Thema 11|21

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+ vatican pavillon

dubai 2020

www.themaprogetto.it ISSN 2384-8413

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Goffredo Boselli - Andrea Dall’Asta - Marina Feroggio Esteban Fernández Cobián - Tino Grisi - Andrea Jasci Cimini Sergio Massironi - Francesco Menegato - Jo Noero - Giancarlo Santi Tomasz Trafny - Claudio Varagnoli - Clara Verazzo

THEMA RIVISTA DEI BENI CULTURALI ECCLESIASTICI


BOLOGNAITALY 19/21GIUGNO2022 I CINQUE SENSI NELLA LITURGIA

IN ESPOSIZIONE

VEDERE LA PAROLA PROGRAMMA CONVEGNI Domenica 19 gugno ore 10.00 ore 11.15 ore 14.30 ore 17.00

Celebrazione Santa Messa Inaugurazione Convegno VEDERE LA PAROLA. L’incontro a Emmaus nell’arte Inaugurazione Mostra LA CENA DI EMMAUS Percorsi di riavvicinamento: artisti contemporanei a confronto con il mistero cristiano

Lunedì 20 giugno ore 10.00 Convegno NELL’ATTESA DELLA RISURREZIONE. Cimiteri. Spazi e parole della memoria cristiana nei cimiteri ore 14.30 Convegno ASCOLTARE LA PAROLA. L’ambone e l’evangeliario: arte e liturgia

Martedì 21 giugno ore 10.00 Convegno CELEBRARE LA PAROLA. L’ambone nel progetto liturgico e architettonico contemporaneo ore 14.30 Convegno ACUSTICA NELLE CHIESE E SOSTENIBILITÀ

MOSTRE . LA CENA DI EMMAUS Percorsi di riavvicinamento: artisti contemporanei a confronto con il mistero cristiano

. IL CODEX PURPUREUS ROSSANENSIS . CELEBRARE LA PAROLA: L’AMBONE NEI PROGETTI DEI CONCORSI DIOCESANI

. LA DALMATICA NELLA VEGLIA PASQUALE. Una selezione della produzione

PUNTO DI CONSULENZA A supporto dei sacerdoti e degli operatori pastorali che vogliono confrontarsi su casi concreti di gestione degli spazi liturgici. UN EVENTO DI

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THEMA RIVISTA DEI BENI CULTURALI ECCLESIASTICI

pg.

THEMA 11|21 2021 periodico semestrale

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Editoriale

3.

CAPELA INGÁ-MIRIM ITUPEVA, SÃO PAULO. MESSINA | RIVAS ARQUITETOS

Claudio Varagnoli

Tino Grisi

Pubblicazione registrata presso il Tribunale di Pescara, con autorizzazione del 15/6/2011, registro di stampa 10/2011 ISSN 2384-8413 Editore

Centro Studi Architettura e Liturgia via della Liberazione 1, Montesilvano (Pe)

9.

GEOMETRIE DELLA MEMORIA. RIQUALIFICAZIONE DEL CIMITERO DI CASTEL SAN GIMIGNANO Claudio Varagnoli

17. TESORI CELATI DI LUCCA. IL RESTAURO DELL’ORATORIO DEGLI ANGELI CUSTODI Clara Verazzo

Direttore Responsabile

Francesca Rapini Redazione

via della Liberazione 1, Montesilvano (Pe) Sergio Massironi, Paola Renzetti Comitato Scientifico

Luigi Bartolomei, Goffredo Boselli, Fabrizio Capanni, Andrea Dall’Asta, Esteban Fernández-Cobián, Antonio de Grandis, Renato Laganà, Andrea Longhi, Giuseppe Pellitteri, Giuliana Quattrone, Claudio Varagnoli Progetto grafico e impaginazione

25. L’ELOGIO DELLA FECONDITÀ. CHRISTIANE LÖHR A SAN FEDELE DI MILANO Andrea Dall'Asta

31. LA VALORIZZAZIONE DELLA STORIA E IL LINGUAGGIO CONTEMPORANEO DEL SACRO NEI PROGETTI DI BRÜCKNER & BRÜCKNER ARCHITEKTEN Francesco Menegato

Hanno collaborato

Goffredo Boselli, Fabrizio Capanni, Andrea Dall'Asta, Esteban Fernández-Cobián, Giuseppe Di Eleonora, Marina Feroggio, Tino Grisi, Andrea Jasci Cimini, Sergio Massironi, Francesco Menegato, Jo Noero, Giuliana Quattrone, Giancarlo Santi, Tomasz Trafny, Gianfranco Troiano, Claudio Varagnoli, Clara Verazzo Amministrazione

Sandro Amicantonio

41. UNA CAPPELLA SEMPLICE, FAMIGLIARE, DISPONIBILE. S. FRANCISCO CHAPEL VIÑA CAMPESINO MARÍA PINTO | CILE Giancarlo Santi

47. LA LITURGIA È ARCHITETTURA. L'EREDITÀ DEI CONVEGNI DI BOSE Goffredo Boselli

Credits & Copyrights

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Mauro Forte

Legge 22 aprile 1941, n. 633 Art. 70 1. Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l’utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali. [...] 3. Il riassunto, la citazione o la riproduzione debbono essere sempre accompagnati dalla menzione del titolo dell’opera, dei nomi dell’autore, dell’editore e, se si tratti di traduzione, del traduttore, qualora tali indicazioni figurino sull’opera riprodotta. _____

53. LA RINASCITA DELLA CAPPELLA DELLA SINDONE E DEL SUO ALTARE

Dove non esplicitamente indicato negli articoli, il materiale fotografico è di proprietà dell'autore del testo o scaricabile liberamente da internet.

79. CRISTIANA GUERRA. CASA SANT’AGNESE DELLA CONGREGAZIONE DELLE SUORE DI INGENBOHL | MURALTO, LOCARNO

www.themaprogetto.it themaes.editore@gmail.com

Marina Feroggio

59. DOVE LE PIETRE DIVENTANO LUCE. LA PIUSKIRCHE A MEGGEN Sergio Massironi

65. SPAZIO E SOCIETÀ NEGLI EDIFICI ECCLESIASTICI IN SUDAFRICA Jo Noero

Andrea Jasci Cimini

In copertina

Piuskirche. Meggen (CH). Franz Füeg 1960/66

THEMA è patrocinata dal

85. CRONACA DI TRE GIORNI GUARDANDO A ORIENTE. 7° CONGRESO INTERNACIONAL DE ARQUITECTURA RELIGIOSA CONTEMPORÁNEA Esteban Fernández-Cobián

SPECIALE VATICAN PAVILLON

89. APPROFONDIRE LA CONNESSIONE. IL PADIGLIONE DELLA SANTA SEDE ALL’EXPO 2020 DI DUBAI Tomasz Trafny

PONTIFICIUM CONSILIUM DE CULTURA



Editoriale Editoriale Claudio Varagnoli

I

numeri miscellanei della rivista perseguono in genere due obiettivi fondamentali, che caratterizzano la ricerca progettuale in senso lato: far emergere architetture poco note o addirittura sconosciute, che consentano di apportare nuovi fermenti alla progettazione; riflettere sui temi classici, ma da angolazioni critiche innovative che possano allo stesso tempo riproporli nell’attualità. Per quanto riguarda le esperienze innovative, questo numero di Thema porta alla conoscenza di un pubblico specializzato le opere di un capofila dell’architettura sudafricana, Jo Noero, rappresentante di un nuovo modo di pensare il rapporto con la sfera sociale. Thema vuole così rendere omaggio all’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, recentemente scomparso, cioè all’uomo che con Nelson Mandela sconfisse l’apartheid. Alla riflessione sulle nuove esperienze si raccordano anche le architetture rigorose di Brückner & Brückner Architekten e l’altrettanto limpida costruzione della Piuskirche di Meggen. Ma il tema della creazione innovativa si estende alla sfera propriamente artistica, come la nuova opera di Christiane Löhr nel San Fedele a Milano, o a quella del recupero ben concepito, come nella Casa Sant’Agnese della Congregazione delle Suore di Ingenbohl a Muralto in Svizzera, o al padiglione della Santa Sede all’expo di Dubai. Aspetti che sono riassunti e suggellati dal recente Congreso Internacional de Arquitectura Religiosa Contemporánea, il settimo della serie, che ha sviluppato il tema dello sguardo all’Oriente, laddove tutto inizia e tutto si rigenera. A questo clima di rinnovamento interiore si salda uno dei grandi argomenti spesso trattati in questa sede, quello della liturgia quale asse portante dell’architettura per il sacro. In questo numero, Thema racconta le esperienze passate dei convegni di Bose e ne testimonia l’attualità, grazie alle parole di uno dei principali rappresentanti di quella stagione. Infine, questo numero ripropone due tipologie che da sempre caratterizzano la sfera del sacro. La cappella è il luogo del raccoglimento e del rapporto a scala ravvicinata con la dimensione trascendente. Per questo oggi si ripropone in vari interventi, soprattutto nelle toccanti esperienze dell’America Latina: la Capela Ingá-Mirim a Itupeva (São Paulo) e la “S. Francisco Chapel” a Viña Campesino. In questa prospettiva vanno letti i saggi che trattano gli interventi che hanno ridato luce e vita alla Cappella della Sindone a Torino e all’Oratorio degli Angeli Custodi, opere nate dalla sensibilità barocca, ma che non cessano di comunicare significati e valori anche ai nostri tempi. L'altra tipologia fondamentale è quella dei cimiteri, che sempre accompagna l'esperienza religiosa e anzi ne costituisce un fondamento imprescindibile: e l’esempio di Castel San Gimignano ben rappresenta il valore universale del tema.

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CAPELA INGÁ-MIRIM ITUPEVA, SÃO PAULO MESSINA | RIVAS ARQUITETOS Tino Grisi

La cappella en plein air Ingá Mirim si trova all’interno di una ottocentesca fazenda a qualche decina di chilometri di distanza da San Paolo del Brasile. Sui resti basamentali di un precedente edificio coloniale, i progettisti hanno collocato pochi setti murari rettilinei il cui andamento estroflesso non può che richiamare alla mente le piante concepite da Ludwig Mies van der Rohe or sono ormai cent’anni. Come egli abbandonava l’idea di stanza racchiusa e usava il muro per articolare l’architettura quale organismo spaziale aperto, così, nel nostro esempio, la composizione dalle tre pareti principali, due slittate in parallelo e una perpendicolare, e della coppia di setti al loro interno desta l’impressione di un assemblaggio provvisorio, liberamente percorribile, contiguo alla distesa verde che lo tange e lo penetra. Non dobbiamo dimenticare come Mies, in quel periodo, fosse un assiduo frequentatore del pensiero di Romano Guardini, pressoché, ancor oggi, insospettata fonte dei suoi principi costruttivi, posti a definire non solo l’uso, ma anche il senso dell’edificare. “Così come abbiamo acquisito la conoscenza dei materiali”, sosteneva, “allo stesso modo vogliamo conoscere anche la nostra situazione spirituale”. Parole in cui riecheggia il pensiero critico

1/14. Foto Federico Cairoli

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e insieme propositivo di Guardini verso la tecnica espresso nei piccoli e preziosi testi delle Lettere dal lago di Como: “La reale cultura non ha le sue radici nel sapere, ma nell’essere. Lo dice la stessa parola tedesca: gebildet è colui che ha tratto la sua forma da un principio interiore che è per lui struttura e legge; per il quale l’essere e il fare, il pensare e l’agire, la persona e l’ambiente emanano da una forma interiore che li determina”. Nel ricreare l’ambiente destinato alle celebrazioni religiose locali, il disegno della cappella Ingá-Mirim acquisisce la conoscenza materica del luogo, ricostruendo con le pietre e i mattoni gettati a terra un’orchestrazione porosa, connotata da un inusuale valore di posizione e da una divisione verso l’alto frammentata da radi, esili tralicci metallici sopra l’altare, così assumendo una fine risonanza espressiva che sale dal profondo verso la grazia. La costruzione appare un oggetto “rinvenuto” che emerge dal suolo e in esso esiste, senza appartenergli in modo definitivo; usan-

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La costruzione appare un oggetto “rinvenuto” che emerge dal suolo e in esso esiste, senza appartenergli in modo definitivo; usando le parole di Giulio Carlo Argan potremmo definirlo un pattern rivelativo materico il quale non rappresenta alcuna immagine, bensì si auto-esprime “secondo un principio d’ordine che non è dato a priori, ma si genera spontaneamente all’atto stesso del percepire”.


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do le parole di Giulio Carlo Argan potremmo definirlo: un pattern rivelativo materico il quale non rappresenta alcuna immagine, bensì si auto-esprime “secondo un principio d’ordine che non è dato a priori, ma si genera spontaneamente all’atto stesso del percepire”. In ciò, l’esempio qui illustrato rimane profondamente coerente con la natura essenziale dell’edificio cristiano. L’architettura del percorso, l’osmosi col paesaggio, la fruibilità religiosa aperta sono conformi al paradosso di un Dio che, come magistralmente fissato da Giovanni Ferraro nell’imprescindibile Libro dei luoghi, “si lascia trovare ovunque” e “la cui ubiquità risponde al suo desiderio di essere trovato da tutti gli uomini”. Ancora una volta, la visione di questo progetto nel Nuovo Mondo ci permette di verificare che “in ogni luogo è possibile innalzare la preghiera a Dio, e solo il contatto del credente con Dio santifica i luoghi”. L’elaborazione architettonica di un sistema in cui la fermezza delle singole parti sorge all’interno di una totalità in progress, dove rimane sempre costitutiva un’assenza, un non-detto, ci conferma nel fatto che cristianamente “nessun luogo è sacro, ma santa è l’assemblea dei credenti riuniti dalla fede: ecclesia spirituale che è il solo luogo pensabile per il dio senza luogo”. L’abitare e l’amare sono possibili solo nella provvisorietà del “non posseduto”.



GEOMETRIE DELLA MEMORIA

RIQUALIFICAZIONE DEL CIMITERO DI CASTEL SAN GIMIGNANO Claudio Varagnoli

La questione dei cimiteri sta assumendo nel nostro Paese un carattere di urgenza allo stesso tempo tecnica ed etica. La mancanza di manutenzione, rafforzata dalla marcata secolarizzazione della società, sta infatti mettendo in crisi la tradizionale attenzione per la dimora dei defunti, vero fondamento di ogni fede religiosa. L’esempio di Castel San Gimignano, frazione della più nota città turrita e condivisa con il vicino comune di Colle di Val d’Elsa, rientra nell’attività che molte amministrazioni comunali stanno portando avanti per restituire decoro e funzionalità a cimiteri grandi e piccoli sparsi nel territorio nazionale. Anche nei terremoti recenti, come in quello dell’Emilia, un problema cruciale è rappresentato proprio dai cimiteri, anche nei comuni di minori dimensioni, che rivestono caratteri di monumentalità a fronte di una sempre minore frequentazione da parte di parenti e fedeli. La riqualificazione del cimitero – o del campo santo come si usa dire ancora in Toscana e in altre regioni – di Castel San Gimignano ha portato alla costruzione di nuovi loculi, ossari e la sistemazione di un campo destinato alle sepolture in nuda terra. Sono state inoltre inserite nuove alberature, parapetti e scale tra piano superiore e inferiore, e il restauro della cappella esistente. Ma non si capirebbe la ragione dell’intervento se non si partisse dallo stretto legame tra insediamenti umani e paesaggio che ha reso così peculiare quest’angolo di una terra, a sua volta così peculiare, come la Toscana. Acquisito lo status di comune autonomo alla fine del XII secolo, San Gimignano provvide a rafforzare le proprie posizioni nei confronti della vicina Volterra, che da sempre controllava questo tratto di territorio e le importanti vie che lo attraversano, e a stringere alleanze durature con Colle di Val d’Elsa. Il rafforzamento della compagine urbana passò attraverso la costruzione di una prima cinta muraria alla metà del Duecento, in un’epoca a cui risalgono le torri che frastagliano il profilo della città: a questa fa seguito la realizzazione di una seconda cinta e il controllo anche militare del territorio circostante. Agli inizi del Trecento viene quindi costruito un nuovo castello lungo la strada per Volterra, ma prossimo anche a Colle, in sostituzione del Castel Vecchio sulle alture interne, ancora oggi rudere affascinante tra i boschi di una riserva naturale regionale. Il ruolo nodale del Castel Nuovo viene confermato dalla cartografia successiva, compresa la mappa della Chiana, commissionata a Leonardo da Vinci attorno al 1503 per risolvere il secolare problema dello 1, 4/17. Foto Filippo Poli

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... nei terremoti recenti, come in quello dell’Emilia, un problema cruciale è rappresentato dai cimiteri, anche nei comuni di minori dimensioni, che rivestono caratteri di monumentalità a fronte di una sempre minore frequentazione da parte di parenti e fedeli.


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scolo delle acque tra Arno e Tevere. Attorno al castello si forma e si consolida un borgo fatto di case rurali connesse ai lavori agricoli, che plasmano con arature, piantumazioni e una cura meticolosa di carattere artigianale il territorio circostante. Ne nasce un paesaggio fortemente estetizzato, la cui bellezza, consapevolmente difesa durante i secoli, si fonda sulla continuità indissolubile tra natura e architettura. San Gimignano, già agli inizi dell’Ottocento, era percepita come un ambiente integralmente medievale perché sfuggita alle tante manomissioni che altrove avevano alterato la Penisola, come ha chiarito il bel libro recente (2019) di Luca Giorgi e Pietro Matracchi, dedicato alle torri della città attraverso la storia e il restauro. La riqualificazione del vecchio cimitero del Castel Nuovo, ora Castel San Gimignano, non può quindi ridursi ad un mero problema tecnico-amministrativo. Il gruppo di progettisti a cui è stato affidato nel 2016 l’incarico, Microscape architecture urban design, ha puntato al rispetto del senso dei luoghi. La pianta rispetta quindi il vecchio recinto rettangolare e quello più recente, conservando la recinzione originaria in pietra e l’andamento terrazzato determinato dal sito collinare. Nel camposanto antico è stata conservata la cappella - sebbene la tinteggiatura abbia uniformato gli strati di intonaco che le conferivano un’aura senza tempo - e sono stati rivisti i percorsi con blocchi in calcestruzzo di varie dimensioni. Il muro resta il protagonista dell’intervento, declinato con gabbioni metallici riempiti di pietra calcarea: un materiale già sdoganato dalla sua originaria funzione da Herzog e de Meuron nella Dominus Winery sita nella californiana Napa Valley – una sorta di replica del Chianti in terra americana - ma che qui riacquista la sua connotazione arcaica di muro a secco.

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Nel nuovo e antico cimitero di Castel San Gimignano ogni elemento inessenziale è stato espunto. 12


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Il progetto gioca con le geometrie del paesaggio circostante riassunte nella verticalità dei cipressi e nell’orizzontalità dei muri, e le rilancia nel reticolo cartesiano delle gabbie metalliche.


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Gabbioni delimitano e rafforzano il recinto tra le due aree cimiteriali, e gabbioni serrano i due volumi cubici che ospitano i nuovi loculi, la cui struttura è opportunamente progettata con criteri antisismici. Così, nel nuovo e antico cimitero di Castel San Gimignano ogni elemento inessenziale è stato espunto. Il progetto gioca con le geometrie del paesaggio circostante riassunte nella verticalità dei cipressi e nell’orizzontalità dei muri, e le rilancia nel reticolo cartesiano delle gabbie metalliche. Lo stesso suolo è stato riportato al rigore geometrico dell’insieme, regolarizzando con gradoni i terrazzamenti e disponendo con ordine le sepolture a terra. Anche la vegetazione fa parte del progetto: nuove piantumazioni di cipresso schermano i loculi realizzati negli anni Settanta-Ottanta lungo uno dei lati corti; e rampicanti sono stati messi a dimora perché la natura possa lentamente riappropriarsi dei nuovi muri. Il processo di riqualificazione si è completato nel 2019 con un budget contenuto che ammonta a circa 150.000 euro. Microscape architecture urban design, fondato nel 2006 a Lucca dai fratelli Patrizia e Saverio Pisaniello, si era già fatto notare per l’approccio minimalista e la capacità di dialogo con la preesistenza, come nel progetto per la piazza del municipio di Povegliano, in Veneto (2007-2009). Lo stesso taglio progettuale emerge nella sistemazione della chiesa di San Pellegrino a Lucca (2015-16), che dopo un lungo periodo di abbandono, è ora deposito della collezione di gessi del Polo Museale Toscano. Per questo, il progetto ha reso la chiesa essen-


ziale nelle sue linee architettoniche grazie ad una candida tinteggiatura: ma l’intervento si distingue anche per il contenimento dei costi e per il rispetto della preesistenza, malgrado l’adeguamento impiantistico. L’avvicinamento progressivo ai temi del restauro appare inoltre confermato dall’intervento sull’oratorio lucchese degli Angeli Custodi (2016-2020), che viene presentato in questa stessa rivista. Nel cimitero di Castel San Gimignano i giovani progettisti riescono a ricondurre il linguaggio minimalista ad una marcata dimensione spirituale. La riduzione di ogni aggettivo concentra l’attenzione sugli elementi ultimi ed essenziali dell’architettura e del paesaggio, così come della vita umana. Il paesaggio toscano diventa lo spunto per una riflessione più ampia, tutta all’interno degli strumenti propri dell’architettura, quali il volume, la linea, il peso, capace di restituire all’esperienza estetica valori profondi e sostanziali.

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TESORI CELATI DI LUCCA

IL RESTAURO DELL’ORATORIO DEGLI ANGELI CUSTODI Clara Verazzo

L’inaugurazione nel giugno 2020 dell’Oratorio degli Angeli Custodi, dopo tre anni di lavoro, ha ridato vita ad uno spazio intimamente legato alle attività culturali e musicali, realizzando nella città «dall’arborato cerchio ove dorme la donna del Guinigi», quella rinascita attesa da Gabriele d’Annunzio per le «città del silenzio». Non a caso, le parole pronunciate dal presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, promotrice dell’intervento di restauro, fanno esplicito riferimento alla riapertura quale «segnale di fiducia e di speranza in una congiuntura storica difficile e delicata». È stato infatti restaurato e restituito alla fruizione pubblica un manufatto architettonico di notevole interesse storico-artistico, ma anche simbolo di riscatto delle fasce più deboli della popolazione, che proprio in questo luogo avevano la possibilità di ricevere una adeguata istruzione. L’edificio, ubicato nei pressi della Torre Guinigi, venne costruito a partire dal 1638 per volontà del religioso secolare Bonaventura Gasparini (1579-1659), fondatore nel 1627 della Congregazione degli Angeli Custodi, che affiancava alle pratiche religiose la formazione dei fanciulli meno abbienti della città, alternando lezioni ex cathedra ad attività ricreative, prediligendo quelle musicali. Con l’aumento del numero degli studenti, soprattutto a seguito della peste del 1630, e grazie ad alcune donazioni, Gasparini commissionò all’architetto Vincenzo Paoli il progetto per un nuovo edificio da adibire a sede stabile della Congrega-

zione. A pochi mesi dalla posa della prima pietra, avvenuta il 13 aprile del 1638, le attività educative e culturali, oltre che religiose dell’Oratorio vennero inaugurate con una messa solenne celebrata il 1° ottobre. L’edificio ha un impianto rettangolare, con le pareti articolate da paraste che individuano le cinque campate più grandi dell’aula e quella più piccola del coro, all’attacco dell’altare, a cui si aggiunge, in alzato, una teoria di bucature. La copertura è a volta, a botte lunettata sulle campate della nave centrale, a vela su quella del coro. Il prospetto principale, estremamente semplice, è a terminazione timpanata, con un’unica finestra in asse. L’accesso all’edificio è garantito dal portone d’ingresso posto sul fianco settentrionale del prospetto principale, che immette in una piccola corte interna, dalla quale è possibile accedere all’aula. L’Oratorio si arricchisce, in pochi anni, delle opere d’arte di interessanti esponenti della scuola pittorica locale, tra le quali si segnalano gli Angeli affidano i fanciulli alla protezione del Volto Santo (prima del 1657) di Matteo Boselli (1593-1668 ca.), l’Agar e l’angelo (1660) e La scala di Giacobbe (1679) di Gerolamo Scaglia (1620 ca.-1686), San Michele Arcangelo abbatte il demonio (1661) di Pier Filippo Mannucci (1601-1669), Il Trionfo della Chiesa e Cristo servito dagli Angeli (1664) di Antonio Franchi (1638-1709) e Bambino presentato da un angelo alla Sacra Famiglia (1704) di Filippo Dinelli (fine XVII sec.-inizio XVIII sec.).

Ma è solo grazie all’intervento del pittore Giovan Domenico Lombardi (1682-1751), artista capace di unire il colorismo veneto con i chiaroscuri caravaggeschi e il nascente gusto neoclassico, che l’interno acquisisce un apparato pittorico e decorativo complessivo, concepito con attento equilibrio. 1/20. Foto Filippo Poli

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Le fonti documentarie gli attribuiscono, alla fine del XVIII secolo, la «pittura del coretto sopra l’altare maggiore», ma verosimilmente Lombardi lavorò su tutto l’impianto, già a partire dal secondo decennio del XVIII secolo. Il pittore, già noto per l’Estasi di San Luigi Gonzaga, collocato nella cappella di Sant’Ignazio, presso la chiesa dei SS. Giovanni e Reparata di Lucca, raggiunge nell’oratorio una visione coerente attraverso l’uso di tonalità tese e nitide, che trovano nell’area presbiteriale la sua acme. Predispone, in corrispondenza del coro in legno intagliato e dipinto, una trama prospettica composta da piani sfalsati che vanno dall’arco trionfale alla parete di fondo. Intreccia così illusioni prospettiche e realizzazioni materiali, in un’alternanza tra finzione e realtà che cattura l’attenzione dello spettatore, enfatizzando visivamente la centralità dello spazio liturgico. La mano del Lombardi, maestro della natura morta, è riconoscibile anche nelle figure fitomorfiche nelle cartelle marmoree con conchiglie e cornucopie, che segnano le pareti di chiusura della navata. A lui, va attribuita anche la Madonna col Bambino che compare tra le nubi nella parete di fondo, e le Virtù, inserite all’interno di ovati monocromi rossicci sulle pareti della tribuna. Le decorazioni delle pareti d’ambito della navata risultano strettamente connesse alle nove grandi tele dedicate ad altrettanti episodi della storia biblica, in cui l’intervento degli angeli svolge un ruolo decisivo. Verosimilmente più tarde, invece, risultano le decorazioni della controfacciata, dove sono collocati, in corrispondenza della cantoria e dell’organo ottocentesco, una serie di stemmi segnati da volute, racemi vegetali, mascheroni e pendane di frutta e fiori, ascrivibili alle numerose famiglie che tra il XVIII e il XIX secolo supportarono le attività della Congregazione. Nel 1808, a seguito delle leggi eversive, la Congregazione viene soppressa e l’Oratorio chiuso, per circa un secolo, riaprendo nel 1914, inizialmente come sede del Ricovero degli Artigianelli, poi, nell’ultimo decennio del Novecento, come auditorium dell’Istituto Musicale Diocesano “Raffaello Baralli”. I recenti lavori di restauro sono iniziati nel 2017, grazie alla stipula di un comodato d’uso gratuito tra la Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca e l’Ente Diocesano, detentore del complesso, a cui si è aggiunto il contributo di Azimut Holding SpA, che ha sostenuto direttamente il restauro di sette delle nove tele presenti nell’edificio.

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L’intervento si è reso necessario dopo decenni di mancate manutenzioni e in seguito ai danni prodotti, lungo le masse fabbricative meridionali dell’edificio, dalle infiltrazioni di acqua piovana provenienti dall’adiacente Officina degli Artigianelli, che stavano parzialmente compromettendo sia l’assetto strutturale dell’edificio, sia l’aspetto decorativo e figurativo dell’aula. Il progetto proposto dallo studio Microscape, volto prevalentemente a conservare il manufatto architettonico nella sua complessità storicoartistica, interviene innanzitutto sulla risoluzione dei fenomeni di degrado, grazie allo studio, alla progettazione e all’esecuzione di una nuova copertura, dotata di un sistema di canalizzazione delle acque meteoriche in grado di scongiurare eventuali infiltrazioni future. Contestualmente, vengono revisionate e restaurate le capriate con materiali e tecniche costruttive compatibili, il più possibile simili a quelle tradizionali. Alla scelta progettuale di perseguire una metodologia conservativa, è conseguito il mantenimento dell’apparato decorativo così come è giunto a noi, a seguito dei rifacimenti risalenti alla seconda metà del Settecento. Tutte le finiture superficiali, gli apparati pittorici e scultorei, gli stucchi e le superfici lapidee sono state quindi opportunamente ripulite, consolidate e reintegrate nelle parti perdute o danneggiate.

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L’esigenza di rendere fruibili gli spazi a servizio dell’aula preesistente viene risolta attraverso la creazione di nuovi elementi distributivi e locali di servizio. Alla spazialità seicentesca viene aggiunta nella corte interna, già in stato di degrado materico, una nuova struttura la cui trama, benché caratterizzata dall’impiego di materiali manifestamente contemporanei come acciaio e vetro opalino, si inserisce in continuità con le geometrie e le orditure dell’impianto preesistente: si realizzano così un piccolo foyer e una biglietteria automatica, disposta in un desk girevole in legno verniciato. Particolare attenzione è stata riservata al collegamento tra la corte interna e gli ambienti di servizio, con l’inserimento di nuovi elementi distributivi di taglio contemporaneo. A una migliore accessibilità degli spazi contribuisce anche la realizzazione di un nuovo piano di calpestio, strutturato su tre ampi gradoni. A ciò si aggiunge l’inserimento di una rampa posta sul fronte settentrionale del foyer che conduce ai camerini per gli artisti e ai locali di servizi per gli spettatori: un sistema di pareti inclinate plasma i nuovi spazi, celando gli ingressi agli ambienti interni. I lavori di restauro hanno interessato anche le due scale in pietra arenaria grigia di accesso al coro e alla cantoria, disposte lungo il fronte meridionale della corte, di cui è stato proposto un attento intervento di pulitura e conservazione del materiale lapideo. I lavori sono stati completati con un adeguato impianto illuminotecnico volto a rispondere, al meglio, alle distinte esigenze funzionali (figurative, culturali, turistiche ecc.), ma anche a proporre elementi di carattere contemporaneo, disegnati e integrati, al proprio interno, con un assemblaggio di più sorgenti luminose, destinate a illuminare le superfici nelle diverse


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direzioni, garantendo, soprattutto nel caso dell’aula, una corretta lettura dell’apparato figurativo complessivo. Negli spazi distributivi viene impiegata la luce zenitale, ottenuta con apparecchi ad incasso, mentre per i due camerini si preferiscono lampade verticali a parete, alternate a superfici specchiate, così come per la sala riunione, in cui i corpi illuminanti vengono posti negli spigoli tra le pareti d’ambito. I nuovi spazi annessi all’aula accolgono l’apparato di arredi sacri rinvenuti durante i lavori, opportunamente restaurati, tra i quali si segnala l’affresco dell’Angelo Custode con bambino, distaccato nel 1975 dal portone di ingresso principale, che oggi come ieri accoglie i visitatori dell’oratorio. Per risarcire la lacuna prodotta dallo strappo degli anni Settanta, restituendo, così, dignità al fronte principale, è stata collocata in facciata una riproduzione digitale dell’affresco stampata su alluminio. L’attenzione dei progettisti di Miscroscape è stata prevalentemente indirizzata verso due ambiti: il restauro delle finiture superficiali e degli apparati decorativi, insieme alle tele presenti, singolarmente indagate e studiate; l’impiego di materiali e tecnologie attuali nel rapporto con la preesistenza, con l’obiettivo di proporre integrazioni e aggiunte attraverso l’uso di un linguaggio contemporaneo, ma compatibile con l’edificio esistente, tutto nel rispetto del principio della distinguibilità. Con questa logica, l’intervento ha restituito alla collettività un luogo simbolico, caro alla città di Lucca soprattutto grazie alla sua acustica, che lo ha reso, nel tempo, luogo d’elezione per compositori, musicisti, spettatori.



L’ELOGIO DELLA FECONDITÀ CHRISTIANE LÖHR A SAN FEDELE DI MILANO Andrea Dall'Asta

Quale dialogo tra arte e fede? Se in questi ultimi anni l’interesse ecclesiale per la dimensione estetica è notevolmente cresciuto, tuttavia una seria riflessione teologica sull’arte, sul modo con cui la dimensione estetica interagisce con le comunità credenti non è mai stata realmente oggetto di una profonda indagine. Innanzitutto, occorre fare una distinzione tra «arte sacra» e «arte liturgica». Se infatti in ambiente ecclesiale l’«arte sacra» è un equivalente di «arte liturgica», con la prima intendo quell’espressione estetica che, senza avere una precisa connotazione confessionale, parla delle dimensioni più profonde della vita che si aprono a un desiderio di assoluto, a un’indagine sul mistero dell’uomo nella sua totalità. In questo senso, tutta la vera arte è sempre «sacra». In questo senso, oggi, la vera sfida per la Chiesa non riguarda l’arte «sacra», ma quella che nasce per luoghi di culto, per la celebrazione liturgica e per la preghiera, che esprime contenuti della fede cristiana, ed è chiamata a offrire alla comunità dei fedeli nuove forme e nuovi simboli, secondo l’espressione di papa Francesco, che parlino al fedele di oggi, secondo i linguaggi, la cultura e lo spirito del tempo presente. Se per secoli la Chiesa è stata grande committente di arte liturgica, tuttavia oggi ha perduto questo ruolo decisivo. Uno scollamento tra l’arte «profana» dei circuiti ufficiali del mondo artistico e l’arte liturgica si è scavato senza che tra queste due realtà ci sia stato un interesse reciproco. Questa frattura risale al XVIII secolo, al periodo dell’Illuminismo, quando il centro culturale europeo si sposta da Roma a Parigi, per accentuarsi sempre più con il passare del tempo, fino a quando, con il Novecento, le strade dell’arte profana e quelle dell’arte liturgica diventano ormai divergenti. Se nei secoli, per la fede cristiana l’immagine è stata testimonianza, memoria, trasmissione di una fede, assumendo una dimensione cultuale, solo recentemente la tradizione filosofica ha introdotto il concetto di «opera d’arte», espressione che inizia a farsi strada dal XVIII secolo in poi, soprattutto con la riflessione kantiana, quando si vengono ad approfondire le ragioni per cui un’immagine è definita «bella» in base al giudizio di un soggetto. Da qui la domanda sul senso dell’esperienza estetica. Qual è l’opera d’arte? Che cosa è un oggetto «estetico»? Quali sono i suoi contenuti? In che modo si pone l’immagine destinata al culto? Deve essere un’opera d’arte o semplicemente un’«immagine», indipendentemente dal suo valore artistico? Di fatto, l’arte contemporanea, da quando ha perso il suo fondamento nella trascendenza, nel Dio biblico che da secoli aveva accompagnato l’uomo nella storia, indaga altri percorsi rispetto a quelli della fede cristiana. In un mondo in cui l’esistenza cristiana diventa sempre più fatto privato frutto di un’elaborazione personale, l’arte liturgica fatica a trovare una nuova sintesi, a porre le giuste domande all’estetica, alle contemporanee espressioni artistiche. È come se avvertisse un senso di smarrimento e di paura a per1/5. Foto Luca Casonato

Se per secoli la Chiesa è stata grande committente di arte liturgica, oggi ha perduto questo ruolo decisivo. Uno scollamento tra l’arte «profana» dei circuiti ufficiali del mondo artistico e l’arte liturgica si è scavato senza che tra queste due realtà ci sia stato un interesse reciproco.

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correre nuove strade. Di fatto, è completamente emarginata dalla produzione infinita delle immagini. Per tutto il Novecento il mondo ecclesiale è stato segnato da un lato dal desiderio di riaffermare i principi secolari di una gloriosa arte cristiana, rivisitando dalle soffitte modelli oggi desueti e improbabili, dall’altro lato di comprendere affannosamente le ragioni di una modernità che appare sempre più sfuggente e liquida nelle sue continue metamorfosi. L’arte liturgica appare incapace di generare cultura, scadendo nella funzionalità dell’arredo, nella didascalia pratica di un insegnamento da proporre, nell’immagine devozionale. A poco è servito l’appello di pacificazione di Paolo VI nella Cappella Sistina nel 1964, rivolto agli artisti. Se questo aveva il tono di un’implorazione accorata, espressa attraverso la celebre frase: «Noi abbiamo bisogno di voi!», da un lato faceva emergere la consapevolezza di una frattura che si era inesorabilmente scavata nei secoli, dall’altro confessava un senso di colpa, di fronte a un mondo che si era emancipato, seguendo percorsi autonomi e indipendenti. Una richiesta di perdono, dunque, per secoli di abbandono e di trascuratezza. Se poi oggi vediamo in Italia le diverse realizzazioni in chiese antiche e moderne, ci rendiamo bene conto di come anche i ripetuti appelli di papa Giovanni Paolo II e di papa Benedetto XVI siano rimasti lettera morta. Di fatto, se si producono eventi mediatici altisonanti, nell’illusione di ricucire questo divorzio, ci si accorge presto come questi abbiano una scarsa rappresentatività reale nell’immaginario cristiano. Il divorzio tra arte e fede continua, la cultura estetica resta ancora oggi bandita dalla formazione ecclesiale. La Chiesa non può restare indifferente di fronte a questa crisi epocale, a questa mancanza di un orizzonte comune, anche se non è certo facendo crociate in nome di una verità giu-

Il divorzio tra arte e fede continua, la cultura estetica resta ancora oggi bandita dalla formazione ecclesiale.


dicante e punitiva che è possibile contrastare lo smarrimento presente. Occorre comprendere il senso di tale spaesamento, espressione di una condizione esistenziale di naufragio e di caduta, di abbandono e di lacerazione, per trovare un terreno di incontro, in cui parlare del senso più profondo della vita, interpretare le ragioni del mondo di oggi. Da un lato, la tentazione di reinscrivere la postmodernità nella tradizione assume il sapore nostalgico di un ritorno a un passato mitico e rassicurante. Dall’altro, la vera sfida consiste nell’ascoltare e prendere sul serio gli interrogativi e le contraddizioni del nostro tempo. La ragione per cui l’arte contemporanea è così frammentata e diversificata nelle sue espressioni è dovuto probabilmente al fatto che essa è abitata dall’ansia di una ricerca di senso sempre insoddisfatta e di fronte alla quale la Chiesa si sente impreparata e confusa. Di fatto, l’immagine liturgica sembra prepararsi a un appuntamento con la contemporaneità di cui ignora il luogo e l’ora.

Nulla di nuovo sotto il sole Insomma, per quanto riguarda l’arte liturgica – direbbe Qoelet – è come se dall’età barocca a oggi nulla fosse accaduto sotto il sole. Come se la buona notizia del Vangelo avesse già detto tutto e non riservasse alcuna novità. Osservando queste immagini, riscontriamo forme sin troppo viste, sin troppo rappresentate. Tutto è già stato troppo detto. Come se non ci fosse più alcuna soglia da attraversare, alcun «oltre» verso il quale dirigersi. Tutto cade nella banalizzazione, nella rappresentazione di un Dio che non ha più nulla da dire all’uomo di oggi. «Dio è morto», proclama Nietzsche. Dio muore realmente nelle banalizzazioni che vengono date della sua immagine. Per annunciare il Vangelo, occorre essere figli del tempo presente, vivere fino in fondo le contraddizioni e i drammi dell’oggi, perché la buona notizia possa portare i suoi frutti. Cristo si è incarnato nel suo tempo, non ha vagheggiato un mitico mondo passato…! Che l’arte possa essere di nuovo profetica, che sappia indicare nuovi orizzonti di senso, perché l’uomo di oggi possa essere in grado di accettare le sfide della contemporaneità e dei suoi linguaggi!

Poche indicazioni si intravedono all’orizzonte. Di certo, si assiste a un «fai da te» dell’arte che si esprime in un pessimo gusto, in interventi estemporanei e improvvisati. La proposta della committenza è così ridotta a esigenze iconografiche, ignorando la realtà, i luoghi della cultura, il vissuto delle persone.

La Chiesa di San Fedele: la fede interroga l’arte In questo contesto, nel desiderio di riallacciare un dialogo tra arte e fede, da alcuni anni, attraverso la Galleria d’arte San Fedele di Milano, alcuni artisti sono intervenuti nella storica chiesa di San Fedele, progettata da Pellegrino Tibaldi nella seconda metà del XVI secolo, tra gli esempi più compiuti della Controriforma. Nella chiesa si sono infatti sviluppate quelle ricerche che, partendo dalla Galleria d’arte, sono poi sfociate in una direzione più esplicitamente liturgica, per prendere corpo nel Museo San Fedele, concepito come percorso di arte e fede che integra negli stessi spazi arte antica e arte contemporanea. Nel superamento di qualunque cristallizzazione museale, intende indagare come l’arte liturgica possa riflettere nell’adozione dei linguaggi di oggi. A partire dal 2015 è stato infatti inaugurato un vero e proprio itinerario nella chiesa e in alcuni spazi annessi, come la cripta, la sacrestia, la cosiddetta «Cappella delle Ballerine», una piccola pinacoteca. È questo un cammino che presenta la particolarità di integrare nell’architettura antica, che accoglie numerose opere dei secoli XVI e XVII, alcuni interventi attuali. Si è dunque creato un percorso articolato che dalla navata si conclude idealmente nell’abside. L’analisi degli aspetti simbolici e teologici è stato fondamentale. Se le diverse immagini antiche della chiesa, presenti nelle cappelle, nei confessionali, nel pulpito, nell’altare maggiore, negli stalli del coro, nella cripta, sono interpretate come un pellegrinaggio verso la salvezza dalla morte alla vita, gli interventi contemporanei hanno cercato di arricchire e di completare il percorso attraverso un’attenta riflessione liturgica e teologica. Non dimentichiamo come il primo intervento «contemporaneo» in San Fedele risalga alla pala d’altare di Lucio Fontana nel 1957, quando dalla Cappella della

Nel desiderio di riallacciare un dialogo tra arte e fede, da alcuni anni, attraverso la Galleria d’arte San Fedele di Milano, alcuni artisti sono intervenuti nella storica chiesa di San Fedele, progettata da Pellegrino Tibaldi nella seconda metà del XVI secolo, tra gli esempi più compiuti della Controriforma.

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Guastalla fu sostituita la tavola della Trasfigurazione di Bernardino Campi, per fare posto alla ceramica smaltata ed invetriata del Sacro Cuore. Da allora, diverse realizzazioni si sono succedute. Agli artisti, invitati a vedere concretamente gli spazi della chiesa anche diverse volte, è stato chiesto di riflettere su tematiche biblico/teologiche, partendo dalle sacre scritture, da testi liturgici, in modo che le loro opere si integrino armonicamente con gli spazi pre-esistenti. Troppo spesso, infatti, quando si entra in chiese antiche si resta scoraggiati nel vedere spazi feriti da interventi ingombranti, violenti, estranei. In questo contesto, nasce l’intervento di un’artista tedesca, Christiane Löhr, invitata a creare un’installazione permanente in uno spazio storico annesso alla chiesa: la «cappella delle Ballerine».

Christiane Löhr: Arte, vita e natura Christiane Löhr, allieva di Jannis Kounellis, nata nelle campagne della Mosella, è da sempre impegnata nella creazione di disegni, sculture e installazioni. Il contatto diretto con la natura e la stretta relazione con lo spazio circostante sono la fonte della sua attività creatrice che presuppone un lungo lavoro in solitudine. Christiane Löhr trae ispirazione dal mondo naturale e, grazie a un raffinato processo astrattivo, ne riconosce la struttura interna, l’essenza, il suo stesso segreto. L’artista utilizza piccoli elementi vegetali e animali. Sono semi di diverse piante come cardo selvatico, edera, graminacee, oppure crini di cavallo intrecciati ad aghi. Non sono oggetti di particolare rilevanza né simbolica né estetica, ma molto comuni, spesso trascurati. E soprattutto effimeri. Tuttavia, nelle mani dell’artista, grazie a un sapiente gioco di «intreccio», danno vita a piccoli microcosmi, in un fragile equilibrio sospeso tra la levità della materia e la solidità di una rigorosa costruzione architettonica. Christiane Löhr crea in questo modo potenti architetture «natu-

rali» di piccole e di grandi dimensioni. Sono forme fatte di movimenti circolari e di vortici, sculture dinamiche che si animano come in una danza… Le potremmo chiamare «architetture esistenziali», come se la vita si mettesse qui alla ricerca di forme, di punti di riferimento, di modalità espressive. È come se Löhr riconoscesse il segreto della Natura grazie a forme simboliche, facendone emergere la vita sotterranea. Come dice l’artista: «Ho costruito una teoria molto personale. Si tratta dell’osservazione sulle forze che si esprimono nella natura, così come nell’architettura». Grazie a queste architetture, l’artista rivela quanto di più profondo è inscritto nella Natura, rivelandone la linfa, la forza e l’energia. Christiane Löhr realizza «strutture architettoniche» del tutto particolari. All’armonia dell’insieme corrisponde, infatti, una fragilità della materia, delle relazioni tra i singoli elementi. La materia stessa rinvia a una tensione, a una dialettica continua tra stasi e movimento. Talvolta è sufficiente un piccolo gesto per causare la disarticolazione del «tutto», la sua «scomposizione» o distruzione. Fondando il suo lavoro sulla dialettica sempre instabile e incerta tra fragilità e armonia, l’artista mostra come l’equilbrio sia un principio che va salvaguardato, custodito e amato. In questo senso, l’arte parla della vita. Nella nostra realtà tutto è in relazione e non è forse sufficiente modificare o alterare un elemento per «distruggere» un’armonia custodita da tempo?

Un’installazione nella cappella delle Ballerine: «Samenwolke/nuvola di semi» Nella chiesa di San Fedele di Milano, Christiane Löhr realizza per il cupolino tardo ottocentesco della «Cappella delle ballerine», così chiamata in quanto fino a pochi anni fa le ballerine del Teatro alla Scala portavano un fiore la sera del debutto, un’installazione dal titolo «Samenwolke/nuvola di semi», in diretta


relazione con l’antico affresco del XIV della Madonna del latte collocata sull’altare marmoreo. Appesa alla piccola cupola della cappella, e usando la forza fisica della gravitazione, la forma concava esistente costituita di leggerissimi semi di cardi ha preso forma nello spazio convesso della cupola. È questo un intervento discreto, silenzioso, leggero. Christiane Löhr crea un’installazione in dialogo con la cappella sia dal punto di vista «spaziale» che simbolico. In modo particolare, se si osserva attentamente la forma parabolica a sezione pressoché circolare della scultura, una relazione immediata sembra instaurarsi con l’apertura della lanterna del cupolino da cui proviene la luce. Due «dischi» sono posti l’uno accanto all’altro, come in un inaspettato accostamento del sole con la luna, della luce diurna con quella notturna, rimandando così allo scorrere del tempo, al momento originario della creazione, come scritto nel primo capitolo di Genesi. La forma circolare è poi ripresa nella modanatura di pietra che definisce la sezione orizzontale della cupola, nel cartiglio ligneo del timpano delle porte della cappella in cui è scritto il Nome di Gesù, IHS, nei tondi di pietra con la Vergine e san Carlo Borromeo sulla parete di fondo... La forma parabolica della scultura sembra contrarsi e dilatarsi nello spazio, ogni volta accogliendo un significato diverso. Se cambiamo punto di vista, la scultura appare infatti assumere forme simboliche differenti. L’opera sembra innanzi tutto evocare una nuvola che, nel contesto di uno spazio sacro come una cappella dedicata alla Vergine, rimanda all’episodio dell’Annunciazione, quando l’angelo dice a Maria che «Lo Spirito Santo scenderà su di te, la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra» (Lc 1,35). Infatti, nella tradizione iconografica cristiana, l’ombra di Dio è la sua nube luminosa, la sua Shekhinah, la presenza stessa dello Spirito che scende, per avvolgere il corpo della donna. È questo il momento dell’Incarnazione. Maria darà alla luce un figlio che sarà chiamato Figlio di Dio. Il «cesto» di semi di cardo rimanda quindi alla vita che sta per germogliare, a una nuvola che porta fecondità, in diretta relazione simbolica alla figura di Maria che, seduta su un trono, campeggia con lo sguardo dolce e materno nell’affresco dell’antica pala d’altare. Non solo. La forma della scultura, cambiando posizione, sembra evocare quella di una mammella, molto simile a quella della Vergine che sta allattando Gesù Bambino, il cui sguardo è rivolto verso l’alto, nella direzione di quella nube leggera. È come se dalla forma stessa di quella scultura fossero in questo modo evocate le dimensioni della fecondità e del nutrimento. Allo stesso tempo, la nuvola sembra un alveare che custodisce. La nuvola si fa allora simbolo di protezione, di un prendersi cura, di un accudire la vita. Di fatto, l’installazione dell’artista tedesca riflette sul senso più profondo del mistero dell’esistenza umana.

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LA VALORIZZAZIONE DELLA STORIA E

IL LINGUAGGIO CONTEMPORANEO DEL SACRO NEI PROGETTI DI BRÜCKNER & BRÜCKNER ARCHITEKTEN Francesco Menegato

Una porta che si apre ed invita ad entrare. Il volume cesellato di un’abside che si delinea nel tessuto storico della città. Una facciata a capanna, in granito, che compare tra le conifere. Gli interventi su edifici sacri dello studio Brückner & Brückner Architekten, di Tirschenreuth (Germania), sono spesso riassumibili in un’immagine, pochi elementi che riescono a fornire una suggestione sul progetto e raccontano una storia: il punto di partenza del progetto ed il suo esito. Questa estrema sintesi formale e di significato viene raggiunta grazie ad un’operazione di sottrazione che porta il progetto a definirsi su pochi tratti essenziali, che possano rendere giustizia alla storia dell’edificio esistente e consentire alla chiesa di continuare a narrare la propria storia anche attraverso l’acquisizione di un linguaggio contemporaneo. Lo studio, infatti, è stato spesso chiamato ad intervenire su edifici di chiese esistenti, per restaurarle ed ampliarle. Diventa perciò necessario e fondante, nell’azione dell’architetto, innestare il progetto sull’esistente, affinché antico e nuovo creino una nuova unità che faccia della chiesa un edificio sacro coerente con il presente e aperto al futuro. Nell’ampliamento della chiesa di St. Peter a Wenzenbach, progettato nel 1998, questo rapporto è pienamente esplicitato: la nuova nave in legno di larice e vetro blu si aggancia e abbraccia l’edificio preesistente della chiesa del villaggio, dotandola di un nuovo senso unitario. Il volume pieno e massiccio della preesistenza perciò sfuma nella sempre maggiore trasparenza della nuova aula e nel cielo. Il progetto parte da un riordino e da una gerarchizzazione del tessuto urbano nel quale è inserita la chiesa esistente, andando a delineare lungo la via principale un nuovo spazio per il sagrato e riorganizzandone gli accessi. In questo modo viene garantito al nuovo progetto un inserimento adeguato nel contesto,

1/8. St. Peter, Wenzenbach (1998). Ampliamento - Foto Peter Manev

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... costruire nel contemporaneo non significa annullare l’antico, ma dotarlo di un nuovo senso, andando a definire e a calibrare minuziosamente un rapporto armonioso tra vecchio e nuovo. 33 che ne enfatizzi i volumi e ne faciliti la riconoscibilità e l’accessibilità. La chiesa esistente viene risignificata alla luce della costruzione della nuova aula, che si apre perpendicolarmente all’andamento dell’antica navata. Quest'ultima infatti viene trasformata nel progetto in un grande nartece tripartito dove trovano spazio la cappella feriale, in prossimità del precedente presbiterio, e la nuova sagrestia, in prossimità di quello che una volta era l’ingresso principale. Il nuovo ingresso invece viene ricavato nell’ex ingresso laterale, da cui si accede assialmente alla nuova aula. All’incrocio tra vecchio e nuovo si trova il fonte battesimale, sopra di esso il loggione con organo e coro. La pianta a forma di nave viene ripresa anche nella travatura del soffitto mentre la luce naturale trasfigura lo spazio attraverso l’uso dei vetri blu, in un crescendo di intensità che parte dall’ingresso per culminare nello spazio del presbiterio. Ecco quindi che costruire nel contemporaneo non significa annullare l’antico, ma dotarlo di un nuovo senso, andando a definire e a calibrare minuziosamente un rapporto armonioso tra vecchio e nuovo. Nel progetto per il restauro della chiesa di St. Klara a Norimberga (2004), a seguito dei danni inferti all'edificio dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, questo rapporto viene veicolato attraverso la purezza delle forme e la loro dichiarata appartenenza alla storia o al presente. Pochi elementi definiti accompagnano il fedele in un percorso dall’esterno caotico e rumoroso della città all’interno morbido, ovattato e accarezzato dalla luce della navata principale: il luogo del silenzio. La disposizione della chiesa nel tessuto della città –con l’abside che si affaccia sulla via principale- ha portato a ripensare alla modalità di accesso allo spazio sacro, in modo che potesse essere il più fluido e privo di ostacoli possibile. L’ingresso viene infatti definito come una “cappella lungo la strada” attraverso la riapertura della porta ogivale che si apre su Köningstrasse e delle arcate che mettono in comunicazione la piccola cappella con la navata principale, creando così un luogo di transito –e di transizione- che possa essere per i passanti un luogo di devozione in cui sostare e

9. St. Peter, Wenzenbach (1998). Piata e sistemazione degli spazi esterni.


accendere una candela e per i fedeli un piccolo foyer in cui incontrarsi e conversare alla fine della messa. Lo spazio viene concepito come una scatola che si inserisce all’interno dell’ambiente esistente, mantenendo una rispettosa distanza, e le cui pareti formate dalla stratificazione di legno e vetro secondo forme marcatamente contemporanee fungono da basamento per la statua della Vergine Maria e per le candele votive. Oltrepassando la membrana di vetro che chiude le due arcate sottolineando il passaggio tra gli spazi e permettendo alla luce di entrare, si accede alla navata principale. L’omogeneità del trattamento delle superfici, pur nel rispetto della diversa matericità di volte pareti e pavimento, crea un ambiente uniforme e adatto alla preghiera, in cui la luce si poggia morbida sugli oggetti facendoli vibrare nel silenzio. Su di questo sfondo uniforme risaltano gli elementi storici, il cui racconto viene amplificato e reso significativo per il presente anche grazie all’essenzialità a cui vengono ricondotti.

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10/13. Chiesa di St. Klara, Norimberga (2004). Restauro - Foto Constantin Meyer In alto

14. Chiesa di St. Klara, Norimberga (2004). Restauro - Foto Oliver Heinl 15/17. Chiesa di St. Klara, Norimberga (2004). Restauro - Foto Constantin Meyer

Lo stesso approccio guida il progetto del 2007 per il restauro e l’ampliamento della chiesa di St. Augustin a Coburgo, in cui soluzioni antiche aiutano ad orientare l’edificio al futuro. Liberata dalle superfetazioni dell’ampliamento della sacrestia degli anni Sessanta e sciolti i vincoli spaziali che la legavano agli edifici vicini, la chiesa conquista nuovo splendore grazie all’autonomia e all’enfasi delle sue forme neogotiche. Al volume dell’ampliamento spetta il compito di riconnetterla al tessuto del centro storico della città e in particolare agli edifici della canonica e del centro parrocchiale che si trovano poco più in alto sul terrapieno su cui sorge la chiesa. In questo nuovo braccio trovano spazio la sagrestia, una piccola


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18/22. Chiesa di St. Augustin, Coburgo (2007). Restauro e ampliamento - Foto André Mühling pagina di fianco

23, 27. Chiesa di St. Augustin, Coburgo (2007). Restauro e ampliamento - Foto André Mühling 24/26, 28, 29. Chiesa di St. Augustin, Coburgo (2007). Restauro e ampliamento - Foto Marie Luisa Jünger


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cappella della Vergine Maria e la cappella feriale, che attraverso un grande portale a due ante è messa in contatto con il sagrato della chiesa permettendo di fondere lo spazio interno con quello esterno e creare così uno spazio sacro completamente autonomo per le celebrazioni all’aperto. Quello dell’ampliamento diventa perciò uno spazio versatile e articolato che accoglie sia la dimensione della preghiera e della meditazione personale che quella comunitaria. Con le sue linee contemporanee l’ampliamento riprende e aggiorna le forme e i materiali della chiesa, contribuendo a creare una connessione tra passato, presente e futuro attraverso un linguaggio sobrio, lineare, preciso.

Anche nel progetto del nuovo l’aggiornamento di codici tradizionali del linguaggio architettonico, l’omogeneità e la caratterizzazione materiale dello spazio sacro sono elementi che guidano l’operato dello studio di progettazione. Ne è un esempio la cappella di San Giovanni Battista, progettata nel 2007 e premiata con la menzione speciale al Premio Internazionale di Architettura Sacra nel 2016, nell’ambito della ristrutturazione e dell’ammodernamento del centro educativo e di fede di Haus Johannisthal, nel cuore tranquillo e incontaminato e della riserva naturale dello Waldnaabtal. “Rendere possibili gli incontri” è il principio guida della


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30/37. Cappella di St. Johannes der Täufer, Johannisthal1, Windischeschenbach (2007) Foto Constantin Meyer Pagina di fianco

38/39. Cappella di St. Johannes der Täufer, Johannisthal1, Windischeschenbach (2007) Foto Marie Luisa Jünger


Anche nel progetto del nuovo l’aggiornamento di codici tradizionali del linguaggio architettonico, l’omogeneità e la caratterizzazione materiale dello spazio sacro sono elementi che guidano l’operato dello studio di progettazione.

Haus Johannisthal e la nuova cappella è pensata per permettere di incontrare Dio, la natura, le persone e se stessi. L’obiettivo dei progettisti è quindi quello di definire una nuova simbiosi tra architettura, paesaggio e persone. La nuova cappella è il cuore di Johannisthal, costruita in granito con un nucleo in legno liscio. Ricorda una casa dalla forma semplice e tradizionale e il volume riprende la tipologia delle cascine e dei fienili dell’Alto Palatinato. La rilettura delle tradizioni del luogo e degli elementi del paesaggio diventa quindi il termine con cui deve confrontarsi il linguaggio contemporaneo: il legno e il granito riflettono la natura circostante, le lampade in porcellana ricordano le vicine fabbriche di porcellane tradizionali mentre l’uso del vetro fa riferimento alla vetreria ottocentesca che insisteva sul sito e ricorda la storia del luogo. Il linguaggio semplice dell’architettura rappresenta ciò che le permette di essere comprensibile all’oggi e di raggiungere il domani. L’interno è ancora più uniforme e compatto rispetto agli interventi su edifici esistenti, grazie alla scelta di pochi materiali e poche lavorazioni: i listelli di legno delle pareti e delle coperture salgono verso la luce del colmo aperto, rendendo l’aula uno spazio liminale tra interno ed esterno, tra una stanza chiusa e raccolta e i rami degli alberi del bosco, mentre le antiche immagini sacre sono aggiornate tramite il dialogo che instaurano con i basamenti in acciaio brunito. La cultura architettonica storica e regionale è anche in questo caso stata tradotta nel presente, sono stati aggiunti nuovi elementi che comunicano attraverso la loro matericità e quelli antichi sono stati rinnovati. L’architettura dello studio Brückner & Brückner Architekten è quindi una risposta specifica per il luogo speciale in cui si trova. Non è arbitraria o intercambiabile, può stare in un solo luogo e ne rappresenta la tradizione, portando l’edificio nel contemporaneo e aprendolo al futuro senza cancellare la sua valenza storica.

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UNA CAPPELLA SEMPLICE, FAMIGLIARE, DISPONIBILE S. FRANCISCO CHAPEL VIÑA CAMPESINO MARÍA PINTO | CILE Giancarlo Santi

La storia dell’architettura delle chiese cattoliche che, come è noto, è lunga e assai ramificata, oggi sta attraversando in modo evidente una nuova stagione di rinnovamento da tre punti di vista. Quello delle forme: gli architetti cercano incessantemente forme nuove, corrispondenti a quelle del nostro tempo e in sintonia con esso. Quello della liturgia, che ha ripreso vigore a partire dalle radici bibliche e patristiche. Quello della gestione, dal momento che le nuove chiese sono affidate in tutte le loro fasi - dalla progettazione, alla manutenzione, alle trasformazioni - alle mani poco esperte delle comunità ecclesiali. Ma i fattori di rinnovamento sono anche altri, non sempre del tutto evidenti, come l’esigenza di sostenibilità, intesa nelle sue svariate componenti; come lo stile che la Chiesa sta assumendo, quello della “Chiesa in uscita”, che esige essenzialità, leggerezza e adattabilità. Progetti di chiesa capaci di rispondere a tutte le esigenze appena elencate sono rari. Quando devono progettare una chiesa, in genere i committenti e i progettisti, infatti, anche i migliori, rivolgono la loro attenzione solo a qualche esigenza, generalmente alle prime due. Il progetto che documentiamo, elaborato dallo studio di architettura Paralela, viene dall’America del Sud e ha il pregio di porsi senza paura domande radicali, tentando di dare ad esse risposte realistiche. La prima domanda è: che cosa è una chiesa. La risposta inequivocabile è: una casa. Una semplice casa, come era ogni chiesa nei primi tre secoli del primo millennio; un grande architetto contemporaneo, Hans Van der Laan osb, ce lo ha ricordato. La dimensione domestica è essenziale per la chiesa, ce lo ha ricordato padre Frederic Debuyst osb. Due monaci lungimiranti. La seconda domanda è: quali simboli usare in una chiesa? La risposta è altrettanto immediata. Un unico simbolo: la croce. I cristiani hanno solo quel simbolo. I simboli non si inven-

1/9. Foto Nico Saieh

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10, 11, 12. Foto e disegni Paralela


La Chiesa con la C maiuscola, e solo essa, è per sempre. La chiesa, la chiesa edificio, deve durare nel tempo ma senza troppe pretese. Più è leggera meglio è. Non deve vincolare troppo. Perché una chiesa deve essere al servizio di una Chiesa in uscita.

tano, come usava dire Roberto Gabetti, un architetto di grande libertà di spirito La terza domanda è: quali azioni della comunità cristiana ospita una chiesa? La risposta è disarmante: la chiesa deve essere disponibile ad ospitare tutte le azioni che caratterizzano una comunità cristiana. Il culmine sono certamente le azioni liturgiche, da attuare nelle forme e secondo modelli variabili. Ma anche altre azioni sono importanti. Le riunioni sinodali e le feste, ad esempio. Come ricorda Severino Dianich, un teologo amico degli architetti. La quarta domanda è: chi progetta una chiesa? La risposta è ancora una volta semplice: un bravo architetto, cioè quello che sa costruire una casa a regola d’arte e a prezzi contenuti. Non necessariamente una stella del firmamento architettonico mondiale. Su questo punto Andrea Longhi è stato chiaro, puntuale, ben documentato. La quinta domanda è: di chi è la chiesa? Di chi la costruisce e ne ha cura. Della comunità che la abita. La sesta domanda è: una chiesa è per sempre? La Chiesa con la C maiuscola, e solo essa, è per sempre. La chiesa, la chiesa edificio, deve durare nel tempo ma senza troppe pretese. Più è leggera meglio è. Non deve vincolare troppo. Perché una chiesa deve essere al servizio di una Chiesa in uscita. Su questo punto papa Francesco ritorna sovente. Questo progetto è stato elaborato per contesti difficili ed è stato realizzato in Cile nell’estate del 2019 in 15 esemplari da 500 volontari, tutti studenti universitari della Pontificia Università Cattolica del Cile. Quella università è evidentemente un contesto in cui non manca il coraggio di porre domande radicali e dove ci si impegna a cercare per esse risposte concrete. Questo progetto è stato pensato con molta cura per il Cile, un Paese scosso da terremoti devastanti, e perciò ha richiesto un grande impegno progettuale. Visto da lontano il Cile è una terra di confine, in cui le risorse finanziarie scarseggiano, dal quale, tuttavia, lo sguardo si allarga e abbraccia un orizzonte più vasto.

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13. Illustrazione Fabian Todorovic 14. Foto Nico Saieh



LA LITURGIA È ARCHITETTURA L'EREDITÀ DEI CONVEGNI DI BOSE Goffredo Boselli

I Convegni Liturgici Internazionali di Bose (2003-2019) sono stati ideati all’inizio degli anni Duemila da fr. Enzo Bianchi, fondatore del Monastero di Bose, e Mons. Giancarlo Santi, allora direttore dell’Ufficio Nazionale per i Beni Culturali Ecclesiastici e l’Edilizia di culto della Conferenza Episcopale Italiana (UNBCE). Organizzati congiuntamente dal Monastero di Bose e dall’UNBCE dal novembre 2003 ad oggi, con scadenza annuale, hanno sempre avuto luogo presso il Monastero di Bose. In realtà, il primo Convegno Liturgico si tenne a Bose nell’aprile 1994 per celebrare il trentesimo anniversario della promulgazione della Costituzione liturgica del Vaticano II. A questo primo convegno a inviti, dedicato all’Ordo Missae di Paolo VI, alcuni liturgisti presenti come esperti ai lavori conciliari – Joseph Gelineau, Pierre-Marie Gy, Jean-Baptiste Mulin, Burkhard Neunheuser, Adrien Nocent, André Rose – si confrontarono con liturgisti della generazione successiva, come Paul De Clerck, Cesare Giraudo, Enrico Mazza e Crispino Valenziano. A questo primo evento hanno fatto seguito altre sedici edizioni del convegno.

I Convegni di Bose all’interno del cosiddetto “fenomeno italiano” Per comprendere la specificità dei Convegni di Bose è necessario collocarli all’interno di una serie di iniziative legate allo spazio e all’architettura liturgica sorte in Italia a partire dal 2005 e che alcuni osservatori stranieri hanno denominato il “fenomeno italiano”. Prima fra tutti l’esperienza dei Progetti Pilota indetta dalla Conferenza Episcopale Italiana, la quale dal 1998 al 2011, ogni anno imbandiva i concorsi per la progettazione di tre complessi parrocchiali per il Nord, Centro e Sud Italia. Questo significa che ogni anno, per tredici anni, la Chiesa italiana ha finanziato la progettazione e la realizzazione di tre chiese e centri parrocchiali sul territorio italiano. Questa iniziativa ha avuto il grande merito di riannodare la Chiesa italiana e l’architettura contemporanea, facendo spesso parlare di sé, tanto sul web quanto sulla stampa. È a questa operazione “culturale”, come si è spesso definita, che, dal 1998, si deve il coinvolgimento di oltre 120 team di progettisti partecipanti e 18 progetti vincitori, tra i quali Gresleri, Gabetti & Isola, Fuksas. I Progetti Pilota sono stati la principale iniziativa della Chiesa italiana per coinvolgere architetti di fama nella realizzazione di spazi per la liturgia, presupponendo le Pubblicazioni degli Atti dei Convegni Liturgici Internazionali di Bose

La maniera in cui costruiremo le nostre chiese costituirà la manifestazione per eccellenza della qualità della nostra vita ecclesiale, della nostra vita di comunione nel corpo di Cristo L. Bouyer, Architettura e liturgia

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chiese come riferimenti per la comunità civile, oltre che religiosa. All’origine di questa iniziativa della Conferenza episcopale italiana, voluta e ideata da Mons. Giancarlo Santi, stava non la ricerca di un nuovo “tipo” per la chiesa della contemporaneità, ma la costruzione di un laboratorio di pensiero e di dialogo tra committenza e progettisti, al fine di elaborare opere più rispondenti alle esigenze delle comunità e di avvicinare gli architetti al tema dello spazio sacro. Scopo indiretto, ma non meno importante di quest’operazione, quello relativo alla formazione, da un lato delle committenze, dall’altro dei destinatari e dei progettisti, con la promozione di un dibattito precedentemente del tutto assente sulla funzionalità e sulla qualità delle chiese, sul significato teologico ed ecclesiologico delle opere, sul valore dell’impianto liturgico. La strada del concorso a inviti ha permesso così ai progetti di diventare occasioni didattiche, diffondendo tra i partecipanti non solo le informazioni principali sulle aree di progetto e sui requisiti funzionali ma anche sulla cornice culturale e normativa del progetto di chiese, con cenni sulle più recenti riflessioni in materia di arte e architettura per la liturgia. Un processo, insomma, il cui scopo va al di là della costruzione di una singola opera, e favorisce la sinergia architetto-artistaliturgista. Nel primo decennio del 2000 nascevano nell’ambiente accademico italiano, sia esso ecclesiastico e statale, alcune significative iniziative riguardanti l’architettura liturgica. Mi limito a citare le più conosciute e frequentate: dal 2000 fino ad oggi il Pontificio Ateneo S. Anselmo di Roma propone il Master biennale universitario di II livello in “Architettura e Arti per la Liturgia”. Dal 2003 al 2007 la Facoltà Teologica di Firenze in collaborazione con la Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze organizza il Master post-laurea in Teologia e Architettura di Chiese. A partire dal 2006 e per alcuni anni l’Accademia delle Belle Arti di Lecce propone il master di II livello in Arte per la liturgia. Nel 2007 il Dipartimento di Architettura e Progettazione dell’Università di Roma La Sapienza propone il master universitario di II livello di progettazioni per edifici per il culto, a tutt’oggi operativo. In corrispondenza alla Biennale di Architettura di Venezia, dal 2003 al 2011 il Patriarcato di Venezia e l’Ufficio per i Beni culturali ecclesiastici della Conferenza episcopale italiana promuovono un convegno internazionale su Arte e architettura per la liturgia: Esperienze europee a confronto. Negli anni successivi tre viaggi studio in Germania, Belgio e Francia hanno sostituito i Convegni. Agli inizi degli anni Duemila all’interno della Fondazione Giacomo Lercaro nasce a Bologna il Centro studi Dies Domini per lo studio del rapporto tra l’architettura liturgica e la città promuovendo corsi, seminari, ricerche e pubblicazioni, con l’intento di proporre una lettura significante dell’architettura all’interno del contesto urbano contemporaneo. Per iniziativa di un presbitero e di un gruppo di architetti nel 2010 nasce a Pescara il Centro Studi Architettura e Liturgia allo scopo di promuove corsi di specializzazione e aggiornamento professionale sull’architettura delle chiese. E’ in questo contesto potremmo definire di straordinaria effervescenza, che a distanza di anni resta unico nel panorama europeo, che dal 2003 al 2019 si sono svolti i Convegni liturgici internazionali di Bose. Ciò che li ha caratterizzati in modo peculiare è stata la formazione liturgica e teologica dei diversi operatori nell’ambito dell’architettura liturgica, non solo architetti, progettisti, artisti, professori e studenti delle facoltà di architettura ma anche le committenze, vale a dire i responsabili ecclesiali coinvolti nella partecipazione di un concorso per la costruzione di nuove chiese o l’adeguamento di chiese esistenti. Il cosiddetto fenomeno italiano si spiega essenzialmente per l’intensa costruzione di nuovi edifici di culto e di adeguamenti di chiese storiche che caratterizza il Bel paese. Si stima che in Italia, dalla seconda metà del Novecento a oggi, siano state costruite circa mille chiese e ancora oggi se ne costruiscano almeno una ventina all’anno. Con la crisi economica del 2008, anche l’edilizia di culto ha ricevuto un notevole ridimensionamento e, di conseguenza, molte iniziative formative legate allo spazio liturgico sono venute meno. Conclusa la prima fase dell’esperienza dei Progetti Pilota, ossia di progetti nazionali successivamente calati nella realtà locale e diocesana, dal 2011 la Conferenza episcopale italiana ha impresso una svolta verso un maggior coinvolgimento della committenza locale: per ciascuna delle tre chiese a bando spetta ad una giuria nazionale il compito di selezionare le prime tre proposte, mentre una giuria diocesana nomina il vincitore. Questo per evitare l’imbarazzo di chiese promosse e vincitrici risultate poi incapaci d’intercettare il gradimento di chi avrebbe dovuto edificarle e poi abitarle. Il locale è il vero banco di prova dei progetti.

Nel primo decennio del 2000 nascevano nell’ambiente accademico italiano, sia esso ecclesiastico e statale, alcune significative iniziative riguardanti l’architettura liturgica


Scopo e prospettive dei Convegni di Bose Agli albori del cosiddetto “fenomeno italiano”,

i Convegni di Bose nacquero come risposta alla ricerca di un contesto comunitario vitale nel quale, grazie ad una sensibilità liturgica ed artistica, si potessero trattare i temi maggiori legati allo spazio liturgico cristiano; temi che in quegli anni in Italia non avevano ancora trovato un luogo preciso in cui venir affrontati con ricerca scientifica e con sensibilità ecclesiale. I Convegni di Bose sono dunque nati anzitutto allo scopo di formare liturgicamente e teologicamente architetti, progettisti, artisti, direttori e membri degli uffici diocesani dei beni culturali, docenti e studenti universitari. L’internazionalità dei partecipanti è cresciuta di anno in anno: oltre che dall’Italia provenivano da Australia, Belgio, Brasile, Francia, Germania, Norvegia, Olanda, Polonia, Regno Unito, Slovenia, Spagna, Stati Uniti, Svezia, Svizzera. Particolarmente significativa negli ultimi anni la partecipazione di giovani architetti provenienti dal Sud America e del responsabile per la costruzione della nuova chiesa della diocesi ortodossa di Mosca che nel 2010 ha varato un progetto per la costruzione nella capitale russa 200 nuove chiese. L’adesione internazionale è stata facilitata dalla traduzione simultanea di tutti i lavori in italiano, inglese e francese. Dunque, i partecipanti, provenienti da paesi diversi, rappresentano varie culture. Questa mescolanza ha offerto ai congressisti l’opportunità di una sensibilizzazione ad approcci differenti, obbligandoli a relativizzare i propri modi di vedere. Il confronto ha permesso ai partecipanti di discernere tra punti di vista fondati e preferenze che dipendono soltanto dal gusto, con quello che esso può avere di passeggero. Questi incontri hanno presentato anche il vantaggio di mescolare “gente di chiesa” con altri, soprattutto architetti e artisti, cosa che non ha mancato di suscitare discussioni feconde. Fu chiaro fin dall’inizio che l’ambito ecclesiale e teologico di riferimento era quello del concilio Vaticano II e della riforma liturgica da esso scaturita. Al tempo stesso, il convegno è stato volutamente caratterizzato da un’apertura internazionale, favorendo incontri e scambi di esperienze e di realizzazioni dei principali paesi europei. Il Convegno di Bose si poneva anzitutto a servizio delle Chiese locali che sono in Italia e con esse anche delle Chiese di altri paesi. Le Chiese locali, infatti, da sempre sono impegnate ad offrire alle comunità cristiane spazi per la liturgia che siano luoghi adeguati alla celebrazione della fede. Nel corso delle edizioni, la natura ecclesiale dei Convegni è stata confermata dalla presenza di vescovi cattolici, ortodossi e anglicani, ai quali si sono aggiunti pastori luterani e riformati. A conferma della natura ecclesiale, ogni anno pervenivano al convegno la benedizione del vescovo di Roma, del Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, e i messaggi della Presidenza o della Segreteria Generale della Conferenza episcopale italiana, del Prefetto della Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti, del Prefetto del Pontificio Consiglio per la Cultura, oltre che dal vescovo diocesano. Frequente è stata la partecipazione al convegno del presidente della commissione episcopale della Cei di volta in volta succeduti e di inviati ufficiali delle congregazioni romane del culto e della cultura. Per condurre e garantire l’impostazione scientifica, fin dall’inizio fu costituito un ristretto Comitato scientifico presieduto da Enzo Bianchi e composto oltre che dal direttore in carica dell’Ufficio per i beni culturali ecclesiastici della Conferenza episcopale italiana da esperti riconosciuti per la loro competenza liturgica, teologica e architettonica con provenienza internazionale con nomina quinquennale. Si è inoltre creata la figura del coordinatore dei Convegni ricoperto fin dall’inizio dal sottoscritto, al quale è anche stata affidata la curatela dei sedici volumi di Atti. Tra i primi membri del comitato scientifico compaiono personalità come Frédéric Debuyst, Paul De Clerck e il gesuita americano Keith Pecklers. Vi hanno fatto parte i liturgisti Albert Gerhards, François Cassingena-Trévedy, Angelo Lameri, Emanuele Borsotti, il teologo Bert Daelemans, la direttrice della collezione d’arte contemporanea dei Musei Vaticani Micol Forti, lo storico dell’architettura Andrea Longhi e l’architetto Mario Cucinella e il sottoscritto in qualità di coordinatore. Nella sessione annuale di lavoro il Comitato scientifico sceglieva il tema del convegno, ne articolava il programma, individuava i relatori e al termine ne dava una valutazione d’insieme. Compito di ogni singolo membro era quello di contribuire al progetto con l’apporto specifico del proprio ambito di ricerca e, al contempo, essere il referente delle esperienze in atto, delle realtà e dei progetti della propria area

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geografica e linguistica di appartenenza. I due enti organizzatori – Monastero di Bose e Ufficio Nazionale per i Beni Ecclesiastici e l’Edilizia di Culto della Conferenza episcopale italiana – contribuivano unitariamente al finanziamento economico del convegno. Il Monastero di Bose, attraverso la figura del curatore segue l’organizzazione, coadiuvato dal lavoro di una segreteria permanente. Dal 2016 il Consiglio Nazionale Italiano degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori è stato partner del convegno e assegnava agli architetti partecipanti un elevato numero di crediti formativi professionali.

I temi trattati

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I temi trattatii nel corso delle sedici edizioni dei Convegni hanno visto in una prima fase prendere in esame uno dopo l’altro i principali elementi dello spazio liturgico cristiano: l’altare (2003), l’ambone (2005), lo spazio liturgico e il suo orientamento (2006), il battistero (2007), l’assemblea: forme, presenze, presidenza (2008). In un secondo ciclo si sono affrontate alcune tematica come il rapporto chiesa e città (2009), due edizioni successive sono state consacrate all’arte per la liturgia (2010-2011), l’adeguamento liturgico, tra identità e trasformazione (2012), nel 2013 attraverso il soggetto “architettura, arte e liturgia” abbiamo commemorato il cinquantesimo anniversario della promulgazione di Sacrosanctum concilium, l’anno successivo il rapporto architettura, liturgia e cosmo (2014), negli anni seguenti le tematiche della luce (2015), dell’esterno delle chiese (2016), dei processi partecipativi tra liturgia e architettura (2017) e lo scorso anno lo abbiamo dedicato alle cattedrali. L’ultima edizione del convegno tenutasi dal 30 maggio al 1° giugno 2019 ha trattato di nuovo un tema fondamentale come l’altare. Per gli anni successivi comitato scientifico aveva ipotizziamo tematiche come il colore, quindi la dimensione cromatiche dello spazio liturgico e successivamente quello del suono, ossia le problematiche relative all’architettura liturgica come ambiente sonoro. In questi anni sono intervenuti ai Convegni circa trecento relatori. Oltre ai membri del comitato scientifico che ho già menzionati, tra i nomi più noti Jean-Yves Hameline, Walter Zanher, Karl Richter, Reinhard Messner, André Birmelé, Benedikt Kranemann, Marc Augé, Robert Taft, Uwe Maichel Lang, Anne Da Rocha-Carneiro, Enrico Mazza, Philippe Markiewicz, Giuliano Zanchi, Gordon W. Lathrop, Jean-Yves Lacoste, Louis-Marie Chauvet, Danielle Hervieu-Legér, Marcel Gauchet, Severino Dianich, Friedhelm Mennekes, François Boespflug, Jean-François Colosimo, Gianfranco Ravasi, Yves-Marie Blanchard, Christos Yannaras, John F. Baldovin, Paul F. Bradshaw, Godfrid Danneels, Martin Klokener, Patrick Pretot, Vittorio Gregotti, Rafael Moneo, Paolo Portoghesi, Carlo Ratti, Santiago Calatrava, Alvaro Siza, Joris Geldholf, Sible De Balaauw, Gilles Druin, Mario Botta. Questa successione di nomi mostra come i Convegni di Bose sono stati un laboratorio grazie al quale si sono confrontate e misurate su problematiche legate allo spazio liturgico cristiano storici dell’architettura e storici dell’arte, liturgisti, sociologi, teologi, ingegneri, biblisti, filosofi, vescovi, urbanisti, antropologi, artisti, architetti. E’ evidente, dunque, che un elemento di indubbio interesse di questi convegni risiede nel fatto che si pongono al crocevia tra discipline differenti. Ad esempio, per affrontare

nel 2005 la questione dell’ambone ci si è messi alla scuola della teologia, nella sua pluralità ecumenica di posizioni, con l’intento di approfondire la questione della sacramentalità della parola di Dio e del principio di rivelazione. Il confronto si è anche esteso a diversi modi di concepire lo spazio liturgico senza rinunciare a esaminare innumerevoli realizzazioni architettoniche, in Spagna, Italia, Francia, Belgio, Germania e Austria. Tali occasioni di confronto tra teologi, liturgisti, architetti e artisti sono del massimo interesse; evitano a ciascuna di queste categorie di rinchiudersi unicamente nel proprio mondo autoreferenziale, e le obbligano a una maggiore apertura di prospettiva. L’approccio interdisciplinare e l’incrociarsi di prospettive e angolazioni diverse rivela, inoltre, la gamma di questioni e problematiche che i luoghi di culto e più in generale l’architettura liturgica intercetta, suscita ed esprime non solo all’interno della vita ecclesiale ma anche nei confronti del tessuto sociale e del contesto urbano. Le nostre chiese non sono meri edifici destinate unicamente alle celebrazioni della comunità cristiana, ma sono eloquenza e testimonianza della sua fede nella storia, esprimono la visibilità della Chiesa in una città, l’iscrizione nel territorio, custodiscono tesori di arte e cultura e per questo appartengono al patrimonio storico e artistico di una nazione. La natura internazionale – essenzialmente europea, specie di area italiana, francese e tedesca, riservando particolare attenzione alla significativa vitalità del Portogallo – ha permesso la conoscenza delle nuove tendenze, di linee progettuali e di nuove realizzazioni di chiese o di adeguamenti liturgici realizzati da alcuni tra i più significativi architetti di chiese tra i quali Florance Cosse, Jean-Marie Duthilleul, John Pawson, Leo Zogmayer, Richard Meier, Paolo Portoghesi, Massimiliano Fuksas, Mario Botta, Heinz Tesar, Rafael Moneo, Alvaro Siza, Mauro Galantino, Mario Cucinella, Paolo Zermani, João Carrilho da Graça, Ignacio Vicens y Hualde per citarne solo alcuni. Attraverso le presentazioni proposte dai Convegni di Bose, ad esempio, per la prima volta si venne a conoscenza dell’esperienza dei cosiddetti Communio-Räume, gli spazi di comunione, ossia la disposizione ellittica dell’assemblea con l’altare e l’ambone in corrispondenza dei due fuochi, ancora sconosciuta in Italia agli inizi degli anni Duemila ma già realizzata in Germania nel 1990 dall’architetto Friederich Koller nell’adeguamento della chiesa di Sankt Anna a Passau, da Leo Zogmayer negli adeguamenti delle chiese di Sankt Franziskus a Bonn nel 1998 e nel 2001 di Saint-Paul a Bruxelles e di diverse altre chiese, mentre nello stesso anno Klaus Simon nella nuova chiesa Sankt Maurien a Ahrenburg e successivamente nel 2005 in Francia da Corinne Cailles e Jean-Marie Duthilleul con la chiesa di Saint François de Molitor a Parigi e qualche anno dopo, nel 2007, da Florence Cosse nella cappella della Maison de Eveques de France en rue de Bretuil. Nei primi tre Convegni di Bose dedicati in ordine all’altare, all’ambone e alla disposizione dell’assemblea liturgica, l’esperienza del Communio-Räume emergeva come un esempio innovativo e alternativo di organizzazione dello spazio liturgico, allora accolto dai più con grande entusiasmo. Oggi, a distanza di quasi vent’anni, se ne vedono non solo il valore e i vantaggi ma anche i limiti e le problematicità. Rispetto all’assetto tradizionale dell’assemblea, lo spazio di comunione implica infatti un altro ethos liturgico e soprattutto una innovativa capa-


cità di presidenza liturgica da parte del presbitero. In un articolo apparso nel gennaio 2010 sull’Osservatore Romano, il noto architetto italiano Paolo Portoghesi commentava in modo molto critico gli spazi di comunione realizzati in due recenti chiese italiane presentate a Bose, affermando: La comunità dei fedeli è divisa in due schiere contrapposte con al centro un grande vuoto ai cui due estremi si collocano l’altare e l’ambone. Le due schiere contrapposte e il vagare dei celebranti tra i due poli mettono in crisi non solo la tradizionale unità della comunità orante ma anche quella che è stata la grande conquista del concilio Vaticano II, l’immagine assembleare del popolo di Dio in cammino. Perché ci si guarda in faccia? Perché non si guarda insieme verso i luoghi fondamentali della liturgia e l’immagine del Cristo? Perché i luoghi della liturgia, l’altare e l’ambone, sono contrapposti anziché affiancati? Imprigionati nei banchi, divisi in settori come le coorti di un esercito, i fedeli sono costretti, rimanendo immobili, a cambiare la direzione dello sguardo ora a destra ora a sinistra. Come si vede, in quegli anni il dibattito attorno al Communio-Räume ossia alla disposizione dell’assemblea e dei poli liturgici è stato ed è tutt’ora significativo. Insieme a questo, altre problematiche in modo trasversale sono costantemente emerse nel corso delle diciassette edizioni del convegno di Bose come, ad esempio, la sfida rappresentata dalla collocazione nello spazio liturgico di opere d’arte contemporanea, la problematica di natura filosofica e teologica relativa al sacro e alla sacralità, il rapporto tra edificio di culto e i reali bisogni della comunità, i processi di partecipazione dei fedeli alla progettazione della nuova chiesa, il legame tra chiesa, territorio e contesto sociale. Tuttavia un tema maggiore che ogni anno è emerso con forza è il ruolo della committenza ecclesiale, spesso percepita dai progettisti e dagli architetti come forte per i significati che porta con sé ma al tempo stesso culturalmente debole e talvolta impreparata. Nel dibattito in sala si è spesso rilevato che il fallimento di una chiesa recente non è responsabilità degli architetti ma della committenza ecclesiale che non ha saputo formulare le domande “giuste”, o ha agito con fretta, per la prossimità con progettisti mediocri o solo per il prestigio della firma; oppure perché non era dotata di mezzi culturali adeguati al compito. Nel giugno 2018, il giornalista Alessandro Beltrami, esperto del tema, ha scritto sul quotidiano cattolico Avvenire: La vera debolezza della committenza ecclesiastica è la sua perifericità rispetto alla cultura contemporanea. In questa situazione la Chiesa si trova per una perniciosa sintesi di autoesclusione e ostracismo. Da centro dello spazio sociale e culturale, con la modernità la Chiesa si è trovata polo tra altri poli. La reazione è duplice. Accanto al rifiuto, per cui arte e architettura non sono più “come dovrebbero essere”, si registrano disinteresse o ignoranza. Sul piano della formazione, nonostante segnali incoraggianti, la situazione resta carente. Dall’altra c’è invece un senso di inferiorità verso la cultura dominante, accettata acriticamente. Così si torna ad avere visibilità: ma a che prezzo? Sebbene motivata dal dialogo, questa posizione fa scomparire la specificità cristiana, che viene anzi sottoposta a travisamenti e deformazioni. In entrambi i casi si nota l’assenza di strumenti ermeneutici. È sempre più urgente la coscienza che una committenza culturalmente forte, organica e sistematica, si traduce, nella debolezza dell’era postcristiana, nella presenza di una voce tanto leggera quanto nitida1. Nei Convegni di Bose, il compito e il ruolo della committenza è stato un tema centrale, costantemente presente nelle relazioni, nella presentazione delle realizzazioni e soprattutto sempre ricorrente nei dibattiti dei congressisti. 1

A. Beltrami, La committenza della Chiesa: forza e debolezza di essere periferia, in Avvenire, 6 giugno 2018.

L’eredità che i Convegni di Bose lasciano Se la riforma liturgica del Vaticano II ha operato il fondamentale passaggio dal presbitero unico celebrante all’assemblea soggetto della celebrazione e oggi, grazie il Catechismo della Chiesa Cattolica, è dottrina cattolica il concetto secondo il quale “tutta l’assemblea è liturgia” (n. 1144), ora il passaggio ulteriore da compiere è quello di far sì che tutto l’edificio chiesa sia liturgia. Questo è il passaggio decisivo che l’architettura liturgica contemporanea è tempo che compia, passaggio al servizio del quale i Convegni liturgici internazionali di Bose si sono posti. Dal 2003 al 2019 i Convegni di Bose hanno rappresentato un vero e proprio laboratorio internazionale di idee, di studio, di formazione e di ricerca storica, teologica e architettonica in vista di un’apertura sapiente e meditata a nuove forme di spazi liturgici che fossero espressione dell’oggi della fede. Si è voluto che l’esperienza dei Convegni di Bose terminassero, ma l’eredità che essa lascia è la permanenza della sua intuizione originaria che l’ha accompagnata nel corso delle sedici edizioni: quella di porre con forza la centralità del tema liturgico nella progettazione e realizzazione dello spazio per la celebrazione della fede cristiana. Una chiesa non è un contenitore neutro dell’azione liturgica, ma è essa stessa liturgia in atto. Il rapporto tra architettura e liturgia è dunque da intendere e declinare come architettura che è liturgia e, al tempo stesso, liturgia che è architettura.

Dal 2003 al 2019 i Convegni di Bose hanno rappresentato un vero e proprio laboratorio internazionale di idee, di studio, di formazione e di ricerca storica, teologica e architettonica in vista di un’apertura sapiente e meditata a nuove forme di spazi liturgici che fossero espressione dell’oggi della fede.

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LA RINASCITA DELLA CAPPELLA DELLA SINDONE E DEL SUO ALTARE Marina Feroggio

Nella notte tra l’11 e il 12 aprile 1997 Torino fu scossa da un evento traumatico i cui segni si sono protratti per lungo tempo: la Cappella della Sindone, capolavoro barocco di Guarino Guarini, venne interessata da un incendio di vaste proporzioni che danneggiò gravemente l’edificio, rendendo necessario un intervento di restauro strutturale e architettonico particolarmente complesso e impegnativo, durato oltre venti anni1. L’entità dei danni provocati dall’incendio risultò evidente fin da subito in tutta la sua drammaticità; lo shock termico, provocato dal calore delle fiamme e dall’acqua di spegnimento, non solo causò la fratturazione in profondità dei conci di marmo costituenti il guscio interno dell’edificio, ma causò anche la rottura della cerchiatura metallica situata in corrispondenza dell’imposta degli archi dei finestroni del tamburo. Il rischio che si verificasse lo sbilanciamento verso l’esterno dei maschi murari del tamburo e l’implosione della cupola fu elevato e prossimo al verificarsi. A quota del piano di calpestio della Cappella, all’indomani dell’incendio, era presente uno strato di detriti alto fino a un metro, le impalcature utilizzate per i lavori di restauro allora in corso, e prossimi al termine, si erano adagiate, rammollite e contorte a causa delle elevate temperature sviluppatesi. Molte delle colonne di marmo erano esplose, oltre l’80% della superficie lapidea della Cappella era andato irrimediabilmente perduto, il sistema degli incatenamenti metallici era stato gravemente compromesso. I marmi Nero e Bigio di Frabosa Soprana (CN)

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Il Progetto di riabilitazione strutturale è stato sviluppato da un team così composto: prof. ing. Giorgio Macchi, capogruppo; Sintecna s.r.l. (prof. ing. Paolo Napoli, arch. Walter Ceretto, ing. Marco Cassissa); ing. Stefano Macchi; ing. Gian Carlo Gonnet.

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La Direzione dei Lavori dell’intervento di riabilitazione strutturale è stata svolta da: prof. ing. Paolo Napoli, Direttore dei Lavori; arch. Walter Ceretto, ing. Stefano Macchi, Direttori Operativi; ing. Marco Cassissa, Ispettore di Cantiere; ing. Gian Carlo Gonnet, Coordinatore della Sicurezza, con l’Alta Consulenza Scientifica del prof. ing. Giorgio Macchi. Il progetto di restauro, integrazione e finitura delle superfici interne della Cappella della Sindone è stato redatto dall’arch. Marina Feroggio (Soprintendenza ABAP di Torino), con la collaborazione degli architetti Daniela Sala e Silvia Valmaggi (Soprintendenza ABAP di Torino). La Direzione dei Lavori è stata svolta da: arch. Marina Feroggio, Direttore dei Lavori; rest. Gionatan Furnari (Furnari Restauri s.a.s.), rest. Marco Paolini (Soprintendenza ABAP di Torino), Direttori Operativi restauratori; ing. Gian Carlo Gonnet, Coordinatore della Sicurezza. Il progetto di completamento dei lavori di restauro delle superfici esterne e smontaggio delle strutture provvisionali è stato redatto da un team così composto: arch. Marina Feroggio, progettista e coordinatore; Sintecna s.r.l. (prof. ing. Paolo Napoli, arch. Walter Ceretto, ing. Marco Cassissa), opere strutturali; ing. Alfonso Famà e p.i. Maurizio Genovese, opere impiantistiche; ing. Gian Carlo Gonnet e arch. Paola Granero, coordinamento della sicurezza. La Direzione dei Lavori dell’intervento di completamento dei lavori di restauro delle superfici esterne e smontaggio delle strutture provvisionali è stata svolta da: arch. Marina Feroggio, Direttore dei Lavori; arch. Walter Ceretto, Direttore Operativo; ing. Marco Cassissa, Ispettore di Cantiere; ing. Gian Carlo Gonnet, Coordinatore della Sicurezza.

1. La Cappella della Sindone danneggiata dall’incendio (vista esterna) - Archivio fotografico della Soprintendenza ABAP di Torino


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2. Vista dall’alto dell’altare dopo l’incendio 3. I danni del tamburo 4. I danni degli archi del “bacino tronco” Pagina di fianco

5. La riabilitazione strutturale del cestello Archivio fotografico della Soprintendenza ABAP di Torino

avevano perso il loro colore originario e il calore ne aveva provocato la calcinazione per spessori anche rilevanti. Analoga sorte era toccata all’altare di Antonio Bertola posto al centro della Cappella, nonché ai quattro monumenti funerari ottocenteschi realizzati in marmo bianco di Carrara, ai capitelli in bronzo, al grande finestrone vetrato ottocentesco e alla balaustra marmorea in corrispondenza della grande apertura verso la sottostante Cattedrale, tutti gravemente danneggiati nelle loro parti costituenti, a differenza degli apparati decorativi lignei che furono irrimediabilmente distrutti. L’intervento di restauro della Cappella della Sindone si è articolato nel tempo in una pluralità di cantieri specifici che ha coinvolto a vario titolo un ingente numero di professionisti e operatori, tutti altamente specializzati, che, a partire dalle fasi immediatamente successive all’incendio, hanno consentito in primo luogo di mettere in sicurezza l’edificio e, a seguire, di realizzare le strutture e gli impianti di servizio funzionali ai lavori; approfondire la conoscenza del monumento; effettuare la sperimentazione degli interventi di restauro; eseguire il consolidamento del basamento in muratura laterizia; riaprire la cava di marmo nero di Frabosa Soprana (CN); procedere alla riabilitazione delle strutture e restaurare il paramento lapideo interno per restituire definitivamente alla Cappella la sua immagine architettonica e decorativa. I lavori sono stati completati con il restauro degli apparati decorativi in bronzo dorato (le basi e i capitelli delle colonne e delle lesene), della balaustra in marmo e bronzo situata in corrispondenza dell’affaccio della Cappella sulla Cattedrale, il rifacimento dei tetti, delle coperture in piombo e dei serramenti esterni, il restauro delle facciate laterizie e degli apparati decorativi lapidei esterni e, infine, il rifacimento del Grande Finestrone posto in corrispondenza dell’affaccio della Cappella sul presbiterio della Cattedrale.


L'intervento ha conciliato da una parte l'istanza di assicurare la riabilitazione strutturale della Cappella, dall'altra l'esigenza di conservare quanta più materia originale possibile in opera.

Si sono quindi conclusi con lo smontaggio dell’imponente struttura metallica interna di sostegno e di tutte le strutture di cantiere, compreso lo smontaggio del grigliato esterno di accesso al cantiere a quota 20 metri di altezza sulla copertura della Manica Nuova di Palazzo Reale e lo smontaggio del grande diaframma, o “scudo”, che separava la Cappella dalla navata della Cattedrale, completati i quali è stato possibile giungere alla tanto attesa riapertura al pubblico della Cappella della Sindone, celebrata il 27 settembre 2018. La complessità che ha caratterizzato questo lungo cantiere è stata insita tanto nella definizione dell’obiettivo del restauro, quanto delle tecniche e delle metodologie di intervento che non hanno potuto fare riferimento a prassi consolidate ma, al contrario, hanno dovuto maturare passo dopo passo ed essere sperimentate e applicate grazie all’impegno di una pluralità di professionalità diverse e al supporto di numerose tecniche di indagine, anche molto sofisticate. Nel corso del 2020 è stato infine progettato ed eseguito il restauro dell’altare2 posto al centro della Cappella, opera dell’ingegnere e matematico Antonio Bertola, succeduto nella conduzione della fabbrica dopo la morte di Guarino Guarini. L’altare venne realizzato tra il 1688 e il 1694 utilizzando il medesimo marmo nero di Frabosa Soprana (CN) che si trova al primo livello della Cappella, arricchito da decorazioni e sculture in legno dorato per farlo risplendere nella penombra dell’aula centrale; di forma circolare come la planimetria Il progetto di restauro dell’altare della Cappella della Sindone è stato redatto dall’arch. Marina Feroggio con il supporto della restauratrice Tiziana Sandri e la collaborazione degli storici dell’arte Franco Gualano e Lorenza Santa, della dott.ssa Mariella Fumarola, del dott. Angelo Carlone e della restauratrice Alessandra Curti (funzionari dei Musei Reali di Torino); Coordinatore della Sicurezza ing. Davide Caruso (studio di Ingegneria Caruso & Caruso).

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La Direzione dei Lavori dell’intervento è stata svolta da: arch. Marina Feroggio, Direttore dei Lavori; rest. Tiziana Sandri, Direttore Operativo restauratore; ing. Davide Caruso (studio di Ingegneria Caruso & Caruso), Coordinatore della Sicurezza.

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6. Il consolidamento delle murature del tamburo 7. Vista della struttura di sostegno durante I lavori Archivio fotografico della Soprintendenza ABAP di Torino 8. Gli archi del “bacino tronco” dopo il restauro Archivio fotografico dei Musei Reali di Torino

della Cappella, esso si sviluppa in altezza con le sembianze di un grande reliquiario ed è connotato dalla presenza di due fronti, uno rivolto verso la Cattedrale e l’altro verso Palazzo Reale, a testimonianza del valore simbolico insito in tutte le componenti della Cappella. Le condizioni in cui versava dopo l’incendio erano molto frammentarie, con evidenti mancanze sia nella struttura lapidea che nelle decorazioni lignee. Le porzioni marmoree superstiti presentavano inoltre gravi problematiche strutturali. L’opera aveva subito sia i danni riferibili allo shock termico, sia dagli urti causati dalla caduta delle porzioni lapidee distaccatesi dall’alto, nonché dai ponteggi utilizzati nell’intervento di restauro allora in corso. Le perdite più consistenti riguardavano l’apparato ligneo: due terzi dell’antica balaustra lignea erano andati distrutti, mentre la porzione superstite risultava per buona parte ridotta allo stato di un tizzone combusto. Due dei quattro angeli lignei dorati posti ai lati della cassa erano andati distrutti (angelo con la croce e angelo con la lancia), così come la raggiera lignea dorata, posta originariamente sulla sommità dell’altare. Dopo un meticoloso lavoro di rilievo e un’approfondita campagna di indagini diagnostiche, l’intervento di restauro dell’altare ha seguito lo stesso intento restitutivo già adottato per l’intero paramento lapideo della Cappella, completando l’opera nelle sue principali componenti architettoniche, sia lapidee che lignee, secondo il disegno originario. A tale scopo sono stati riposizionati tutti i frammenti recuperati dopo l’incendio e sono state integrate le porzioni lapidee mancanti grazie a puntuali ricostruzioni con malte appositamente formulate sia a colaggio


57 9. La Cappella della Sindone dopo il restauro (vista interna) 10. L’altare dopo il restauro 11. La Cappella della Sindone dopo il restauro (vista esterna) Archivio fotografico dei Musei Reali di Torino

Nel corso del 2020 è stato infine progettato ed eseguito il restauro dell’altare posto al centro della Cappella, opera dell’ingegnere e matematico Antonio Bertola, succeduto nella conduzione della fabbrica dopo la morte di Guarino Guarini.

che tixotropiche, così come realizzato nell’ambito del cantiere di integrazione delle superfici interne. Sono state inoltre restaurate le porzioni superstiti della balaustra lignea posta a coronamento del basamento dell’altare e ricostruite quelle distrutte, dorandole come in origine. A completamento del restauro sono stati riposizionati in opera, secondo la collocazione originaria, gli apparati decorativi scampati all’incendio costituiti dagli otto putti alati della balaustra; dall’angelo con la colonna della flagellazione e quello con la spugna posti ai lati della cassa; dalle quattro lampade pensili in argento cesellato e sbalzato; dal tabernacolo anch’esso in argento sbalzato e cesellato e dai paliotti tessili posizionati verso Palazzo Reale e verso la Cattedrale.



DOVE LE PIETRE DIVENTANO LUCE LA PIUSKIRCHE A MEGGEN Sergio Massironi

Classico è ciò che regge alla prova del tempo. In tal senso, contemporanea non è sempre e nemmeno necessariamente ogni architettura recente. Al contrario, la partita si gioca nel rapporto tra un luogo e i suoi abitanti, tra lo spazio costruito e la comunità che ne fruisce. La chiesa parrocchiale di San Pio X a Meggen, in Svizzera, è un caso emblematico di come il nuovo possa non invecchiare. Sorta alle porte di Lucerna nel cuore del secolo scorso, essa si oppone alla transitorietà dei corsi e ricorsi storici con il suo impianto rigoroso e il sapore forte del suo profilo. Un “grembo di luce” è stata giustamente definita: descrizione che non coglie solo uno dei suoi aspetti tecnico-realizzativi più sorprendenti, ma evoca la fecondità del tempo che inizia varcandone la soglia. È uno dei temi più sfidanti nel dare forma a uno spazio sacro: che cosa avvenga abitandolo, quale trasformazione realizzi in chi ne beneficia, per certi versi anche prima, dopo, o a prescindere dai gesti liturgici che vi si svolgono. Capace di rappresentare un centro per l’area residenziale in cui è inserita, elegante e ciò nonostante disgregata, questo capolavoro del maestro Franz Füegg, formalmente ineccepibile come aula per l’assemblea, avvolge, penetra, inquieta, riconcilia anche il visitatore silenzioso e solitario. La piattaforma in cemento, che àncora l’edificio tra prati verdi e residenze rivolte al lago e alle Alpi, si fa così punto nevralgico e invitante di eterotopia, luogo catartico in cui in cui il tempo è come interrotto, sospeso, e qualcosa di molto profondo avviene. Teorico della scuola di Solothurn, Füegg interpreta liberamente la lezione del Bauhaus, ammorbidendo le freddezze del funzionalismo, senza però tradire i due detti più celebri di Mies van der Rohe: “Less is more” e “God is in the details”. Elevandosi con le proporzioni e con la forza di un tempio greco, il nudo parallelepipedo di Meggen non svela dalla trama esterna in metallo e marmo i segreti dell’interno. Solo l’alta torre campanaria, realizzata a distanza con uno dei tralicci che sostengono dal di dentro l’intero corpo dell’edificio, lascia presentire la destinazione di un oggetto che, come il cuore umano con la sua fede e i suoi affanni, può essere conosciuto solo non fermandosi a distanza. In questo senso, la tecnologia alla Piuskirche sa sposare la ricerca spirituale o la semplice curiosità di chi si avvicina: appoggiando la mano sulla maniglia, un portale di marmo si apre spontaneamente, inaugurando un cammino di stupore che, attraverso il filtro di ulteriori elementi architettonici, accompagna 1/10. Foto Sergio Massironi

La chiesa parrocchiale di San Pio X a Meggen, in Svizzera, è un caso emblematico di come il nuovo possa non invecchiare. Sorta alle porte di Lucerna nel cuore del secolo scorso, essa si oppone alla transitorietà dei corsi e ricorsi storici con il suo impianto rigoroso e il sapore forte del suo profilo.

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al centro della chiesa. Che essa sia popolata o deserta, che la celebrazione stia per iniziare o non sia prevista, che si entri per la prima volta o in una frequentazione consolidata, vince su tutto l’impatto con la luce trasfigurata dall’alabastro, all’apparenza unico materiale costruttivo. Non finestre, ma pareti, anzi l’intera chiesa come miracolo di luce, in una gamma cromatica vastissima e naturale, che varia dal bianco intenso, al giallo, all’ocra, al bruno oscuro. “Lo spazio si dilata e si comprime quasi avesse un suo proprio respiro; come una lanterna magica rovesciata, la chiesa vive la luce del mondo attraverso segni e colori ancestrali ma che, nel contempo, ci legano alla realtà del nostro tempo”, ha scritto Mario Botta, descrivendo questa come “una coraggiosa e sorprendente chiesa cattolica, che ancora oggi resta un esempio eccelso delle risorse creative della disciplina”.


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Mario Botta, descrive questa come “una coraggiosa e sorprendente chiesa cattolica, che ancora oggi resta un esempio eccelso delle risorse creative della disciplina”.


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Se la domenica è giorno ottavo, eccedente i sette in cui si dispiega il tempo umano, Franz Füegg ha reso possibile a tutti un’esperienza di ciò che è al di là, di un oltre, di un salto di qualità nella percezione dello spazio-tempo in grado di restituire ciascuno a se stesso. Il fonte battesimale sulla soglia, un importante e leggero, centralissimo altare, il crocifisso bronzeo sospeso, un gigantesco organo a canne, che con la sua tribuna distingue l’aula liturgica da una sorta di pronao di accesso, donano alla comunità di Meggen il luogo in cui non solo celebrare, ma quasi toccare la risurrezione. Senza devozionismi, nella fedeltà più rigorosa alla professione ed evitando qualsiasi nostalgia e citazione del passato, qui un professore e teorico ha vinto la prova pratica del costruire, dimostrando come da una vivace intelligenza e da una reale competenza continuino a venire alla Chiesa risposte durature. La fedeltà al Mistero, infatti, scaturisce dalla fedeltà al proprio tempo, ai suoi linguaggi e alle inquietudini che li attraversano. In tal senso, la grande architettura non è però mai semplicemente uno specchio o l’esito dello “spirito del tempo”: essa introduce una misura, un’armonia, un logos che ridisegnano ogni volta in modo critico la scena umana, rendendola ancora più umana. La liturgia esiste forse per qualcosa di meno nobile ed efficace? Caro salutis cardo. Il “di meno”, l’essenziale, che il Novecento ci consegna come un “di più” rinvia beneficamente alla tangibilità della salvezza cristiana: essa riguarda i “dettagli” in cui Dio ci attende, il corpo personale e sociale in cui fiorisce o si nega l’unicità di ciascuno.



SPAZIO E SOCIETÀ

NEGLI EDIFICI ECCLESIASTICI IN SUDAFRICA Jo Noero

Nel 1985 Jo Noero fu nominato dall’Arcivescovo Desmond Tutu, architetto diocesano dell’allora Diocesi di Transvaal della Chiesa Anglicana in Sudafrica. Questo fu effettivamente l’inizio della sua carriera professionale, avendo aperto uno studio indipendente a Johannesburg nel 1984. Era un periodo molto particolare per praticare la professione, dato che il Consiglio Sudafricano delle Chiese, in cui quella Anglicana era preponderante, guidava la resistenza interna all’apartheid in Sudafrica. Le chiese mobilitarono, infatti, migliaia di sudafricani per opporsi alle politiche razziste. Gran parte del lavoro di Noero si svolse all’interno delle comunità nere africane a Johannesburg, Soweto e nelle aree circostanti. Queste comunità erano generalmente molto povere e prive di diritti politici. Tuttavia ai neri africani era concessa la libertà di culto e la grande maggioranza di loro frequentava regolarmente le funzioni religiose durante questo periodo. L’arcivescovo Tutu era determinato ad usare la Chiesa Anglicana, di cui era leader, come una forza di mobilitazione nella vita delle persone ed era suo espresso desiderio che la costruzione della chiesa riflettesse queste aspirazioni - nel suo intento fu abilmente assistito da persone come il vescovo David Nkwe, con cui Noero lavorò a stretto contatto. A Soweto, il più grande insediamento urbano nero nel Transvaal, vi erano pochi edifici religiosi e quei pochi presentavano una scarsa qualità architettonica. Noero fu incaricato da Tutu di fare del suo meglio, con risorse limitate, per costruire chiese ed edifici parrocchiali di buona qualità e ad un costo molto basso. Tutu fece riferimento al lavoro dell’architetto inglese Nicholas Hawksmoor tra il XVII e il XVIII secolo, quando fu incaricato di costruire chiese nei quartieri più miseri di Londra per fornire assistenza ai poveri della città. Ciò fu visto da Tutu come un elemento molto importante per dare una speranza tangibile alle persone e per creare riferimenti urbani in un tessuto residenziale altrimenti insignificante e uniforme. Le prime chiese che Noero realizzò furono la St Paul’s Angelical Church a Jabavu, White City a Soweto, la cappella privata di Desmond Tutu a Orlando West a Soweto e la Church of the Transfiguration a Eldorado Park, nel circondario di Soweto.

St Paul`s Anglican Church, Jabavu, White City, Soweto La cerimonia della chiesa anglicana in uso nelle comunità nere in Sud Africa non era diversa dal servizio cattolico familiare a

1. St Paul`s Anglican Church, Jabavu, White City, Soweto - Foto archivio Noero

Noero, che era stato educato da cattolico conservatore a Durban. In effetti il rito era molto teatrale ma con connotazioni educative e politiche: la Bibbia veniva usata per mostrare le iniquità dell’apartheid. La chiesa era anche uno dei pochi luoghi in cui le persone potevano riunirsi e trovare conforto in una fede condivisa che avrebbe dato loro la fiducia per affrontare un regime politico brutale e insensibile, uno spazio aggregante per dare forma ed espressione a queste necessità. La chiesa di San Paolo, che è stato il primo edificio realizzato da Noero come architetto, utilizza una forma diversa da quella tradizionale, poiché impiega una struttura circolare per avvicinare le persone e amplificare l’esperienza comune. St Paul’s era importante politicamente in quanto era un luogo in cui il personale diplomatico, i politici e altri provenienti da fuori Soweto si riunivano apparentemente la domenica. Data la presenza di Tutu, di Nkwe e di altri, il gruppo ha avuto modo di incontrarsi, con il pretesto di frequentare la chiesa, con persone che all’epoca

La chiesa era anche uno dei pochi luoghi in cui le persone potevano riunirsi e trovare conforto in una fede condivisa che avrebbe dato loro la fiducia e la fede per affrontare un regime politico brutale e insensibile, uno spazio aggregante per dare forma ed espressione a queste necessità.

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guidavano la lotta clandestina a Soweto. Ciò ha dato un significato aggiuntivo molto importante alla chiesa, come spazio non solo per la preghiera e l’esercizio della propria fede, ma anche come luogo politico dove stringere alleanze e formare gruppi di supporto. É per questo, infatti, che le chiese hanno svolto un ruolo enorme nella liberazione del Sudafrica. All’origine, St Paul’s faceva parte di un centro comunitario costruito dal governo tedesco negli anni Settanta. Si decise di costruire una nuova chiesa per accogliere il grande numero di partecipanti che quella originaria non poteva più ospitare, soprattutto nei giorni di festa. L’annosa questione della chiesa centralizzata e della collocazione dell’altare fu risolta ponendola al centro, ritagliando alle sue spalle lo spazio restante di una delle quattro parti componenti la struttura circolare. L’altare venne così a trovarsi affacciato all’esterno su un cortile molto ampio, abbastanza grande da ospitare fino a quattromila persone. È interessante notare che questo spazio è stato utilizzato principalmente per raduni politici e altri eventi pubblici piuttosto che per scopi puramente religiosi, rafforzando ancora una volta l’importanza del rito politico come parte del lavoro della chiesa.

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2/7. St Paul`s Anglican Church, Jabavu, White City, Soweto - Foto e disegni archivio Noero


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Internamente San Paolo aveva al centro un altare protetto su tre lati, e coronato da un baldacchino sostenuto da quattro grandi colonne. Questo spazio era inondato di luce naturale proveniente da un grande lucernario. Nessun fedele nella chiesa era a più di 12 metri dal sacerdote che celebrava la messa. I tre lati dell’altare facevano sì che il sacramento potesse essere amministrato da tre sacerdoti contemporaneamente, il che aiutava a far fronte alle grandi folle che frequentavano la chiesa. Questo senso di intimità è stato in gran parte protagonista del grande successo di San Paolo come chiesa in cui tutti volevano partecipare all’adorazione. L’interno era dipinto di un colore rosso intenso e il pavimento era rivestito in moquette di un colore simile. Il consiglio della chiesa era fermamente convinto che il rosso - il colore del sangue - fosse appropriato per questa chiesa perché ‘bagnato’ di questo colore. L’architetto si è chiesto le ragioni della scelta tipologica della chiesa, e le ragioni sono tante. Per molti anni Noero ha tenuto un corso di storia e teoria dell’architettura con Pancho Guedes sul Rinascimento presso la locale scuola di architettura dell’Università di Witwatersrand ed era stato ovviamente influenzato dalla sua attività professionale. Ciò che lo ha colpito così fortemente è stato il potere che la geometria ha conferito a uno spazio in cui ci si può perdere nel sogno e nella contemplazione: “Ho sempre saputo che questa qualità è fondamentale per qualsiasi spazio di culto”. La forma della chiesa centralizzata è collegata all’idea di centralità e unità e rafforza l’idea di una verticalità tra le persone e Dio nello spazio. Tecnicamente c’era poco spazio sul posto per costruire una nuova chiesa e le proporzioni del sito si prestavano a una forma quadrata o circolare compatta: condizionamenti che Noero ha sfruttato abilmente per pensare in questi termini allo spazio della chiesa. I pilastri all’interno delle murature perimetrali contengono le stazioni della via crucis. Un problema che ha determinato la progettazione era rappresentato dai molti fedeli che sarebbero entrati in chiesa in momenti diversi: utilizzando il tradizionale ingresso longitudinale collegato direttamente all’altare avrebbero causato notevoli disturbi alla celebrazione. L’ingresso è filtrato da un grande muro in laterizio che distribuisce gli accessi allo spazio interno ove apposite sedute lungo una linea radiale generata dal nucleo della chiesa rafforzano la centralità del progetto, invitando i fedeli ad entrare in chiesa.

Chapel for Archbishop Desmond Tutu Il secondo edificio realizzato è stato una piccola cappella costruita per l’arcivescovo Desmond Tutu nella sua casa di famiglia a Orlando West a Soweto - per celebrare il premio Nobel ricevuto per la pace. La cappella è uno spazio molto piccolo di 2 metri per 5 metri ed è stato progettato come uno spazio tranquillo per la meditazione e la preghiera per uso famigliare. L'arcivescovo inizia la sua giornata con diverse ore di preghiera e meditazione e lo spazio è stato pensato per soddisfare questa esigenza, ma anche perché aveva bisogno di uno studio per incontrare persone che venivano da tutto il mondo a fargli visita. La cappella è volutamente nascosta alla vista dalla strada poiché molti sono stati gli attentati in quel periodo. I tetti della cappella e dello studio sono stati realizzati in cemento come ulteriore misura di sicurezza, ma hanno anche contribuito acusticamente ad ottenere la qualità del suono all’interno. I materiali utilizzati sono molto semplici e sull’altare è stato posto un crocifisso in cemento armato. In una delle nicchie della cappella è stato posto un rilievo in gesso, adeguato allo spazio e all’architettura, su un disegno di William Blake. Per i pavimenti interni e alcune pareti è stato scelto un colore rosso sangue intenso. Per dare un’idea di quanto fossero piccole la cappella e lo studio, si pensi che gli edifici sono stati collocati sul retro della casa in uno spazio angusto che veniva utilizzato dalla famiglia per stendere il bucato ad asciugare. Questa è stata una meravigliosa opportunità per creare uno spazio importante di preghiera per un uomo meraviglioso in un ambiente molto umile nascosto allo sguardo del pubblico.


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8/15. Church of the Transfiguration Eldorado Park - Foto e disegni archivio Noero


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Church of the Transfiguration Eldorado Park

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16/23. Church of the Transfiguration Eldorado Park - Foto e disegni archivio Noero

La Chiesa della Trasfigurazione è stata costruita per una comunità nera molto conservatrice nel Parco Eldorado, alla periferia di Soweto. La comunità voleva una chiesa tradizionale a pianta assiale con tetto a falde simile a molte altre chiese della zona. Si tratta di un volume molto semplice con un tetto a falde, a cui si aggiunge una facciata riccamente disegnata per sottolineare il valore religioso dell’edificio e soddisfare le aspettative della comunità. É stato realizzato un sistema di capitelli gettato in opera e aggiunto di lato alla chiesa un campanile per bilanciare verticalmente la composizione. Il rivestimento della facciata è stato molto significativo per la vicinanza della chiesa al marciapiede, cosa insolita in Sud Africa dove le chiese sono solitamente addossate al lato strada creando un ampio spazio antistante abbandonato e trasandato. L’altare è posto in fondo all’asse longitudinale, illuminato dall’alto e decorato sulla parete di fondo da un calco in gesso rappresentate la crocifissione di Cristo. L’interno è molto semplice e volutamente non illuminato, favorendo la concentrazione sull’altare. È stato impiegato un sistema di ventilazione ricavato nelle pareti laterali senza alcuna vista verso l’esterno, poiché le bocchette di ventilazione sono nascoste dietro un muro di mattoni forati. Va rilevato che la chiesa è stata costruita da un’impresa edile Italosudafricana, con buoni risultati.

Low-cost Rural Churches Noero ha anche progettato e costruito una serie di chiese a basso costo per le comunità molto povere che vivono nelle zone rurali. Sostanzialmente l’idea si è basata sulla forma dei tipici capannoni agricoli presenti nelle fattorie circostanti. I fronti sono stati elaborati in muratura per dare una forte lettura della chiesa e ogni facciata è stata progettata individualmente in modo che non vi fossero mai due facciate simili. Sono state costruite molte chiese in questo modo, e realizzati modelli in legno del prospetto frontale di ognuna di esse per essere forniti alle rispettive parrocchie nel momento della consacrazione ed esposti all’interno della chiesa stessa.

24, 25. Low-cost Rural Churches - Disegni archivio Noero

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26/31. Low-cost Rural Churches - Foto e disegni archivio Noero Pagina a fianco

32, 33. Tomb for Political Heroes – Red Location Foto archivio Noero


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Tomb for Political Heroes - Red Location Nel 1998 lo studio Noero vince un concorso per progettare un distretto culturale in Red Location a Port Elizabeth. Il primo edificio ad essere costruito fu un Museo della Lotta dei Popoli per commemorare coloro che, dell’Eastern Cape, avevano dato il contributo per la liberazione del paese dall’apartheid. Due figure politiche molto importanti nella lotta per la libertà provenivano dalla Località Rossa, ovvero Raymond Mhlaba e Govan Mbeki. È stato proposto di realizzare uno spazio museale per commemorare queste due figure esemplari. È stato quindi progettato e realizzato uno spazio espositivo che conduceva alle tombe commemorative dei due uomini. Una serie di divergenze politiche ha reso difficile la sepoltura dei resti dei due uomini nel museo e fino ad oggi le tombe rimangono vuote anche se visitabili per rendere omaggio alla memoria di queste due grandi figure della storia politica.

Christ Church Somerset West Christ Church nel Somerset West è una chiesa completata di recente che contiene le esperienze di quanto appreso negli ultimi trentacinque anni di pratica professionale. La chiesa esistente era troppo piccola per ospitare una congregazione in crescita

34, 35, 36. Low-cost Rural Churches - Foto e disegni archivio Noero


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37/41. Christ Church Somerset West Foto e disegni archivio Noero


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e aveva necessità di ampliarsi e non essendo adatta si decise di costruire una chiesa nuova e di riutilizzare quella originaria come spazio per la comunità. Il ministro Gavin Millard era un architetto che aveva già completato gli studi alla Wits University, negli anni ‘80, precedentemente al suo incarico ministeriale, è stato un buon committente che ha compreso le necessità e ha reso più facile il processo di realizzazione della chiesa. Era stato studente di Noero alla Wits e aveva mostrato grande interesse per le sue realizzazioni come architetto diocesano per la Chiesa anglicana. Di particolare interesse per Millard da studente era St Pauls, una chiesa circolare che Noero aveva completato nel 1985. La nuova chiesa doveva essere in grado di espandersi e adeguarsi facilmente da 450 a 900 persone a seconda dell’occasione. Un cerchio inserito in un quadrato è la pianta del piano: lo spazio circolare doveva ospitare 450 persone e lo spazio quadrato circostante equilibrare l’espansione. Lo spazio circolare ha una teatrale dimensione verticale che gli conferisce una singolare presenza e avvicina il celebrante alla congregazione, non essendo più distante da ognuno più di 15 metri. La luce naturale proviene nel volume circolare dal tetto e la croce è plasmata dal gioco dei pieni e dei vuoti del lucernario. La parete del tamburo è stata progettata per garantire che i suoni siano ridotti al minimo: la superficie sopra il piano principale è trattata come un muro sfaccettato di mattoni per un migliore isolamento acustico. Sul cortile d’ingresso sono allineate, lungo un asse longitudinale, la vecchia e la nuova chiesa. Le finiture sono state ridotte all’essenziale in linea con l’ethos della chiesa mentre il costo della chiesa è stato possibile sostenerlo grazie alle donazioni dei membri della chiesa assicurati per un periodo di quindici anni. Gli accessori e le finiture sono stati ridotti al minimo: sedie in legno di frassino e struttura in acciaio bianco, pavimento in cemento lucidato e una scala a chiocciola in acciaio bianco che conduce al luogo del suono sul retro della chiesa. Sono state inoltre utilizzati pareti in calcestruzzo a blocchi che costituiscono un confine tra pubblico e privato, oltre a fornire ventilazione incrociata, sicurezza, luce e controllo del sole. Sono stati utilizzati mattoni intonacati, acciaio zincato e cemento verniciato bianco, piuttosto che il cupo cemento off-shutter tanto di moda oggi. Queste scelte sono legate da sempre alla preoccupazione dell’architetto di comprendere e realizzare in un edificio una netta distinzione tra uplifting e necessità, ed in questo caso specifico è ancor più appropriata e necessaria. Il sito è adiacente alle aziende vinicole esistenti alla periferia di Città del Capo e i dettagli e l’uso dei materiali riflettono l’architettura dei meravigliosi edifici agricoli che supportano l’industria vinicola della zona. Si spera che la nuova chiesa renda evidenti queste idee e che agisca come un necessario correttivo alle molte deviazioni di certe progettazioni contemporanee caratterizzate dall’impiego di materiali di lusso utilizzati per conferire una validità estetica solo superficiale a “scatole” progettate in modo sconsiderato. Le chiese sono il tipo di edificio in cui queste questioni vanno particolarmente considerate, per essere messe in pratica con convinzione nel processo di progettazione. Questa pagina e di fianco

42/49. Christ Church Somerset West - Foto e disegni archivio Noero

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CRISTIANA GUERRA CASA SANT’AGNESE DELLA CONGREGAZIONE DELLE SUORE DI INGENBOHL | MURALTO, LOCARNO Andrea Jasci Cimini

Il progetto per la casa delle suore di Carità della Santa Croce di Ingenbohl nasce da un’attenta lettura del contesto e delle tracce che la storia e l’attività antropica hanno lasciato nel luogo. Situato in una posizione panoramica sul Lago Maggiore e sulla città di Locarno in Svizzera, il luogo dell’attuale convento era stato per secoli adibito all’attività agricola, viticola e ortofrutticola. In particolare, era lo spazio esterno della clinica Sant’Agnese, situata più a valle, che era gestita dalle stesse suore. Negli ultimi anni, l’attività della clinica, che ha visto nomi illustri tra i suoi ospiti, è cessata e le suore hanno avuto la necessità di un nuovo spazio per accogliere le sorelle di lingua madre italiana della congregazione. Per questo, sul terreno a monte è nata l’idea di costruire una nuova casa per le suore, che possa ospitare sopratutto quelle più anziane, bisognose di assistenza. L’architetto Guerra ha iniziato ad approcciarsi al tema tramite un percorso di analisi che, da un lato, teneva conto delle necessità della vita religiosa e quotidiana delle sorelle e, dall’altro, delle particolari caratteristiche del contesto. Questo lavoro è stato portato avanti in parallelo ad una ricerca tipologica e semantica legata al tema conventuale, individuando una nuova via nel panorama delle costruzioni contemporanee. La quota di partenza dell’edificio è stata trovata attraverso il confronto con i muri preesistenti di un antico sistema di terrazze e costruzioni che serviva per agevolare le coltivazioni. Concettualmente è possibile pensare che le fondazioni del convento fossero già presenti e che sia stato necessario semplicemente riscoprirle. Si rinnova il tema del costruire su un forte pendio, caratteristico di diversi monasteri, ma lo si ibrida con la tipologia tipica del convento con il chiostro o cortile centrale. Il risultato è un sistema di spazi esterni ed interni che, a seconda dei punti di vista, evocano ricordi di luoghi diversi, a volte riservati e contemplativi ed a volte aperti verso il meraviglioso paesaggio del lago, che rimanda alla ricerca dell’infinito. L’uso del Beton a vista, fortemente legato ai linguaggi del movimento moderno e alle sue espressioni nel corso del Novecento, è addomesticato tramite l’uso del legno e di materiali lapidei e metallici con cromie calde. La sensazione è di un luogo accogliente e al tempo stesso minimale. L’ingresso al complesso avviene dall’alto e i primi ambienti visitabili sono la biblioteca e la cappella. Proseguendo si cammina attorno al cortile centrale che, pur non essendo porticato, può essere pensato come un chiostro in quanto permette la circolazione al coperto su tutta la sua estensione, e la caratteristica facciata, quasi totalmente vetrata, permette di vedere ogni angolo di questo spazio. 1/10. Foto Luca Ferrario

L’uso del Beton a vista, fortemente legato ai linguaggi del movimento moderno e alle sue espressioni nel corso del Novecento, è addomesticato tramite l’uso del legno e di materiali lapidei e metallici con cromie calde. La sensazione è di un luogo accogliente e al tempo stesso minimale.

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L’unità minima di un convento è senza dubbio la cella, intesa come unico luogo personale di ogni suora. Disposte su due piani attorno al chiostro, le venti camere hanno un ampio spazio arredato nel corridoio per gli incontri e per la preghiera. Ogni camera ha un piccolo balcone privato e un luogo di raccoglimento. Gli arredi e i mobili fissi sono stati progettati su misura e fanno parte di un unico sistema integrato che dona alla cella semplicità ma al tempo stesso rimanda ad un ambiente domestico in cui sentirsi a casa. La vista verso il panorama sembra proiettare il pensiero verso l’esterno, quasi a voler amplificare l’attività religiosa delle suore verso la città. Il luogo di preghiera comune delle sorelle è costituito da un volume in cemento armato che all’interno è completamente rivestito dal legno. Una particolare attenzione è data all’uso della luce e alle sue declinazioni durante l’anno e la giornata, attraverso un sistema di aperture e tagli mirati sulle pareti e sul soffitto. La cappella accoglie la vecchia campana dell’ospedale di Coira, che viene suonata manualmente, e il crocifisso creato appositamente dall’artista Selim Abdullah per questo luogo. Alcuni piccoli spazi del convento sono ancora in divenire e le suore possono continuare a personalizzare e a modellare l’ambiente in cui vivono. Pur auspicando che l’attività conventuale duri a lungo, il lavoro dell’architetto Guerra permetterebbe di utilizzare ipoteticamente la struttura per usi diversi, come spazi ricettivi o residenze per anziani. In un periodo storico in cui la creazione di nuove strutture per la vita religiosa è sempre più rara, questo progetto dimostra come sia possibile pensare ad edifici che siano flessibili e resilienti ai cambiamenti, ma che al tempo stesso non rinneghino la loro essenza e la loro origine.

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CRONACA DI TRE GIORNI

GUARDANDO AD ORIENTE 7° CONGRESO INTERNACIONAL DE ARQUITECTURA RELIGIOSA CONTEMPORÁNEA Esteban Fernández-Cobián

Più di un anno fa ho ricevuto una lettera da don Giancarlo Santi nella quale mi faceva presente la sua preoccupazione per la poca attenzione che la storiografia contemporanea aveva dato fino ad ora a vaste zone del mondo - che potremmo chiamare periferie storiografiche - quali Africa, America Latina, Asia e Oceania. E mi suggeriva che sarebbe stato utile dedicare qualche edizione del nostro Congresso a questa tematica. Siccome l’America Latina era già stata trattata in più occasioni nel CIARC (e l’Africa mi restava difficile) ho quindi proposto al Comitato Scientifico che era opportuno rivolgere il nostro sguardo all’Estremo Oriente. La proposta fu accettata con entusiasmo. Il 7° Congresso Internazionale di Architettura Religiosa Contemporanea “Guardando ad Oriente” si è svolto in tre sessioni, il 21, 22 e 23 di ottobre del 2021. Ogni giorno si sono tenute una conferenza, quattro brevi comunicazioni e un dibattito. Le conferenze del primo giorno hanno affrontato il tema “Colonizzazione e decolonizzazione” L’intervento di apertura è toccato, di rigore, a don Kuriakose Cherupuzhathottathil, sacerdote indiano che ha offerto una breve storia del Cristianesimo in India e della sua architettura, per capire come le diverse religioni abbiano contribuito all’evoluzione culturale e artistica di questo Paese, e come il Cristianesimo abbia svolto un ruolo importante nella formazione della società indiana in generale. Nel turno delle comunicazioni, la professoressa messicana Lucia Santa Ana spiegò che

quando nel 1873 i Gesuiti riuscirono a tornare in Giappone e ripresero il loro lavoro educativo e di evangelizzazione, cercarono sempre di ritrovare, attraverso la riflessione, il valore e lo scopo divino che si può trovare in tutte le cose. L’architettura della Chiesa di Sant’Ignazio nella Università Sofia intende esprimere questo desiderio di comprensione tra le culture. L’architetto Francesca Leto, da parte sua, ha sviluppato un denso argomento sulle prospettive per l’inculturazione dello spazio liturgico in Cina. Riferendosi al caso di don Gresnigt, che nel 1926 aveva cercato di creare un nuovo stile cinese- cristiano, Leto ha proposto che l’architettura dovrebbe essere capace di trovare le metafore adeguate per aumentare l’efficacia delle azioni 1. Manifesto del 7° CIARC.

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rituali, realizzando solo quelle che siano emotivamente percettibili. Secondo l’opinione del teologo spagnolo Victorino Perez Prieto, dopo il Concilio Vaticano II, la Chiesa ha compreso meglio la sua missione di portare il messaggio cristiano ai popoli dell’Asia facendolo all’interno delle sue forme culturali, tanto interne (pensiero e spiritualità) come esterne (lingua, riti, architettura); tuttavia il dialogo architettura-religionesocietà in Oriente ha molto cammino da percorrere. Gli architetti croati Zorana Sokol e Igor Gojnik hanno diretto un suggestivo sguardo verso la permeabilità culturale che anima l’architettura sacra cristiana nella sua ricerca di una nuova e autentica identità; e più in concreto verso l’incarnazione come concetto culturale del Cristianesimo e il suo riflesso nella concezione dello spazio liturgico nel lontano Oriente. Il secondo giorno era centrato sullo studio di “Un paese, un architetto, un’opera”, iniziando con la conferenza “Un secolo di architettura Religiosa nelle Filippine (1921-2021)”. Iniziando dall’idea che le Filippine sono il terzo Paese con più cattolici al mondo e che perciò, il numero delle sue chiese tende sempre più a crescere, Esteban Fernandez- Cobian ha proposto un excursus sul XX secolo mostrando numerosi esempi di chiese che hanno manifestato la ricchezza dell’architettura filippina attuale, praticamente sconosciuta. Nel prosieguo, Rafael Angel Garcia-Lozano ha spiegato dettagliatamente la Cappella della Vergine del Pilar, che Miguel Fisac costruì nella Cattedrale di Manila, frutto della sua designazione come architetto consulente da parte del Governo Spagnolo per la ricostruzione del Paese dopo la Seconda Guerra Mondiale. La ricercatrice coreana Hee Sook Lee-Niinioja ha mostrato gli edifici ecclesiastici costruiti in Indonesia durante il XX secolo. Iniziando dalla Chiesa di Pohsarang e Ganjuran, con l’eredità delle sue forme tradizionali, ha sottolineato il suo regionalismo multireligioso e culturale, integrato nel sacro contemporaneo. Curiosamente, il caso della Corea del Sud è stato esposto dall’architetto brasiliano Marcio Lima Jr. Secondo il suo parere, se i primi templi cristiani in Corea erano partiti dall’idea dell’Hanok (casa tradizionale) per adattare l’edificio nell’ambiente naturale e ottenere abbondante luce solare, la produzione religiosa dei nostri giorni mostra un dialogo simile tra i principi tradizionali e i nuovi materiali da costruzione. Luigi Leoni ha relazionato sulla sua esperienza di costruttore della Chiesa di San Francisco Javier in Yamaguchi negli anni novanta, collaborando con padre Costantino Ruggeri, e ha mostrato come uno sforzo emotivo che aveva come obiettivo che l’architettura parlasse un linguaggio universale al cuore dell’uomo, abbia dato un sentimento vero alla sua vita e lo abbia chiamato ad essere portatore di espe-

2. Chiesa di Santo Domingo, Santuario di Nuestra Señora del Santísimo Rosario de La Naval, Quezón City (Filippine). José María Zaragoza, 1952-54 - Archivio Esteban Fernández-Cobián 3. Chiesa di San Giuseppe Lavoratore, Victorias Milling Co, Manapla-Negros Occidental (Filippine). Antonin Raymond, 1946-49 - Wikimedia Commons 4. The Angry Christ, San Giuseppe Lavoratore, Victorias Milling Co, Manapla-Negros Occidentale (Filippine). Alfonso Ossorio, 1948-50 - Archivo Esteban Fernández-Cobián


5. Chapel of Cartwheels, Hacienda Santa Rosalía, Manapla-Negros Occidentale (Filippine). Guillermo ‘GG' Gaston y Jerry Ascalon, 1960 circa - Archivo Esteban Fernández-Cobián 6. Chiesa del Gesú, Loyola Heights, Quezon City (Filippine). Recio & Casas Architects, 19992004 - Wikimedia Commons 7. Chiesa del Cuore Immacolato di Maria, Fairmount Hills, Antipolo (Filippine). Dominic Galicia, 2012 - Archivo Esteban Fernández-Cobián

rienza nel mondo. Il terzo giorno è stato dedicato al tema “Ultime tendenze” e ha iniziato con la lezione magistrale dei giovani architetti vietnamiti Huong Thi Vu e Dung Nguyen (VN-a Studio, Berlin), che hanno cominciato tracciando una storia grafica dell’architettura cristiana in Vietnam dal secolo XVI ad oggi; hanno quindi presentato le ragioni che regolano la costruzione di chiese nell’attualità per terminare con la esposizione di tre progetti del loro studio. La loro architettura si fonda sulla terna “Genius Loci”, Trasparenza e Casa Nativa, con lo scopo di conseguire “un tetto divino per il popolo”. Nel Congresso non poteva mancare un riferimento alla emozionante architettura di Tadao Ando. La ricercatrice messicana Leticia Selene Leon Alvarado ha analizzato la forma con cui l’architetto giapponese utilizza le risorse più semplici per massimizzare la percezione corporale dello spazio da parte delle persone che visitano le sue opere. Da parte sua, Beate Loffler ha constatato, sorprendentemente, che ad oggi gli edifici religiosi giapponesi più pubblicati non sono realmente luoghi di culto, ma semplici spazi commerciali disegnati per celebrare una relazione romantica. E comunque lo sfondo imprenditoriale non cambia l’espressività e la qualità dell’architettura, e solleva interessanti interrogativi sul modo in cui le idee viaggiano per il mondo e trascinano i loro significati. Gli architetti Analia Benitez (La Plata, Argentina) e Christian Seegerer (Sao Paulo, Brasil) hanno utilizzato il Premio Internazionale di Architettura Sacra, che è promosso dalla Fondazione Frate Sole da venticinque anni, per monitorare lo stato dell’arte nell’Estremo Oriente, analizzando tre opere candidate nelle ultime due edizioni e identificando le rispettive decisioni progettuali su architettura e iconografia. Finalmente, il prolifico architetto brasiliano Eduardo Faust ha esposto i concetti che sottendono il suo progetto per la nuova Chiesa di San Miguel, in Viqueque, Timor Orientale, un’opera che si rifà alla reinterpretazione del simbolismo dell’antica religione Timorense alla luce del Cristianesimo. Alla fine di queste tre giornate penso che tutti noi ci siamo stupiti della nostra ignoranza: senza dubbio, sebbene ci siano studi ad ampio raggio sull’architettura orientale di tutte le epoche, il nostro tema – l’architettura religiosa contemporanea nell’estremo oriente – è praticamente sconosciuto. Speriamo che questo Congresso possa servire da punto di partenza per ricerche più approfondite. In ogni caso, tanto le lezioni presentate che le registrazioni delle tre giornate sono disponibili, rispettivamente, nel web del 7 CIARC e nella pagina Facebook del Observatorio de Arquitectura Religiosa Contemporanea (OARC).

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APPROFONDIRE LA CONNESSIONE IL PADIGLIONE DELLA SANTA SEDE ALL’EXPO 2020 DI DUBAI Tomasz Trafny

Sulla cartina dell’imponente area del quadrante sudovest di Dubai, cento volte più grande di quella del Vaticano, che fino a qualche anno fa mostrava solo una striscia di deserto, sono apparsi molti spilli in forma di bandiere che nell’arco dei sei mesi dell’Expo 2020 denoteranno la presenza sul suolo emiratino dei 192 Stati e delle diverse Organizzazioni Internazionali parteci-

panti a questa grande manifestazione fieristica. Tra di esse vi è anche la bandiera della Santa Sede, presente con il proprio Padiglione che, pur occupando uno spazio di appena 180 m2, il più piccolo rispetto agli altri Stand, non sfugge all’attenzione dei visitatori, tra cui importanti rappresentanti governativi degli Emirati Arabi e di altri paesi.

Pensare il Medio Oriente Il lavoro concettuale è iniziato nel 2019 con una serie di interrogativi che hanno accompagnato l’intero percorso di progettazione, di prototipazione e di esecuzione. Ovviamente, una delle domande fondamentali riguardava il modo in cui la Santa Sede avrebbe dovuto essere rappresenta in un contesto socioculturale di evidente matrice islamica. Da subito è apparso evidente che l’intero concetto dovesse individuare e rimarcare gli aspetti di vicinanza e di scambio storicamente intercorsi che hanno influenzato positivamente non solo i rapporti tra le due religioni più diffuse del mondo, ma determinato le svolte, anche inaspettate, dello sviluppo sociale e culturale le cui conseguenze si sono estese fino ai nostri giorni. Un altro elemento che, sin dall’inizio è stato molto chiaro, è la volontà di includere e di valorizzare, anche solo in modo simbolico, l’eredità, la ricchezza storico-artistica del Vaticano. Infatti, la componente estetica apparve da subito uno degli assi portanti dell’intero progetto.

Ma si è voluto creare anche una struttura che potesse offrire un’atmosfera quasi sacrale, capace di “far rallentare la frenesia” che abitualmente accompagna le fiere mondiali e, al contempo, stimolare la riflessione sul tema del Padiglione. 1/21, 23/26, 28. Foto Tomasz Trafny 22, 27. Foto Giuseppe Di Nicola

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Il tema nel tema Ogni Expo è ideato e costruito intorno ad un tema specifico che lo contraddistingue e guida nella fase della progettazione, costruzione e nei mesi dell’intera esposizione. Quello dell’Expo di Dubai è “Connettere le menti, creare il futuro”, con tre distretti: di Sostenibilità, di Opportunità e di Mobilità che si aprono come petali di un fiore intorno all’ovario della monumentale cupola Al Wasl che è il più grande schermo del mondo a 360 gradi per le proiezioni multimediali. Il Padiglione della Santa Sede è collocato nel Distretto della Mobilità e ha come proprio tema: “Approfondire la connessione”. Infatti, il percorso espositivo è stato ideato in modo tale da sottolineare che la connessione delle menti, dei popoli, delle culture e, per certi versi anche delle religioni, è una realtà già esistente, ma che ha bisogno di essere approfondita e, a volte, anche riscoperta.

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Il percorso espositivo è stato ideato in modo tale da sottolineare che la connessione delle menti, dei popoli, delle culture e, per certi versi anche delle religioni, è una realtà già esistente, ma che ha bisogno di essere approfondita e, a volte, anche riscoperta.

Il progetto Questa volta la Santa Sede non ha costruito autonomamente un proprio Padiglione, ma è ospitata in uno degli edifici costruiti e predisposti dagli Organizzatori. Questo, ovviamente, ha posto una serie di limitazioni nella progettazione e nel successivo allestimento, a partire dalla superfice rettangolare relativamente piccola che influisce sullo spazio architettonico impedendo una percezione monumentale dei concetti come anche un inserimento più imponente degli elementi espositivi, come ad esempio i manoscritti della Biblioteca Apostolica Vaticana. Tuttavia, le due facciate del Padiglione hanno mantenuto una loro maestosità e splendore. Infatti, mentre la facciata principale riproduce un dettaglio dell’affresco michelangelesco delle mani nell’atto creativo dipinto nella volta della Sistina, la facciata laterale permette di identificare facilmente il Vaticano attraverso la cupola della Basilica di San Pietro che ben si inserisce nella cornice dei monumentali alberi artificiali interamente realizzati in metallo. L’interno del Padiglione è stato pensato in modo tale da ottenere il massimo rendimento dallo spazio disponibile. Il percorso è stato ideato in modo da offrire una forte percezione di rispondenze speculari delle parti rispetto all’asse centrale del Padiglione. La simmetria, infatti, non è solo un semplice rimando alle forme architettoniche greco-romane, ma anche un importante riferimento culturale particolarmente caro alla tradizione arabo moresca. La pianta rettangolare è stata adattata alla doppia struttura ellittica, utilizzata in passato nelle chiese barocche e considerata una forma più dinamica rispetto a quella circolare. L’ellisse-ovale più grande delinea il percorso esplorativo con le aperture verso le nicchie interne che ospitano una serie di riferimenti concettuali di carattere storico-culturale. Essa è stata suddivisa nelle sezioni tematiche e realizzata in policarbonato semiriflettente a doppia stampa: dietro e di fronte con la stampa a rilievo. L’ellisse centrale, leggermente fuori asse per creare più spazio e assicurare il distanziamento sociale dei visitatori, è pensata, invece, come il coronamento del percorso. Questa struttura ospita una cupola in fibra di carbonio con all’interno la copia dell’affresco della creazione di Adamo di Michelangelo. È stata progettata in modo tale da esprimere la dinamica e la forza creatrice divina e interamente realizzata con lastre di metallo tagliate a laser e montate a doppio vano che contiene le fonti di luce. Vista dall’alto, la pianta del Padiglione è un lontano rimando alla forma dell’occhio umano in cui l’ellisse centrale idealmente rappresenta la pupilla. Infatti, l’utilizzo dell’illuminotecnica per la regolazione dell’intensità delle luci crea l’effetto dell’iride dell’occhio, ma le luci dimmerate svolgono anche la funzione di indicatore del tempo di permanenza al suo interno.

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Il percorso tematico inizia con la nicchia che ospita la copia dell’affresco di Giotto della Basilica di San Francesco ad Assisi dedicata all’incontro tra il sultano Malik AlKāmil e san Francesco avvenuto a Damietta nel 1219 durante la quinta crociata. I contenuti tematici L’entrata del Padiglione, “sorvegliata” da due manichini della Guardia Svizzera Pontificia, offre un messaggio di benvenuto espresso in più di sessanta lingue distribuito intorno allo stemma vaticano per significare l’accoglienza dei visitatori, ma anche l’intreccio di lingue e culture diverse con la Santa Sede tramite i rapporti diplomatici e la presenza del personale di custodia che rappresenta la molteplicità identitaria e linguistica della Chiesa Cattolica nel mondo. L’entrata conduce alle due nicchie introduttive in forma di videoinstallazioni dedicate ai tesori del Vaticano che esprimono l’identità del luogo. Da un lato, la bellezza degli spazi verdi acculturati dei Giardini vaticani e delle Ville pontificie. Dall’altro, i più riconoscibili elementi del patrimonio storico, artistico e culturale del Vaticano. Questa sezione costituisce una reminiscenza per chi ha la famigliarità con gli ambienti vaticani, ma è stata pensata soprattutto per i visitatori che non appartengono all’orizzonte della cultura europea e cristiana, e che non hanno mai visitato il Vaticano. Considerate le dimensioni reali del Padiglione il disegno necessitava di una concezione narrativa per captare l’attenzione dei visitatori e tenerli coinvolti nell’intero percorso. Il percorso tematico inizia con la nicchia che ospita la copia dell’affresco di Giotto della Basilica di San Francesco ad Assisi dedicata all’incontro tra il sultano Malik Al-Kāmil e san Francesco avvenuto a Damietta nel 1219 durante la quinta crociata. Quest’opera realizzata con tecnica mista di stampa e pittura è stata parzialmente restaurata e riversata sul supporto flessibile per poter essere fissata sulla superfice semi circolare. Sul pavimento è stato collocato un medaglione marmoreo realizzato a intarsio.

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L’incontro tra san Francesco e il Sultano rappresenta un paradigma di dialogo teso a superare le differenze inaugurando una tappa importante nella percezione reciproca tra cristiani e musulmani. Entrambe le figure sono diventate importanti simboli di dialogo e di apertura verso gli altri. Entrambi hanno simbolicamente attraversato i confini della propria cultura “entrando” nel mondo di un altro. Il Sultano, a riprova della stima e del rispetto reciproci, congedò l’ospite col dono di un corno usato per la chiamata alla preghiera musulmana, ancora visibile ad Assisi. L’immagine dell’incontro è suggerita anche dall’installazione di arte contemporanea intitolata “Fraternity”, realizzata dall’Architetto Giuseppe Di Nicola in tecnica mista tra scultura e videoinstallazione e raffigurante una comunità di persone che si tengono per mano inserita nella figura geometrica perfetta del cerchio. L’effetto specchio stimola i visitatori a riconoscersi chiamati a far parte di questa esperienza di fratellanza che, a sua volta, non può essere limitata ad una sola generazione ma deve estendersi a quelle future. L’incontro e la fratellanza guidano all’idea della reciproca influenza delle culture. In questa chiave è stata allestita una sezione di manoscritti originali della Biblioteca Apostolica Vaticana. L’incipit di una traduzione araba (ca. 800-830) delle Tavole manuali di Teone d’Alessandria, proveniente dalla Casa della Sapienza (Bayt al-Ḥikmah) di Baghdad, la prima e tra le più importanti istituzioni culturali dell’epoca d’oro islamica, rappresenta lo sforzo della cultura di quel tempo di rendere accessibili al mondo arabo le conoscenze di altri popoli. Si può vedere anche il Liber Abbaci di Leonardo Pisano, più conosciuto come Fibonacci (c. 1170 – c. 1250), che introdusse i numeri arabi in Occidente. Infine, il testo delle Osservazioni sulla riforma gregoriana del calendario fatte dal cosmografo e matematico portoghese Thomas Hortensius (†1594), cui si ricollega la Torre dei venti in Vaticano con la meridiana, costruita in seguito alla riforma del calendario promulgata da Gregorio XIII nel 1582, che oggi viene adoperato in tutto il mondo, qui ricostruita virtualmente. Il concetto dello scambio culturale è rafforzato dalla parete delle lingue che vuole significare l’importanza della lingua come mezzo dell’incontro e del dialogo. La parte centrale della parete riproduce una serie di citazioni dei testi papali sulla fratellanza, sul dialogo e sull’incontro. Ma vi è anche una rappresentazione dello sviluppo linguistico che comprende sequenze dei linguaggi di software come nuovi mezzi di trasmissione della conoscenza e strumenti di comunicazione e di dialogo. La superfice semiriflettente della

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parete permette di creare un leggero effetto specchio, pensato per rimarcare un messaggio altamente simbolico: la lingua ci definisce, ci plasma e, in poche parole, rispecchia chi siamo. A distanza di 800 anni dall’incontro tra il sultano Malik Al-Kāmil e san Francesco avvenne un altro incontro di grande valore simbolico e religioso tra Papa Francesco e il Grande Imam di al-Azhar, Ahmad al-Tayyib, il 4 febbraio 2019. Per ricordare questo evento è stata allestita una nicchia commemorativa speculare rispetto all’incontro di Damietta. La videoinstallazione è arricchita dalla presentazione delle Lettere Encicliche di Papa Francesco, dall’esposizione del Documento sulla Fratellanza Umana per la pace mondiale e la convivenza comune, firmato in quell’occasione dai due capi religiosi e presentato in un’edizione pregiata in arabo e inglese, corredata da un’introduzione di S.A. Sheikh Mohammed bin Rashid Al Maktoum, Emiro di Dubai, e di Papa Francesco. La nicchia dedicata all’incontro di Abu Dhabi è seguita da uno spazio più aperto in cui è stata collocata una scultura contemporanea intitolata “Incontro” ideata da Tomasz Trafny e da Giuseppe Di Nicola e realizzata da Giovanni Di Nicola. Anche in quest’occasione si è voluto mantenere una simmetria rispetto alla scultura sulla Fraternità. L’incontro e il dialogo sono possibili quando si superano ostacoli e impedimenti costruendo ponti. È stata inserita anche la porta, simbolo dell’Expo per significare che il tempo e il luogo di questa fiera sono il tempo e il luogo opportuno per creare ponti tra popoli, culture e religioni diverse. Lì accanto è stato allestito un monumentale Videowall dove attraverso immagini a volte provocatorie si tende a stimolare la riflessione dei visitatori sul loro impegno a favore degli ideali della fraternità e del dialogo. Nel percorso dei visitatori, così delineato, l’ultima tappa riguarda la struttura ellittica centrale sopramenzionata.

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L’immagine della creazione, almeno per gli appartenenti alle fedi abramitiche, deve ricordarci che ciò che ci rende fratelli non è solo l’umanità, ma anche la fede nell’atto creativo di Dio espresso nelle sue creature. Il Padiglione della Santa Sede è l’unico Padiglione non commerciale. Si tratta, infatti, di una presenza squisitamente simbolica e culturale come segno da guardare per andare oltre la dimensione economica nella costruzione dei ponti. Il Padiglione è stato adornato di un pavimento marmoreo. Per la parte del percorso primario è stato utilizzato il marmo nero, nelle nicchie il rosso damasco, mentre nell’ellisse centrale il bianco carrara intarsiato sul disegno michelangelesco leggermente adattato alla struttura che lo ospita. L’utilizzo dei marmi, l’illuminazione attenuata e l’impianto musicale crea un’atmosfera tra lo spazio museale e il tempio. Il progetto è stato ideato da chi scrive che, oltre a svolgere il ruolo di Vice Commissario del Padiglione ne è anche il Direttore artistico, ma è stato disegnato e allestito dall’Architetto Giuseppe di Nicola, Direttore del Padiglione. Al progetto hanno collaborato a vario titolo le seguenti istituzioni: Pontificio Consiglio della Cultura, Biblioteca Apostolica Vaticana – Sezione Manoscritti, Musei Vaticani, Sacro Convento di Assisi, Dicastero per la Comunicazione, Guardia Svizzera Pontificia, Fondazione Scienza e Fede – STOQ. Il Padiglione ha anche una sua Applicazione (The Holy See Pavilion) per i dispositivi smart realizzata in lingua inglese e araba da EWTN Poland, Fundacja Vide et Crede, Fundacja IT4Heaven.

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THEMA 11

HANNO SCRITTO PER THEMA 11|21

Tino Grisi. Laureato in architettura al Politecnico di Milano, dottore di ricerca dell’Università di Bologna. Ha conseguito il Master in Progettazione di chiese alla Sapienza di Roma. L’ architettura liturgica è il terreno della sua attività professionale e di ricerca. 106

Claudio Varagnoli. Ordinario di Restauro architettonico (Università di Chieti-Pescara dal 2001) e autore di numerose pubblicazioni. E’ componente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali e presidente del “Comitato tecnico-scientifico per l’Arte e l’Architettura contemporanee” (Ministero della Cultura). Clara Verazzo. Associato di Restauro (Università di Chieti-Pescara), è autrice di contributi e saggi dedicati alla conservazione del patrimonio architettonico e al rapporto con il progetto contemporaneo, nonché all’impiego dei materiali e delle tecniche costruttive tradizionali. Andrea Dall’Asta. Terminati gli studi di architettura a Firenze, entra nella Compagnia di Gesù. Si laurea in filosofia a Padova, in teologia a Parigi e, sempre a Parigi, consegue il dottorato in filosofia estetica. È direttore della Galleria San Fedele di Milano dal 2002. Ha fondato a Milano nel 2014 il Museo San Fedele. Itinerari di arte e fede. Francesco Menegato. Architetto. Laureato all’università IUAV di Venezia con la tesi “Abitare la soglia”, con cui ha vinto il IX Premio Europeo di Architettura Sacra indetto dalla Fondazione Frate Sole di Pavia. Collabora in gruppi di progetto per concorsi di progettazione e adeguamento dei luoghi di culto a livello nazionale. Giancarlo Santi. È un presbitero milanese laureato in architettura e licenziato in teologia. Ha lavorato per la diocesi di Milano per la Santa Sede e per la CEI. Ha pubblicato vari volumi dedicati alle chiese in Milano in Italia e in Europa.

Goffredo Boselli. Monaco di Bose, è dottore in teologia a l’Institut Catholique di Parigi. Ha conseguito la licenza canonica in liturgia e teologia dei sacramenti l’Institut Supérieur de Liturgie di Parigi e il Master in Storia delle religioni e antropologia religiosa presso l’Université Sorbonne Paris IV. Dal 2000 al 2020 responsabile della liturgia del Monastero di Bose e insegnante presso il suo Studium. Curatore dei Convegni Liturgici Internazionali di Bose consacrati al rapporto liturgia, architettura e arte. In qualità di esperto, collabora con la CEI, dal 2003 nella Commissione episcopale per la liturgia e dal 2005 nella Consulta dell’Ufficio Liturgico Nazionale. Come liturgista ha curato l’adeguamento di molte chiese in collaborazione di architetti. Marina Feroggio. Laureata in architettura al Politecnico di Torino e specializzata in Restauro dei Monumenti al Politecnico di Milano, dove ha anche conseguito il Master in Management dei Beni e delle Istituzioni Culturali. Dal 1997 si occupa prevalentemente di progettazione e direzione dei lavori di importanti cantieri di restauro architettonico, tra cui quello della Cappella della Sindone. Attualmente lavora ai Musei Reali di Torino dove è curatrice del patrimonio architettonico di Palazzo Reale e dei Giardini Reali. Sergio Massironi. Laureato in Teologia e in Filosofia, attualmente dirige il programma teologico della sezione Migranti e Rifugiati nel Dicastero vaticano per il Servizio allo Sviluppo Umano Integrale. È dottorando di ricerca presso il Forschungszentrum “Religion and Transformation in Contemporary Society” dell’Università di Vienna e Cultore della materia in Etica Sociale alla Facoltà di Economia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Scrive per L’Osservatore Romano, è opinionista di Radio Marconi e cura il blog A misura d’uomo. Ha pubblicato, fra gli altri, con Beatrice Basile, Il Gesto sacro. Una conversazione con Mario Botta, edito da Electa.


Jo Noero. Jo NoeroArchitects è stata fondata nel 1984 a Johannesburg, in Sudafrica unendo la carriera professionale a quella accademica. Ha avuto riconoscimenti internazionali e progetti esposti al MOMA, alle Biennali di Venezia, San Paolo e Singapore alla National Gallery of Art di Cape Town. Tra le altre cariche è stato professore e direttore della School of Architecture and Planning all’UCT, professor of architecture e director of graduate studies Ruth and Norman Moore at Washington University, St Louis, è stato eletto International Fellow del RIBA nel 2010, Honorary Fellow di AIA 2015 ed insignito della Medaglia d’Oro per l’Architettura dal South African Institute of Architects nel 2010. Andrea Jasci Cimini. Architetto. Ha collaborato con studi di architettura in Italia e all’estero (soprattutto in Svizzera e su progetti in Africa e Medio Oriente). Le aree di ricerca, attraverso masterclass, concorsi e workshop, spaziano dalla progettazione architettonica al tema della trasformazione urbana e del territorio. È stato tra i progettisti selezionati per il padiglione Italia alla Biennale di Venezia 2018. Vive e lavora in Svizzera. Esteban Fernández Cobián. Dottore architetto. Professore Associato presso l’Università di Coruña (Spagna). Fa parte della giuria del Premio Internazionale di Architettura Sacra Frate Sole (Pavia, Italia), coordina il CIARC e dirige la rivista AARC. Autore di numerosi articoli e di diverse monografie, ha recentemente pubblicato “Architetture religiose del XXI secolo in Spagna” (UDC, 2020). Mons. Tomasz Trafny. Darłowo (Polonia) 1970. Sacerdote dell’Arcidiocesi di Lublino e Officiale del Pontificio Consiglio della Cultura (Città del Vaticano). Studia filosofia e teologia presso l’Università Cattolica di Lublino; compie studi postlaurea in filosofia presso la stessa Università e in seguito presso la Pontificia Università Lateranense a Roma. Dal 2006 è Responsabile del Dipartimento di Scienza e Fede al

Pontificio Consiglio della Cultura. Tra il 2006 e il 2012 è Direttore Esecutivo del Progetto STOQ e Direttore della collana dei libri STOQ Project Series Research. Dal 2013 è Segretario del Comitato Scientifico della Fondazione Scienza e Fede - STOQ, e dal 2014 è Segretario del Consiglio di Amministrazione della medesima fondazione. Dal 2014 al 2016 è Membro del Board of Advisors della John Templeton Foundation. È stato Vice-Commissario Generale del Padiglione della Santa Sede per l’EXPO 2019 di Orticoltura a Pechino e ricopre il ruolo di Vice-Commissario Generale ad omnia del Padiglione della Santa Sede per l’EXPO 2020 a Dubai, di cui è anche il Direttore artistico.

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