METAMORPHOSIS N.7
METAMORPHOSIS
Ciascun artista dovrebbe sentirsi come Dio nell’atto della Creazione: onnipotente. Perché l’Arte ha la capacità di dare origine al nuovo e di cambiare forma all’esistente. Perché non vi è nulla di fermo, di stabile, di duraturo nell’Universo. “Perché una realtà non ci fu data e non c’è; ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere; e non sarà mai una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile”. L. Pirandello. Uno, nessuno e centomila.
INDICE
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MATILDE SOLBIATI, IDENTITÀ E METAMORFOSI
METAMORFOSI ESTETICA
TEMPORARY IDENTITIES
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LE METAMORFOSI DI FAVARA
MORPHEUS
IL RAP CHE MI DÀ QUELLO CHE CERCO
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I GIOIELLI VIVI DI DIAN
LOTTOZERO
BENEDETTA MARIOTTI, DIETRO LA FOTOGRAFIA
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LA DANZA DI ARACNE
INTERVISTA AD ADAM HALE
LA CARTA DI DANIELE PAPULI
77 UNA SIRENA, QUANDO LA REALTÀ DIVENTA SOGNO
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Ph.Nadja Schmid, Linda Suter
FREITAG di Laura Ferrari Per raccontare la storia di Freitag dobbiamo tornare al 1993, quando i Freitag Bros, Daniel e Markus, erano ancora solo due giovani graphic designer con tanta creatività e lo “sviluppo sostenibile” era un’espressione di scarso interesse mediatico. È in quell’anno che in un piccolo appartamento di Zurigo con vista sull’Hardbrücke nasce la prima borsa Freitag, la Messenger Bag – F13 TOP CAT -. E come spesso succede, è proprio da un’esigenza che arriva l’idea: realizzare pratiche e resistenti borse impermeabili, adatte ai ciclisti metropolitani, sfruttando vecchi teloni di camion, cinture di sicurezza e camere d’aria. Torniamo al 2016, più o meno 23 anni dopo. La Messenger Bag F13 TOP CAT la trovate ancora nei negozi, nei 12 F-Store di proprietà e in altri negozi selezionati del mondo, ma la potete anche ammirare al MoMA di New York, nella galleria di design. La produzione è rimasta a Zurigo ma occupa un intero stabilimento a nord della città e i pezzi prodotti in un anno sono diventati circa 300.000. Come ogni grande impresa, anche questa è stata portata avanti con passione e convinzione da due menti creative e visionarie che hanno saputo trasformare il concetto di sostenibilità ambientale in un progetto a lungo termine e a dargli respiro grazie ad una visione globale.
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Ph. Roland Tännler
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“Siate gentili con il vostro prodotto Freitag e lui si comporterà come un vero amico svizzero: sarà modesto, affidabile e sempre a disposizione quando ne avrete bisogno”.
Ph. Laura Novara
Un progetto che continua ad avere lo stesso obiettivo da ormai piÚ di 20 anni: allungare il piÚ possibile il ciclo di vita dei materiali dando vita a borse ed accessori riciclati e perciò in qualche modo imperfetti ma meravigliosamente pezzi unici.
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DENTRO LA PRODUZIONE di Laura Ferrari Ogni produzione è un viaggio affascinante. Ci innamoriamo dei prodotti finiti, di quello che rappresentano, delle sensazioni che ci trasmettono quando finalmente li possediamo. Ma quante volte ci fermiamo a pensare al processo di trasformazione delle materie grezze che si nasconde dietro la fredda e generica parola “produzione”? Questa volta no, la parola produzione non resterà un concetto astratto e freddo. Voglio dargli colore, associargli odori, rumori e perché no, volti. Siamo arrivati, e la curiosità mi assale: chissà cosa si cela dietro al Nœrd, lo stabilimento a Nord di Zurigo in cui vengono prodotte le borse e tutti gli accessori Freitag. Entrando riconosco subito l’odore che mi fa compagnia da quando ho scelto una borsa Freitag come compagna di viaggio: è quello dei teloni dei camion, solo che qui è molto più intenso e riempie l’ambiente. E i tantissimi pallet stracolmi di teloni appena arrivati ne sono la ragione principale. Eccoli quindi pronti per iniziare il processo di metamorfosi che trasformerà queste vecchie e sporche coperture per i camion in quello che qui da Freitag chiamano R.I.P. ossia Recycled Individual Products. Uno alla volta, i teloni vengono stesi su un tavolo per essere prima privati degli occhielli di metallo, delle varie cinghie e di tutte quelle parti inutili per la creazione della nostra borsa e poi tagliati in pezzi più piccoli più facili da lavorare. 12
addetti al lavoro non scuciranno una parola su questo! Nel frattempo anche il secondo lavaggio è terminato e possiamo stenderli e farli asciugare, e per non utilizzare energia viene usata solo aria fredda. Ora che hanno riacquisito l’aspetto originale con l’aggiunta di una patina vintage, vengono fotografati e catalogati per colore prima di essere messi a disposizione dei Bag Designer. Riprendo l’ascensore e torno al piano terra, ma questa volta il mio obiettivo è il reparto design. È qui che le borse iniziano a prendere forma. È qui che ti rendi davvero conto di quanto ogni borsa sia unica, speciale, un vero e proprio pezzo unico. Ph. Laura Novara
Il brand Freitag è diventato famoso per il suo impegno verso una produzione sostenibile, ed è bello scoprire che questo impegno è reale e globale e non si limita all’utilizzo di materiali di riciclo. Già in questa prima fase mi rendo conto di quanto sia una priorità per l’azienda produrre limitando il più possibile il proprio impatto ambientale. È così che scopro che il 50% del peso degli scarti viene riciclato: il metallo viene mandato ad un centro di riciclaggio, mentre gli scarti dei teloni sono spediti in Francia alla Ferrari, un’azienda che lavora materiali sintetici per ottenere fibre di poliestere e produrre quindi nuovi prodotti di plastica come tubi e materiali per l’edilizia. È il momento di scendere nel seminterrato, mi aspetta la lavanderia. Qui i teloni sono riportati al loro antico splendore grazie a due cicli di lavaggi che vengono fatti utilizzando rigorosamente acqua piovana raccolta sul tetto e un additivo di lavaggio segreto. Inutile fare domande, gli
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Ph. Laura Novara
Ogni borsa nasce al momento, non c’è un bozzetto da seguire. È il designer che decide come tagliare, sul momento, in base ai motivi che caratterizzano il pezzo di telone che si trova tra le mani. È un lavoro di cuore e di mano, dato che il taglio è tutto fatto a mano servendosi solo delle sagome delle varie componenti delle borse e di cutter. La cucitura è l’unica fase della produzione che non riesco a vedere, perché è l’unica che non è realizzata internamente. Le parti da cucire vengono infatti spedite a partner esperti, dislocati in diversi paesi europei come Portogallo, Francia e Bulgaria. Ma la precisione svizzera dell’azienda impone un attento controllo del pezzo finito al suo ritorno ‘a casa’, prima di essere autorizzato a lasciare finalmente il nido per esplorare il mondo.
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Ph. Laura Novara
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Ph. Laura Novara
E come in ogni famiglia che si rispetti, prima del saluto finale, c’è la foto di rito perché nessuna borsa vada dimenticata e resti per sempre negli archivi. Il mio tour sta per finire, ma prima di andare non posso non dirigermi verso il magazzino dove vengono fotografate a 360 gradi, una per una, tutte le borse destinate all’e-commerce. Sì, devo ammettere che mi sento un po’ Alice nel paese delle meraviglie quando entro e trovo più di 4.000 borse appese in fila, pronte per essere scelte dal nuovo proprietario ed essere spedite chissà dove. Dopo una mattina spesa in compagnia della Freitag Family è ora di tornare a casa. Guardo la mia fedele compagna, particolarmente apprezzata quando il tempo non è dei migliori e ancora di più, oggi, comprendo, apprezzo e amo le sue imperfezioni e il suo aspetto leggermente vintage.
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Ph. Laura Novara
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ANELLO “LABIRINTO”, TESI “EQUILIBRIO PERSONALE”, 2015 ARGENTO, GUSCIO, LACCA GIAPPONESE URUSHI, SPECCHIO, PAN DI ORO, GRANATE.
I GIOIELLI “VIVI” DI DiaN di Elisabetta Cerigioni
Diana parla con noi e ci dice che nel dizionario dei simboli alla parola “metamorfosi” precede immediatamente quella di “metallo”. Non sarà un caso. I metalli assumono il significato di energia potenziale, di trasformazione e trasmutazione. Il percorso artistico di Diana, italiana d’origine e barcellonése d’adozione, ha inizio dalle Belle Arti e trova il suo (è proprio il caso di dire) NATURALE svolgimento nella specializzazione in oreficeria artistica. Ogni cosa, per la designer e orafa, prende forma e ancor più, vita, dalla Natura che diventa cifra innovativa e di maggior pregio delle sue linee di gioielli. Stiamo parlando di più progetti, come “Equilibrio personale”, che poggia su una contaminazione di stili, perché vi è la volontà di far dialogare la tecnica orafa classica con lo sperimentalismo. Qui ciascun frammento naturale (gusci, rametti, petali etc.) ha già in sé tutta la virtù del gioiello. Ma c’è di più, perché l’oreficeria di DiaN non offre solo gioielli costruiti su elementi naturali, ma consegna all’acquirente il segreto (i semi inseriti nel monile stesso) per far rinascere la pianta da cui provengono tali materiali.
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È il progetto “Joya viva” che assieme all’elemento organico, elaborato attraverso un processo di laccatura giapponese (Lacca Urushi), include componenti di carta fatta a mano, contenente semi e in certi casi anche fiori essiccati. Il gioiello custodisce vita al suo interno, perché la carta, elemento effimero del monile, può davvero essere piantata. Un ulteriore sviluppo del progetto prevede un’altra maniera di intendere la metamorfosi del gioiello: non più il frammento di natura che diventa oggetto o quest’ultimo che torna ad essere vegetale, bensì è il gioiello stesso che col tempo si trasforma, mutando forma e aspetto. “Partendo dall’elemento effimero” – spiega Diana – “ovvero dalla carta con applicazioni di fiori o elementi secchi, realizzo la struttura del monile che servirà da base per la carta stessa. Inizialmente la parte visibile del monile sarà proprio la carta, ma col tempo le cose cambieranno, la carta potrà venir meno o venir piantata, e ciò che era la base diventerà il gioiello”. Inutile dire che i gioielli “vivi” di DiaN siano pezzi unici. Ma non sarà superfluo dire che sono unici.
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CIONDOLO “ROSA”, COLLEZIONE “JOYA VIVA”, 2016 - ARGENTO, CARTA RECICLATA PIANTABILE REALIZZATA A MANO, PETALO DI ROSA ESSICCATO, CORNIOLA (CIONDOLO ALL’INZIO E CIONDOLO QUANDO SI É CONSUMATA O TOLTA/O PIANTATA LA CARTA).
COLLANA “JOYA VIVA”, 2016. PH. JULÍA PRATS FOTOGRAFÍA - GUSCIO, LACCA URUSHI, ARGENTO, ACQUAMARINA, CARTA RECICLATA REALIZZATA A MANO PIANTABILE.
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COLLANA RIGIDA “EQUILIBRIO PERSONALE”, TESI “EQUILIBRIO PERSONALE”, 2015. ARGENTO, RAMO, LACCA GIAPPONESE URUSHI.
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Foto Lottozero
LOTTOZERO di Chiara Casciotta
UN MAGAZZINO IN DISUSO TRASFORMATO IN “CENTER FOR TEXTILE DESIGN” A Prato esiste una realtà in cui convivono pratesi e immigrati cinesi; una Chinatown, ribattezzata Macrolotto Zero, caratterizzata da un tessuto urbano ibrido in cui si trovano palazzine residenziali che si mescolano a case a schiera, capannoni industriali che si alternano a laboratori artigianali, magazzini commerciali, depositi materiali e magazzini dismessi. Arianna e Tessa Moroder nel 2012 ereditano uno locale proprio nel Macrolotto Zero, precedentemente utilizzato dal nonno grossista alimentare; il consiglio è di adibirlo a parcheggio o metterlo in affitto per la manifattura, ma ad Arianna viene la brillante idea di combinare le loro competenze (lei è una designer tessile e Tessa una consulente aziendale e amministratrice delegata) e di sviluppare il progetto Lottozero/Textile Laboratories. C’è una forte crescita di spazi come fab-lab e coworking, ma la richiesta di hub creativi internazionali, specializzati per settore, rimane ancora insoddisfatta. Arianna e Tessa hanno eseguito una ricerca in vari paesi europei e si sono rese conto che la domanda di laboratori dedicati al tessile, condivisi e accessibili (quindi non legati all’università e allo studio) era davvero forte. 27
Lottozero è tante cose: un laboratorio, un ufficio stile, uno studio condiviso e una kunsthalle, ovvero uno spazio espositivo. La componente più importante è di certo il laboratorio tessile con i suoi macchinari per la progettazione. Verrà usato sia da chi entrerà a far parte dei progetti di Lottozero, su richiesta o su invito, sia come spazio aperto, un fab-lab del settore tessile. L’obiettivo principale di Lottozero è avviare collaborazioni tra i giovani creativi europei e le imprese del settore del tessile, dell’arredamento, della moda, della gioielleria e del cuoio, per creare prodotti, progetti ed iniziative innovative. Lottozero vuole sostenere i nuovi creativi e per questo ci sarà una residenza per giovani talenti; uno spazio per loro, in cui garantire lo sviluppo dei prodotti, aiutarli a capire come posizionarsi nel mercato, condividendo risorse e informazioni. Per finanziare l’acquisto dei macchinari, le fondatrici di Lottozero/Textile Laboratories hanno lanciato una campagna di crowdfunding su Kickstarter, la
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piattaforma più grande e più conosciuta al mondo per la raccolta fondi. La collezione di foulard è stata il pezzo forte di questa campagna ed è stata realizzata in collaborazione con alcuni dei giovani artisti e designer italiani e europei più interessanti del momento, come l’illustratrice trentina Anna Deflorian e lo Studio Mut, graphic designer con base a Bolzano. Una realtà come questa dallo spirito internazionale è un buon punto di inizio per trasformare un quartiere come Macrolotto Zero, quartiere dalle potenzialità altissime; intanto lo scorso 15 ottobre è avvenuta l’inaugurazione della mostra “Inside Lottozero”, un progetto che indaga l’uso e il rapporto tra il tessile e l’arte contemporanea, attraverso le opere di 13 artisti italiani e internazionali, una panoramica di ciò che viene fatto con la materia tessile attualmente.
www.lottozero.org
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Foto Lottozero
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Foto Lottozero
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BENEDETTA MARIOTTI, DENTRO LA FOTOGRAFIA di Maria Luisa Spera
Il corpo, la fotografia, l’amore di due fratelli. Sono questi gli ingredienti di un progetto fotografico in continua trasformazione, metamorfosi. La complementarità è ciò che unisce due persone con i propri caratteri; punti di vista più o meno simili che trovano rifugio dietro l’obiettivo di una macchina fotografica: l’oggetto che riesce ogni volta a trasportarli in quel luogo sicuro che per tutti è casa. Con la fotografia ci si mette a nudo, ci si spoglia di tutte le insicurezze e le imposizioni di questa società così abituata al giudizio, si fa uscire quel lato nascosto del proprio Io, tirando fuori quelle parole non dette ma volutamente celate troppo spesso dietro un sorriso.
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Ph. BEM Photography
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Ph. BEM Photography
La schiena, protagonista di questi scatti, è uno scudo rigido ma sempre in allerta, pronto a chiudersi a guscio all’occorrenza, per proteggere un cuore ferito dalle perturbazioni circostanti. In queste immagini, con suo fratello Emanuele, esce quella Benedetta che preferisce sbocciare nel suo ambiente amico, la fotografia.
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Ph. BEM Photography
MATILDE SOLBIATI, IDENTITÀ E METAMORFOSI di Maria Luisa Spera Molte bambine da piccole amavano ritagliare e ‘vestire’ quelle bambole di carta che si trovavano sui giornali. In fondo, cambiando il vestito ad una figura nuda come quella, si aveva la convinzione di cambiare un po’ il proprio status, anche emotivo. Il principio che caratterizza questa serie di collage è questo. Attraverso la rielaborazione materiale del concetto, Matilde ha saputo trasportare su carta la sfera emotiva interiore; il volto, specchio della mente e del nostro Io, subisce una vera metamorfosi diventando qualcosa di diverso: un uovo prima, un sacchetto di carta poi. “Metamorfosi” di Matilde Solbiati è un lavoro composto da una serie di otto collage che lei stessa definisce otto autoritratti, per la vasta ricerca introspettiva che ha condotto su di sé, sul suo Io e sulla ricerca di una propria identità. “Chi sono?” è la domanda che ha tormentato Matilde fino alla fine della sua indagine, per tutto il periodo di profonda
trasformazione personale. Con la medesima facilità con cui siamo abituati a cambiare vestito, in base alle circostanze, anche le nostre identità mutano e si trasformano. Indossiamo identità differenti a seconda del momento o di una fase della nostra vita e non solo per una questione biologica. Matilde ci rivela che attraverso il collage l’immagine assume un potere maieutico, portando in superficie e ad un livello razionale l’inconscio. Le immagini, trovate sfogliando libri e giornali, hanno lo stesso ruolo delle lettere di un alfabeto all’interno di una parola, scelte e decontestualizzate permettono di ricreare quella che per Matilde è la sua personale “verità”.
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Metamorfosi, 2014, serie di 8 collages, carta, cm 20 x 23
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Ma c’è un altro progetto che l’artista ha a cuore, si chiama “Life, walking on eggshells”. Semplicità e sintesi, l’uovo come archetipo universale, da sempre presente in moltissime culture, assume simbolicamente diversi significati: simbolo di vita, di rinascita, di creazione cosmica, di unità, di perfezione e al tempo stesso immagine di qualcosa che è fisicamente molto fragile. Un’istallazione che ricrea, attraverso dei blocchetti di legno neri, lo skyline di una città immaginaria, su cui sono appoggiate uova svuotate, sopra le quali inneggiano piccole figure umane in bianco e nero. “L’opera ci offre una doppia lettura, la dualità è infatti un tema presente in tutti i miei lavori sia da un punto di vista formale sia da un punto di vista interpretativo e di significato”. La prospettiva di una vita in metamorfosi; prospettive opposte in cui l’uovo si trova al centro del pensiero artistico come elemento di vita e unicità (nascita), ma al contempo, viceversa, fragile e da maneggiare con cautela. Lo svuotamento porta con sé il senso di assenza di vita, ed è per questo che quelle figure in bianco e nero si aggirano come spettri in una città ipoteticamente carbonizzata. Questa dualità è la stessa che in fondo troviamo in ogni cosa, la vita stessa in continua trasformazione non è altro che l’unione dei due eventi principali, diametralmente opposti: la nascita e la morte.
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Life, walking on eggshells, 2016, 70 uova bianche, legno, dimensioni variabili
METAMORFOSI ESTETICA di Elisabetta Cerigioni
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DA UN’INTERVISTA A MARIA DI RAZZA, AUTRICE DEL CORTO “FACING OFF” Un bel giorno, non si sa come e perché (ammesso che abbia senso chiederselo) buona parte del mondo è diventata ossessionata dall’estetica. Dall’estetica alla chirurgia estetica il passo è stato breve. E che cos’è quest’ultima, se non una forma di metamorfosi della carne e dello spirito? Maria di Razza, autrice di corti, indaga la tematica nel suo ultimo lavoro, Facing off, nel quale una giovane donna decide di sottoporsi a diversi interventi, fino al punto in cui ogni cosa si capovolge e “qualcuno” la spingerà a tornare indietro. “Facing off” racconta Maria “vuole, nella mia intenzione, invitare ad accettarci per come siamo. La volontà di cambiamento potrebbe portare a perdere dei punti di riferimento o addirittura i nostri affetti, rappresentati (simbolicamente) nel corto dal cagnolino. Non sono totalmente contraria, ci sono casi in cui un particolare difetto fisico provoca estremo disagio, quindi in questo caso perché condannarlo? La mia riflessione riguarda in special modo l’inutilità (o peggio ancora il danno) che affiora quando vi si ricorre in modo inappropriato. Volutamente nel corto la ragazza non è particolarmente brutta all’inizio: situazione che si riscontra in molti casi”. Facing off arriva dopo un altro lavoro che guarda al mondo femminile, il pluripremiato Forbici, e sem-
bra proprio che la tematica sociale sia il pedale su cui più spinge l’autrice: siamo infatti in attesa del prossimo corto, anch’esso d’animazione e in bianco e nero, che riguarderà la Terra dei Fuochi. “L’animazione” spiega l’autrice “ha sempre esercitato un fascino incredibile su di me e trovo che sia assolutamente paritetico al cinema ‘tradizionale’. Film come Persepolis o come Valzer con Bashir hanno una potenza narrativa che mi coinvolge e travolge dall’inizio alla fine. Le tematiche in entrambi i film sono di una drammaticità tale che non ci si accorge affatto che si sta guardando un film di animazione, animazione che al contempo lascia lo spazio ad una infinita libertà creativa. Facing off è un palese omaggio a Persepolis, così come per il mio prossimo lavoro utilizzerò la tecnica ‘graphic novel’ di Valzer con Bashir. Probabilmente mi porto dentro lo sconfinato amore per Chaplin e per il suo magistrale bianco e nero”. In effetti le citazioni ai grandi maestri del cinema sono numerosissime in Facing off e un aspetto di ulteriore interesse e curiosità è, dice Maria di Razza, “che ho preso in considerazione tutti film che hanno a che vedere con l’aspetto fisico, così la citazione è duplice”. Anche se certi uomini e certe donne sono pronti a giurare “io mai e poi mai”, permettetemi di dire un ironico “mai dire mai”.
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TEMPORARY IDENTITIES di Annaclara Di Biase
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L’invenzione della fotografia (1839) decreta la definitiva crisi delle forme artistiche tradizionali e gli artisti cominciano a solcare le rotte della sperimentazione in campo artistico non solo più con il mezzo pittorico. Marcel Duchamp (1887-1968) è stato un pittore, scultore e scacchista francese naturalizzato statunitense che puntualmente si conferma attentissimo anticipatore delle principali tendenze attuali. L’artista francese è stato il primo ad aver elevato a status di opera d’arte un oggetto di uso comune e utilizzato il camouflage come mezzo per ridefinire il topos arcaico riguardante l’immutabilità dell’identità. Duchamp attraverso le sue molteplici trasformazioni, documentate dagli scatti dell’amico pioniere della fotografia Man Ray, mette in crisi le categorie imposte dalla tradizione occidentale in un processo di distruzione e ricostruzione dei ruoli. L’artista diventa per la prima volta il soggetto unico dell’opera d’arte e assume il doppio ruolo di artefice e artificio, sostituendo quello che per secoli è stato il corpo femminile nella creazione artistica. Nel 1921 Duchamp mette in scena una metamorfosi dando vita ad un altro se stesso al femminile: Rrose Sélavy è il frutto di un abile fotomontaggio in cui il volto dell’artista, sapientemente
truccato, si fonde con le mani, le braccia, il cappello e gli abiti di Germaine Everling. Duchamp rifiuta di identificarsi con una singola identità e interviene su di sé come era intervenuto sull’orinatoio, l’attaccapanni o lo scolabottiglie: manipola la propria immagine moltiplicando se stesso attraverso il medium fotografico. Gli anni Sessanta e Settanta sono anni di consacrazione sia per la fotografia sia per il travestimento artistico, costituendo l’apice della ricerca iniziata da Duchamp quasi mezzo secolo prima. Gli artisti che scelgono la metamorfosi come pratica artistica sono Luigi Ontani, Jürgen Klauke, Urs Lüthi, Katharina Sieverding e Lucas Samaras, le cui opere non sono semplici reportage di trasformazioni estetiche, ma immagini artistiche vere e proprie sostenute dalla posizione di rilievo della fotografia rispetto alle altre forme d’espressione e dal coinvolgimento diretto del corpo dell’artista e dalla sua prerogativa di costituire il nuovo campo di indagine dell’arte. In un dichiarato omaggio a Duchamp e alla sua Rrose Sélavy Andy Warhol appare travestito in una serie di suggestive immagini, in bilico fra lo stile drag e quello camp, realizzate nel 1981 dal fotografo Christopher Makos. La volontà di mutare la propria forma e il proprio aspetto sono le costanti di cui è intriso il lavoro dell’artista italiano Luigi Ontani (Grizzana Morandi, 1943) le cui opere fotografiche e scultoree si contraddistinguono per alcuni elementi distintivi: il soggetto è sempre l’artista che impiega il proprio corpo e il proprio volto per interpretare temi storici, mitologici, letterari e popolari. In perpetuo peregrinare tra enigmaticità e ironia, sacro e profano, umano e animale, raffinatezza e dilettantismo, il maestro romagnolo, si muove sotto il segno di visioni multiple
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Opera Annaclara di Biase
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Opera Annaclara di Biase
e della ricerca transitoria di una forma che anela già a una nuova metamorfosi. L’opera di Marcel Duchamp ha avuto anche un ruolo sostanziale per quelle artiste che hanno intrapreso una ricerca critica attorno agli stereotipi di genere, in particolare per quelle dell’Avanguardia Femminista degli anni Settanta di cui fanno parte Cindy Sherman, Martha Wilson e Ana Mendieta. La sessantenne artista originaria del New Jersey Cindy Sherman ha fatto del travestimento la caratteristica principale delle sue fotografie e usando quasi esclusivamente la propria persona come soggetto ha rivisitato il tema letterario della metamorfosi. Lavorando sulla sua straordinaria capacità di interpretazione dei ruoli, Sherman, si confronta con i temi dell’identità, della sessualità, degli stereotipi, della storia dell’arte, della cronaca nera, il suo però non è mai un semplice autoritratto ma uno scomporsi in una miriade di identità. Anche l’artista statunitense Matthew Barney (San Francisco, 1967) è figlio della sperimentazione concettuale iniziata da Marcel Duchamp nella prima metà del Novecento. In quest’ultimo ventennio Matthew Barney si è imposto prepotentemente all’attenzione della scena artistica internazionale con un lavoro che mette in scena la molteplicità delle identità nella quale si mescolano maschile e femminile, umano e animale, leggenda e quotidianità. I mutanti di Barney prendono vita nelle performance filmate, nei video, nelle documentazioni fotografiche e nelle installazioni multimateriche. La poliedricità è una caratteristica comune anche al lavoro di Annaclara Di Biase, artista nata a Torino nel 1977 e marchigiana d’adozione. Le materie di indagine che accompagnano il lavoro di Di Biase sono la malleabilità della personalità e del corpo
femminile, l’ambiguità delle apparenze e l’influenza della standardizzazione. Gli elementi che appaiono più frequentemente nelle sue opere sono l’abbigliamento, le stoffe, gli alimenti, i materiali di belle arti e gli oggetti di uso comune che popolano come appendici del corpo il mondo domestico delle donne. La costruzione e la decostruzione delle identità, nel lavoro dell’artista, avviene attraverso l’uso delle pratiche artistiche tradizionali intrecciate con quelle vicine al crafting e al design, trasponendo sulla superfice pittorica o fotografica tutte le problematiche legate alla manipolazione sociale e culturale dell’immagine femminile. Sulla pellicola pittorica dei lavori di Annaclara Di Biase appaiono i segni di una metamorfosi, di un innesto lanoso, di una concrezione spugnosa sagomata a forma di maschera che impedisce la visione del volto e quindi della parte più vitale del corpo, in apparente conflitto con il virtuosismo della tecnica iperrealista del dipinto. La visione frantumata della figura femminile nei suoi collage e nei suoi mixed media risponde all’esigenza di mettere in discussione le nozioni di percezione e interpretazione di quella che per secoli è stata la materia privilegiata del consumo estetico.
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Ph. Eros Renzetti
LA DANZA DI ARACNE di Elisabetta Cerigioni In questa performance c’è già tutto l’espressionismo e viceversa l’intimismo dell’Arte, con le sue corde (tipiche dello Shibari, l’antica arte di legatura giapponese), i suoi corpi, i suoi spazi esistenti e (ri) costruiti. Lo spettacolo di Aracne, presentato a Roma alla V edizione di ACcordaMenti, festival di cui Isabella Corda è ideatrice e organizzatrice, accoglie una contaminazione di linguaggi e prende origine e forma dalla collaborazione con la danzatrice Tiziana Cesarini. La scelta del motivo metamorfico, in particolare della figura mitologica di Aracne (la fanciulla tramutata in ragno da Atena) è arrivata quasi come un genetico impulso: “perché anche io mi sento una tessitrice” confessa Isabella. “Il riferimento allo Shibari descrive solo una parte del mio lavoro: quando uso le corde per legare; il corpo per me è come la tela di un quadro. Ma io uso le corde in tanti altri modi, per disegnare abiti, monili, accessori, quadri e installazioni. In questo spettacolo le corde abitano lo spazio grazie a un grande telaio che fa da sfondo alla performance e si presenta
come la tela di un ragno che arriva a diramarsi in tutta la stanza. Le corde passano in mezzo agli spettatori, ridisegnando lo spazio. Intrappolata tra i fili si muove la danzatrice Tiziana Cesarini, che è la mia preda”. L’incontro tra Isabella e Tiziana è avvenuto in occasione del Kokeshi Rebel Fest, dedicato all’arte giapponese, e ha dato avvio alla commistione dello Shibari con la danza butoh che, spiega Isabella, “possiamo tradurre come teatrodanza contemporaneo giapponese, a cui lo spirito nipponico regala una certa dose di estremismo”. Così l’emotività dell’improvvisazione, cara ad Isabella, ha incrociato la struttura narrativa più vicina alla tecnica butoh di Tiziana, ma lo Shibari e il butoh hanno anche un elemento in comune: la visione dell’atto artistico come momento
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meditativo, tramite il quale si accede ad una forma alt(r)a di consapevolezza. La risultante è Aracne, dove si alternano tempi estremamente dilatati a momenti convulsivi. Tra apollineo e dionisiaco. Si comprende immediatamente che da questa performance si potranno raccogliere suggestioni affilate come lame. Il fiato resta sospeso. Ma poi vi è la liberazione che ha sempre a che fare col momento catartico a cui deve per forza, sempre e comunque, tendere qualsiasi espressione artistica. “Lo spettatore viene guidato a prendere parte a un vero e proprio racconto, che mette in scena la storia di una metamorfosi: nella leggenda di Aracne la ragazza viene trasformata in ragno, nel nostro spettacolo la danzatrice viene lentamente ingloba-
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ta nella rete. Le corde la catturano e la sospendono fino alla scena finale, quando io e lei sembriamo fonderci in un unico grande ragno. Il tutto accompagnato dalla musica live di Massimo Baiocco, che dà enfasi alle nostre azioni e immerge lo spettatore in un ambiente sonoro onirico. Quando lo spettacolo finisce rimane il grande telaio, in mezzo al quale le persone possono camminare come prede potenziali di un ragno ancora in agguato”. Ed è la metamorfosi, vale a dire la trasformazione, il nodo di questo spettacolo-danza, perché è la trasformazione che accomuna tutti gli artisti: è l’idea dell’arte come veicolo capace di tramutare il pensiero ordinario in pensiero critico e dunque performativo e propositivo all’interno della società. Il ‘caso Aracne’ di Isabella Corda poggia su uno spartito che non smentisce. L’invito è di andarlo a vedere. La verità è che abitiamo tutti entro un paesaggio tormentato. www.dolcissimabastarda.com
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Ph. Eros Renzetti
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Opera di Adam Hale
INTERVISTA AD ADAM HALE Intervista a cura di Maria Luisa Spera Metamorfosi nei materiali, nelle tecniche di lavorazione e produzione di contenuti, nelle modalità di trasmissione e fruizione. Adam Hale, protagonista di questa intervista, è un’artista che ha fatto del collage la sua modalità di espressione. Creazione di immagini a partire da immagini. Moltitudine che diventa singolo nel nome della trasformazione.
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Il collage è una forma d’arte che sfrutta la metamorfosi di materiali, combinandoli tra loro per creare qualcosa di unico, come mai hai scelto di utilizzare questa tecnica per esprimere la tua arte? Amo da sempre creare immagini e nel corso della mia vita ho sperimentato davvero tanti mezzi, sia digitali che analogici. Per lungo tempo il mio obiettivo è stato quello di creare lavori artistici digitali. Ero interessato all’illustrazione vettoriale e utilizzavo tecniche analogiche solo per progettare e sviluppare questi pezzi digitali. Pochi anni fa però ho iniziato a riprendere in considerazione il collage, tecnica che ignoravo dai tempi della scuola e che ora invece adoro. Il collage mi dà la possibilità di lavorare su pezzi diversi contemporaneamente, sperimentando e sviluppando nuove idee molto velocemente. Uno dei problemi principali dell’illustrazione vettoriale infatti era il tempo necessario per portare la mia idea alla perfezione, così perdevo interesse quando il processo diventava troppo lungo o complicato. Sono ancora un perfezionista, ma il collage mi permette di seguire i flussi della mia creatività. Spesso chi utilizza collage si ispira ai più grandi nomi del surrealismo, nel tuo caso da dove è nata l’ispirazione, quale corrente senti più tua? Penso che il mio lavoro possa rientrare in diversi trend, alcuni pezzi sono, se così si può dire, abbastanza commerciali e non sfigurerebbero in
una rivista di moda. Tuttavia credo che il mio stile si possa definire surrealista, perché è come se lavorassi senza confini, in assenza di limiti e restrizioni. I materiali che raccolgo per la creazione dei miei lavori sono l’unico confine che ho e quando è il momento di assemblarli mi piace sperimentare immagini che non dovrebbero apparentemente essere messe insieme. La trasformazione, soprattutto nei volti, è una forma di metamorfosi visibile del soggetto, come la spiegheresti? Concordo nel dire che la trasformazione del viso umano simboleggia un cambiamento del carattere. Per ciascun lavoro uso ritratti e immagini che trovo nei magazine e l’aspetto più intrigante diventa il portarli fuori dal loro contesto originario. Uso tantissimo i volti, perché trasmettono emozioni immediate e credo che aiutino ad esaltare le sensazioni e le suggestioni che le persone provano guardandoli. Di recente ho iniziato a dare vita alle mie opere con l’animazione e uno dei temi principali che intendo esplorare è proprio quello delle emozioni e delle esperienze umane. Ogni artista cerca di esprimere un significato nascosto attraverso le sue opere, se posso chiedertelo, come descriveresti il tuo? Non c’è un unico messaggio che voglio trasmettere con le mie opere ma il tema ricorrente è la relazione tra le persone e il mondo in cui si trovano e con cui, inevitabilmente interagiscono. La volontà è quella di far interagire la natura con la tecnologia, nelle loro forme più semplici, per invitare la gente a riflettere e lasciare che diano un loro significato alle mie opere. Trovo molto stimolante questo tipo di interazione tra l’artista (che sono io in questo caso) e il pubblico, in effetti amo chiedere ai miei follower su Instagram quale pensano sia il messaggio di un mio pezzo, per innescare una discussione che potrebbe poi divenire chiave di lettura o interpretativa di un mio lavoro.
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Opera di Adam Hale
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Opera di Adam Hale
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PH. SALVATORE BASILE
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LA CARTA DI DANIELE PAPULI di Maria Luisa Spera “La partenza, la scultura attraverso le materie classiche, le pietre, i legni, i gessi. Assottigliando sempre più i volumi, plasmando forme in resina e poi la carta, pensando che le curve di un semplice foglio possano generare volumi e relazioni spaziali. Materia insolita, effimera, di breve ma anche di lunga e dilatata durata, nella sua precarietà la sua forza. Il tentativo, nella mia ricerca, è un racconto degli stadi della materia che vive e vibra come forma viva e stabilisce relazioni profonde con i luoghi in cui abita. È materia che si plasma, che taglio, che riduco, nella quale ritrovo unità di misura e modalità per la costruzione. Ho iniziato impastando e sperimentando il foglio di carta con vari ingredienti. Il piacere poi verso gli accumuli, le risme dei fogli, le “cattedrali” di carta viste durante i sopralluoghi nelle cartotecniche o tipografie. Il recupero di sfridi, ritagli, strisce ma anche la selezione di fogli in formato ex-novo, da ridurre, diventano materia d’indagine e di approfondimento. Nelle linee stesse, nei profili, nelle ombre, nello slittamento dei moduli di carta, l’insistenza del gesto, con il cutter che affonda nei centimetri della carta, che scava, che sostituisce altri strumenti. Materia duttile, vibrante che sedimenta idee e forme. Le prime carte usate, quelle bronzate dei vecchi libri, strutturati in piccole sculture. Poi l’ampiezza, le relazioni con i luoghi, le installazioni, il colore”. 60
CARTOFRAMMA 2011 INSTALLAZIONE SITE SPECIFIC. CASTELLO ARAGONESE DI ISCHIA, CHIESA DELL’IMMACOLATA. PH. SALVATORE BASILE
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2014, “DANIELE PAPULI, METAMORFOSI – SCULTURE E INSTALLAZIONI DI CARTA”, PALAZZO DUCALE DI MARTINA FRANCA (TA) PH 2014 ©GIANFRANCO AQUARO. A cura di Marta Ragozzino, Soprintendente ad Interim per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici della Puglia.
2014, “DANIELE PAPULI, CARTE E FIBRE, SCULTURE E INSTALLAZIONI”, GALLERIA CASA DUGNANI, ROBECCO SUL NAVIGLIO (MI) PH 2014 ©RAUL ZINI. Cartoframma blu 2013-2014 strutture modulari di strisce di cartoncino fabriano colore blue gr. 165. Dettaglio installazione a pavimento.
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Così, Daniele Papuli, salentino di origine e milanese d’adozione, artista contemporaneo, la cui attività artistica è una metamorfosi fatta di ricerca, a partire dal fare “classico” della scultura con martello e scalpello, fino ad arrivare alla carta con cutter e forbici, ci introduce alla sua arte. Carta, sì carta, come materia scultorea, materiale da esplorare e da plasmare come una resina, fragile e leggera e se vogliamo anche un po’ insolita per quello che nell’arte viene definita scultura. Le sue opere sono strutture fatte di sagome, filamenti, lamelle, rigorosamente tagliati a mano con cutter e forbici, posizionati con cura in un disegno dinamico, che prendono vita in un gioco di luci e ombre, mutando il loro aspetto nel tempo proprio come fossero vive. Le installazioni artistiche e più in generale le sculture nascondono il processo di metamorfosi nelle loro caratteristiche intrinseche. Il plasmare in sé è trasformare e creare qualcosa di unico. “Come scultore dialogo con la materia, lo spazio e il luogo. Attingo a ciò che ho a portata di mano e a qualcos’altro che scandisce il ritmo della mia ricerca. Un confronto diretto con le materie, che scelgo e da cui erompono nuove connessioni, attraverso la manipolazione della stessa materia. Lo slittamento delle strisce, spesso i miei moduli costruttivi, gli 64
spessori e la loro flessuosità partono dai movimenti delle mani, in un continuo gesto confidenziale. Mani in carta perciò, a costruire, destrutturare e strutturare nuovamente. Passaggi, metamorfosi e sintesi. L’ispirazione è il mio patrimonio visivo, emozionale. Arrivo dal Sud, dal Salento. Il lavoro racconta questo processo, mette insieme contenuti, forme, rapporti, volumetrie, spazialità. Una progettualità aperta che si sofferma e amplifica passaggi e relazioni anche tra materie differenti, ambiti confinanti, come il design, l’applicazione all’oggetto, le installazioni site –specific”. Le ragioni che hanno portato Daniele Papuli a scegliere la carta come elemento dominante nella sua arte, ci permettono di entrare in una realtà parallela, in una visione che dunque ci consente di sognare attraverso la sua mutevolezza. “La carta è materia che mi assomiglia e attraverso la sua fisicità stabilisco un racconto. Dal ’97 ad oggi sono scivolate tra le mani milioni di strisce, di fogli. Procedo come per costruire un libro, con garze, colle. Per stratificazioni, per sedimentazioni, per unità, per blocchi, per accumuli, per risme spesso tagliate a mano o recuperate talvolta da altre lavorazioni. Gesti infiniti, ripetitivi che insistono sulla stessa curva ad esempio, attraverso una dima, o nella lunghezza di una riga. Quasi mai le forbici. È la stessa materia che necessita dei suoi materiali, per essere lavorata, plasmata, costruita. Guardo il foglio nel profilo, lucente o ruvido, raramente come superficie. La scultura racconta dell’ombra che scivola e si irradia dalla forma interna. Un’ombra che rincorre lo sguardo del visitatore, a tutto tondo, sfaccettata o fluida. Una sorta di DNA sempre presente in tutto”. Fragile come il sogno, la carta.
2011, “DANIELE PAPULI, LE GÉANT DE PAPIER: PROJECTION(S) DE LA MATIÈRE”, FLUX LABORATORY, GINEVRA. Installazioni in 3 tempi e performance di danza. Ph 2011 ©Fausta Cerizza - Impianto scenografico composto da due installazioni. Performance A. Sacco, M. Toukabri, Flux Laboratory PANTA REI. Strutture lamellari composte da strisce di cartoncino Fabriano in vari colori e grammature. ULA ET ULA. Sospensione composta da fogli in formato 50x70 con tagli eseguiti a mano. 65
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Foto Farm Park
LA METAMORFOSI DI FAVARA di Chiara Casciotta
DA BORGO DIMENTICATO A NUOVA REALTÀ DEL CONTEMPORANEO Nel gennaio del 2010 un tragico evento sconvolge Favara, borgo siciliano a 6 chilometri dalla valle dei Templi di Agrigento: il crollo di una palazzina fatiscente che determina la morte di due sorelline. L’amministrazione quindi pensa che l’unica soluzione possibile sia demolire, per ragioni di sicurezza, gli edifici in stato di degrado del centro storico di Favara.
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Il notaio Andrea Bartoli e la moglie Florinda Saieva decidono di proporre il loro ambizioso progetto, nato dal desiderio di costruire un luogo dove stare bene e dove costruire un futuro per le loro figlie: recuperare i Sette Cortili di Favara, piccole corti di matrice araba, trasformandoli in un centro culturale e riqualificare il paese tramite un programma culturale. Dopo meno di cinque mesi dal tragico evento inaugura Farm Cultural Park, un centro culturale turistico contemporaneo di nuova generazione in cui vengono ospitati artisti e creativi, organizzate mostre, installazioni ed eventi. Il risultato più importante di questa esperienza è proprio l’impatto che ha generato; luogo in cui l’arte e la cultura del contemporaneo sono diventati gli strumenti per cambiare il territorio. Farm Cultural Park ha dato una nuova identità a Favara. L’obiettivo futuro è il completamento della ristrutturazione di Palazzo Miccichè, un ex palazzo nobiliare, per la creazione di una realtà che guarda alle nuove generazioni, chiamata appunto Farm Children’s Museum, di 1200 mq, completamente dedicata ai bambini.
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Intanto sono riusciti a realizzare la prima divisione del museo denominata “Sou. La Scuola di Architettura per bambini”, la cui missione non è solo stimolare la riflessione, la progettazione e l’azione per un miglioramento della società, ma anche l’educazione ai valori di accoglienza, partecipazione, tolleranza e solidarietà, generosità e impegno sociale. Vogliamo che i nostri bambini crescano nella libertà e nella creatività, vogliamo che credano nella possibilità di realizzare i sogni e nel desiderio di rendere possibile l’impossibile. “Facciamo tutto questo per migliorare noi stessi, il nostro territorio e per consegnare ai nostri figli un piccolo pezzo di mondo migliore”. www.farmculturalpark.com
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Foto Farm Park
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Foto Farm Park
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Ph. Laura Novara
MORPHEUS di Roberta Deiana La forma in divenire di un drink che cambia sotto i tuoi occhi, un piccolo Big Bang dentro al tuo bicchiere. Tu sei il Demiurgo. Tu sceglierai la combinazione di molecole. Tu creerai la trasformazione. Tu preparerai: Morpheus. Ingredienti per 1 metamorfosi: 60 ml di gin 30 ml di succo di ribes o cranberry 1 punta di scaglie di oro edibile 1 pizzico di polvere dorata edibile 1 pizzico di peperoncino in polvere In una cucina, da qualche parte nel tempo e nello spazio, dentro un contenitore di metafore, mescolerai assieme tutti gli ingredienti eccetto il gin, e verserai il composto in uno stampino sferico. Lo lascerai congelare. Quando il ghiaccio sarĂ pronto, verserai il gin in una coppa, quindi aggiungerai con mano distaccata e sicura il piccolo pianeta di ghiaccio che ora sta tra le tue mani dentro al bicchiere. Non farai altro. Poggerai il bicchiere su un piano ben visibile dalla tua poltrona preferita e ti siederai a guardare lo spettacolo di questa metamorfosi in atto solo per i tuoi occhi, sentendoti una divinitĂ . Solo dopo berrai.
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IL RAP CHE MI DÀ QUELLO CHE CERCO di Tommaso Calascibetta
Fratè dai, taglia corto. Tanto lo sanno tutti che oramai l’hip hop è morto [...]. “L’hip hop è morto” lo dicono tutti pe’ giustificasse che non fanno più uscì roba bona da quelle casse. Una canzone, quella citata qui in alto, che musicalmente parlando, vista la piega presa dal rap negli ultimi anni, risale ad un’epoca lontanissima. Eppure Gemitaiz scrisse queste barre “solamente” nel 2009. Il rapper romano, al secolo Davide, è l’esempio lampante di quanto accaduto alla scena hip-hop italiana e di come il passaggio dall’underground ai grandi palcoscenici nazionali sia, oltre che fattibile, assolutamente coerente e attuale con molte delle star che dominano le classifiche. Il rap in Italia però non è stato sempre così presente, anzi per un lungo periodo è stato visto esclusivamente
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come “l’arte di quelli che non sanno cantare”, sfogo di tossici ed emarginati sociali incapaci di dar vita a qualcosa di veramente costruttivo. Sembrano parole forti, lontane da noi, eppure non è difficile incrociare per la rete e per le strade, ancora oggi, opinioni di questo tipo. Ne sa sicuramente qualcosa lo zio J-Ax, uno dei pionieri del rap nel nostro Paese, il primo che all’epoca degli Articolo 31 probabilmente sia riuscito a sdoganare quest’arte facendola conoscere ai più. Erano gli anni ‘90 e nonostante i grandi cambiamenti culturali che porteranno a tutto il mondo che conosciamo dal 2000 in poi, il rap non riuscì comunque ad attecchire nella cultura pop(olare). Quanto fatto dagli Articolo tuttavia non è stato vano e la metamorfosi del rap è stata portata a compimento da una generazione di artisti, con base a Milano, che dagli inizi del nuovo millennio in poi sono stati capaci di fare quello che prima sembrava impossibile: vendere un prodotto musicale hip-hop in contesti ben più ampi dell’underground. Stiamo parlando di artisti come Fabri Fibra, e crew come la Dogo Gang, in grado di uscire dalle proprie città e dalle battaglie di quartiere per trasformarsi definitivamente in popstar.
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Ph. Nome:Antonio Rull
Capire come mai realtà come quella milanese sia riuscita ad emergere, a scapito magari di quella romana ancora oggi ancorata ad un concetto di “street”, è difficile. Probabilmente il tutto è dovuto semplicemente alla mentalità dei singoli rapper e alle risorse a loro disposizione (i DOGO vengono da famiglie benestanti e influenti, ndr). La domanda che dobbiamo porci però è un’altra: perché finalmente il rap è stato sdoganato? Perché finalmente piace a “tutti”? La verità assoluta non esiste, si tratta di fenomeni sociali inspiegabili e trovare una regola al gusto estetico è pura demagogia. Si può comunque analizzare quello che è successo negli ultimi 15 anni. Internet sullo sfondo, MySpace prima e Facebook dopo, tutti insieme per contribuire al diffondersi di un qualcosa che prima in pochi conoscevano. Il rap, al contrario di quanto tanti puristi e saccenti vogliano farci credere, è semplicità all’ennesima potenza. Il rap è schiettezza, è sincerità, è una poesia recitata su una base musicale, e la bellezza di tutto questo sta nella possibilità di ognuno di raccontarla come vuole. Il rap
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esiste da ben prima che qualcuno cominciasse a chiamarlo tale perché, per definizione, il rap e di riflesso l’hip-hop, è cultura urbana. Racconti di vita popolare. Internet è stato il trampolino di lancio per un bisogno che i ragazzi avevano da anni: la voglia di esprimersi. Per fare rap non serve una bella voce, per fare rap non serve una bella faccia. Per fare rap basta aver voglia di dire qualcosa. Apritevi un canale su YouTube e raccontate la vostra storia. La metamorfosi del rap sta proprio in questo: un’arte tutt’altro che razzista, in grado di accogliere tutti e in grado soprattutto di dare spazio a chiunque. Per fare rap basta aver voglia di farlo. A questo punto capire perché alcuni rapper hanno tanto successo è semplice, sono stati in grado di prendersi sulle spalle i bisogni e le voglie di una grossa fetta di mercato. Una volta c’erano gli hippy con i capelli lunghi e le ghirlande, oggi i rapper con i tatuaggi e i cappelli. De gustibus. Anche i Beatles negli anni ‘60 non vennero capiti totalmente, e nonostante oggi orde di intellettualoidi vogliano propinarci la (sacrosanta) purezza del rock anni ‘80 o del cantautorato italiano, bisogna essere realisti e rendersi conto che tutta quella cultura musicale che all’epoca era per i giovani, venne per lungo periodo vista come un qualcosa di nicchia e poco importante. Al pari del rap dei giorni nostri. Il rap si è evoluto perché riesce a dare all’ascoltatore esattamente quello che vuole: se stesso. E se ancora qualche critico(ne) musicale non l’ha capito, è meglio che si faccia da parte.
Ph. Fabio Ferioli
UNA SIRENA, QUANDO LA REALTÀ DIVENTA SOGNO. di Elisabetta Cerigioni Non è poi così difficile perdersi dentro ad un incantesimo. Basterebbe assistere alla performance di Ilaria Molinari che in un istante può trasformarsi da umana in sirena. Ilaria, atleta e campionessa di apnea, racconta di aver sempre usato la monopinna per le gare e gli allenamenti, eseguendo un movimento delfinato del tutto somigliante a quello delle leggendarie creature acquatiche.
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La metamorfosi di Ilaria (inconsapevole forse) è iniziata sin da subito: “già sognavo di essere un animale marino durante le mie immersioni e avventure in profondità”. Ma la svolta è avvenuta circa tre anni fa, per il tramite di una apneista-sirena americana che le ha fatto conoscere il mondo delle code, infine un artigiano sardo (proprietario assieme alla moglie di “Siren Drops”) le ha regalato la sua prima coda. “Lì è iniziata la magia”, queste le parole di Ilaria. Magia dunque. Metamorfosi. “Poi nel 2014 è arrivata l’occasione adatta: sono stata chiamata per esibirmi in apnea durante l’inaugurazione della piscina più profonda del mondo, la Y-40, a Montegrotto Terme, in provincia di Padova, un capolavoro tutto italiano di cui ho l’onore di essere testimonial femminile. È il mio luogo preferito per trasformarmi, pur sapendo che non si tratta di un vero mare, bensì di un piccolo mare di acqua ‘viva’ in quanto termale. L’acqua è sempre calda e la superficie sempre calma, ovvero le condizioni ideali per una sirena”. La piscina, o enorme acquario o altro-mondo (ciascuno lo interpreti come vuole) è dotata di tunnel trasparenti e camminamenti subacquei che permettono di godere dello spettacolo e conferiscono l’illusione di essere proprio lì, insieme a lei. “Non nego che quando c’è qualcuno a guardarmi mi fa piacere,
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anche perché penso che ognuno di noi, piccolo o grande, uomo o donna, ami credere alle sirene! Durante la mia prima esibizione è stato emozionante vedere che decine di persone mi osservavano dai vetri della piscina, ma io mi muovo nello stesso modo, sia quando sono sola che quando ci sono degli spettatori. Se ci sono dei bambini a guardarmi invece, mi concentro molto su di loro, mi soffermo di più davanti ai vetri, faccio in modo che possano osservarmi con calma, perché loro amano i dettagli e soprattutto li saluto e mando loro qualche bacio. A volte li sento urlare dall’esterno e li vedo correre seguendomi lungo il tunnel sommerso della piscina da cui loro mi guardano, ed è gioia pura”. Sembra impossibile ma, osservando l’esibizione al di là del vetro, non è facile decidere se quanto sta accadendo sia realtà o illusione. Magari entrambe le cose. E resta anche il fatto, più importante ancora, che la si vorrebbe guardare all’infinito, fino a un punto di non ritorno. “Mi sento un animale marino. Nuotare e sentirsi un tutt’uno con il mare mi dà la dolce illusione di appartenere a quel mondo liquido, dove provo pace e un totale senso di libertà fisica e mentale. Grazie alla monopinna (che è all’interno della coda) posso spostarmi in tutte le direzioni e avere la sensazione di volare, l’acqua sostiene il corpo e lo abbraccia permettendogli di fare cose che sono normalmente precluse ad un corpo umano sulla terraferma. Quando tolgo la coda ed esco dall’acqua è come uscire da un bel sogno, da un piccolo viaggio, con un bagaglio di emozioni e sensazioni indelebili e indescrivibili, proprio come succede all’uscita da un tuffo profondo (così si chiamano le immersioni in apnea)”.
ANCONA La Mole — Magazzino Tabacchi dal 28 ottobre 2016 al 07 maggio 2017
Da Marino Marini a Mimmo Paladino. La scultura di figura in Italia.
Alberto Viani — Nudo femminile, 1985 Organizzazione e Gestione
Con il Patrocinio e il Contributo di
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Con il Contributo di
WHERE ART LIVES
#whereartlives #lamoleancona
lamoleancona.it
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