompono i tabù: la violoncellista Charlotte Moorman si esibisce a seno nudo, Marina Abramovic e Ulay inventano Imponderabilia (1977), la performance durante la quale gli spettatori, seguendo il percorso della mostra, devono passare tra i loro corpi nudi. E mentre nel 1956 la Rai censurava la trasmissione La Piazzetta, perché una danzatrice indossava una calzamaglia color carne (la televisione allora era ancora in bianco e nero!), gli spettacoli di tradizione, come il can can o le sfilate delle ballerine al termine dei varietà, subiscono variazioni e l’ostentazione del
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corpo e la sessualità vincono la sfida contro il Tempo, imponendosi nell’epoca nuova: le nappine sui seni resistono… resistono… ma, alla fine cadono giù. L’escalation è ormai in atto: il fallo eretto sul capo di una delle attrici in Andy Warhol’s Last Love dello Squat Theatre (1978), O. F. ovvero Orlando Furioso impunemente eseguito da Motus (1988), vale a dire un Ariosto riletto in chiave sadomaso, e poi l’artista Andrea Fraser che registrò nel video Untitled (2003) l’amplesso in una camera d’albergo con un collezionista, il quale avrebbe pagato 20.000 dollari per una delle cinque copie del video; o ancora Imitation of Death di Ricci/Forte (2012) in cui vi è un attore che ne trascina un altro prendendolo letteralmente per il sesso. Le arti e il teatro hanno ormai assunto piena autonomia, l’erotismo e la trasgressione a tutti i costi diventano normalità e quasi quasi iniziano anche a perdere di efficacia. Ogni cosa è lecita. Non bella. Né brutta. Liberi tutti, che ognuno si sfoghi come gli pare.
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adv@the-fridayproject.com
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Intervista a cura di Maria Luisa Spera Foto Francesca Tilio
PINK PROJECT Francesca Tilio Una parrucca, una serie di foto “in rosa”, un progetto fotografico, il Pink Project, che non è solo espressione artistica ma soprattutto un percorso di guarigione. Cos’è si sa già, ma cosa rappresenta il Pink Project per Francesca? La mia riscossa e la mia rinascita. La nascita del Pink Project è coincisa casualmente e incredibilmente con quella di mia figlia dentro di me. La mia vita e quella del PP hanno percorso strade perfettamente parallele e mi rassicura pensare di continuare a fotografarmi nel tempo, perché è un obiettivo poetico, e ho bisogno di poesia e leggerezza in questa vita.
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Quella nelle foto sono io, ma potrei essere chiunque. Sono un’aliena vestita di rosa, un simbolo, un personaggio che si muove nei luoghi del mondo. Ad un certo punto poi appare Dora, la mia bambina. Prima nella pancia, poi piccolissima in braccio e poi sempre più grande. Oggi ha tre anni, e sa che scattare la foto in rosa, durante i nostri viaggi, è un momento fondamentale, divertente e solo nostro. Quando poi le foto diventano mostra itinerante, allora quelle non siamo più noi, ma una rappresentazione fotografica della nostra speranza e della nostra voglia di vivere. Quando hai iniziato, indossando quella parrucca rosa, ti aspettavi tutto questo seguito? No, assolutamente. Ho riflettuto parecchio sul fatto di renderlo pubblico, perché farlo voleva dire parlare a tutti della mia malattia. Sono passati anni tra il mio cancro al seno e l’inizio del progetto. Ne hanno parlato le maggiori testate italiane, web e cartacee. Sono felice di averlo condiviso, perché da quel momento sono arrivate solo cose belle. Mi è servito a metabolizzare un momento brutto della mia vita e ho sperimentato come l’espressione artistica sia un’importante strada per la guarigione. Chi conosce il PP sa che una parte fondamentale del progetto sta nella performance, quando fotografo le donne che partecipano alla mostra con la parrucca rosa. In quel momento il progetto si moltiplica e diventa veramente di tutti. Hai già in mente nuove idee per sviluppare ulteriormente il Pink Project? Hai già pensato a nuove possibilità di espressione? Il PP si svilupperà, cambierà forma e comunicazione, ne sono certa. Dovrà anche camminare da solo. In questo momento non posso dire in quale modo lo farà, ma sono certa che succederà.
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Ti sembrerà forse una domanda fuori luogo, considerato che stiamo parlando di “pink” Project, ma abbiamo deciso di chiedertelo ugualmente, hai mai pensato di rivolgerti anche ad un pubblico maschile, per sensibilizzare anche l’“atra parte”, scattando dunque anche a soggetti uomini? Ho sempre pensato che il PP sia per un pubblico eterogeneo. La fotografia è un mezzo universale, che arriva a tutti. Sono stati forse gli uomini i maggiori estimatori delle mie foto. Il messaggio arriva a uomini e donne, magari in modo diverso. Ma ognuno trovi il senso che vuole. Lo dico sempre quando inauguro una mostra, che il PP è prima di tutti un progetto fotografico e che non è per forza legato al messaggio di lotta al cancro al seno. Una bella foto lo è per tutti, spero. Ci sono state reazioni di donne che hanno indossato quella parrucca che non ti aspettavi, positive o anche negative? Solo bellissimi ricordi legati alle donne fotografate durante la performance. Tutte, in maniera differente, mi hanno lasciato qualcosa. La bellezza di averle fotografate è stata proprio quella. Molte l’hanno fatto per loro, altre per una loro amica o un loro familiare, altre ancora per divertimento. Quel momento veloce, intimo, il tempo di uno scatto, è la miglior testimonianza di successo. Molte di queste donne si sono sentite più forti, più coraggiose e piene di speranza nei confronti di una malattia che fa ancora tanta paura. E grazie a loro sono diventata più forte anch’io.
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Interviste a cura di Maria Luisa Spera ed Elisabetta Cerigioni
OLTRE LE NOTE Quando il talento entra in sfida con il presente Probabilmente senza la musica la vita sarebbe impossibile, addirittura un errore. Ma quanto è difficile fare musica oggi? Tre donne, tre musiciste, tre splendide cantanti raccontano il loro mondo e il proprio modo di fare musica. Lasciamo la parola a Levante, Marina Rei e L’Aura‌
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LEVANTE
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Foto Riccardo La Valle
Il nostro numero parla di Sfide, un argomento che riguarda davvero chiunque. Tu sei una cantante, una musicista, ma quanto è difficile fare musica in Italia adesso? Fare musica in Italia (e nel mondo) non è mai stato così facile come in questo periodo storico, lo possono fare tutti, da casa, registrandosi, con un semplice upload arrivi nelle case della gente. Vivere di musica in Italia, in questo periodo storico, è un micro dramma, considerando che non si vive delle vendite dei dischi ma si fa il disco per fare il tour. Far bene le cose è sempre molto difficile; io, caratterialmente, non demordo e ambisco al massimo. Sappiamo che in passato hai ricevuto proposte discografiche che tuttavia rischiavano di allontanarti dal tuo modo di fare musica, addirittura a Leeds ti volevano come cantante soul; molti avrebbero accettato in nome di un immediato successo, tu no! Perché? Cosa ti ha spinto a credere che, proprio in Italia, prima o poi,
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qualcuno ti avrebbe rivolto una proposta interessante? Io nella mia vita ho sempre rifiutato (dopo alcuni importanti insegnamenti dovuti a scivoloni pazzeschi) tutto ciò che non mi rendeva realmente felice. La musica è (e sempre lo sarà) motivo di cura e di gioia. Detto ciò, non scendo a compromessi. A Leeds si erano fatti un film gigantesco su “cosa” sarei potuta diventare e soprattutto la situazione puzzava di marcio… così sono ritornata a casa ma non con la convinzione che qualcuno mi avrebbe rivolto una proposta interessante, tutt’altro! Sono ritornata più triste che mai, con il tempo che mi scivolava dalle mani e non mi dava mai una vera chance. Poi ho incontrato Dade (Linea77) che mi parlò di una nuova etichetta che stava per nascere dal nome INRI. Il resto lo sapete già! Ci vengono in mente due brani decisivi: Alfonso del 2013 e Finché morte non ci separi, contenuta nell’ultimo album, dove duetti con tua madre. Come sono nate? Raccontaci la storia di questi due pezzi, diversissimi e al contempo significativi. Che poi forse, è un po’ la storia dei due album… Alfonso è nata nel 2012. Ero triste (ma va?) ma l’ironia non m’è mai mancata. Così, in un periodo di incompiutezza totale (in cui mi sentivo un pesce fuor d’acqua in ogni situazione, perché desideravo qualcosa di più di quel tempo trascorso da tutti al pub, tra gente con un bicchiere d’alcol in mano, serate passate a fare gossip o a dimostrare di essere chissà chi) ho
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scritto un sonoro “che vita di merda”. È girata voce che c’era questa matta che cantava un ritornello simile, INRI mi ha portata alle orecchie importanti e curiose, e da lì il cambiamento: finalmente lavoravo con quella che è da sempre stata la mia più grande passione, la musica. Finché morte non ci separi è il grazie più grande che potessi dire a mia madre, forse tutti quelli che non sono mai stata in grado di dirle. Avevo parlato a lungo di mio padre, della sua scomparsa, di me bambina triste e inconsolabile. Poi però, in maniera assolutamente naturale, sono riuscita a raccontare di quella ragazzina diventata donna e poi mamma che mi aveva dato tantissimo, a volte anche silenziosamente, e che era rimasta a guardarmi diventare sempre più grande. Le dovevo tutto questo. La ciliegina sulla torta è stata farla cantare. Che eleganza mia madre, stupenda! Questa canzone è fondamentale per mille motivi, ma segue in perfetto equilibrio il tema di Abbi cura di te e dell’amore sotto tutti i suoi infiniti aspetti. Due album, Manuale Distruzione (2014) e Abbi cura di te (2015), tour, collaborazioni, dunque tantissimo lavoro in soli due anni. Siamo curiose di conoscere quale sia il tuo modo di lavorare, insomma, come è possibile tutto questo? E come si concilia con la sfera privata di una donna ancora così giovane? Due dischi, un terzo in arrivo, un lavoro di cui ancora non posso svelare nulla, collaborazioni, un matrimonio, in tour da tre anni. Sì, non mi fermo! Si concilia quando anche il tuo mondo
si incastra con i tuoi impegni; chi mi vuole bene lo sa che questa è la vita che ho scelto di fare e quindi ci si vede e ci si sente quando si può! Io, comunque, di mio sono sempre stata una con la testa sia per aria (nella mia stanza, mentre compongo) che a testa bassa quando si tratta di fare cose più “pratiche”! Insomma, ho sempre lavorato molto ma senza un metodo. Faccio quello che sento e se non ho voglia rimando a domani. Infatti sono sempre di corsa! Hai aperto i concerti di Max Gazzé, dei Negramaro, Fiorello ti ha invitata all’edicola con l’uscita dell’album Manuale Distruzione, quest’ultimo viene premiato come migliore opera prima dall’Academy Medimex, sei stata selezionata tra i finalisti degli EMA… insomma, vi è un episodio, un “dietro le quinte” curioso che vuoi condividere con noi? Voglio condividere con voi una storia dell’11 luglio 2013 a Piazzola sul Brenta. Era la mia prima data, voce e chitarra, su un palco sì tanto grande e avrei aperto il concerto di Max Gazzè quella sera. Prima di salire i gradini del palco, per fare il sound check dopo di lui, lo vidi di spalle con il suo basso a tracolla mentre provava i suoni. In quel momento, per la prima volta mi resi conto che la vita stava iniziando a saldare il suo debito. Stavo per aprire il concerto di uno dei cantautori più bravi d’ Italia… perché una musica può fare… può fare molto. Grazie di cuore L.
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MARINA REI
Il tuo modo di fare musica è di certo fuori da qualsiasi stereotipo, specie da uno stereotipo mediatico, in che modo si fa fronte a questa sfida con (o contro) la discografia contemporanea? La discografia contemporanea rincorre solo personaggi televisivi, canzoni radiofoniche e duetti appetibili e costruiti a tavolino. Chi vuole fare musica, per l’esperienza e la conoscenza, e per arricchirsi d’animo, deve affrontare un percorso duro e molto diverso da quello che ci propina la televisione. Ma un percorso di altrettante, grandi soddisfazioni. Bisogna stringere i denti e fare da soli, sobbarcandosi di ogni responsabilità. Non è affatto facile, che si sappia. Ma oggi più che mai è importante resistere e ribellarsi alla smania di apparire piuttosto che essere. Per noi, ma forse per chiunque lo abbia ascoltato, anche l’ultimo disco, Pareidolia, è una grande sfida: diversi generi musicali (rock, ballad etc.), il sapore di un transito nelle profondità del sé e poi, ancora, di
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Rubrica curata daFoto Chiara Laura Casciotta Penna
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risalita verso l’esterno, quindi l’uso di parole sussurrate e viceversa gridate o colme di rabbia… Vi è anche l’altro grande confronto, quello di una proposta importante: la rilettura di Annarella dei CCCP…
Pareidolia è un disco di rottura. Un disco che ha una storia molto profonda. La mia collaborazione con Giulio Ragno Favero nasce dall’incontro delle nostre sensibilità e dalla voglia di metter da parte i pregiudizi con cui il mondo convive ogni giorno, per aprire le nostre anime ad un’esperienza comune, utilizzando il linguaggio universale della musica. È stato uno dei viaggi più belli e significativi della mia vita, in cui ognuno di noi ha mostrato all’altro la propria visione. Per quel che riguarda Annarella, è stato Giulio ad insistere perché la inserissi nel disco. La cantavo dal vivo, e quando venne ad ascoltarmi durante un concerto, mi disse “la devi mettere nel disco”. Ultimamente ho letto un apprezzamento di Gianni Maroccolo per la mia interpretazione della canzone, ed è stata una gioia che neanche immaginate. Noi di The Friday Project siamo una realtà, si potrebbe dire, al femminile, sei ragazze che si stanno reinventando: anche la nostra
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è una sfida contro la contemporaneità; facendo una piccola capriola all’indietro, abbiamo pensato all’album del 2009, Musa, rivolto a figure femminili dal carattere “di metallo”, energiche. Quali sono le ragioni del disco, il suo messaggio? E perché, magari, non un disco sugli uomini!
Musa è nato da un’esigenza personale, volevo dar luce al mondo femminile nella sua interezza. Nello specifico è un disco che ruota intorno a Donna che parla in fretta, tratto dalla poesia di Anne Waldman che ho poi musicato. Un disco al femminile mi appartiene, per sensibilità innata. Guardando alla mia discografia, ci sono canzoni come I miei complimenti che non sono dedicate agli uomini ma che ne parlano in virtù di esperienze personali. Ancora un salto in dietro; sappiamo che Al di là di questi anni è un brano, splendido per altro, un grande successo, a cui sei legata a “doppio filo”, un pezzo decisivo per te; non possiamo non chiederti il perché… È la canzone che mi ha riconosciuto il primo grande riscontro di pubblico e di critica, per cui non posso non averlo a cuore.
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L’AURA
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Foto Stefania Mariposa D’Ambrosio
Il nostro numero parla di Sfide, un argomento che riguarda davvero chiunque. Tu sei una cantante, una musicista, ma quanto è difficile fare musica in Italia adesso? È difficile, ma non impossibile. Bisogna essere determinati e organizzati. E avere molta umiltà e capacità di fare auto-critica. E anche una buona dose di culo, si può dire? Sono passati 10 anni dal tuo album d’esordio Okumuki; quella volta, come ti sei definita anche nel tuo Blog personale, eri una “ragazzina timida e scazzata”, oggi sei una mamma; come, tutto questo, ha determinato il tuo modo di fare musica? Oggi ho molte più cose a cui pensare e molta gente con la quale interagire quotidianamente, quindi non ho né tempo, né modo di essere timida o “scazzata”, però sì, immagino di averlo detto, purtroppo! Diventare mamma mi ha cambiata, anche se spero di non diventare quel genere di donna che sacrifica le proprie passioni in nome della famiglia.
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Fare musica e coltivare una grande passione è un enorme regalo che le persone che mi seguono da tanti anni mi hanno donato, ed io sarò sempre riconoscente e fedele a chi ha riposto in me fiducia, e non tradirò queste aspettative. Oggi provo ad essere più ordinata ed equilibrata, e ce la sto mettendo tutta per il bene della mia musica e della mia famiglia. Ti sei messa alla prova tantissime volte, non solo cantando i tuoi brani, ma anche con cover impegnative: Life on Mars? di David Bowie, Bocca di Rosa di Fabrizio De André, e poi le collaborazioni e i duetti con cantanti e band importanti, quali i Marlene Kunz, Gianluca Grignani, Enrico Ruggeri, Laura Pausini, Malika Ayane, hai aperto i concerti di Ben Harper, dei R.E.M., di Alanis Morissette… con quali altri artisti vorresti esibirti o collaborare? Mi piacerebbe collaborare con Fiona Apple e aprire i concerti di Paul McCartney. È lecito sognare, no? Ci incuriosiscono altre esperienze, ad esempio quelle televisive o cinematografiche; come è stato collaborare con Disney e “prestare” la tua voce anche alla serie televisiva Braccialetti rossi e al film Maschi contro femmine/femmine contro maschi? Ci sono aneddoti intriganti che vuoi condividere coi nostri lettori? Nel caso di Disney è stato un piccolo sogno divenuto realtà! Pensate che la prima canzone cantata in pubblico, quando avevo 10 anni,
era proprio tratta da La sirenetta! Spero di collaborare ancora con Disney, perché amo le loro produzioni, e vorrei far felice mio figlio, cantando la colonna sonora di uno dei suoi cartoni animati preferiti. Per quanto riguarda la serie TV Braccialetti rossi, molti dei brani scritti e interpretati dal mio amico cantautore Niccolò Agliardi sono stati incisi proprio nel “WhiteStudio”, lo studio di registrazione di mio marito qui a Cremona, dove attualmente viviamo. Quando Niccolò è passato a registrare le voci definitive mi ha semplicemente chiesto se mi andasse di dare un piccolo contributo, e così ho fatto. Sono sempre felice di collaborare con Niccolò, perché amo ciò che scrive, e perché è solo grazie a lui se mi sono sposata e ho avuto Leo. È una lunga storia, ve la racconterò meglio la prossima volta! Parlaci di quest’ultima sfida, il nuovo album Il contrario dell’amore che tu hai definito una “commedia musicale”. Per ora non posso dire molto, se non che è un lavoro molto energico, e che ha un legame maggiore con i miei primi due dischi. Credo sia il disco più forte e completo che abbia mai realizzato, e non vedo l’ora di portarlo in giro per concerti! Grazie per il vostro tempo e a prestissimo!
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UN FIORETTO A CINQUE CERCHI Giovanna Trillini parla con Tfp
Alle soglie delle prossime occasioni olimpiche (Rio-2016) accogliamo con orgoglio una delle voci più rappresentative dello sport italiano. La voce di chi di sfide se ne intende davvero. Fortissima, fuori classe e con tante medaglie al collo (ed è troppa la voglia di ricordarle tutte: oro individuale nel 1992, argento nel 2004 e due bronzi, nel 1996 e nel 2000; e poi ancora tre ori consecutivi nella prova a squadre dal 1992 al 2000 e il bronzo di Pechino nel 2008) Giovanna Trillini si racconta, riportando alla nostra memoria tutto il suo carisma: lo stesso con cui entrava in pedana, armata di fioretto e infallibile talento. E quando le chiediamo cosa pensa della sua carriera “a cinque cerchi” ci risponde: “la percezione di quello che hai fatto la comprendi a freddo, cioè dopo un po’ di tempo. Nella mia carriera ho vinto molto, probabilmente il segreto è stato proprio quello di non guardare mai indietro e cercare comunque di andare sempre avanti, divertendomi”, aggiungendo: “sono contenta della
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mia carriera e non cambierei niente… anche le sconfitte, mi hanno fatto crescere come donna ed atleta”. Giovanna resta un brillante esempio di sportività, quella vera, non solo dichiarata ma tutta scoperta, come accaduto ad esempio a Pechino, quando ha chiesto - e sono ancora parole sue - “al Commissario Tecnico di far tirare Ilaria Salvatori nella gara a squadre per poter vincere tutte la medaglia”. Per tutte queste ragioni, di successo, carattere e lealtà, adesso che la campionessa è passata dall’altra parte, vale a dire al ruolo di preparatrice atletica e allenatrice, le chiediamo come mai non abbia mai pensato di scrivere un libro sulla sua storia. “Da atleta ho partecipato a diverse trasmissioni divertenti” - ci racconta Giovanna - “ma comunque non ho mai pensato e ad oggi neanche voluto scrivere un libro su di me”. Insomma, non ci resta che sperare che questa donna di vittorie accolga il nostro invito, perché a noi le sfide piacciono e ci piace sentirne parlane, specie da chi se ne intende davvero.
Articolo di Elisabetta Cerigioni Foto Archivio Coni
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ROBYDAMATTI Il trekking è uno sport appassionante ma che può essere estremamente duro e faticoso. Una vera e propria sfida, soprattutto se come Roberto Bruzzone scali montagne e attraversi paesi con una gamba sola. Come è nata la passione per il trekking e l’idea di metterti alla prova con sfide così impegnative? L’idea del trekking nasce quasi per esigenza: dopo aver calzato la prima protesi mi cimentai nell’atletica su pista, ma dopo qualche tempo il campo d’atletica iniziò a starmi stretto e quindi decidemmo di uscire, di fare qualcosa nella natura… A quel punto, dopo alcune camminate, mi appassionai talmente tanto da farne la mia vita. Che cosa cerchi nelle tue imprese? Nelle mie imprese cerco emozioni e tutto il “mondo vero” che ci circonda. Cerco il brivido e ogni cosa che la natura offre, ma ricerco soprattutto il limite con me stesso e la sfida di riuscire a sopravvivere in posti ostili. Nell’ultima tua impresa hai attraversato Perù e Bolivia, percorrendo 1895 km a piedi, arrivando ad un’altezza di 5228m, il tutto in completa autogestione. Come ti prepari fisicamente e mentalmente ad affrontare queste sfide? Di solito, se devo affrontare una traversata come quella tra Perù e Bolivia, mi concentro molto sulla percorrenza giornaliera, quindi mi alleno per arrivare a percorrere anche 30 Km al giorno in tutte le condizioni.
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Percorro tante salite e discese sterrate, per abituarmi agli sforzi e agli equilibri, e infine cerco di stare il più possibile sopra i 2000 m di quota, per abituarmi all’ossigenazione dei muscoli. Mi alleno molto anche mentalmente, per sopportare il dolore alla gamba, attraverso una serie di metodologie di concentrazione e motivazione che mi permettono di distogliermi dal dolore fisico. Come si prepara un viaggio simile? Studi le tappe in anticipo o improvvisi completamente? Il lavoro per organizzare un viaggio del genere è molto meticoloso, si studia il percorso e le ipotetiche tappe, si cerca di capire a grandi linee se si incontrerà acqua e dove, se ci saranno grandi dislivelli o anche animali pericolosi. Oltre a questo ci sono i visti, i permessi per eventuali parchi naturalistici protetti, l’organizzazione di possibili spostamenti interni, il controllo meteo etc. Che cosa consigli a chi è affascinato e attratto da questi trekking “estremi”, per avvicinarsi a questo tipo di attività? Come tutte le discipline e gli sport ci vuole dedizione e coraggio, ma quando si ha a che fare con gli sport all’aperto bisogna avere tanto rispetto per la natura e gli animali, sapere
Intervista a cura di Laura Ferrari
come ci si comporta e provare… a piccole dosi: inizialmente uscite di un giorno, poi sempre più lunghe, per prendere coraggio e poter iniziare a fare uscite di più giorni, in tenda o in rifugio… tutto il resto è una conseguenza. La tua prossima sfida? Di solito non amo parlare troppo in anticipo delle prossime sfide ma, dato che proprio in questo periodo ho incontrato persone che vorrebbero darmi una mano nel realizzarla, questa volta mi sbilancio e vi dico che stiamo studiando la traversata della Nuova Zelanda, da sud a nord, per un totale di circa 2300 Km.
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Chiara Casciotta
Architetto di professione ma creativa nel cuore, una ne pensa e cento ne fa.
Laura Ferrari
Pr & event planner, digital addicted, esperta nel far diventare un sogno realtĂ , trasformando ogni evento in un'esperienza unica.
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La redazione di The Friday Project
Elisabetta Cerigioni
Copywriter errante con la passione del dietro le quinte, la letteratura è il suo cavallo di battaglia ma la devozione per il palcoscenico la rende una docente atipica.
Laura Novara
Fotografa innamorata dei chiaroscuri, paladina della celebrazione del ricordo come apoteosi dell’amore.
Maria Luisa Spera
Graphic designer con una laurea in pubblicità, diy dipendente e con una cronica difficoltà a star ferma.
Laura Ravetta
Web & graphic designer che vive sulle nuvole, guarda il mondo con curiosità e si perde facilmente in mondi virtuali.
Alessandro Rocchetti
Avvocato nel titolo, per lui la fretta è una costante, il tempo si ferma solo quando è in sella alla sua Vespa o allo stadio.
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Redattori Chiara Casciotta Elisabetta Cerigioni Laura Ferrari Laura Novara Laura Ravetta Maria Luisa Spera collaboratori Benedetta Consonni Roberta Deiana progetto grafico Maria Luisa Spera fotografie Archivio Coni Nicola Borghini Francesco Brunelli Riccardo La Valle Stefania Mariposa D’Ambrosio Laura Novara Laura Penna Francesca Tilio
revisione testi Elisabetta Cerigioni Note Legali Alessandro Rocchetti
Rubrica curata da Chiara Casciotta
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