Thema 15|24

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THEMA

RIVISTA DEI BENI CULTURALI ECCLESIASTICI

Paolo LagazziFrancesco
FinocchiaroFrancesco MiragliaLuigi MonzoLorenzo Grieco
Giuliana Quattrone
Stefano Cecamore
Ignacio Rubiño , Luis Rubiño , Pura García Márquez
Foto Engelbert Reinecke
Eduardo Chillida, Gurutz Aldare, 2000

THEMA

RIVISTA DEI BENI CULTURALI ECCLESIASTICI

THEMA 15|24

2024

periodico semestrale

Pubblicazione registrata presso il Tribunale di Pescara, con autorizzazione del 15/6/2011, registro di stampa 10/2011

ISSN 2384-8413

Editore

Centro Studi Architettura e Liturgia

via della Liberazione 1, Montesilvano (Pe)

Direttore Responsabile

Francesca Rapini

Redazione

via della Liberazione 1, Montesilvano (Pe)

Stefano Agresti, Francesco Miraglia, Stefania Gruosso, Sergio Massironi, Giuliana Quattrone, Paola Renzetti

Comitato Scientifico

Luigi Bartolomei, Goffredo Boselli, Fabrizio Capanni, Andrea Dall’Asta, Esteban Fernández-Cobián, Antonio de Grandis, Renato Laganà, Andrea Longhi, Giuseppe Pellitteri, Claudio Varagnoli

Corrispondenti

Andrea Jasci Cimini (Svizzera), Luigi Monzo (Germania)

Progetto grafico e impaginazione

Mauro Forte

Hanno collaborato

Claudio Varagnoli, Massimo Angrilli, Sophia Ungers, Giuseppe Di Eleonora

Amministrazione

Alessandro Amicantonio, Luca Litterio

Credits & Copyrights

Legge 22 aprile 1941, n. 633

Art. 70

1. Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l’utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali.

[...]

3. Il riassunto, la citazione o la riproduzione debbono essere sempre accompagnati dalla menzione del titolo dell’opera, dei nomi dell’autore, dell’editore e, se si tratti di traduzione, del traduttore, qualora tali indicazioni figurino sull’opera riprodotta.

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www.themaprogetto.it themaes.editore@gmail.com

In copertina

Simon Ungers Kirche

pg.

1. Editoriale

Sergio Massironi

3. Umberto Squarcia jr. Lo spirito della soglia

Paolo Lagazzi

9. Costellazioni, Armenie Ville Francesco Finocchiaro

15. Gaetano Rapisardi. La ridefinizione della fronte e il campanile della Chiesa di Maria SS. Incaldana in Mondragone

Francesco Miraglia

21. Trasformazioni creative.

La ristrutturazione della chiesa parrocchiale di San Fedele a Stoccarda e il suo adeguamento a centro spirituale

Luigi Monzo

29. Moretti, Passarelli, Berarducci. Progetti per la chiesa di San Valentino al Villaggio Olimpico di Roma, 1966-1986

Lorenzo Grieco

41. Verticalismo e Massività. Morfologia architettonica e rilevanza territoriale della cattedrale di Durham

Giuliana Quattrone

47. Simon Ungers.

Sette spazi sacri

Guido Schlimbach

53. La chiesa di Sant’Anna a Pescara. Tornano alla luce gli straordinari apparati decorativi di un bene testimoniale della città

Eliseba De Leonardis, Aldo Giorgio Pezzi

57. Colmare un’assenza.

La ricostruzione di un altare del XVII secolo perduto per un incendio

Luca Maria Cristini

63. La decorazione della Basilica del Señor del Gran Poder a Siviglia. Concorso a inviti

Ignacio Rubiño, Luis Rubiño, Pura García Márquez

71. Rubriche

Saloni a T(h)ema

Stefano Cecamore

Editoriale

Le pagine di questo numero, che il lettore avrà forse già sfogliato, mi hanno richiamato le prime parole riservate da Papa Francesco agli artisti nel loro incontro a La Biennale di Venezia, il 28 aprile scorso. «Vi confesso che accanto a voi non mi sento un estraneo: mi sento a casa. E penso che in realtà questo valga per ogni essere umano, perché, a tutti gli effetti, l’arte riveste lo statuto di “città rifugio”, un’entità che disobbedisce al regime di violenza e discriminazione per creare forme di appartenenza umana capaci di riconoscere, includere, proteggere, abbracciare tutti. Tutti, a cominciare dagli ultimi». La nostra rivista ha la vocazione di farvi sentire a casa: un modo di descrivere la cultura che supera intellettualismi elitari e divisivi, per restituire criticamente al maggior numero di cittadini il loro stesso desiderio di “rifugio”. Rispetto al male che ci circonda, infatti – i cui effetti ci bombardano nelle notizie di ogni giorno e sono devastazione di luoghi e di anime, di corpi e di storie – ciò che THEMA racconta è l’umana capacità di costruire e ricostruire. Il modo più tipicamente umano di trasformare gli spazi in luoghi supera le mere esigenze funzionali e oppone armonia al caos, equilibrio al disordine, distinzione alla sopraffazione, giustizia all’inequità. Vibra questa gratuità, l’eccedenza dell’arte, nell’idea stessa di “beni” culturali. Noi cerchiamo il Bene. Per questo trasformiamo costruzioni, oggetti, ambienti in “beni” e sentiamo di dover esercitare vigilanza, cura, creatività affinché le forze predatorie del mercato non divorino ciò che nutre la convivenza delle persone e dei popoli. «Gli artisti sono nel mondo, ma sono chiamati ad andare oltre. Ad esempio, oggi più che mai è urgente che sappiano distinguere chiaramente l’arte dal mercato. Certo, il mercato promuove e canonizza, ma c’è sempre il rischio che “vampirizzi” la creatività, rubi l’innocenza e, infine, istruisca freddamente sul da farsi». Papa Francesco non nasconde sotto il tappeto i rischi che corrono le nostre società. Persino quanto abbiamo di più sacro può venire pervertito da logiche senza respiro e senza futuro. I progetti e i luoghi dello spirito che THEMA15 porta all’attenzione hanno l’energia di cui il nostro presente ha bisogno per continuare a ‘vedere’ che l’osceno non ha l’ultima parola. Esiste, sembra persino rafforzarsi in una globalizzazione finanziaria che nei suoi lati più oscuri non vede crisi, ma non è tutto. Lo sguardo umano va educato, come il palato, a non abituarsi, ad apprezzare distinguendo. «E direi che l’arte ci educa a questo tipo di sguardo, non possessivo, non oggettivante, ma nemmeno indifferente, superficiale; ci educa a uno sguardo contemplativo». Se la Santa Sede ha scelto un carcere per narrare il Bello e se, proprio al Padiglione alla Giudecca, il messaggio si sintetizza nel potente titolo “Con i miei occhi”, è perché più che mai si tratta oggi di imparare a guardare. Anche con gli occhi altrui. Anche dai margini. Anche nel silenzio. Noi crediamo e speriamo di contribuire a questa epocale avventura, che salda alla grande tradizione umanistica gli sforzi che la costruzione di una rivista oggi comporta. Il sostegno dei nostri lettori, la passione di chi sta dietro queste pagine e la realtà stessa, che continua a chiamarci, nella sua fragile bellezza, motivano l’impegno e intensificano la riflessione. Scrivere diventa, allora, una chiamata all’azione e leggere un’esperienza di coinvolgimento, quasi di risurrezione. È la vita che chiama la vita: non possiamo permetterci di farla tacere. Lo dobbiamo a noi stessi, alle generazioni di cui siamo eredi, alle giovani e ai giovani di un mondo che dovrà tornare presto a essere di pace.

UMBERTO SQUARCIA JR LO SPIRITO DELLA SOGLIA

Paolo Lagazzi

Come un vento pungente e forte, bruciante e dolce, un desiderio di semplicità – di forme, colori o segni magri, ruvidi, grezzi, ridotti all’osso – attraversa in lungo e in largo nella modernità l’anima degli artisti innamorati delle radici primarie dell’essere e tesi a riscoprirle, a scavarle, a celebrarle in un mondo fondato sul superfluo e sull’inautentico, sull’oblio della verità, sulla rimozione del miracolo minimo e immenso, fragile e assoluto della vita. Questo desiderio ha assunto nel Novecento volti e corpi molto diversi: ha prodotto le parole nude, tremanti e cretose del primo Ungaretti; ha guidato le mani nervose e mistiche di Giacometti come quelle affettuose e pazienti del Dubuffet creatore di statuette in carta stagnola; ha spinto Frank Lloyd Wright a reinterpretare la purezza zen delle case nipponiche; ha cadenzato i ritmi più scarni, elementari di Cage. A questa variegata, intrepida confraternita – o ad altri sperimentatori più recenti, come gli adepti dell’“arte povera” promossa da Germano Celant – possiamo avvicinare Umberto Squarcia junior, architetto e artista poliedrico, da anni continuamente in viaggio fra Parma e New York. Nato negli USA (a Rochester) nel 1970, Squarcia ha alle spalle una famiglia parmigiana di straordinaria ampiezza spirituale e mentale: il nonno materno, Italo Podestà, è stato un notevole poeta, stimato fra gli altri da Attilio Bertolucci; il padre, Umberto Squarcia senior, è un celebre cardiologo pediatra; uno dei fratelli, Giorgio, è il singolare autore di pagine ondeggianti tra science-fiction, visioni anamorfiche e labirinti onirici, oltre che di un intenso libro su Ayrton Senna. Su tutta la famiglia Squarcia aleggia un senso di umanità antica ma immune da ogni sospetto di retorica, da ogni equivoco sentimentale. Prima di scoprire il bisogno di esplorare i territori dell’arte, Umberto junior (Umbi per gli amici) è cresciuto in una scuola di vita tanto intrisa di rispetto per la tradizione, in primo luogo cristiana, quanto aperta a tutte le avventure della mente e del cuore, dell’intelligenza e dell’anima. Il battesimo al sentimento della forma Squarcia junior l’ha ricevuto attraverso l’architettura: durante un viaggio giovanile il fascino delle grandi cattedrali del Medioevo francese è stato per lui qualcosa di simile a una rivelazione proustiana; ha poi studiato architettura presso La Sapienza di Roma e negli Usa ha potuto esplorare a fondo le opere di maestri quali Wright, Mies van der Rohe e Frank Gehry. Trasferitosi nel ’98 nella Grande Mela, ha cominciato a lavorare presso lo studio “M/G New York Architects” di Anthony Morali e Michael Gadaleta a Soho. Nel 2005 a Hell’s Kitchen, un altro quartiere di Manhattan, ha creato un proprio studio d’architettura e ha dato avvio a un progetto di tirocinio per studenti stranieri. Nel 2011 è tornato a Soho col suo studio, che ha poi spostato a Harlem.

La frequenza degli slittamenti, dei passaggi, dei viaggi di Squarcia è il segno visibile della ricchezza di uno spirito sempre in fermento. Aprirsi dall’architettura a una scultura e una pittura sui generis – cioè a un lavoro teso a

Come un vento pungente e forte, bruciante e dolce, un desiderio di semplicità – di forme, colori o segni magri, ruvidi, grezzi, ridotti all’osso – attraversa in lungo e in largo nella modernità l’anima degli artisti innamorati delle radici primarie dell’essere

manipolare, assemblare, incrociare linee e volumi, impasti e materiali diversi, dal legno alla pietra, dal metallo al cartone – è stato per lui naturale come attraversare la più invitante e magnetica delle soglie.

Se volessi cercare un’immagine, una metafora o un simbolo attorno a cui convogliare le svariate esperienze di Umbi sia nel campo architettonico che in quello scultoreo e pittorico, penserei proprio alla figura della soglia. Come architetto Squarcia ha lavorato molto nella prospettiva del restauro, cioè si è mosso in quegli spazi intermedi, “trasversali” entro cui il presente dialoga col passato e col futuro. Come artista – non solo scultore, disegnatore e pittore ma anche performer e creatore di installazioni – si è sempre avventurato su quel discrimine sottile e ardente che lega fra loro la concretezza plastica a una serie di evocazio-

2. Madonna and Child
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3. Trittico
4. Croce di Cirene
5. Crossroads
La frequenza degli slittamenti, dei passaggi, dei viaggi di Squarcia è il segno visibile della ricchezza di uno spirito sempre in fermento. Aprirsi dall’architettura a una scultura e una pittura sui generis

ni di portata spirituale, le ragioni essenziali della forma a un engagement di carattere etico, a una profonda attenzione per i problemi dell’umanità ferita, a una sensibilità di radicale imprinting cristiano e sociale. Nel 1998, poco prima del trasferimento a New York, Squarcia ha realizzato la sua opera forse più epifanica, più innervata da una tensione “di soglia”: la Scala rossa (o Staring at the Sun). Questa grande scala, costruita in metallo verniciato di rosso, si sviluppa obliquamente fino a 2 metri e 40 centimetri di altezza; partendo da una base relativamente piccola incastrata in un prato, si allarga a trapezio sovrapponendo otto scalini e terminando con una piattaforma esposta al vuoto, priva d’ogni riparo. Cosa significa questo oggetto seducente e arcano, teso fra il qui e l’altrove, il dicibile e l’indicibile? Una volta ho chiesto a Squarcia a cosa alludessero quegli otto scalini; mi ha risposto: “Due genitori e sei fratelli”: tale è la struttura della sua famiglia d’origine (uno dei fratelli, Luca, è mancato giovanissimo per un incidente stradale). Questo tenero riferimento autobiografico, però, non esaurisce affatto la risonanza sapienziale dell’opera. A volte l’autore appoggia sulla piattaforma in cui culmina la scala un drappo bianco, lasciandolo pendere verso terra: a cosa allude questa stoffa, forse al sudario di Cristo? Forse si potrebbe dire che, un po’ come la Scala della divina ascesa del santo monaco Giovanni Climaco (a sua volta tesa a rileggere la scala di Giacobbe della Genesi), l’oggetto di Squarcia s’inarca fra la terra e il cielo per ricordarci il miste-

Vagando tra i cantieri o le discariche, i mercati, I luoghi più defilati e popolari di New York, egli individua e raccoglie gli oggetti o i frammenti degli oggetti più vari – soprattutto i più umili e inappariscenti –, poi li piega, stringe, accarezza e riplasma per scoprire nelle povere ragioni della “lettera” le ricchezze nascoste dell’anima.

7 ro doloroso e gaudioso dell’Incarnazione? Più che cercare d’interpretare questa scala, in realtà, bisognerebbe percorrerla fino alla sommità e qui arrestarsi lasciando spaziare lo sguardo sulla campagna di Mamiano (nel Parmense) dov’è collocata: non a caso l’architetto Paolo Conforti, che sulla Scala rossa ha scritto cose bellissime, riconosce in essa un’espressione d’arte pura, un’esperienza senza nome, uno slancio oltre le idee, una “preghiera estrema”, una traccia nuda del nostro bisogno d’assoluto. In modo diverso sono “soglie” anche i manufatti creati da Umbi utilizzando materiali di scarto.

Ciò che sembrava ormai privo di senso rinasce nel crogiuolo della sua fantasia: una valvola idraulica inservibile diventa una specie di cuore (Heart); dei bastoncini, dei rametti o dei pezzi di corteccia alludono alle specie animali in via d’estinzione; due pietre legate fra loro con un tondino in acciaio per le armature in cemento armato, e appoggiate su un frammento di tronco tagliato, diventano una Madonna and Child; tre semplici scatole vuote di cartone posate nel cuore aritmico, convulso di Broadway formano il più scarno e radicale dei presepi: i due cartoni più alti alludono a Maria e Giuseppe, il più piccolo a Gesù nella mangiatoia, eppure questi sono pur sempre i cartoni dentro cui dormono i barboni, come lo stesso autore sottolinea intitolando questa sua installazione Homeless baby Jesus. Tra le molte altre opere di Umbi che trovano la loro giusta dimora lungo soglie, confini o luoghi di transito, o che del pathos dei confini, dei sentieri e delle frontiere si nutrono, ricordo anzitutto la Croce di Cirene collocata presso Berceto sulla via Francigena. Si tratta di una grande croce in legno di quercia appoggiata obliquamente al terreno come per evidenziare lo sforzo di reggerla del Cireneo, uno dei personaggi evangelici in cui l’uomo contemporaneo può meglio rispecchiarsi, se è vero che il compito primo, non facile ma necessario, sarebbe oggi, almeno in Occidente, per tutti gli spiriti aperti e di buona volontà (non importa se credenti, agnostici o atei), farsi ancora carico dell’immenso messaggio cristiano. Ricordo le Ombre per la morte del fratello Luca (silhouettes balenanti fra il visibile e l’invisibile), il Memorial per le vittime di incidenti stradali e i Crossroads, dipinti su tavole lignee che evocano non solo gli intrecci delle mappe urbane ma anche le vibratili, formicolanti textures di Mark Tobey. Ricordo infine l’Integrazione n.1, altra installazione (realizzata nella mirabile piazza romanica del Duomo e del Battistero di Parma) in cui dei manichini alludenti a donne arabe velate hanno, al posto degli occhi, degli specchi: osservandosi in essi gli spettatori non possono evitare di riflettere che nel volto dell’altro si cela sempre la parte più segreta di noi.

6. Endangered species

7. Croce di Gerusalemme

8. Calumet peace pipe

Ha scritto John Updike: “L’arte moderna è una religione assemblata con i frammenti delle nostre vite quotidiane”. Non credo che l’arte, in qualsiasi forma, possa mai veramente considerarsi una religione, eppure dal fondo dei frammenti che usa, manipola, sposta con pazienza e passione, Umberto Squarcia junior ci invita a riscoprire nell’inverno dei nostri cuori dei semi possibili di grazia, delle vie per un cammino diverso nel mondo. Pagina precedente

COSTELLAZIONI, ARMENIE VILLE

Piuttosto che focalizzare la mia attenzione sulle dinamiche del cambiamento, ho deciso di indirizzare il mio sguardo sulla persistenza del passato

Questo è Claudio Gobbi, fotografo, che indaga il paesaggio culturale, dall’identità al limite, attraversando confini e territori, narrando l’arte, l’architettura e l’antropologia culturale. Autore di un testo visuale, dalle connotazioni poetiche, dal titolo Arménie Ville. A visual essay. Pubblicato nel 2016 da Hatje Cantz, accoglie i contributi di Hripsimé Visser, Martina Corgnati, Giacomo Daniele Fragapane e Sophie Jung.

Gobbi studia fotografia alla Bauer di Milano, tra l’Italia e Berlino e si forma con Gabriele Basilico. Attraversa i luoghi, sorvola le terre, indaga gli uomini, utilizzando il linguaggio della fotografia, attingendo – discontinuamente - non solo al patrimonio personale. Ricerca, scava, colleziona, con uno sguardo politico e culturale. Nell’opera sull’architettura armena, sulla sua persistenza nel tempo e nello spazio, determina un linguaggio “specifico” attraverso una mappatura che viaggia tra le geografie continentali. A partire da quella terra di confine, disegnata dai popoli, cerniera tra nord e sud, tra est e ovest, tra mari e leggende, in quel paesaggio quasi mistico e radicale, lì, Gobbi riflette, collezionando, proponendoci il senso della persistenza, la ridondanza della forma, pur nelle sue piccole variazioni morfologiche. Opere senza tempo, piantate a terra e con lo sguardo verso il cielo. Sentinelle, portali, presidi del paesaggio sacro.

Ecclesie disseminate nel mondo, ovunque, in ogni continente. Uguali a sé stesse come se volessero testimoniare un principio, una sottrazione, una tragedia. La condizione imposta dalla storia politica e culturale di quella terra. Il disconoscimento, il genocidio, la diaspora, come il popolo eletto. Tutte uguali con alcune differenze, nella forma del tamburo, prima circolare, poi ottagonale e poligonale. A croce greca, in pietra, isolata. Senza tempo, con un taglio fotografico mutante, ma ossessivo, ripetitivo. Trasformato in un codice linguistico standard, come fosse un preciso protocollo esecutivo.

A partire da quella terra di confine, disegnata dai popoli, cerniera tra nord e sud, tra est e ovest, tra mari e leggende, in quel paesaggio quasi mistico e radicale, lì, Gobbi riflette, collezionando, proponendoci il senso della persistenza, la ridondanza della forma

Jukhtak Monastery, Armenia, 11th-12th Century. Foto Claudio Gobbi
2. St. Mary Magdalene Church, Bruxelles, Belgium, 20th Century. Foto Claudio Gobbi 3. Copertina del libro Arménie Ville. A visual essay

Pagine 10 e 11 - Foto Claudio Gobbi

4. Holy Martyrs Church Abu Dhabi, UAE, 21st Century

5. St. Gregory Church, Baltj, Moldavia, 20th Century

6. Karmrakvank Monastery, Turkey, 10th Century

7. Saghmosavank Monastery, Armenia, 13th Century

Le foto sue, di altri, su commissione, trovate, catalogate, usate per punteggiare il pianeta come fosse una costellazione in terra, riflesso del cielo. Una mappa, un catalogo seriale. Una topografia della sparizione, ci suggerisce Daniele Fragapane. In questo senso, il patrimonio dei testi, la poesia dialettica, puntella e sostanzia l’opera fotografica. Raffinati, profondi, come un sentiero sicuro nella selva oscura delle parole e delle idee. Un’esegesi della tecnica fotografica, una lezione sull’architettura, una visuale politica e antropologica.

Un atlante di suggerimenti, di chiavi di lettura, che dissetano il lettore, lo aiutano a ricurvare la percezione della storia di un popolo perseguitato ma che vive nel ricordo della forma, nella condizione spirituale delle tradizioni.

Una trascendenza ereditaria, nel tempo, per millecinquecento anni, in ogni possibile porto, dentro le civiltà, portatrice di un’eredità unica.

Pagina precedente - Foto Claudio Gobbi

8. Tsakhats Kar Monastery, Armenia, 10th Century

9. St. Harutyun Church, Kecharis, Armenia, 13th Century

10. Karmirvank Monastery, Yagikesen, Turkey, 11th14th Century

11. Makravank Monastery, Armenia, 13th Century

In questa pagina - Foto Claudio Gobbi

12. St. Jacques Church, Lyon, France, 20th Century

E come ci ricorda Walter Benjamin – pensando al lavoro fotografico di Claudio Gobbi,risulterebbe «quello di chi, situandosi ai margini della percezione quotidiana, muovendosi al tempo stesso al suo interno e al suo esterno, tenta ostinatamente di opporre resistenza agli effetti fatali della dimenticanza» Una lettura necessaria, una visione indispensabile, per fissare lo scarto, la dimenticanza, la sparizione. Per comprendere come il sacro, il paesaggio, l’uomo, le strade e le stelle convivono dentro le nostre storie, all’infinito; e più si prova a cancellare, più la memoria emerge sotto infinite forme; il popolo armeno ha scelto quella della chiesa, come segno di fede e devozione, come segno identitario, e tutto questo appare, adesso, più chiaro a noi tutti. Una costellazione di segni rivolti verso il cielo, un libro che contiene segreti, regalandoci malinconiche iconografie dell’anima.

GAETANO RAPISARDI LA RIDEFINIZIONE DELLA FRONTE

E IL CAMPANILE DELLA CHIESA DI MARIA SS. INCALDANA IN MONDRAGONE

Francesco Miraglia

Premessa

Nel secondo dopoguerra, l’architetto siracusano Gaetano Rapisardi1 progettò diverse strutture ecclesiastiche. Alcune di esse, frutto della sua particolare ricerca geometrico-funzionale, furono realizzate tra il basso Lazio e la Campania settentrionale. Questo significativo impegno professionale lasciò un’impronta soprattutto nella città di Mondragone, in provincia di Caserta2

Qui Rapisardi progettò due importanti strutture sacre, poi realizzate: la chiesa di San Nicola3, nell’omonima area urbana di origine tardo-medievale e quella di San Rufino, nella zona di espansione prossima al mare. Le due chiese, pur se oggetto di interventi realizzati nei decenni successivi non estesamente rispettosi della matrice originaria, hanno tuttavia conservato l’impostazione voluta dal creatore.

La concezione del carattere “urbano” nelle architetture sacre di Rapisardi, come è stato fatto notare «è del tutto figlia di parte della cultura architettonica italiana che si è formata durante gli anni del Fascismo»4. Lo stesso Piacentini, con cui egli collaborava, considerava la collocazione di un edificio sacro e i suoi rapporti con il contesto urbano come aspetti peculiari5

Per la Chiesa di San Nicola si è registrato, negli ultimi anni, un intervento di chiusura di gran parte del portico6, incongruo rispetto alla configurazione spazio-volumetrica originaria, poiché chiude uno spazio con la funzione di filtro. A proposito dell’attuale configurazione della Chiesa di San Rufino,

1 Gaetano Rapisardi (1893-1988) fu un architetto di grande fama, operante soprattutto a Roma. Genero del visionario artista e architetto Gino Coppedé, fu comunque capace di mantenere una propria autonomia di giudizio e professionale, lavorando con il fratello Ernesto, di poco più giovane e anch’egli architetto. Grazie a quest’ultimo ebbe l’occasione, sin dagli albori del Ventennio, di lavorare con Marcello Piacentini, cimentandosi anche con interventi sul tessuto storicizzato della Capitale. Nonostante la sua partecipazione alle iniziative culturali del regime fascista, Rapisardi seppe conquistare visibilità anche nel dopoguerra, in particolare con la progettazione o ricostruzione di edifici sacri. Si vedano, in proposito: Dizionario bibliografico degli italiani, vol. 86/2016, https://www. treccani.it/enciclopedia/gaetano-rapisardi_(Dizionario-Biografico)/; scheda su Casa dell’architettura, https://web. archive.org/web/20120124003109/http://www.casadellarchitettura.it/monitor/d/cd.asp?id=00034. È stato largamente dimostrato che, in qualità di architetto del regime, anche Rapisardi fu costretto a “ridefinire” nell’immediato dopoguerra il proprio operato, per “abiurare” il passato e per «concepire architettura non più per la Nazione ma per la collettività [essendo in ciò costretto ad] un cambio linguistico e formale». Giusi Ciotoli, L’architettura sacra nella ricerca di Rapisardi del dopoguerra, in Clementina Barucci, Marco Falsetti (a cura di), Gaetano Rapisardi. Architetto 1893-1988, Campisano Editore, Roma, 2022, p. 179.

2 Si consulti, a proposito dell’impegno professionale di Gaetano Rapisardi tra il basso Lazio e l’alta Campania, l’interessante contributo di Giusi Ciotoli, op. cit., pp. 179-192. Un recente rilievo (consistente nella pianta e nel prospetto principale) della chiesa di San Nicola è in Corrado Valente, Mondragone Sacra. Viaggio nella memoria dello Spirito, Armando Caramanica Editore, Marina di Minturno, 2005, p. 147.

3 La struttura sacra, che ripropone in scala minore i lineamenti della chiesa di San Giovanni Bosco nel quartiere Tuscolano a Roma, «è arretrata rispetto alla strada per ricavare una piccola piazza antistante, con funzione di raccolta dei fedeli durante le manifestazioni religiose». Corrado Valente, op. cit., p. 114.

4 Giusi Ciotoli, op. cit., p. 181.

5 Il rapporto con Marcello Piacentini si consolidò anche in occasione di un intervento di grande cimento: l’ideazione della nuova Città universitaria di Roma. Qui Piacentini, tra gli altri, ebbe al suo fianco anche l’architetto siracusano: «La lista dei sette collaboratori è attentamente vagliata dall’accademico. Ci sono Gio Ponti e il fidato Foschini. C’è Gaetano Rapisardi, una delle colonne del suo studio romano». Paolo Nicoloso, Marcello Piacentini, Carocci Editore, Città di Castello, 2022, p. 71.

6 Va chiarito, ad ogni modo, che la citata chiusura degli spazi rappresenta solo una piccola parte dell’articolato intervento condotto sull’intera struttura sacra (in particolare sulla copertura) dal 2017 al 2021, che ha previsto anche necessari lavori strutturali e di adeguamento liturgico.

La concezione del carattere “urbano” nelle architetture sacre di Rapisardi, come è stato fatto notare «è del tutto figlia di parte della cultura architettonica italiana che si è formata durante gli anni del Fascismo»
1. Disegno acquerellato di Gaetano Rapisardi raffigurante la nuova articolazione della fronte della Chiesa Madre, oggi Basilica Minore di Maria SS. Incaldana (archivio Parrocchia di San Nicola in Mondragone). Dettaglio

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2. Scorcio della fronte della Basilica Minore, recentemente oggetto di un intervento di restauro delle superfici. Si nota la sostanziale permanenza, rispetto al rilievo del Rapisardi, dei ritmi geometrici

3. Disegno acquerellato di Gaetano Rapisardi raffigurante la nuova articolazione della fronte della Chiesa Madre, oggi Basilica Minore di Maria SS. Incaldana (archivio Parrocchia di San Nicola in Mondragone)

invece, si ricorda che «la prospettiva complessiva dell’edificio così come la successione interna scandita da fruizione orizzontale ed elevazione verticale sono state fortemente alterate a seguito di interventi di restauro e completamento effettuati negli anni Ottanta»7

Ad ogni modo, l’architetto siracusano a Mondragone non fu impegnato soltanto nel progettare luoghi di culto, ma anche in interventi di ridefinizione e ampliamento di una delle chiese più importanti della città: l’attuale Basilica Minore di Maria SS. Incaldana8

Il progetto di ridefinizione della fronte della Chiesa dell’Incaldana e di realizzazione dell’attiguo campanile

Uno dei primi cimenti professionali del Rapisardi nella provincia casertana si registra a Cellole, con la progettazione della Chiesa dei SS. Vito e Marco (1956), cui seguirono le enunciate esperienze di San Nicola e San Rufino a Mondragone (1958-62).

Durante questo periodo l’architetto siracusano ebbe l’occasione, ancorché non sostanziata dalla realizzazione dell’intervento progettato, di misurarsi con la preesistenza storico-architettonica rappresentata dalla Chiesa dell’Incaldana. Rapisardi ideò per la struttura sacra, tra il 1961 ed il 1962, la riarticolazione della facciata principale: tripartita, essa mantenne nel progetto l’originaria impaginazione, caratterizzata dall’ingresso principale sovrastato da una rosta, nettamente superiore ai laterali, sui quali erano presenti due oculi. Sei lesene separavano i tre ingressi, binate in corrispondenza di quello centrale. Le tre aperture presentavano raffinati portali, realizzati nel pregiato marmo di San Mauro, di derivazione locale.

Da un disegno acquerellato del 1961, si comprende l’idea del Rapisardi. Va preliminarmente chiarito come l’assetto geometrico fosse sostanzialmente simile al preesistente, pur tendendo – per quanto riguarda le decorazioni – all’eclettismo. In sintesi, la facciata sostanzialmente neorinascimentale della struttura, dotata di esili ritmi geometrici, sarebbe stata abbellita da scene religiose e sovrastata – dopo il rifacimento del timpano – da statue di santi, su tutte quella della Madonna Incaldana. Al centro, in luogo della grande rosta esistente, l’architetto previde una pittura murale raffigurante la Vergine Maria. Ai lati, sovrastanti gli oculi destro e sinistro, invece, rievocò la vicenda della sacra icona della madonna Incaldana – di cui quest’anno ricorre il quattrocentesimo anniversario – che riveste per il popolo di Mondragone un peculiare valore storico-religioso. Nel timpano, invece, immaginò una scena religiosa più articolata, che beneficiasse del maggiore spazio disponibile.

Oggi sarebbe uno sterile cimento, alla luce del dibattito sul moderno esercizio della tutela, analizzare il progetto in termini critici, attualizzandone le caratterizzazioni. Bisogna, invece, contestualizzarlo e concentrarsi, semmai, nella ricerca delle ragioni che lo originarono, legate inequivocabilmente al culto della Patrona della Città e all’azione dei presbiteri che, pur rivolgendosi ad architetti di compiuto costrutto culturale, tenevano in gran conto le aspettative della comunità locale.

7 Giusi Ciotoli, op. cit., p. 189, che fa riferimento ad Antonio Napolitano et al (a cura di), La parrocchia: luogo di fede, luogo di storia. Profilo storico-pastorale delle Comunità cristiane della Diocesi di Sessa Aurunca, Armando Caramanica Editore, Marina di Minturno, 2013, p. 123. In quest’ultima pubblicazione si fa notare, in proposito, che «La struttura preesistente fu consolidata e fu costruita la cantoria con un organo a vista. Fu ampliato lo spazio intorno all’altare. Il corpo della chiesa fu allungato di circa sette metri. Fu costruita una sagrestia ampia e accogliente e una segreteria». Interventi, dunque, condotti per ampliare una struttura che sussumeva una peculiare caratterizzazione spazio-funzionale, frutto dell’attenta ricerca del Rapisardi. Ulteriori informazioni in proposito sono rinvenibili nel contributo di Pasquale Poccia, Chiesa di San Rufino, in Paolo Russo (a cura di), Don Franco. Un fedele testimone del Vangelo, Armando Caramanica Editore, Marina di Minturno, 2021, pp. 103-105.

8 Al tempo, la chiesa non era ancora assurta al titolo di Basilica Minore (ciò avvenne solo nel 1990): infatti, nell’immaginario collettivo, pur identificandosi nella Collegiata di San Giovanni Battista (titolo ripristinato nel 1953 dopo essere stato sospeso all’inizio del periodo post-unitario), era comunemente denominata “Chiesa Madre”, come peraltro la definisce lo stesso Rapisardi nei suoi grafici di progetto.

Un discorso diverso può farsi riguardo l’ipotesi di realizzazione, sul lato sinistro della fronte principale dell’edificio sacro, di un alto campanile in cemento armato. La struttura, articolata su quattro ordini, presentava un’altezza totale, al netto della croce sovrastante, di ben 27 metri, circa il doppio di quella della chiesa9. Le altezze interpiano sono leggermente differenti nei due grafici, segno dell’evoluzione progettuale del manufatto. Sulla base del primo ordine si apriva l’ingresso (non indicato nel grafico del 1962). Il secondo e il terzo ordine presentavano una balaustra per l’affaccio sulla piazza. L’ultimo livello, infine, ospitava le campane. Sulla parte retrostante della struttura era prevista una scala, culminante in corrispondenza del calpestio dell’ultimo livello.

Il campanile era decisamente dissimile, nell’impostazione e nella materia costituente, dal palinsesto storicizzato caratterizzante la chiesa, perché aderiva ad una proposta di forte semplificazione formale.

Appariva, in definitiva, come una riproduzione, in diminuzione, di quello realizzato per la Chiesa di San Nicola (rispetto al quale presentava analoghe decorazioni sommitali) e intesseva similari rapporti geometrici con quello della chiesa di San Rocco a Castelforte, nel basso Lazio (1949). Se fosse stata realizzata, una siffatta struttura avrebbe decisamente alterato gli originari rapporti spazio-volumetrici della Chiesa Madre.

9 Del campanile sono stati rinvenuti due distinti grafici, uno del novembre 1961 e l’altro del luglio 1962. Entrambe le versioni ne riportano un’altezza totale pari a 27 metri, seppur variando le altezze intermedie.

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4. Prospetto di insieme della fronte della Chiesa Madre (che non riporta il progetto di nuova articolazione) con il campanile, novembre 1961 (archivio Parrocchia di San Nicola in Mondragone)

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5. Prospetto del campanile della Chiesa Madre, luglio 1962 (archivio Parrocchia di San Nicola in Mondragone). Si notano alcune differenze formali con il disegno precedente

TRASFORMAZIONI CREATIVE

LA RISTRUTTURAZIONE DELLA

CHIESA PARROCCHIALE

DI SAN FEDELE A STOCCARDA E IL SUO ADEGUAMENTO A CENTRO SPIRITUALE

L’immagine urbana della chiesa parrocchiale di San Fedele a Stoccarda, in tedesco Sankt Fidelis oppure Fideliskirche, è piuttosto modesta. Bisogna cercarla questa chiesa oppure trovarla per caso com’è successo al sottoscritto. Passeggiando nel centro pulsante della metropoli commerciale ed industriale della Svevia, nella Seidenstrasse si può, appunto, trovare questo gioiello, non solo di architettura sacra moderna, ma di architettura narrante, capace di esprimere non soltanto sé stessa ma anche il lungo processo storico che ha portato al suo aspetto contemporaneo. Camminando, quindi, per il marciapiede occidentale della Seidenstrasse, all’improvviso si può notare uno spazio parallelo a quello della strada, che è uno dei principali assi trasversali che portano all’arteria urbana della Schlossstrasse. Due portoni arcati traforano i perimetri di un muro semplice e si aprono in uno spazio rettangolare orlato da una gracile sequenza di colonne di travertino. Questo ambiente, una specie di chiostro, che forse è più un paradiso o, più precisamente, un preludio, offre un’improvvisa intimità e invita il visitatore ad esplorare ulteriormente. Grazie alle sue misure compatte questo spazio inatteso fa da disimpegno tra il contesto urbano e il luogo sacro che si preannuncia; il linguaggio architettonico, assolutamente inaspettato, tramanda immediatamente ad un edificio di particolare valenza. Il visitatore occasionale è attirato dall’improvvisa intimità dello spazio e letteralmente incoraggiato ad andare oltre cercando una porta aperta tra le tre offerte dall’impianto classico della facciata. Ecco come si può comprendere che ci troviamo di fronte a una chiesa le cui dimensioni si apprezzano soltanto allungando il collo per abbracciare l’intera e abbastanza tradizionale facciata dell’edificio basilicale. Al primo sguardo, è evidente che la disposizione della chiesa e la decorazione artistica della sua facciata in pietra naturale richiamino lo stile storicista che, al tempo della progettazione originale, dominava ancora i gusti della maggior parte del clero committente. E questo, nonostante proprio nell’anno della sua consacrazione, a Stoccarda si stesse avviando una delle più significative avventure architettoniche d’avanguardia, che due anni dopo avrebbe portato all’apertura di uno dei capolavori del moderno: la Weissenhofsiedlung.

Contesto in movimento: ambivalenze e congruenze

La chiesa di San Fedele, consacrata secondo il rito cattolico appunto nel 1925, fu costruita su progetto dell’architetto locale Clemens Hummel (1869–1938), che dal 1921 realizzò anche la poco distante chiesa del Sacro Cuore (Herz-Jesu-Kirche, 1921–33). Eppure, gli effetti degli sconvolgimenti sociali e culturali dell’epoca sono rintracciabili in certe dissonanze, attuate già nella fase di costruzione, in quanto il programma policromo

Anche se gli interventi strutturali hanno completamente cambiato l'esperienza dello spazio, è la sensibilità artistica degli architetti che conferisce a questo luogo di culto un aspetto non solo nuovo, ma armonioso e sublime.

e classicista previsto per l’interno fu realizzato solo in parte. Mentre il coro fu costruito ancora secondo i vecchi disegni, con trafori colorati e lesene in pietra naturale, nell’area centrale della navata l’ornamentazione e il decoro furono abbandonati. Questa scelta ha permesso che la struttura portante emergesse con le sue superfici in cemento a vista e l’intonaco grezzo, rappresentando una chiara distinzione dalle precedenti tendenze storiciste. Infatti, Hummel qui sembra avvertire il declino dello storicismo che è stato messo in atto proprio nel monumentalismo semplificato della poco distante stazione centrale di Paul Bonatz (1877–1956), aperta al pubblico soltanto tre anni prima. Tuttavia, negli archi e nelle aperture della sua chiesa, sono ancora visibili i richiami neogotici e neoromanici del progetto originario, evidenti anche oggi.

Come molte chiese di quegli anni, la Fideliskirche ha subito una serie di ristrutturazioni: l’architetto locale Hugo Schloesser (1874–1967) l’ha ricostruita dopo la quasi totale distruzione della città durante la Seconda guerra mondiale. Attraverso fotografie storiche è possibile notare che furono principalmente distrutti la struttura del tetto e il caratteristico baldacchino neogotico a colonne che esaltava la presenza dell’altare maggiore, mentre la caratteristica parete posteriore dell’abside presbiteriale rimase intatta. Questo probabilmente portò Schloesser a mantenere il linguaggio formale già ridotto da Hummel e ad intervenire solo sull’area dell’altare, inserendo un arco acuto profondo, posto contro la parete, quasi come un ricordo del baldacchino originale.

Fu poi nel contesto della riforma liturgica degli anni Cinquanta, e in particolare alla luce del Concilio Vaticano II, che si manifestò l’intenzione di rielaborare in modo significativo l’assetto interno della chiesa. Di conseguenza, fu incaricato Rudolf Schwarz (1897–1961) di progettare una completa ristrutturazione del presbiterio. A causa della morte di Rudolf Schwarz fu però sua

moglie, l’architetto Maria Schwarz (1921–2018), a realizzare la ristrutturazione nella forma che rimase poi in situ fino alla ristrutturazione attuale. Maria Schwarz creò un presbiterio semplice, ma nobilitato da marmi pregiati, al centro del quale si inalzava ora la mensa di pietra del nuovo altare orientato verso il popolo. Nello stesso tempo rifece la parete posteriore dell’apside, sostituendo i trafori con due finestre neogotiche a vetro colorato.

Rifare la chiesa: progetto e realizzazione del nuovo centro spirituale

Con lo scopo di realizzare un ritiro di contemplazione e spiritualità nel mezzo del frenetico centro di città di Stoccarda, verso la fine degli anni 2010 il vicariato cittadino decise di fondare un centro spirituale nell’ambito del già esistente centro di musica religiosa della Seidenstrasse. Inizialmente si pensò di ospitarlo in una nuova ed indipendente costruzione sullo stesso terreno del centro parrocchiale, ma successivamente si optò per realizzarlo all’interno della struttura già esistente. Si proseguì con l’incarico diretto allo studio locale di Domenik Schleicher e Michael Ragaller che propose una soluzione originale per rispondere alla difficile e urgente domanda sull’adeguata apertura degli spazi sacri ad altre funzioni e sulle conseguenti implicazioni spaziali e di contenuto per il riorientamento di tali ambienti. Gli aspetti fondamentali del progetto di ristrutturazione della chiesa sono il riallineamento della navata centrale e il riutilizzo del presbiterio come spazio spirituale polifunzionale. La disposizione longitudinale della chiesa è stata abbandonata dal punto di vista tipologico per rendere tangibile lo spirito del communio liturgico. Nonostante l'età avanzata di Maria Schwarz, i due architetti di Stoccarda ebbero la fortuna di consultarla nel suo appartamento a Colonia. Con un suo schizzo della pianta che posizionava altare e ambone in un'unica linea, lei ha incoraggiato il gruppo di progettisti e committenti a reinterpretare

le disposizioni conservatrici del vescovo. Ciò ha portato alla realizzazione di un nuovo dialogo tra altare e ambone lungo l'asse principale della navata centrale, non coinvolgendo più liturgicamente lo spazio precedente dell'altare. Abbandonando quindi l'orientamento tradizionale, si è liberato questo spazio per un nuovo utilizzo, che da quel momento in poi funge da collegamento tra l’esperienza del culto e l’ampia offerta spirituale del nuovo centro creato (vd. www.station-s.de).

Nella navata principale, l’asse centrale è delimitata da entrambi i lati dalla comunità dei fedeli, configurando così una nuova forma di centralità. I variabili posti a sedere, che sostituiscono i rigidi banchi, consentono di vivere diversamente la simmetria dello spazio. Come conclusione del nuovo spazio principale, ciò che un tempo era il punto culminante indiscusso di un ordine spaziale rigorosamente gerarchico ora è esperibile come uno spazio fluido all’interno di un altro spazio. (Uno spazio, d’altronde, non privo di riferimento storico, siccome lontanamente ricorda un coro interno o trascoro di richiamo tipologico iberico [ted. Binnenchor]). Questa caratterizzazione dello spazio è convincente grazie al suo rivestimento in legno delicato e le vele di legno particolarmente posizionate, che stabiliscono un riferimento diretto, sia visivo che atmosferico, alle vetrate colorate installate da Maria Schwarz all’epoca del secondo rifacimento. La parete divisoria flessibile consente di aprire il coro interno attraverso sei grandi porte verso lo spazio della chiesa e di creare una profondità spaziale che prima non esisteva. Una profondità che è completata dal sottile trattamento dei dettagli costruttivi e artistici.

Anche se gli interventi strutturali hanno completamente cambiato l’esperienza dello spazio, è la sensibilità artistica degli architetti che conferisce a questo luogo di culto un aspetto non solo nuovo, ma armonioso e sublime. Con la scelta dei colori e l’illuminazione, Schleicher e Ragaller hanno ottenuto ciò che tutti i partecipanti al progetto desideravano: più luminosità, chiarezza e una buona illuminazione artificiale. Infatti, lo schema cromatico omogeneo, modellato secondo l’esempio della ricostruzione di Hugo Schloesser, e il pavimento in travertino romano esaltano la chiarezza e la coerenza dell’ambiente come lo esaltano anche gli arredi liturgici dell’artista Martin Bruno Schmidt, che ha creato sia l’altare che l’ambone, il tabernacolo e la fonte battesimale da un unico blocco di travertino romano scelto a mano nella cava di Tivoli. A concludere questo concetto di integralità è l'illuminazione moderna, ma discreta, dello studio LunaLicht di Karlsruhe, che sottolinea l’impressione di luminosità dell’interno senza attirare l’attenzione. Il nuovo ‹spazio dentro lo spazio› inserito condivide questa leggerezza e naturalezza; ristruttura silenziosamente lo spazio della chiesa senza sottrarlo o competere con esso. Questa nuova apertura funzionale è sorprendentemente efficace e naturale.

A Stoccarda è venuta fuori una chiesa semplice, aperta e accogliente, che vive della riduzione all’essenziale. Attraverso il completo restauro tecnico e artistico della chiesa, è emerso un interno omogeneo, con dettagli ridotti ma molto curati, che riflette il contesto storico di questa chiesa e lo proietta verso il futuro. Lo proietta attraverso una nuova esperienza di comunità, agevolata dalla presenza del nuovo spazio del silenzio creato nell’apside. Così, lo spazio della chiesa, riconfigurato nel suo essenziale, diventa di nuovo un segno semplice, forte ed efficace della realtà di Dio.

MORETTI, PASSARELLI, BERARDUCCI

PROGETTI PER LA CHIESA DI SAN VALENTINO AL VILLAGGIO OLIMPICO DI ROMA, 1966 -1986

Lorenzo Grieco

Introduzione

La storia dell’architettura ecclesiale, inclusa quella del Ventesimo secolo, è spesso frutto di autori che si sono avvicendanti elaborando visioni differenti per lo stesso luogo. Nella maggior parte dei casi, la successione dei progetti segue una progressiva sperimentazione che abbraccia le innovazioni formali di una modernità in continua evoluzione, come dimostrano le vicende costruttive di capolavori dell’architettura sacra italiana quali la chiesa dell’autostrada a Campi Bisenzio e la Cattedrale del Cristo Re a La Spezia. Tuttavia, in altri contesti, la successione delle proposte progettuali non corrisponde a un percorso lineare in cui l’evoluzione del progetto può essere misurata in funzione della distanza dalla tradizione architettonica consolidata.

La chiesa di San Valentino nel Villaggio Olimpico di Roma rappresenta, appunto, un esempio emblematico di una vicenda progettuale discontinua, dispiegata nei vent’anni tra il 1966 e il 1986, che ha coinvolto progettisti di spicco della scena architettonica nazionale. Tra questi: Luigi Moretti, autore del primo progetto; Fausto, Lucio e Vincenzo Passarelli, responsabili insieme a Francesco Berarducci della seconda versione; infine, Francesco Berarducci, autore in solitaria dell’ultima versione, costruita tra il 1983 e il 1986. Il loro coinvolgimento ha dato luogo a proposte architettoniche ricche e diverse, di seguito presentate, che corrispondono a personali interpretazioni di contesto, sperimentazione liturgica, rapporto con la committenza e visione urbana del quartiere. Ancor più significativamente, tali proposte si integrano nei percorsi autoriali degli architetti, riflettendo il loro approccio specifico al progetto dello spazio sacro. Gli sviluppi progettuali della chiesa possono essere ricostruiti per mezzo dei documenti d’archivio; nello specifico l’Archivio del Vicariato di Roma (da qui in avanti AVR) e il fondo della Pontificia Commissione Centrale per l’Arte Sacra in Italia dell’Archivio Apostolico Vaticano (da qui in avanti AAV). L’integrazione di tali fonti con gli elaborati progettuali e la corrispondenza rinvenuti negli archivi dei progettisti, ovvero il fondo di Luigi Moretti presso l’Archivio Centrale dello Stato (da qui in avanti ACS) e i fondi di Francesco Berarducci e dello studio Passarelli conservati presso gli Archivi di Architettura del MAXXI, permette una visione più completa e dettagliata delle proposte progettuali che hanno preceduto la soluzione costruita.

Una infrastruttura di culto per il villaggio Olimpico

La chiesa di San Valentino doveva servire il villaggio sorto tra la via Flaminia e la collina dei Parioli per ospitare le delegazioni e gli atleti in occasione delle Olimpiadi di Roma 1960. La realizzazione del quartiere, collocato in prossimità di numerose infrastrutture sportive da utilizzate durante i giochi, dagli attigui Stadio Flaminio e Palazzetto dello Sport agli impianti del Foro

La successione delle proposte progettuali non corrisponde a un percorso lineare in cui l’evoluzione del progetto può essere misurata in funzione della distanza dalla tradizione architettonica consolidata.
1. Chiesa di San Valentino al Villaggio Olimpico -

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2. Luigi Moretti, Vincenzo Monaco e Amedeo Luccichenti, Veduta prospettica del Villaggio Olimpico da sotto il Viadotto di Corso Francia, Roma, 1958 ca. Archivio Centrale dello Stato, Fondo Luigi Moretti, inv. 66/254/7

3. Luigi Moretti, Vincenzo Monaco e Amedeo Luccichenti, Veduta prospettica del Villaggio Olimpico da sotto il viadotto di Corso Francia, Roma, 1958 ca. Archivio Centrale dello Stato, Fondo Luigi Moretti, inv. 66/254/24

4. Luigi Moretti, Modello del complesso parrocchiale al Villaggio Olimpico, Roma, 1964-66. Archivio Centrale dello Stato, Fondo Luigi Moretti, inv. 66/254/35

Italico al di là del fiume, fu affidata all’Istituto per le Case degli Impiegati dello Stato (INCIS) 1. Quest’ultimo era incaricato di costruire abitazioni stabili da convertire, dopo la conclusione dei giochi olimpici, in residenze per circa 1500 famiglie. La progettazione del piano generale e dei singoli edifici fu assegnata agli architetti Vittorio Cafiero, Adalberto Libera, Amedeo Luccichenti, Vincenzo Monaco e Luigi Moretti2

Nel vasto piano organizzativo, il Comitato Organizzatore, del quale nel 1958 fu nominato presidente Giulio Andreotti, si preoccupò anche della questione dei culti religiosi per gli atleti dei vari Paesi. L’incarico fu accolto dalla Chiesa Cattolica che “predispose, con la sua tradizionale universalità, i mezzi adeguati per adempirlo”3

Nonostante l’interessamento della Chiesa Cattolica attraverso il Vicariato di Roma, all’apertura dei giochi olimpici non era stata eretta nessuna chiesa; la sua realizzazione fu infatti rimandata allo sviluppo successivo del quartiere e al completamento dei servizi accessori, tra cui un mercato, un cinema, un laghetto, centri commerciali, uffici postali e impianti sportivi4. Si provvide, nel frattempo, alla sistemazione provvisoria di una cappella con centro sociale, per la quale nel dicembre 1960 furono elaborate due diverse proposte5. La prima prevedeva di ricavare tali spazi nel piano pilotis del fabbricato 6, sul fronte nord del Lotto III. La seconda, invece, prevedeva la realizzazione di una struttura indipendente, a nord di via Bulgaria, dove fu effettivamente realizzata, sebbene con leggere variazioni rispetto al progetto originario, soprattutto nella definizione del prospetto e dei materiali6

I “bagliori delle chiese della fine del Barocco”: Il progetto di Moretti 7

A partire dal 1958, Luigi Moretti, con Vincenzo Monaco e Amedeo Luccichenti nelle fasi iniziali, lavorò al progetto di una chiesa parrocchiale permanente per il Villaggio, arrivando alla sua definizione nel 1966. Nel frattempo, la dedicazione dell’erigenda chiesa era cambiata, passando dai Doni dello Spirito

1 E. Della Riccia, Villaggio olimpico, quartiere di Roma, Roma: INCIS, 1960.

2 Luigi Moretti aveva già progettato il piano di un altro polo sportivo dei giochi del 1960: il Foro Mussolini, poi convertito in Foro Italico, su cui si veda: M.G. D’Amelio, T. Magnifico, “Il progetto di Luigi Moretti per il Foro”, in AR Magazine, 125-126 (2021), pp. 184-205. Sul contributo di Moretti al progetto del Villaggio Olimpico: G. Spagnesi, “Il Villaggio Olimpico di Roma e la cultura architettonica nella città durante gli anni Sessanta”, in Luigi Moretti: Architetto del Novecento a cura di C. Bozzoni, D. Fonti, A. Muntoni, Roma: Gangemi, 2009, pp. 409416; M. Talamona, “Il Villaggio Olimpico”, in Luigi Moretti: Razionalismo e trasgressività tra barocco e informale, a cura di B. Reichlin e L. Tedeschi, Milano: Electa, 2010, pp. 313-327.

3 Giochi della XVII Olimpiade, Vol. 1, Rapporto Ufficiale del Comitato Promotore, a cura di M. Garroni, R. Giacomini, E. Vignolini, Roma 1962, p. 43

4 E. Della Riccia, Villaggio olimpico, quartiere di Roma, Roma: INCIS, 1960, p. 40.

5 AVR, Progetto di una cappella provvisoria, dicembre 1960.

6 L’edificio, all’angolo tra via Irlanda e via Israele, ospita oggi attività commerciali.

7 La citazione è da AAV fondo Pontificia Commissione Centrale per l’Arte Sacra in Italia, Capo II, 614, fasc. 2, Luigi Moretti, Relazione allegata al progetto, 12 dicembre 1966.

Santo a San Valentino, il martire cristiano sepolto al primo miglio della via Flaminia, a pochi passi dal nuovo quartiere.

Inizialmente, il piano prevedeva una chiesa nel cuore del villaggio, in un lotto trapezio all’intersezione dell’asse sud-nord, definito dalle direttrici di via Gran Bretagna e piazza Grecia, e quello est-ovest, delimitato dal Viale della XVII Olimpiade. Il complesso parrocchiale avrebbe fatto da fondale per il detto viale, concludendo la prospettiva da Viale Tiziano con il pieno della chiesa, dietro cui sarebbero sorti i locali parrocchiali.8 Quest’ultimi sarebbero stati accolti in volumetrie diverse, come suggeriscono le planimetrie della variante al piano particolareggiato, approvato con D.P. 9 dicembre 1950, in cui sono tracciate quattro sagome allineate: un grande ellisse ad ovest e tre cerchi di diametri differenti sul retro.

Nel 1968 il Comune di Roma donò l’area alla Pontificia Opera Preservazione della Fede, vincolandola alla costruzione di una chiesa parrocchiale. A dicembre dello stesso anno, la Pontificia Opera presentò un progetto a firma del solo Luigi Moretti, che ottenne la licenza nel 1972. L’architetto fu scelto sia per il suo coinvolgimento nel piano del Villaggio che per la sua vicinanza ai circoli cattolici della capitale. Amico di Monsignor Giovanni Fallani, presidente della Pontificia Commissione Centrale per l’Arte Sacra in Italia, nel 1968 Moretti fu incluso, come rappresentante dell’Ordine degli Architetti di Roma e del Lazio, nella commissione giudicatrice del concorso per progetti di massima di nuovi centri parrocchiali nella Diocesi di Roma.

La prima versione del progetto per la chiesa parrocchiale del Villaggio Olimpico, che Moretti elaborò con Monaco e Luccichenti, presentava una pianta circolare e un podio a un livello9. Quest’ultimo, che avrebbe ospitato i locali e i servizi della parrocchia, proseguiva sul retro a serrare i fronti del lotto. Nei disegni, la morfologia della chiesa seguiva un’evoluzione plastica che aveva il suo punto di partenza nel volume della cupola della basilica vaticana10 Il tamburo di quest’ultima fu tradotto, nei disegni successivi, in un sodo cilindro rivestito in pietra, che si rastremava leggermente verso l’alto. Al livello dell’ingresso la facciata era arretrata, creando uno scuro che avrebbe dato l’impressione di far levitare il cilindro superiore: un espediente che contraddiceva visivamente la gravità della materia e che dichiarava l’ammirazione di Moretti per Michelangelo11

8 Archivio Centrale dello Stato, Fondo Luigi Moretti, 144: Villaggio Olimpico di Roma, Viale Tiziano, via degli Olimpionici, via P. de Coubertin (1958 - 1960), nn. 58/181/1 e 58/181/5.

9 ACS, fondo Luigi Moretti, Opere e progetti, 230: Progetto della chiesa parrocchiale al Villaggio olimpico, Roma (1966).

10 Il riferimento è evidente nei primi schizzi e disegni prospettici: ACS, fondo Luigi Moretti, Opere e progetti, 230, nn. 66/254/6 e 66/254/7. Si veda anche MAXXI, fondo Monaco e Luccichenti, Attività professionale, 220: Quartiere Villaggio Olimpico, Roma, in particolare n. 68190.

11 L’ammirazione che Moretti riserva a Michelangelo è nota ed emerge nei molti studi spaziali che dedica al maestro fiorentino. Per un’idea si vedano le tavo-

L’impianto circolare messo a punto da Moretti era confrontabile con quello della chiesa del Cuore Immacolato di Maria a Borgo Panigale realizzata (195560) su progetto di Giuseppe Vaccaro, Adalberto Libera e Pier Luigi Nervi, così come quello della cattedrale di Cristo Re a La Spezia su cui Adalberto Libera stava lavorando in quegli anni (1956-63)12. La vicinanza delle sperimentazioni formali di Moretti e Libera sugli impianti centrali si spiega con la vicinanza dei due architetti che, oltre a lavorare insieme al piano per il Villaggio Olimpico, replicarono pochi anni dopo la medesima esperienza nella progettazione del quartiere INCIS di Decima, progettato (1960-65) insieme a Vittorio Cafiero e Ignazio Guidi13 . Nelle versioni successive del progetto emerse in maniera più netta l’approccio scultoreo di Moretti, che i disegni di archivio mostrano intento a sperimentare soluzioni formali e geometriche complesse. Essi riportano, ad esempio, i tentativi di adottare una forma più organica smussando gli spigoli della

La morfologia della chiesa seguiva un’evoluzione plastica che aveva il suo punto di partenza nel volume della cupola della basilica vaticana

casa parrocchiale e applicando alla chiesa di una pianta polilobata, fissata negli spigoli dai piloni della cupola14. La forma dei piloni fu modellata testando sagome e inclinazioni diverse, creando un sistema stellare di nervature che, memore delle arditezze ge-

le di studio dedicate al Palazzo dei Conservatori, il Vestibolo della Biblioteca Laurenziana, il Giudizio Universale, la cappella Sforza in Santa Maria Maggiore così come il commento al documentario su Michelangelo: L. Moretti, “Testo integrale del commento al film Michelangelo”, in Luigi Moretti: Architetto del Novecento, op. cit, pp. 113-121.

ometriche di Borromini e Guarini, avrebbero direzionato verso il basso la luce dell’oculo. A metà altezza, i piloni avrebbero agganciato una soletta anulare praticabile, alla maniera di un antico matroneo, delimitata da finestre a nastro anulari. Esternamente, le finestrature orizzontali sarebbero state occultate dallo scuro della copertura aggettante, mentre la sorgente luminosa in chiave sarebbe stata segnalata da una possente lanterna traforata. Si può ipotizzare a buona ragione che questa gigantesca scultura, forse in metallo e vetro, sarebbe stata affidata a uno degli artisti pubblicati su Spazio, la rivista di arte e architettura diretta dall’architetto.

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5. Luigi Moretti, Veduta prospettica della chiesa al Villaggio Olimpico, Roma, 1966. Archivio Centrale dello Stato, Fondo Luigi Moretti, inv. 66/254/45

6, 7, 8. Luigi Moretti, Pianta della chiesa del Villaggio Olimpico, 1966. Archivio Centrale dello Stato, Fondo Luigi Moretti, inv. 66/254/37

12 Giuliano Gresleri aveva già messo in relazione il progetto di Moretti per la chiesa del Villaggio Olimpico con quello della chiesa di Borgo Panigale, nonché con la Chiesa di Santa Maria Nascente al QT8 di Milano di Vico Magistretti e Eugenio Tedeschi: G. Gresleri, “La questione del sacro”, in Luigi Moretti: Razionalismo e trasgressività, op. cit., p. 302.

13 Gli schizzi di Libera per La Spezia sono rivelatori della sua ricerca intorno a una forma lenticolare sollevata dal suolo: Centre George Pompidou, fondo Adalberto Libera, Cattedrale de La Spezia, nn. AM 2002-2-404, AM 2002-2-409, AM 2002-2-410. Anche il volume cilindrico per la sala consiliare del Palazzo della regione Trentino-Alto Adige, in una versione del progetto precedente alla soluzione realizzata, è evidentemente frutto della medesima ricerca sugli impianti circolari: Centre George Pompidou, fondo Adalberto Libera, Palazzo della regione Trentino-Alto Adige, AM 2002-2-479.

14 Le proporzioni schiacciate, la tensione muscolare e michelangiolesca delle superfici, nonché l’ipertrofico lanternino in sommità, avvicina questo progetto a quello coevo (1961-) di Saverio Muratori per la chiesa dell’Assunzione di Maria al Tuscolano, Roma.

Proprio quando questo progetto neobarocco sembrava definito, fissato in un modello in scala di cui rimane una fotografia, Moretti tornò sui suoi passi e le forme si semplificarono15. Nella versione sottoposta all’approvazione per il finanziamento pubblico all’edilizia di culto, difatti, la pianta tornò circolare e il lanternino fu coperto da una più modesta calotta16 Il complesso, secondo il progetto approvato, risultò così composto da tre blocchi: la chiesa, a pianta circolare, unita alla sacrestia a pianta policentrica; la casa parrocchiale, a due piani con impianto trapezoidale; infine un corpo rettangolare di collegamento tra la chiesa e la casa parrocchiale, per ospitare uffici e servizi17. La semplificazione formale avrebbe garantito maggiori probabilità di approvazione da parte delle commissioni pontificia e ministeriale, diffidenti nei confronti di progetti particolarmente articolati e costosi. Allo stesso tempo, la riduzione della complessità geometrica avrebbe enfatizzato la totemica solidità che la chiesa intendeva trasmette, perlomeno attraverso la sua facies esterna. Il nuovo progetto prevedeva che il muro perimetrale della chiesa fosse inclinato a scarpa e che la copertura fosse costituita da una grande cupola in cemento armato. La volta, dal diametro esterno di 38,5 metri, sarebbe stata una delle più grandi cupole “sacre” in città, seconda per dimensioni solo a quelle della basilica vaticana e del Pantheon. Le sue dimensioni monumentali, si sarebbero confrontate con questi due monumenti della Roma Pagana e Cristiana, nonché con i monumenti della Roma contemporanea, ovvero le ampie calotte in ferrocemento del Palazzo dello Sport all’EUR e del Palazzetto dello Sport su viale Tiziano, quest’ultimo a pochi passi dall’erigenda chiesa, nello stesso villaggio Olimpico. L’idea di Moretti era infatti quella di esprimere, attraverso la gravità di una copertura “bassa, grande, solida di peso e di certezza”, un senso archetipico

15 ACS, Fondo Luigi Moretti, Opere e progetti, 230, n. 66/254/35.

16 I finanziamenti erano concessi sulla base del Capo II della legge n. 168 del 1962, a seguito dell’approvazione del progetto da Parte della Pontificia Commissione Centrale per l’Arte Sacra in Italia e del Ministero dei Lavori Pubblici.

17 Archivio Apostolico Vaticano, fondo Pontificia Commissione Centrale per l’Arte Sacra in Italia, Capo II, 614, fasc. 1, verbale della riunione dei Consultori della Commissione con l’approvazione del progetto, 19 dicembre 1966.

di rifugio, in analogia all’arcaico senso di riparo suggerito dalla muscolare copertura della cappella di Ronchamp18. Per sottolineare la robustezza della composizione, Moretti intendeva realizzare il basamento in calcestruzzo faccia vista, modulato plasticamente per mezzo di forme inserite prima del getto nella cassaforma. Questa soda facciata avrebbe fatto da sfondo a cinque colonne isolate, la più alta delle quali sormontata da un globo crucigero, forse recuperate dai reperti rinvenuti durante gli scavi per la realizzazione del quartiere.

Le strutture necessarie a sorreggere una copertura ampia come quella immaginata da Moretti furono studiate dall’Ingegnere Silvano Zorzi, che lavorò con l’architetto a numerosi progetti, tra cui la fonte Bonifacio VIII a Fiuggi (1963-69), la sede centrale dell’ENPDEP (1963-73) e il ponte Pietro Nenni (1965-74) a Roma19. La cupola sarebbe stata sostenuta da otto costolature, costituite da semiarchi rampanti con sezione variabile, i quali avrebbero in-

Il risultato fu un insieme di volumi emergenti dal terreno, distribuiti lungo varie direttrici
che si aprivano verso il quartiere, integrandosi armoniosamente nell'ambiente circostante

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9. Francesco Berarducci, Vincenzo Passarelli, Fausto Passarelli, Lucio Passarelli, pianta del complesso parrocchiale al Villaggio Olimpico, Roma, 1976. Archivio Vicariato di Roma, b. 201

10. Francesco Berarducci, Vincenzo Passarelli, Fausto Passarelli, Lucio Passarelli, Sezioni del complesso parrocchiale al Villaggio Olimpico, Roma, 1976. Archivio Vicariato di Roma, b. 201

11. Francesco Berarducci, Veduta prospettica esterna del complesso parrocchiale al Villaggio Olimpico, Roma, 1979. MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo. Collezione MAXXI Architettura, Studio Passarelli, Attività professionale, 92.

terrotto la loro traiettoria prima di raggiungere l’oculo. Anche in questo caso, essi avrebbero sostenuto il matroneo. La realizzazione del matroneo avrebbe consentito una maggiore flessibilità d’uso dello spazio e la possibilità di modulare la sua capienza. L’aula principale fu infatti progettata per accogliere circa 800 fedeli, mentre lo spazio del matroneo avrebbe potuto ospitarne circa altri 200. La superficie anulare del matroneo sarebbe stata delimitata da vetrate inclinate verso l’interno, in modo da essere schermate dalla luce diretta e apparire come uno scuro nella composizione a fasce orizzontali della facciata. L’impianto e la disposizione dei poli liturgici furono concepiti in conformità alle direttive del Concilio Vaticano II. L’altare, pensato per le concelebrazioni, avrebbe occupato una posizione prominente,

18 AAV, fondo Pontificia Commissione Centrale per l’Arte Sacra in Italia, Capo II, 614, fasc. 2, Relazione allegata al progetto, 12 dicembre 1966.

19 S. Poretti, G. Capurso, “Trasfigurazioni di strutture”, in Luigi Moretti: Razionalismo e trasgressività, op. cit., pp. 375-385.

elevato su un podio e orientato verso l’assemblea. Il fonte battesimale, il ciborio, i seggi e gli amboni sarebbero stati disposti attorno all’altare senza però comprometterne la centralità. I fedeli si sarebbero così disposti ad esedra intorno all’altare, una configurazione che avrebbe incentivato la partecipazione attiva alla funzione liturgica.

Un “servizio aperto verso la comunità”: il progetto di Berarducci e Passarelli 20

Nonostante il progetto concepito da Moretti avesse ottenuto dal Comune la licenza edilizia nel 1972, dopo la designazione dell'architetto Giuseppe Russo Rocca come direttore dei lavori, non fu portato a compimento. Il principale motivo addotto riguardava la “sua mole soverchiante gli edifici circostanti”21 ma soprattutto fu la prematura scomparsa di Moretti, nel 1973, a far vacillare la fiducia nel destino di un progetto che si sarebbe rivelato di notevole impatto estetico nel quartiere. La Pontificia opera per la preservazione della fede e la provvista di nuove chiese in Roma incaricò dunque Francesco Berarducci, Vincenzo, Fausto e Tullio Passarelli di concepire, per la medesima area, un progetto caratterizzato da uno sviluppo orizzontale22 .

Il concetto fondante del loro progetto risiedeva nella volontà di conservare il carattere di spazio verde e aperto che il lotto cinto dal Viale della XVII Olimpiade aveva assunto, rispondendo alle critiche che il precedente progetto di Moretti aveva ricevuto. Il risultato fu un insieme di volumi emergenti dal terreno, distribuiti lungo varie direttrici che si aprivano verso il quartiere, integrandosi armoniosamente nell’ambiente circostante “in modo da far apparire il complesso più come attrezzatura del verde che come oggetto edilizio a sé stante”23

Tutti i volumi, sia all’interno che all’esterno, furono pensati in calcestruzzo armato a facciavista, in modo da dare omogeneità visiva a una composizione frammentaria. Questo intento programmatico venne realizzato attraverso l’aggregazione in pianta di forme rettangolari, triangolari e circolari. L’aula liturgica fu collocata in un volume rettangolare inclinato di 45 gradi rispetto all’asse stradale. Accanto a essa, uno spazio semicircolare fu destinato a sala parrocchiale e cinematografica. Un edificio rettangolare, parallelo al Viale della XVI Olimpiade, ospitava al piano terra la sacrestia, gli uffici e la residenza del parroco, mentre

20 La citazione è da AAV, Capo II, 1489, fasc. 1, Relazione allegata al progetto, 16 dicembre 1976.

21 AVR, 201, San Valentino al Villaggio Olimpico, relazione sintetica delle vicende progettuali, s.d.

22 Su Berarducci: L.V. Barbera, Francesco Berarducci Architetto, Roma: Gangemi, 1994. Sullo studio Passarelli: S. Lenci, Lucio Passarelli e lo studio Passarelli, Bari: Dedalo, 1983; R. Lenci, Studio Passarelli: Cento anni cento progetti Milano: Electa, 2006

23 AAV, Pontificia Commissione Centrale per l’Arte Sacra in Italia, Capo II, 1489, fasc. 1, relazione allegata al progetto.

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12. Francesco Berarducci, Veduta prospettica esterna del complesso parrocchiale al Villaggio Olimpico, Roma, 1979. Archivio Vicariato di Roma, b. 201

13. Francesco Berarducci, Veduta prospettica interna del complesso parrocchiale al Villaggio Olimpico, Roma, 1979. Archivio Vicariato di Roma, b. 201

al piano interrato trovavano posto le sale per le attività parrocchiali. L’ingresso principale a ovest era caratterizzato da una scalinata sormontata da una pensilina circolare, in sintonia con il design della sala parrocchiale adiacente. Gli altri tre lati presentavano ingressi secondari di dimensioni minori, favorendo la permeabilità del complesso attraverso percorsi diversificati.

L’ibridazione delle geometrie ortogonali e radiali avrebbe consentito un’organizzazione polidirezionale che si sviluppava a partire dai poli liturgici. Il fulcro della composizione era un podio circolare nel centro dell’aula, che ospitava l’altare, l’ambone e il seggio del celebrante. Ai lati, due pareti curve delimitavano gli spazi riservati al tabernacolo e al battistero. L’assemblea era disposta ad emiciclo intorno all’altare, garantendo una partecipazione più attiva dei fedeli all’azione liturgica. Inoltre, un sistema di pareti mobili garantiva la massima flessibilità degli spazi, permettendo di modulare la capienza dell’aula mediante l’inclusione di spazi polifunzionali a sud e della sala semicircolare a nord, mantenendo sempre la visibilità dell’altare, dell’ambone e del seggio. Le sedute dell’assemblea, integrate nel pavimento, erano progettate su un piano inclinato verso il podio, ottimizzando la visibilità. L’illuminazione dell’altare era garantita dall’alto da una piramide di vetro che emergeva come una concrezione cristallina sporgente dal soffitto, sottolineando la sacralità di questo spazio24 L’idea di un centro parrocchiale modellato alla maniera di un paesaggio carsico era già stata sviluppata da Berarducci nei progetti per le chiese di Nostra Signora di Bonaria (1967-1978) a Ostia, Roma, e Santo Stefano Protomartire (1971-2000) a Quartu Sant’Elena, in provincia di Cagliari, che presentano diverse analogie con quello redatto insieme allo studio Passarelli per il Villaggio Olimpico. In particolare, il progetto della chiesa ostiense era strutturato su di uno spazio ipogeo, coperto da un tetto raccordato al suolo, con il pavimento dell’aula in pendenza verso il podio dell’altare, affiancato dai due cilindri aperti del tabernacolo e del seggio e illuminato da un grande cannone di luce25. Dalla chiesa per Quartu Sant’Elena, il progetto per San Valentino riprendeva invece l’andamento diagonale dei percorsi, con la scalinata di accesso svasata ad accelerare la prospettiva

24 La piramide era al crocevia di due travi reticolari in acciaio, visibili solo esternamente.

25 Il progetto, elaborato con Giorgio Monaco e Giuseppe Rinaldi fu vincitore del concorso bandito nel 1967 dalla Pontificia Opera per la Preservazione della Fede e la Provvista di nuove Chiese in Roma. Sulla chiesa, si veda: F. Lambertucci, “Francesco Berarducci e la chiesa di Nostra Signora di Bonaria a Ostia”, in Centenrario Roma Marittima. Cento Anni di Architettura, atti del Convegno (Roma, Sala Riario-Episcopio di Ostia Antica, 27 novembre 2015), a cura di M. Atzeni, F. Marchetti, Roma 2016, pp. 171-176; M. Antonucci, “«Un riflesso argentato sulla sabbia»: Ostia e il litorale romano nel secondo Novecento tra crisi e rinascite”, in Ostia. Architettura e città in cento anni di storia (= Bollettino d’Arte, volume speciale), a cura di Micaela Antonucci, Luca Creti, Fabrizio Di Marco, Roma: L’Erma di Bretschneider, 2020, pp. 29-44: 32-33; M. Astone, Chiesa, Città, Paesaggio: Il pensiero multiscalare di Francesco Berarducci, tesi di dottorato in Architettura: Teorie e Progetto, Università di Roma La Sapienza, XXXIV ciclo, passim

verso il portale di ingresso, l’integrazione degli spazi verdi e una decostruzione dell’impianto a matrici quadrate e circolari assai più evidente che nella chiesa di Ostia.

Come nelle chiese di Ostia e Quartu Sant’Elena, anche nel progetto per il Villaggio Olimpico, la creazione di uno spazio ipogeo non implicava la separazione tra gli ambienti interni ed esterni. Anzi, essi si integravano armoniosamente, sfumando le distinzioni tra dentro e fuori. Questo concetto era ulteriormente enfatizzato dalla continuità tra l’orografia naturale e quella artificiale, nonché dall’uso coerente della vegetazione sia all’esterno che all’interno della chiesa. Nel valutare il progetto all’interno della produzione di Berarducci, sebbene siano evidenti analogie compositive e formali, non si può trascurare il contributo dei Passarelli. Diversi fattori suggeriscono infatti che lo studio Passarelli abbia avuto un ruolo significativo nell’implementazione e nell’esecuzione di questa versione del progetto, come indicato dal fatto che i disegni relativi sono conservati nel loro archivio anziché in quello di Berarducci. Questa scelta potrebbe essere stata influenzata dalla struttura più organizzata dello studio Passarelli rispetto all’atelier di Berarducci. Inoltre, il prestigio consolidato dello studio, con un portfolio che già annoverava diverse chiese parrocchiali e case generalizie, era supportato dalla posizione di Vincenzo Passarelli come consulente della Pontificia Commissione Centrale per l’Arte Sacra in Italia.

Il progetto a firma di Berarducci e dello studio Passarelli fu approvato senza osservazioni dalla commissione e ottenne la concessione nel febbraio 1979. Tuttavia, per via della “opposizione, manifestata anche in maniera violenta dalla popolazione, alla realizzazione di tutti i servizi pubblici situati nella Via XVII Olimpiade”, la La Pontificia opera per la preservazione della fede e la provvista di nuove chiese in Roma decise di sospenderne l’esecuzione26 .

L’ultimo progetto di Francesco

Berarducci

Rimandato l’inizio dei lavori, in seguito alle discussioni tra la Pontificia Opera e il comitato di quartiere si decise di lasciare le aree verdi del Viale della XVII Olimpiade non edificate. Per la nuova chiesa, il cui progetto fu affidato esclusivamente a Francesco Berarducci, si individuò invece una nuova area adiacente al viadotto di Corso Francia, in origine destinata a parco pubblico.

Il progetto di Berarducci, delineato in circa dieci mesi, ottenne l’approvazione della Commissione Edilizia nel dicembre 1979 e fu soggetto a continui adattamenti negli anni successivi, fino alla sua consacrazione nel 1986. A influire sulla configurazione

26 AVR, 201, San Valentino al Villaggio Olimpico, relazione sintetica delle vicende progettuali, s.d.

14, 15, 16, 17. Viste interne della chiesa di San Valentino al Villaggio Olimpico - Foto
Massimo Angrilli

del nuovo progetto, furono soprattutto le richieste del parroco di San Valentino, don Dino Fortunato, che, in occasione del cambio dell’area, chiese all’architetto di “togliere ogni sfossamento, ora ingiustificato”, di “dare una facciata più consona alla Chiesa”, di dare allo spazio interno “maggiore ampiezza togliendone i numerosi spigoli”, di “togliere il dislivello interno”27 Le indicazioni del parroco non si limitarono a poche e generiche necessità liturgiche ma, come ricostruito di recente da Michele Astone e Giulia De Lucia, esplicitarono criteri funzionali e formali che orientarono in maniera decisiva il progetto28. Talvolta, le richieste del prelato si rivelarono particolarmente arbitrarie, spingendo l’architetto a intervenire per arginare l’esuberanza creativa del prelato. Le ragioni compositive e le fasi di sviluppo del progetto a firma del solo Berarducci, costruito nel 1985-86, sono state ampiamente approfondite dalla letteratura29. Qui, ci limiteremo a delineare brevemente alcuni aspetti salienti. Il disegno prevedeva una

La chiarezza nella distribuzione delle funzioni era contraddetta dalla frammentazione dei volumi, sia in pianta che in alzato, attraverso l'utilizzo di una griglia quadrata

disposizione organizzata lungo direttrici ortogonali, con la chiesa ad aula unica posta di fronte all’ampio sagrato rivolto verso il Viale della XVII Olimpiade, la casa parrocchiale sul retro e una stecca laterale, rivolta verso il viadotto, che collegava i due edifici e ospitava gli ambienti di servizio. La chiarezza nella distribuzione delle funzioni era contraddetta dal-

27 Lettera di don Dino Fortunato a Francesco Berarducci, 25 aprile 1979, in M. Astone, op. cit., p. 188.

28 M. Astone, op. cit., passim; G. De Lucia, “Letters, sketches and drawings for the story of a negotiation: the architectural compromise in the Francesco Berarducci’s San Valentino church”, Actas de Arquitectura Religiosa Contemporánea, 10 (2023), pp. 16-31.

29 La bibliografia sul progetto è vasta. Per una selezione: P. D’Ugo, “Complesso parrocchiale di S. Valentino al Villaggio Olimpico, Roma”, Spazio e società, 43 (luglio-settembre 1988), pp. 82-85; M. Campagna, F. Melograni, “Francesco Berarducci. Chiesa di San Valentino al Villaggio Olimpico, Roma”, Costruire in laterizio, 12 (novembre-dicembre 1989), pp. 396-402; A. Longhi, Storie di chiese, storie di comunità. Progetti, cantieri, architetture, Roma: Gangemi, 2017, pp. 226-231; L. Ribichini, L. Tarquini, M. Ciamba, I. Valcerca, M. Mastracci, “Genesi di una forma tra idea, geometria e materia. Francesco Berarducci. Analisi della Chiesa di San Valentino al Villaggio Olimpico”, in Connettere. Un disegno per annodare e tessere, Atti del 42° Convegno Internazionale dei Docenti delle Discipline della Rappresentazione, a cura di A. Arena, M. Arena, R.G. Brandolino, D. Colistra, G. Ginex, D. Mediati, S. Nucifora, P. Raffa, Milano: Franco Angeli, 2020, pp. 1385-1410.

la frammentazione dei volumi, sia in pianta che in alzato, attraverso l’utilizzo di una griglia quadrata. Tale griglia trasformava la copertura della chiesa in un sistema di cubi vetrati, sostenuti da una struttura metallica di travi reticolari calcolata dall’ingegnere romano Antonio Michetti.

Adottando un approccio archeologizzante, evocata dai muri in laterizio, dagli inserti in travertino e dalla bicromia dei mosaici del sagrato, il progetto si ispirava alle rovine romane disseminate nel paesaggio laziale, come già sottolineato da numerosi studiosi. Dalle rovine antiche derivava altresì la successione sequenziale di spazi e la frammentazione dei volumi. Si trattava di una romanità che non richiamava né la gloriosa grandezza del Pantheon, fonte di ispirazione per il progetto di Moretti, né l’intimismo sotterraneo delle catacombe, cui guardava il primo progetto di Berarducci e Passarelli. Piuttosto, si trattava di un’interpretazione liturgicamente primitivista della Domus Ecclesia: una casa per la comunità nel contesto del Villaggio Olimpico.

Conclusione

La successione dei progetti per la chiesa parrocchiale di San Valentino testimonia diverse declinazioni dello spazio sacro post-conciliare. Il progetto di Luigi Moretti, con il suo approccio monumentale e l’impianto classico centrico sottolineato dalla maestosa cupola, si scontrò con la sensibilità della comunità locale. Il progetto successivo di Francesco Berarducci e dello studio Passarelli cercò di integrare la chiesa nel paesaggio esistente, adottando un linguaggio architettonico più sommesso e soluzioni moderne, incentrate sulla flessibilità e l’articolazione dello spazio interno. Infine, il progetto definitivo di Berarducci propose un impianto ad aula la cui semplicità soddisfava con estrema limpidezza le esigenze liturgiche della comunità, arricchendo l’esperienza sensoriale mediante l’uso di materiali pregiati e il gioco di luci proiettate dalla sua caleidoscopica copertura. Questi progetti sono un esempio significativo della complessità e della ricchezza dei percorsi dell’architettura sacra dopo il Vaticano II. La lunga e articola vicenda progettuale del complesso di San Valentino, che ha visto l’alternarsi di diverse visioni e approcci, riflette infatti le trasformazioni urbanistiche, liturgiche e culturali del periodo. Attraverso l’analisi dei vari progetti e delle fonti archivistiche, emerge l’importanza della chiesa non solo come luogo di culto, ma anche come simbolo dell’evoluzione architettonica e sociale del quartiere e della città di Roma.

Si ringrazia: padre Rocco Ronzani, prefetto dell'Archivio Apostolico Vaticano, per aver permesso l'accesso all'archivio della Pontifica Commissione Centrale per l'Arte Sacra in Italia; l’Ufficio per le Comunicazioni Sociali del Vicariato di Roma per aver consentito la consultazione e la pubblicazione del materiale archivistico sulla chiesa; il personale del Centro Archivi del MAXXI Architettura per aver facilitato le ricerche nel fondo Berarducci; Massimo Angrilli per le fotografie della chiesa; don Maurizio Modugno per aver concesso l'accesso ai locali della chiesa. Un sentito ringraziamento a Claudia Conforti, Maria Grazia D'Amelio e Micaela Antonucci per i loro preziosi suggerimenti.

VERTICALISMO E MASSIVITÀ

MORFOLOGIA ARCHITETTONICA E RILEVANZA

TERRITORIALE DELLA CATTEDRALE DI DURHAM

Giuliana Quattrone

Uno dei luoghi più importanti del patrimonio religioso e culturale inglese, è la Cattedrale di Durham, un’iconica chiesa medievale situata nel nord-est dell’Inghilterra.

La Cattedrale di Durham, insieme con l’adiacente castello, è stata designata Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO, nel 1986, ed è una delle mete turistiche più popolari del Regno Unito, oltre che un importante luogo di pellegrinaggio. Ancora oggi, infatti, la Cattedrale di Durham rimane un centro di culto funzionante ed aperto al pubblico.

Si tratta di un edificio in stile Romanico normanno, considerato come uno dei migliori e più raffinati esempi di architettura normanna inglese, e si trova su un alto promontorio nella città di Durham, in Inghilterra. È la sede del vescovo anglicano di Durham, una delle maggiori autorità politiche religiose nel Regno Unito, membro permanente della carriera dei Lord con gli arcivescovi di York e Canterbury.

La leggenda vuole che la sede della cattedrale di Durham sia stata individuata da due monaci all’inseguimento di una mucca marrone. Proprio in riferimento a questa legenda una delle strade che portarono alla cattedrale si chiama Dun cow lane. (dun cow ovvero mucca marrone).

Già prima della costruzione della Cattedrale a Durham il vescovo William di St. Calais, nominato come primo principe-vescovo d’Inghilterra da Guglielmo il Conquistatore, aveva istituito un priorato benedettino, nel 1083, che vi rimase fino alla riforma della Chiesa inglese di Enrico VIII nel 1540.

La costruzione della Cattedrale, nella forma attuale, ebbe avvio nel 1093. per ospitare i corpi di San Cutberto (634-687 d.C.) (l’evangelizzatore della Northumbria) e del Venerabile Beda (672/3-735 d.C.) (un esimio studioso dell’Inghilterra anglosassone), e si deve proprio al vescovo William di St. Calais, che però morì nel 1096 per cui la maggior parte dei lavori fu completata dal suo successore Ranulf Flambard. Dietro alla Cattedrale si erge il castello, antica fortezza normanna residenza dei principi-vescovi di Durham, detentori sia del potere religioso che di quello secolare. La Cattedrale si trova all’interno del recinto del Castello di Durham, costruito alla fine dell’XI secolo. All’interno del recinto si trovano edifici successivi del Palatinato di Durham, che riflettono le responsabilità e i privilegi civici dei Principi-Vescovi, quali la Corte del Vescovo (ora una biblioteca), ospizi e scuole. Palace Green, un grande spazio aperto che collegava i vari edifici del sito, un tempo forniva ai Principi Vescovi un luogo per processioni e raduni che si addiceva al loro status.

La Cattedrale e il Castello si trovano su una penisola formata da un’ansa del fiume Wear che costituiva, in passato, una linea di difesa naturale. La presenza del fiume era essenziale sia per la comunità di St. Cuthbert, che giunse a Durham nel X secolo in cerca di una base sicura, dopo aver subito diverse incursioni vichinghe nel corso dei secoli, sia per i Principi-Vescovi

La Cattedrale di Durham, insieme con l’adiacente castello, è stata designata Patrimonio dell'Umanità dall'UNESCO, nel 1986, ed è una delle mete turistiche più popolari del Regno Unito

2. La Cattedrale di Durham
3. Il recinto in cui è inserita
4. La Cattedrale come appariva nel XVII secolo con le guglie sulle due torri occidentali

5. Schema delle epoche di costruzione dell’edificio

6. La torre centrale

7. Le torri occidentali

di Durham, protettori della frontiera inglese.Il complesso difeso della Cattedrale e del Castello che sorgono sulla penisola rappresentano mirabilmente l’espressione fisica dei poteri spirituali e secolari del Palatinato vescovile medievale.

La costruzione dell’edificio ecclesiale iniziò a partire dall’estremità orientale con il santuario e l’altare maggiore di S. Cuthberto, consentendo così ai monaci e ai pellegrini di praticare il culto mentre i lavori si spostavano gradualmente verso ovest, visto che ci sono voluti circa 40 anni per completare la cattedrale

Al tempo della sua costruzione la cattedrale fu anche un punto di riferimento in termini di tecnologia ingegneristica, in particolare grazie al primo utilizzo di archi a sesto acuto che aprì la strada all’architettura gotica influenzando il corso dell’architettura successiva in tutto l’occidente. Sebbene la maggior parte della cattedrale sia stata costruita tra il 1093 e il 1133, alcune sezioni sono successive.

Le cappelle furono aggiunte alle due estremità della cattedrale solo dopo, per accogliere il grande numero di pellegrini che visitavano il santuario di San Cuthberto. La torre centrale (denominata la Guglia del gallo) fu ricostruita in più fasi nel corso del XV secolo, perché l’originale fu colpita da un fulmine e dovette essere ricostruita.

9,10. Prospetto principale e sezione longitudinale

11. Particolare della decorazione chèvron delle colonne

12. Particolare delle finestre

8. Pianta

Le due torri occidentali della Cattedrale, costruite nel XIII secolo, hanno avuto guglie fino al XVII secolo. Queste sono scomparse durante il caos della Guerra Civile Inglese. Tuttavia, tutto sommato, complessivamente, si può affermare l’integrità fisica del manufatto, ben conservato, nonostante una serie di aggiunte, ricostruzioni, abbellimenti e restauri avvenuti dall’XI secolo in poi che non hanno sostanzialmente alterato la struttura normanna della Cattedrale.

Compositivamente la cattedrale si caratterizza seguendo il classico schema a croce latina, con una navata principale lunga e stretta e due navate laterali, un transetto a due navate assimetriche che attraversa la navata principale a metà lunghezza per formare una croce, e un coro più breve che si estende verso est dalla croce della navata. Ogni braccio del transetto ha le proprie cappelle e i propri altari. Il coro si trova nella parte orientale della cattedrale ed è circondato da una serie di cappelle radiali. L’altar maggiore si trova nel coro orientale, ornato con un ricco baldacchino. Lungo le navate laterali e il coro, ci sono numerose cappelle e cappelle laterali, ciascuna dedicata a un santo o un evento religioso particolare. Sotto il coro si trova una cripta, che ospita le tombe di molti vescovi di Durham e altri personaggi importanti.

Strutturalmente la navata principale presenta arcate gotiche a sesto acuto, archi rampanti e volte a crociera a costoloni che si innalzano sopra di essa. Le arcate si ergono su colonne massive, che sostengono il peso del tetto. La navata centrale comprende otto campate, così che la partizione della pianta in tre navate è scandita in alzato da massicci pilastri polistili alternati a colonne circolari, reggenti gli arconi a tutto sesto con ghiere finemente decorate con scanalature spiraliformi detti chèvron, ovvero di un segno a V costituente un motivo ornamentale a zig-zag, che divenne uno degli elementi caratteristici della tarda

architettura normanna. Al disopra delle navate laterali si impostano i matronei, caratterizzati da archi rampanti nascosti, a loro volta affacciatisi sulla navata centrale per mezzo di ampie bifore. La cattedrale è dominata da due torri massicce, la Torre Nord e la Torre Sud. La Torre Nord, che contiene le campane, è alta circa 66 metri, mentre la Torre Sud funge da torre di ingresso ed è leggermente più corta.

La cattedrale fu costruita principalmente in pietra, con mura che superavano regolarmente i tre metri di spessore e con dettagli scolpiti e molte decorazioni, sia nelle pareti delle navate laterali, con le arcate cieche risultanti dall’intreccio degli archi trasversali, sia nei pilastri delle arcate, con le scanalature verticali. Grazie all’utilizzo della pietra l’edificio è rimasto in piedi per più di 900 anni. Vi sono anche molte finestre le cui vetrate sono famose per la loro bellezza e complessità. Molte di esse raffigurano scene bibliche o santi.

La Cattedrale di Durham è una testimonianza della rapida e profonda trasformazione avvenuta a seguito della conquista normanna in Inghilterra nell’XI e XII secolo che comportò non solo una nuova arte e un nuovo stile architettonico, quello che viene variamente indicato come romanico anglo-normanno o inglese, ma anche un modo di costruzione senza precedenti e quasi militare-industriale.

All’interno, aperto e spazioso, le sue magnifiche colonne, le vetrate colorate e gli alti soffitti l’uso di volte a costoloni sono una meraviglia, rendendo Durham una delle cattedrali più belle dell’Inghilterra. Rimangono anche alcuni degli edifici monastici originali, tra cui i pittoreschi chiostri, il refettorio con cripta sottostante e la Sala capitolare dei Monaci, che oggi ospita la vasta collezione della biblioteca della Cattedrale che rappresenta la più grande collezione di biblioteche medievali dell’Inghilterra, ancora nella sua sede originale.

13. Particolari delle colonne e dei pilastri
14. Particolari della decorazione delle colonne

SIMON UNGERS SETTE SPAZI SACRI

Nell’autunno 2003 la “Stazione d’arte” di Sankt Peter a Colonia presentò una insolita mostra di sette progetti dell’artista-architetto Simon Ungers (1957-2006), attraverso modelli, disegni e immagini di simulazioni al computer.

Dalla ristrutturazione e riapertura della chiesa storica, Sankt Peter ha sempre cercato, con rigorosa severità, quasi iconoclasta, di affrontare il tema dello spazio, proprio per ricordarlo “nella sua purezza originaria”.1 Anche in un’istituzione ecclesiale con un impegno di così alto livello nell’affrontare estetica e arte, ciò non è sempre facile, poiché le necessità quotidiane richiedono di collocare oggetti nell’ambiente altrimenti vuoto: “È faticoso mantenere viva un'idea astratta”.2

Simon Ungers voleva trattare lo spazio sacro in vari modi con le sue, secondo le parole di Friedhelm Mennekes, sculture spaziali il cui scopo è trascendere le domande poste al loro interno, conducendo i visitatori oltre se stessi e la sfera che occupano.

L’architetto ha presentato magnifici progetti ideali per la costruzione di sette edifici religiosi definiti come: basilica, duomo, cattedrale, sinagoga, moschea, chiesa e cappella. Sette sogni di spazio, luce e altezza, “enormi nelle dimensioni proposte, con gli spazi più alti che misurano quasi il doppio di quelli della più audace costruzione gotica”.3 La grandezza reale degli edifici immaginati era chiarita da poche figure umane inserite nelle stampe appese accanto ai modelli per mostrare viste simulate dall’esterno.

La luce brillante penetra attraverso finestre alte fino a 70 metri o da smisurati soffitti di vetro rappresentati tramite simulazioni al computer ed esposti nei modelli. I visitatori riuscivano a dare un’occhiata ai plastici solo con difficoltà, poiché l’artista non aveva previsto altre aperture oltre i portali e le finestre. In particolare, i più giovani membri della comunità si sono divertiti molto a sbirciare nella minima, e allo stesso tempo immensamente grande, cattedrale o basilica.

Ungers ha preso come riferimento nei suoi sette spazi caratteristiche distintive – navate o aule, planimetrie a forma di croce, stella di David e mezzaluna – ma le ha astratte in modo coerente. Mennekes descrive questi modelli come “edifici sacri autonomi e puri”, perché Ungers li ha dimensionati e propor-

1 Friedhelm Mennekes, “Die Kunst, den Raum zu verhandeln“, in Simon Ungers, Sieben sakrale Räume.Katalog Kunst-Station Sankt Peter, Köln 2003.

2 Id.

3 Wolfgang Pehnt, “Sieben sakrale Räume – Simon Ungers”, in Bauwelt 46, 05.12.2003, 4.

3, 5. Simon Ungers Dom 4. Simon Ungers Kathedrale
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6, 7. Simon Ungers Synagoge

zionati individualmente e non ha dovuto tener conto di alcuna restrizione.4 Infatti, le impressionanti sculture trasmettevano una forza spirituale o persino una sensazione di trascendenza proprio perché apparivano completamente sovradimensionate dal punto di vista tecnico e strutturale. Ricordavano i progetti effettivamente realizzati da Rudolf Schwarz, come l’incomparabile chiesa del Corpus Domini ad Aquisgrana.5 Schwarz vedeva l’architettura come un modo per restituire a Dio la rivelazione ricevuta nella sua creazione; tuttavia, tutta l’arte è sempre solo immagine e similitudine di ciò a cui Dio stesso ha dato forma. Nella sua insufficienza (Schwarz parlava di “fallimento”), è una testimonianza dell’indicibile: più riesce a mostrare semplicemente la propria incapacità, meglio si esprime. Comunque, sia l’astrazione sia il riferimento a un canone rimangono nell’ambito del creato. Ciò può essere richiesto dalle leggi interne dell’arte, “perché più grande è l’immagine o la costruzione, più chiaramente emerge la legge matematica primordiale che è solo connessione oggettiva di una figura stereometrica».6 Questo non va però inteso come “fallimento”, bensì come legge della costruzione mondana e fa propria la tentazione di un Dio che “pratica la geometria”.

4 “Ognuno di questi sette tipi di architettura sacra sviluppati storicamente racchiude a suo modo uno spazio concreto e lo carica dell’atmosfera di un certo dubbio. Essendo astratti, rimangono aperti a diverse spiritualità. Essi determinano e plasmano pensieri così come chi li produce”. (Friedhelm Mennekes, “Die Kunst, den Raum zu verhandeln”, cit.)

5 Rudolf Schwarz, Kirchenbau. Welt vor der Schwelle, 1960.

6 Id.

La riproduzione delle foto dell'allestimento di Stefan Müller e dei rendering sviluppati da Simon Ungers con Sven Roettger è effettuata con l'espresso consenso di Ungers Archiv für Architekturwissenschaft, Colonia.

Simon Ungers ha rifiutato questa tentazione, progettando forme pure che, per via delle loro dimensioni, rimanevano immagini pure e non consideravano una realizzazione. A differenza di Rudolf Schwarz, non si trattava per lui dello sviluppo ottimale di spazi per riunioni e preghiere, ma della stilizzazione di edifici storicamente formati, cioè uno sviluppo accresciuto dei luoghi per il culto del Cristianesimo e delle altre religioni monoteistiche. I modelli di legno, presentati su tavoli appositamente progettati dall’artista, instauravano un confronto con l’architettura ecclesiale cresciuta nel corso dei secoli in Sankt Peter, ponendosi in contraddizione con lo spazio reale tradizionalmente utilizzato. Si poteva davvero parlare di dialogo in questa mostra? Wolfgang Pehnt lo ha negato e ha parlato, invece, di un silenzio eloquente e condiviso, dove il rumore di questo mondo, sia acustico sia visivo, si placava temporaneamente.7 Dal punto di vista odierno, oltre vent’anni dopo questa mostra, i progetti di Simon Ungers impressionano già solo per il fatto di aver anticipato le possibilità di visualizzazione dell’intelligenza artificiale, portando i visitatori a confrontarsi mentalmente con spazi sovradimensionati e, allo stesso tempo, a comprendere come relazionarsi con la misura dello spazio reale della chiesa di Sankt Peter.

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8, 10 Simon Ungers Moschee

9, 11. Simon Ungers Kirche

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12, 13. Simon Ungers Kapelle

7 Wolfgang Pehnt, “Sieben sakrale Räume – Simon Ungers”, cit.

LA CHIESA DI SANT’ANNA A PESCARA

TORNANO ALLA LUCE GLI STRAORDINARI APPARATI DECORATIVI DI UN BENE TESTIMONIALE DELLA CITTÀ

Eliseba De Leonardis, Aldo Giorgio Pezzi

Nata a metà Ottocento come cappella della villa Muzii nella campagna dell’allora borgo di Castellamare Adriatico, divenuta poi seconda parrocchia cittadina e dichiarata di interesse culturale nel 1997, la chiesetta di Sant’Anna costituisce ancor oggi, per la sua storia e il suo valore artistico, un bene di assoluto valore testimoniale e spirituale per la collettività locale. Ciò nonostante lo sviluppo edilizio incontrollato dello scorso secolo, che condurrà al declino di villa Muzii, facendo sopravvivere ad essa Sant’Anna, ma sacrificata tra un tessuto edilizio di alti condomini e svariate attività commerciali. L’immagine originaria della cappella posta al centro dell’antico impianto della villa, inquadrata da un alto arco che guardava al mare, lascia ora spazio a quella di una piccola chiesa il cui elegante fronte neoclassico tetrastilo appare costretto tra autorimesse e corti urbane che ne inficiano la corretta fruizione urbana d’un tempo. Il sobrio prospetto si conclude in altezza con due piccole torri campanarie, caratterizzate da semicolonne negli angoli sormontate da un architrave essenziale che sorregge la copertura piramidale.

Oltre il portone ligneo d’ingresso a motivi fitomorfi, inquadrato da una cornice sostenuta da modiglioni, si apre l’aula unica a pianta rettangolare, racchiusa da pareti laterali scandite da una sequenza di paraste binate con capitelli corinzi a sostenere una trabeazione su cui imposta la volta a botte ribassata con lunette laterali, corrispondenti alle aperture ad arco visibili dall’esterno. L’articolazione delle pareti è arricchita, su entrambi i lati, da 3 nicchie poco profonde.

Interessata nel 2015 da un intervento di miglioramento sismico, la chiesa versava ancora in condizioni di degrado al suo interno, danneggiato da fenomeni di umidità di infiltrazione e di risalita. Rimaneva dunque da restaurare il ricco apparato decorativo interno, operazione resa possibile tra il 2020 e il 2022 grazie ad un finanziamento della Regione Abruzzo messo a disposizione del Segretariato Regionale per l’Abruzzo del Ministero della Cultura, che ha svolto il ruolo di stazione appaltante.

L’intervento, coordinato dalla Soprintendenza di Chieti-Pescara (Responsabile del Procedimento l’architetto Aldo Giorgio Pezzi e progettista e direttore dei lavori la dott.ssa Eliseba De Leonardis), è stato eseguito dall’impresa Giacomo Casaril di Roma, affiancata dalle restauratrici Annarita Di Nardo e Irene Pompilio.

I lavori hanno interessato principalmente le superfici dipinte e decorate, restaurate con interventi puntuali di pulitura, consolidamento e di calibrata integrazione delle lacune pittoriche.

Gli apparati decorativi comprendono dipinti a tempera sulla volta, con finti lacunari e motivi a grottesche e a candelabre, partiti architettonici a tempera sulla controfacciata e soprattutto un notevole trompe l’oeil monocromo a tempera raffigurante un altare di impianto barocco sulla parete

La chiesetta di Sant’Anna costituisce ancor oggi, per la sua storia e il suo valore artistico, un bene di assoluto valore testimoniale e spirituale per la collettività locale.

di fondo, sormontato da un fastigio mistilineo, al centro del quale è presente lo stemma della famiglia Muzii raffigurante un braccio prossimo al fuoco di un braciere. Nel cartiglio al centro della cornice superiore dell’altare è inserita l’iscrizione Sapientia aedificativit sibi domum , abitualmente utilizzata in contesti simbolici o allegorici riferiti alla conoscenza e alla saggezza e che qui compare assieme all’Occhio della Provvidenza raffigurato sulla volta all’interno di un triangolo circondato da raggi in stucco dorato. Una singolare associazione che si ritrova anche nella chiesa di Santa Maria Maddalena a Venezia, dove l’iscrizione e il simbolo compaiono insieme all’interno del timpano del portale di ingresso e sono tradizionalmente ricondotti alla Massoneria.

Sulla volta della chiesa di Sant’Anna sono dipinti anche tre tondi figurativi, ad olio su intonachino, di cui quello centrale raffigura il Padre Eterno , con un evidente richiamo iconografico alla Creazione della luce o Separazione della luce dalle tenebre tratta dal libro della Genesi dell’Antico Testamento, raffigurata dalla Bottega di Raffaello nella prima volta della

cosiddetta Loggia di Raffaello, al secondo piano delle Logge Vaticane.

Completano l’apparato decorativo cornici e capitelli modellati in stucco dipinto e dorato a foglia.

Il degrado delle decorazioni si manifestava in numerose efflorescenze saline, con conseguenti disgregazioni dei materiali, lacune della pellicola pittorica e perdita di porzioni dei modellati in stucco. Le superfici si presentavano notevolmente offuscate da depositi di polvere e nerofumo, da alterazioni cromatiche e da abrasioni delle policromie. Parte delle decorazioni della volta e della controfacciata erano inoltre coperte da stuccature e scialbature eseguite in passato, debordando sulle cromie originali.

L’intervento di restauro, dopo le necessarie operazioni di pulitura, consolidamento e risanamento dei materiali costitutivi, si è posto come obiettivo principale la restituzione dell’unitarietà dell’immagine complessiva degli apparati decorativi, tenuto anche conto dell’importanza storica e testimoniale che la piccola chiesa riveste per la comunità locale, mèta di visite e

pellegrinaggi legati al culto devozionale di Sant’Anna fin dalla sua edificazione.

La presenza di motivi decorativi essenzialmente modulari sulla volta ha permesso la ricostruzione delle parti mancanti, facilmente deducibili dagli originali conservati. Le integrazioni sono state eseguite con un leggero sottotono per renderle in ogni caso riconoscibili. Laddove l’estesa perdita degli elementi decorativi avrebbe condotto ad una loro riproposizione arbitraria, si è optato per una reintegrazione formale e cromatica non ricostruttiva, tale comunque da accompagnare la lettura dell’immagine a favore di un pubblico eterogeneo, composto sia da studiosi, sia da fedeli e appassionati d’arte. È stato inoltre riproposto il pavimento originario in laterizio dopo un intervento di bonifica dell’umidità di risalita e restaurato il portone ligneo a due ante; rifatto infine l’impianto elettrico con una nuova illuminazione coerente con l’invaso interno e capace di esaltare la qualità dell’apparato decorativo.

Oggi, grazie al concorso virtuoso di più enti e figure specializzate nel campo della conservazione, uno dei beni artistici e testimoniali più rilevanti della città di Pescara può finalmente tornare ad essere fruito dall’intera comunità locale.

COLMARE UN’ASSENZA LA RICOSTRUZIONE DI UN ALTARE DEL XVII

SECOLO PERDUTO PER UN INCENDIO

La chiesa parrocchiale di San Giuseppe a San Severino Marche, già danneggiata dal sisma Marche-Umbria 1997, è stata teatro nel dicembre 2009 di un incendio per cortocircuito elettrico che lasciava l’edificio privo dell’altare laterale destro, opera seicentesca più volte rimaneggiata fino al secolo XIX. La chiesa, costruita ex novo nel secolo XVII, è caratterizzata da una perfetta euritmia e, nonostante l’altare perduto non avesse più alcuna funzione liturgica, né rivestisse particolare valore artistico, ci si è resi conto che lo spazio interno non poteva restarne menomato. Il nostro obiettivo è stato, dunque, “il restauro dello spazio” nel tentativo di ripristinare l'equilibrio interno sbilanciato dalla mancanza di quanto bruciato. Ci siamo orientati, in primo luogo, considerando il celebre assunto di Cesare Brandi secondo cui: «Il restauro deve mirare al ristabilimento della unità potenziale dell’opera d’arte, purché ciò sia possibile senza commettere un falso artistico o un falso storico, e senza cancellare ogni traccia del passaggio dell’opera d’arte nel tempo». Altra fonte di ispirazione sono state le parole che Frank Lloyd Wright pronunciò nel 1926 all’università di Princeton, stigmatizzando la produzione di «copie fatte a macchina di originali fatti a mano»; egli affermò in quella stessa occasione che «l’imitazione dell’antico reso antico dalla macchina fosse un abominio tra i più abominevoli». La mancanza di adeguata documentazione e dei saperi artigianali indispensabili a replicare quanto perduto sono stati ulteriori fattori che ci hanno spinto a escludere senza appello l’ipotesi di ricostruire l’altare “dove era, come era”, slogan di grande effetto e presa, ma del tutto fuorviante. L’unica soluzione che ci è sembrata praticabile per tentare di ristabilire l’originale stereometria interna era replicare il volume perduto in maniera semplificata, adottando tecniche e materiali che rendessero evidente la contemporaneità dell’opera.

L’ipotesi è stata quella di realizzare un intervento di reintegrazione che permettesse di nuovo la percezione dell’unità spaziale della chiesa, ma, allo stesso tempo, denunciasse l’epoca di realizzazione dell’altare.

Nel tradurre in pratica questo proposito, nella prima fase di studio si era simulata la replica di quanto perso mediante una serie di profili metallici paralleli che costituissero l’inviluppo del volume originario. Ciò - prima ancora di aver compiuto rilievi di precisione sui resti e sul sedime dell’altare - è stato utile per simulare l’inserimento nel contesto con alcuni rendering Questo ci ha permesso di sottoporre l’intento alla Commissione per l’arte sacra della Diocesi e, successivamente, di avere un confronto preventivo con il Soprintendente per i Beni Architettonici delle Marche, dal quale abbiamo avuto un esplicito incoraggiamento a procedere nello studio della soluzione ipotizzata.

L’approfondimento del progetto ha portato alla soluzione definitiva, forse meno eversiva rispetto alla prima provvisoria ipotesi: colmare il vuoto la-

Il restauro dello spazio" nel tentativo di ripristinare
l'euritmia interna sbilanciata dalla mancanza di quanto bruciato

sciato dalle fiamme con un elemento costituito da lame orizzontali in legno, assicurate ad una struttura metallica di ancoraggio al muro. Non bisogna dimenticare la necessità di calcolare l’intero costrutto secondo i parametri che la normativa prescrive per le strutture in zona sismica in questa parte del Paese. Da questa elaborazione, sottoposta poi alla definitiva approvazione della Soprintendenza, è risultato l’elemento realizzato con tavole in multistrato di betulla dello spessore di 3 cm e sagomate mediante una macchina a controllo numerico. Queste lame sono state trattate con finitura in due divere nuances di marrone, con un impregnante ignifugo e fissate con un interspazio di eguale misura sull’intelaiatura metallica, rimanendo questa completamente in secondo piano. La “trasparenza” dell’altare, mutuata - se si vuole - dalla tecnica scenografica del “velatino”, fa sì che accendendo alcune barre led posizionate al suo interno, si possa scorgere il muro posteriore, su cui restano visibili le tracce indelebili dell’incendio, le tessiture murarie e il pavimento originario in laterizio della chiesa. Di questo, sotto all’altare bruciato, si conserva ancora una piccola porzione, che ne testimonia anche lo schema di posa e che è stato opportunamente restaurato. Per agevolare questa esperienza e per facilitare le operazioni di manutenzione, la mensa dell’altare è dotata di ruote che le permettono di essere traslata in avanti e fuoriuscire dalla propria posizione. Nella ricostruzione, ha poi meritato particolare attenzione la conservazione della commovente statua della Madonna; questa, aggredita dal fuoco, non è stata mai rimossa dalla nicchia né durante la prima fase dei lavori e neanche in seguito al violento sisma del 2016. Si è ritenuto doveroso, perciò, conservarla definitivamente in quella collocazione, vista anche la

3. L'altare laterale destro prima dell'incendio del 2009

4. Il vuoto lasciato dal fuoco sulla parete della chiesa

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5. Elaborato di progetto con la scansione definitiva delle lamelle in legno

6. "Altare sipario". La tela di Ernst Van Schayck può ruotare lasciando vedere la statua danneggiata dal fuoco

7. Primi studi d’inserimento per il nuovo altare con lame metalliche

Pagina precedente 8, 9, 10. Statua della madonna dopo l'incendio 11. Madonna di Lourdes, scultura seriale in gesso prima metà sec. XIX; La “Madonnina resiliente”. Foto Hexagon Group

In questa pagina 12, 13. Il nuovo altare nel contesto della chiesa. Foto Hexagon Group

grande devozione di cui è fatta oggetto da parte dei fedeli. Il simulacro raffigura la Madonna di Lourdes e, come si legge nella guida della chiesa, fu collocata sull’altare nella prima metà del ‘900 per celebrare il miracolo avvenuto nella grotta sui Pirenei. Si tratta di un prodotto seriale in gesso di nessun valore artistico che sostituì una tela, ora in sagrestia. Il grave danno subito dalla statua nell’incendio ha determinato l’impossibilità di ogni suo spostamento e di un suo restauro, che non fosse un semplice consolidamento materiale, tendente a cristallizzare lo stato attuale. Tuttavia, per gli attuali orientamenti liturgici non è opportuno lasciare in venerazione un simulacro sacro così deturpato. Replicando il meccanismo dei cosiddetti “altari sipario” - molto diffusi a partire dal secolo XVII - si è collocato davanti alla nicchia un quadro, già pala d’altare nella stessa chiesa fino agli inizi del secolo XIX. Un semplice telaio con cerniere laterali permette al dipinto di ruotare e scoprire alla vista questa “Madonnina resiliente” nella propria nicchia.

LA DECORAZIONE

DELLA BASILICA DEL SEÑOR DEL GRAN PODER A SIVIGLIA. CONCORSO A INVITI

Ignacio Rubiño, Luis Rubiño, Pura García Márquez

Traduzione di Massimo Angrilli e Claudio Varagnoli

“[…] La Confraternita di Nuestro Padre Jesús del Gran Poder y María Santísima del Mayor Dolor y Traspaso è una associazione religiosa cattolica storicamente radicata nella Chiesa e nella città di Siviglia da oltre cinque secoli. La sua presenza, databile attorno al 1431, è marcata da due eventi cruciali. Da un lato, la creazione nel 1620 della “Bendita Imagen” (Immagine Benedetta) del Señor del Gran Poder, oggetto di ferventi preghiere e culto da parte di Juan de Mesa, del popolo e della Confraternita, fino a renderla un simbolo universale. Dall’altro lato, il trasferimento nel 1703 presso la Parrocchia e il quartiere di San Lorenzo, dove la Confraternita ha prosperato. Connessa fin dall’antichità alla Corona e alla nobiltà, numerosi regnanti e figure di spicco come Filippo V, Giuseppe Bonaparte, Ferdinando VII, i Duchi di Montpensier, Isabella II, Alfonso XII e Alfonso XIII hanno pregato davanti al Gran Poder. La confraternita è stata due volte aggregata alla Basilica di San Giovanni in Laterano (nel 1500 e nel 1732), ricevendo indulgenze da pontefici illustri come Clemente XII, Innocenzo XIII, il beato Pio IX, San Pio X, Leone XIII e San Giovanni Paolo II. Nel 1995, il Consiglio comunale ha conferito al Señor del Gran Poder il suo più alto riconoscimento, la Medaglia della Città. Tutte queste onorificenze hanno nobilitato la confraternita, sebbene il titolo più prestigioso le sia già stato conferito dalla devozione del popolo, che invoca e venera la “Bendita Imagen” come il Signore di Siviglia [...].*

Il Señor del Gran Poder incarna perfettamente l’equilibrio tra materia e forma, idea e rappresentazione. La Sacra Immagine [...] sintetizza l’essenza stessa delle iconografie di Siviglia e sostiene il profondo significato della Settimana Santa [...]. Il suo valore per la devozione lo ha trasformato in un’icona universale, essenziale per comprendere la città di Siviglia [...]. Il suo volto è ormai l’emblema a cui molti si rivolgono quando pensano a Dio [...].

Questa crescente devozione al Señor del Gran Poder, soprattutto nella prima metà del XX secolo, manifestatasi in un sempre più affollato afflusso di fedeli alla sua cappella nella Parrocchia di San Lorenzo, suscitò nella Confraternita il desiderio di costruire una nuova sede più consona al significato sociale dell’Immagine.

Così, dopo vari tentativi infruttuosi, tra il 1960 e il 1965 la Confraternita eresse nelle vicinanze della chiesa parrocchiale, che aveva già accolto la sua sede canonica fin dai primi del XVIII secolo, l’attuale tempio. Questo edificio ha ricevuto il titolo di Basilica Minore grazie a un Breve Pontificio emanato da San Giovanni Paolo II il 29 dicembre 1992 a Roma.

Il 27 maggio 1965, festa dell’Ascensione, le sacre immagini fu-

rono trasferite al nuovo tempio che sarebbe stato consacrato il giorno seguente dal Cardinale di Siviglia, Don José María Bueno Monreal.

Gli stessi architetti autori della Basilica, Alberto Balbontín Orta e Antonio Delgado Roig, dichiararono alla stampa dell’epoca che, in quel momento, la chiesa non era ancora terminata «la nudità dei muri lobati era dovuta a imprevisti che avevano impedito di completare i lavori di “decorazione” con affreschi e una cancellata» situata nell’atrio: in assenza di un’esauriente documentazione grafica non è stato possibile stabilire se altri elementi decorativi, non realizzati, avrebbero conferito alla chiesa quella solennità implicita nell’ideazione.

Così è rimasta fino ad oggi e, se il fervore devozionale verso il Señor del Gran Poder ha contribuito all’accettazione della Basilica come Sua Nuova Dimora tra le confraternite sivigliane, il cui riferimento immediato è il canone barocco, il passare del tempo e la percezione contemporanea, influenzata dall’aumento dei visitatori stranieri grazie al fenomeno del “turismo culturale” che può includere una certa visione pittoresca, delineano oggi uno scenario di accettazione indifferente dell’identità della basilica, sia dal punto di vista sociale che religioso. Tuttavia, è importante

ricordare che la monumentalità sobria e la decorazione modesta dell’edificio sono il risultato della sua incompiutezza.

Consapevole di questa situazione, e al culmine degli eventi celebrati nel 2015 per il cinquantesimo anniversario della consacrazione della chiesa, la Junta de Gobierno della Confraternita ha proiettato lo sguardo verso il futuro, lanciando un concorso di idee per migliorare il contesto ambientale della Basilica. Nel 2016, questo impegno si è concretizzato con un concorso ad inviti, coinvolgendo cinque studi professionali di architettura. L’obiettivo era raccogliere da ciascuno proposte preliminari per la riqualificazione della Basilica, nonché per realizzare quell’apparato decorativo mai realizzato.

In risposta alle domande della Confraternita, il nostro studio ha elaborato la proposta intitolata “DOMUS DEI”; un palinsesto concepito con l’obiettivo di conferire maestosità e caratteri distintivi agli spazi collettivi della Basilica, con particolare enfasi sulla dimensione di raccolta e solennità che caratterizza il momento dell’incontro con le Immagini Sacre. Con una profonda dimensione simbolica ispirata ai testi biblici, che guidano le diverse scene della narrazione, il progetto ripropone le linee semplici della composizione e decorazione sviluppate nel corso dei secoli in cui l’arte sacra si è evoluta insieme

alla Chiesa, alla liturgia e agli spazi dei luoghi di culto. L’obiettivo è di infondere nei vari ambienti della Basilica un senso di intimità e misticismo, caratteristiche intrinseche dei luoghi sacri che invitano alla preghiera, rappresentando l’incontro senza tempo tra l’umano e il divino.

All’inizio della nostra riflessione c’è stata, tra le altre cose, la lettura della Lettera Pastorale intitolata VIA PULCHRITUDINIS, cammino privilegiato di evangelizzazione e dialogo; una ricerca trascendente che il suo stesso autore, Papa Benedetto XVI, ha definito come [...] il cammino della bellezza che costituisce allo stesso tempo un percorso artistico, estetico, e un itinerario di fede, di ricerca teologica [...]. Secondo le parole del pontefice [...] le immagini del bello in cui si rende visibile il mistero di Dio invisibile fanno parte del culto [...]. Dio, l’invisibile, entra nello spazio del visibile, affinché noi, legati al materiale, possiamo conoscerlo [...]. Le nostre considerazioni dottrinali poggiano su questioni tanto determinanti per questo progetto quanto quelle liturgiche. La liturgia cristiana ci si presenta come un complesso di segni e simboli la cui piena comprensione è inscritta nel contesto della Fede.

L’operatività della proposta parte dal considerare che, nel campo religioso, il termine simbolo si riferisce al modo di rappresen-

tare l’esperienza religiosa in qualcos’altro a cui si riferisce, ad esempio, attraverso l’apparizione di archetipi e l’uso del linguaggio simbolico così presente nelle Sacre Scritture, in cui la pedagogia dei segni è una costante nell’azione di Dio.

Prescindendo dal linguaggio teologico, la tendenza all’espressione simbolica è una caratteristica molto accentuata nella tradizione cristiana, manifestata nell’architettura e nella decorazione dei templi attraverso le allegorie.

Altre considerazioni, quasi tutte di ordine funzionale e programmatico, si aggiungono in misura minore alle considerazioni che costituiscono i nostri presupposti iniziali.

La prima e più ovvia è che sono trascorsi più di cinquant’anni dalla concezione della Basilica e che, al di là delle mode, il contesto sociale, culturale e architettonico ha subito cambiamenti significativi e il bagaglio, anche strumentale, si è notevolmente ampliato.

Le considerazioni su concetti come stile, nobiltà di materiale, ornamento, spazialità, forma, modernità, astratto o figurativo... così come i progressi tecnici e materiali, consentono di operare da premesse ben diverse, ampliando considerevolmente il campo di azione.

Il vasto dizionario visivo e iconografico a nostra disposizione richiede solo, come affermava Carlos Colón nel suo articolo intitolato “Pasión y espectáculo en Sevilla”, la [...] disponibilità emotiva che ogni comunicazione estetica esige [...].

Senza particolare preoccupazione stilistica, il progetto si può descrivere come scene composte attraverso la disposizione di una serie di elementi classici, archetipici delle chiese (balaustre, sedili, ecc.) che accentuano il carattere sacro degli spazi ed altri che svolgono un ruolo compositivo (configurando fregi, modanature, architravi e cornici) per dare ordine; qualcosa di paragonabile ai segni di punteggiatura o agli accenti di un discorso già scritto nella pianta della chiesa. DOMUS DEI evoca una analogia della dimensione domestica degli spazi della Casa del Signore, l’Atrio e la Sala Basilicale, per come vengono utilizzati e attraversati.

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2. Interno della Basílica del Gran Poder negli anni Settanta (foto della Confraternita)

3. Copertina della proposta di concorso

4. Concept di concorso

5. Schema dell'impianto proposto

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6. Atrio: Stato attuale

7. Atrio: Proposta con cancellata

Così come nel modello tipologico della casa sivigliana dal portone di ingresso si accede all’atrio - lo spazio collettivo dell’abitazione - così nella basilica il punto di raccolta è rappresentato dalla piazza di San Lorenzo, e la cancellata chiude il cortile della casa.

AMBITO 1: L’ATRIO

L’Atrio è l’anticamera del Tempio, il vestibolo della Sala Basilicale. A contatto diretto con la piazza, riceve il costante e occasionalmente massiccio flusso di visite, devozionali e turistiche, che

possono interferire nella celebrazione dei culti, alterando l’atmosfera di raccoglimento e solennità richiesta da questo luogo di preghiera.

La nostra proposta intendeva accentuare la dimensione della sacralità, facendo sì che il visitatore potesse sperimentare la solenne grandezza del luogo, attenuandone così l’impatto. Attraverso un ampio e selezionato dispiegamento iconografico, rende manifesta la presenza del Signore e crea un ambiente che predispone l’animo all’imminente incontro con le “Sagradas Imágenes” (Sacre Immagini).

Come prima mossa si proponeva di modificare il senso di apertura dei portoni esterni del tempio, il che consentiva di disporre all’interno una cancellata di accesso in legno e metallo dorato, immediatamente adiacente alla parete interna della facciata. Risolta, come il resto degli elementi del progetto, attraverso una geometria a base triangolare1, composta da tre fasce orizzontali, articolate in maniera tale che dalle due inferiori sia possibile far transitare i Pasos2. Le tre fasce sono composte secondo l’ordine canonico: zoccolo nell’architrave, fregio e cornice, ulteriormente articolate con “cajón” (cassettoni), respiradero (griglia di ventilazione) e “canasto” (elemento decorativo a forma di cesto o simile a una rete intrecciata).

Il cordone, simbolo di castità e purezza, è un elemento caratteristico nell’abbigliamento del Signore. La modanatura traforata che corona la base del Paso sopra le griglie di ventilazione (respiraderos), svolge il ruolo di cornice dell’ordine inferiore nella composizione di questo capolavoro dell’arte processionale. A questi elementi si ispirano le lampade che illuminano l’atrio, in sostituzione delle attuali lanterne, marcando il primo livello della composizione, come marcapiano sotto i balconi. Un basamento dorato, con punte triangolari che ricordano la processione dei Nazareni e richiamano le potencias (elaborate offerte votive d’argento dorato), completa questo primo ordine.

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8, 9,10. Nuova illuminazione dell'atrio: il cordone del Signore e il motivo traforato del Paso

11. Atrio: Stato attuale

12. Atrio: Proposta

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13. Sala basilicale: lo stato attuale

14. Sala basilicale: Panca perimetrale

Dalla narrazione degli stessi autori del progetto originale della Basilica sappiamo che sarebbe stata loro intenzione installare una cancellata che consentisse, 24 ore al giorno, la visita e la preghiera davanti all’Immagine del Signore. La cancellata presente nel secondo portale, quello che dà accesso alla rotonda attraverso la fila dei confessionali, risponde a tale pia aspirazione. La possibilità di mantenerla aperta e occasionalmente chiusa separa percettivamente la Sala Basilicale dall’Atrio, rafforzando quest’ultimo nel suo ruolo di spazio di accoglienza e di regolatore dei flussi di persone.

Le cancellate che arricchiscono il nostro progetto sono ispirate alla magnifica collezione di grate, cancelli e ringhiere di inestimabile valore artistico che recingono le cappelle della Cattedrale di Siviglia.

1 Il modello geometrico utilizzato in tutti gli elementi del progetto è il triangolo, che rappresenta la Divinità, la Trinità, l’armonia e, nell’arcano, la Realtà. 2 Paso: insieme formato dalle portantine e dalle Sacre Immagini che vi sono collocate durante le processioni.

15. Sala basilicale: nuovo presbiterio
16. Sala basilicale: vista generale della proposta verso l'altare
17. Sala basilicale: stato attuale della cantoria
18. Sala basilicale: vista generale della proposta verso la cantoria

AMBITO 2: LA SALA BASILICALE

Attraversata la cancellata dell’atrio, transitando lungo il varco dove sono ubicati i confessionali, si accede assialmente alla Sala Basilicale. I paramenti di questo piccolo spazio sono rivestiti con pannelli ad altorilievo a forma di lance, simboleggianti i piedi del grande salone cilindrico. Lo stesso motivo verrà utilizzato per rivestire l’abside su entrambi i lati dell’edicola di fondo – il camarín - ampliando così la percezione del Retablo (Pala d’altare) nel Presbiterio e rafforzando allo stesso tempo la fruizione assiale dello spazio che collega visualmente i fedeli con l’imponente presenza del Signore.

La nostra proposta prevede una serie di elementi che, disposti in bande orizzontali sul perimetro curvo della navata, “correggano e aumentino” verticalmente la percezione di questo ambiente con l’ambizione di avvicinarla virtualmente alla perfezione sferica del Pantheon di Roma. Nuovo archetipo e primo tempio pagano convertito al culto cristiano, nel Pantheon le edicole, le esedre, le nicchie ed i colonnati organizzano una composizione canonica in fasce orizzontali, con colonne che reggono una canonica trabeazione e sopra di essa una sequenza di finestre, una cornice e una maestosa cupola.

Posta dietro l’attuale zoccolo di marmo, viene quindi disposta simmetricamente una panca ispirata alle sedie dell’Assemblea dei templi paleocristiani, segno inequivocabile della Chiesa. La seduta, costruita con molteplici componenti in legno e metallo dorato, si ispira all’interpretazione o all’uso simbolico che la Bibbia fa degli alberi - l’olivo, il cedro e il sicomoro - e anche ai milletrecentoventuno passi della Via Dolorosa, richiamando simbolicamente la condizione umana del Signore, legata alla terra, alle radici, così come alla sua Passione e Morte.

La Bibbia menziona centotrenta tipi di piante associandovi significati simbolici. La rappresentazione di motivi vegetali è una costante nell’arte sacra lungo la storia. Rosoni, ghirlande, foglie, fronde e cardini decorano abiti, arredi, cancelli, fregi, altari e chiese, rappresentando tutti i momenti della Storia Sacra, dal Giardino dell’Eden alla Corona di Spine e alla Resurrezione, nelle più varie tecniche pittoriche e scultoree.

Se la disposizione della panca perimetrale del basamento allude inequivocabilmente ai fedeli, all’assemblea del popolo di Dio, la decorazione floreale proposta per il fregio rimanda direttamente a Dio stesso, suggerendo metaforicamente la sua presenza. Dio si manifestò a Mosè in un roveto ardente. Questo episodio biblico (Esodo, Cap. 3, 2-4) è stato spesso usato nell’arte cristiana. Il roveto simboleggia l’umiltà, l’eternità e l’immortalità, e l’ardore del suo fuoco eterno rimanda letteralmente alla presenza di Dio.

L’Epifania, festività celebrata dalla Chiesa cattolica in commemorazione dell’adorazione dei Magi, è uno dei culti più significativi della Confraternita che, fin dalle origini, in diretta allusione alla devozione al Gran Poder di Dio, viene celebrata ogni anno solennemente, con una Novena in onore del Signore che ha inizio il 31 dicembre e si conclude l’otto gennaio.

La fronda di rovo, debolmente illuminata a simulare un ardore permanente, conferisce solennità allo spazio e, in riferimento diretto alla manifestazione di Yahvé ed all’Epifania di Gesù, infonde la presenza del Signore.

Nell’introduzione al bando di concorso, la Junta de Gobierno

della Confraternita suggerisce di celebrare la ricorrenza, ma allo stesso tempo considerare il presente e proiettarsi verso il futuro. La sfida, quindi, era rispondere con una architettura senza tempo e senza riferimenti stilistici, contro l’egemonia dello stile e l’armonia delle forme.

Allo stesso tempo il bando di concorso imponeva di conservare le tele che rappresentano le 14 scene della Via Crucis, importante opera contemporanea del pittore Antonio Agudo. Contribuendo alla proposta di rilettura spaziale della rotonda, le tele vengono ridimensionate attraverso un nuovo incorniciamento che integra la croce e il numero d’ordine delle stazioni, e vengono raggruppate e ricollocate nella corona superiore sopra il Fregio dei Rovi, come terza fascia del nuovo architrave.

Una cornice in metallo dorato, senza decorazioni, con il motto e lo stemma della confraternita incisi, si sovrappone a quella attuale, completando l’ordine compositivo dei paramenti, ora rivestiti da una pellicola cerulea che li avvicina cromaticamente al colore delle candele portate dai Nazareni durante la processione penitenziale della confraternita all’alba di ogni Venerdì Santo. Come le cornici bizantine, questo nuovo elemento simboleggia il Cielo. Il trattamento riservato alla lanterna della cupola, una stella della Natività a 14 punte, simile a quella presente nella Basilica della Natività a Betlemme, appare sospesa, come fluttuante nel centro dell’imponente spazio della Sala Basilicale, richiamando il solenne culto dell’Epifania, evento principale e costitutivo della Confraternita, che letteralmente rappresenta la manifestazione del Gran Poder del Signore sulla Terra.

Il Vangelo di Giovanni è l’unico che menziona l’episodio della Sacra Lancia. La lancia di Longino piegata, resa davanti alla presenza del Signore, simboleggia il trionfo di Gesù sul Male.

L’originale soluzione pensata per la zona dell’altare ricorre nuovamente a un elemento simbolico. Come continuazione del tracciato perimetrale della panca, una parete di lance dorate, raggruppate insieme ai loro altorilievi, fiancheggia il Retablo, che, in chiara allusione alla disposizione che avevano nell’antica Cappella della chiesa di San Lorenzo, accoglie le Lampade Votive raggruppate ai lati dell’edicola del Signore, ampliandone la percezione.

Le lance dorate inquadrano la nuova gradinata del presbiterio, di tracciato ellittico, ai cui lati sono disposti due bassi recinti che, ricordando le antiche balaustre, delimitano l’ambito dell’altare e concentrano l’attenzione sull’edicola del Signore.

Il balcone della cantoria e il presbiterio vengono resi riconoscibili nel loro trattamento geometrico, formale e compositivo, per accentuare la dimensione assiale dello spazio della sala basilica.

L’operazione di ridisegno del balcone della cantoria mira alla sua integrazione armonica nel glossario di forme che conferiscono alla Basilica una nuova sintassi.

L’ordine compositivo conferisce un carattere architettonico di vibrante materialità.

Armonia e proporzione: il momento in cui le arti decorative e l’architettura si fondono in una precisa sintesi.

Subordinato alla presenza del Señor del Gran Poder, l’edificio si rivela come un luogo intenso nella sua atmosfera severa, nel suo opaco pallore, nella sua spazialità senza tempo...

Silenzio, siamo nella Domus Dei, nella Casa di Dio.

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SALONI A T(H)EMA

FERRARA 2024

PER UN BILANCIO DELLA XXIX EDIZIONE DEL SALONE INTERNAZIONALE DEL RESTAURO

Il Salone Internazionale del Restauro chiude con un bilancio positivo (Espositori: più 30%; Visitatori: più 50%) il periodo di flessione legato all’emergenza covid e apre nuovi orizzonti per l’universo molteplice della conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale. Economia, Conservazione, Tecnologie e Valorizzazione dei Beni Culturali e Ambientali sono le parole chiave che confermano la vocazione e gli obiettivi della XXIX edizione organizzata in convegni, eventi e laboratori tra il 15 al 17 maggio 2024 presso il Quartiere Fieristico e il centro storico della città.

Ferrara si conferma quindi un punto di riferimento fondamentale nel panorama culturale italiano e internazionale e un nodo primario nella rete di conoscenze, esperienze e processi formativi che mette a sistema i più recenti indirizzi metodologici e le attività operative nel campo della tutela, della conservazione e della valorizzazione del patrimonio artistico, architettonico, urbano e paesaggistico.

Il Comitato Tecnico Scientifico, guidato da Alessandro Ippoliti, Direttore del Dipartimento di Architettura, ha delineato le attività della manifestazione, dal 1991 il più importante appuntamento del settore di stampo internazionale, ampliando il programma e l’offerta formativa attraverso convegni e seminari proiettati verso la sostenibilità ambientale, l’innovazione tecnologica, la riqualificazione energetica e l’eco-compatibilità dei materiali.

Per tre giorni il Quartiere fieristico di Ferrara è stato, infatti, il palcoscenico su cui attori e specialisti di settore, pubblici e privati, hanno avuto l’opportunità di esporre e confrontare le proprie esperienze in ambito teorico e pratico, delineando gli indirizzi e le strategie più adeguati ad orientare le dinamiche future del restauro e del recupero dei beni culturali, sempre più complessi da inquadrare nelle loro forme tangibili e intangibili, ma indispensabili a una visione di crescita culturale, sociale ed economica e allo sviluppo sostenibile del territorio. La consapevolezza dell’importanza di preservare il patrimonio culturale per le generazioni future in modo responsabile e sostenibile ha indirizzato l’intero progetto del Salone Internazionale: gli eventi organizzati nel polo fieristico Ferrara Expo, progettato da Vittorio Gregotti, sono stati diversificati attraverso incontri, aree espositive, laboratori e workshop focalizzati su vari settori, dal restauro archeologico al restauro del patrimonio artistico e storico, fino ai prodotti, ai materiali, alle attrezzature e alle macchine per il restauro, oltre che sulle tecnologie e i servizi inerenti la diagnostica, l’impiantistica e la sicurezza in cantiere. Come nelle passate edizioni alcuni eventi sono stati curati direttamente dal Ministero della Cultura promotore di una vasta gamma di interventi dall’approccio interdisciplinare: dalla conservazione degli strumenti musicali al miglioramento sismico dei campanili, passando dalle opere post-alluvione in Emilia-Romagna del maggio 2023 fino ai cantieri di restauro nel parco archeologico di Pompei.

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Il profilo di internazionalità della manifestazione è stato supportato direttamente dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, insieme a ICE Agenzia che hanno coordinato alcune delegazioni estere provenienti da 16 paesi: Albania, Arabia Saudita, Azerbaijan, Bulgaria, Giordania, Iran, Israele, Kosovo, Libano, Libia, Marocco, Mozambico, Stati Uniti, Turchia, Ucraina, Uzbekistan.

Contestualmente il profilo e gli orizzonti della disciplina del restauro, sono stati delineati dal Comitato Tecnico Scientifico composto da figure di primo piano afferenti ai diversi ambiti alla conservazione e promozione dei beni culturali: Alessandro Bozzetti, Assorestauro; Gisella Capponi, ICR-Istituto Centrale per il Restauro; Carla Di Francesco, Segretario GeneraleMIC; Daniela Esposito, Presidente del Comitato Tecnico-Scientifico per il Paesaggio- MIC; Marcello Guaitoli, Università degli Studi di Lecce; Silvia Paparella, COO Ferrara Expo Srl; Piergiuseppe Venturella, Studio Tonucci & Partners.

Convegni e seminari hanno affrontato temi specifici e trasversali all’ambito del restauro, dalle norme e competenze pubbliche e private nella tutela del patrimonio, alla manutenzione programmata, dalla qualità e compatibilità degli interventi di consolidamento e delle procedure diagnostiche alla ricerca storica e identitaria, ponendo particolare rilievo alle emergenze legate ai terremoti e ai cambiamenti climatici in Italia e all’estero e alla necessità della digitalizzazione dei beni culturali e del soddisfacimento delle istanze di sostenibilità ed efficientamento energetico del patrimonio storico.

Dall’incontro e dal confronto tra importanti esponenti del mondo accademico e professionale è emerso anche l’attuale profilo del restauro italiano, frutto del bagaglio teoretico e metodologico del XX secolo, la sua proiezione in ambito europeo e internazionale e le attuali istanze cui è chiamato a rispondere. In particolare durante l’incontro dal titolo ‘Il Restauro e le sfide della contemporaneità: il Contesto Europeo’, a cura di Daniela Esposito, Alessandro Ippoliti e Renata Picone, i relatori hanno proposto un focus sulle politiche di conservazione nei paesi dell’Unione e sull’effettiva centralità del Restauro italiano quale riferimento teorico e metodologico rispetto alle dinamiche e alla prassi operativa extraeuropea.

Emergono dalle riflessioni di Claudio Varagnoli il rischio di una contaminazione del tradizionale concetto di restauro con una diffusa tendenza all’immaterialità che esula dall’oggetto concreto da preservare, vero ‘residuo fisso’ della realtà italiana, che al di là delle declinazioni di scuola, deve rimanere punto di partenza e di arrivo del progetto, dato che in esso sono

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insiti quei valori da considerare e rileggere attraverso l’opera di conservazione. Ne derivano molteplici sfide per la metodologia tradizionale chiamata al confronto non solo con la globalizzazione dell’era digitale, ma anche con tematiche di stringente attualità che Renata Picone sintetizza in alcune aree di interesse rispetto alle quali il restauro italiano deve interrogarsi per approdare a valide soluzioni e confermare il suo ruolo guida in ambito internazionale.

Tra le istanze del nuovo millennio figurano: il rapporto tra la comunità e il patrimonio; la gestione delle innovazioni tecnologiche e l’uso corretto della diagnostica, la fruizione inclusiva, l’importanza degli archivi tecnici, la questione della sostenibilità degli interventi, la definizione di una soglia per la distinguibilità tra antico e nuovo e di un rapporto equilibrato tra fattori di confidenza e fattori di permanenza.

Sono tematiche che hanno animato il dibattito anche durante il convegno ‘Il restauro architettonico tra professione, ricerca e sviluppo industriale’ a cura del Dipartimento di Architettura dell’Università degli studi di Ferrara e di FASSA s.r.l. durante il quale Riccardo

Dalla Negra conferma il fenomeno del rischioso ‘dissolvimento’ della disciplina e della natura progettuale del restauro legato alla progressiva sostituzione dell’analisi critico-testuale con un approccio percettivo-sensoriale alle testimonianze del passato.

Un allontanamento dalla storia dell’architettura che allentando i cardini del tradizionale percorso di conoscenza e comprensione dei manufatti, dalla scala architettonica a quella urbanistica, compromette la risoluzione del testo architettonico e la conservazione dell’oggetto sul quale si deve intervenire.

Riannodare il rapporto con la storia e difendere il processo critico-interpretativo che determina l’oggetto del restauro e il rapporto antico-nuovo sono i punti fermi da cui proiettarsi nel futuro e attraverso cui gestire il confronto con le attitudini e la cultura degli altri paesi.

I principi e l’autonomia del restauro architettonico maturati in Italia nel secolo scorso sono anche il filtro attraverso cui vagliare gli indirizzi di settore proposti in ambito europeo che nell’omologare norme e procedimenti degli stati comunitari rischiano di fraintendere e svilire quel percorso metodologico che, dal riconoscimento del bene all’intervento, guida il progetto di restauro, riducendone le tappe fondamentali - come la ricerca storica o l’analisi del degrado - a semplici corollari, assolvimenti preliminari o protocolli esecutivi, privi di una reale e mutua connessione con gli esiti operativi.

La peculiarità italiana di porre al centro del processo creativo l’oggetto, l’edificio da restaurare nella sua autenticità come testo unico che, anche se inserito in un contesto più ampio mantiene la propria individualità, merita quindi di essere posta al riparo da nuove tendenze che possono prevalere sulla conservazione o favorire la memoria rispetto alla storia.

Attraverso questa consapevolezza si possono raggiungere gli obiettivi che il Salone del Restauro profila: fornire scenari e prospettive per il terzo millennio, inquadrare le sfide e le opportunità della contemporaneità per il nostro patrimonio culturale ed evolvere come fulcro di una hub internazionale nella quale confluiscano esperienze, quesiti e soluzioni da ogni latitudine da elaborare e mettere a sistema sulla scia metodologico-operativa che ha reso il restauro italiano un punto di riferimento universale.

THEMA 15

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Paolo Lagazzi. Saggista e scrittore, è nato a Parma nel 1949 e abita da anni tra Milano e Pescara. Si è occupato di letteratura antica e moderna, occidentale e orientale, e di buddhismo, magia, musica, cinema e arte. Ha collaborato e collabora a molte fra le più note riviste letterarie e di cultura italiane e straniere e a diversi quotidiani, in particolare “Avvenire”. Ha scritto e curato libri per numerosi editori (Garzanti, Guanda, Rizzoli, Mondadori, Archinto, Passigli, Corbaccio, La Nuova Italia, Aragno, Moretti & Vitali, Diabasis, La Vita Felice, InternoPoesia, CartaCanta, Editing, ecc.). Nel 2017 ha ricevuto presso il Gabinetto Viesseux di Firenze il premio “Montale Fuori Casa” per la sua opera di scrittore e saggista.Diversi suoi testi sono tradotti in inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese e giapponese. Fa parte del Comitato direttivo dell’Accademia Mondiale della Poesia di Verona. Francesco Finocchiaro. AArchitetto, dottore di ricerca in progetto architettonico e analisi urbana. Vitruviano, credente, appassionato di antropologia culturale e di storia delle religioni. Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Ha pubblicato studi e ricerche sull’architettura, sul paesaggio e sulla storia delle città, realizzando opere di architettura e design, pubblicate in riviste e saggi; nonché vincitore di concorsi di architettura. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, Pablo Neruda, Paul Valéry e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor. Vive alle pendici dell’Etna nella città di Hybla Major (Paternò, CT)).

Francesco Miraglia. Architetto, giornalista pubblicista, Ph. D., già Ispettore Onorario MiBAC, già professore a contratto di Caratteri costruttivi dell’edilizia storica (II Università di Napoli). Attualmente è Cultore della Materia presso il Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale dell’Università di Salerno in Disegno, Restauro e Storia dell’Architettura.

Luigi Monzo. PhD, architetto e storico dell'architettura, lavora nell'amministrazione tecnica della pubblica edilizia del Land Baden-Wuerttemberg (Germania). Insegna Storia e Teoria dell’architettura moderna oltre che Composizione architettonica in varie università di lingua tedesca. Nel 2021 è uscito il suo libro sull’edilizia sacra italiana nel periodo fascista: Croci e fasci. Der italienische Kirchenbau in der Zeit des Faschismus. Insieme a Carmen Enss ha pubblicato Townscapes in Transition. Transformation and Reorganization of Italian Cities and Their Architecture in the Interwar Period (2019).

Lorenzo Grieco. Ha conseguito il dottorato in Ingegneria Civile presso l’Università di Roma Tor Vergata e in Architettura presso l’Università di Kent, Canterbury, Regno Unito. Si occupa di storia dell’architettura. Il suo campo di ricerca spazia dall’architettura di regime all’architettura sacra del secondo dopoguerra, dalla storia della costruzione a quella della fotografia d’architettura. Attualmente ricopre il ruolo di assegnista di ricerca presso l’Università di Roma Tor Vergata, contribuendo a un progetto sulla transizione digitale applicata al patrimonio costruito.

Giuliana Quattrone. Architetto, Dottore di ricerca in Pianificazione Territoriale e Prima Ricercatrice in Urbanistica, Docente di Strategie per la Valorizzazione dei Beni culturali, è autrice di vari libri e saggi sulla valorizzazione delle strutture ecclesiali tra cui: “La chiesa nella città moderna. Architettura, arte e progetto urbano”, 2007, edizioni Franco Angeli “I luoghi della fede e gli itinerari dell’arte” 2009 edizioni Città del sole, “Planning religious tourist routes for the development of Calabria territory”, 2012 edizioni Esperidi,“Strutture religiose storiche quali testimonianze identitarie sul territorio per la riorganizzazione territoriale e la promozione turística” 2019 in Atti del XXXII Congresso geografico italiano.

Guido Schlimbach. Ha studiato teologia cattolica a Bonn e Vienna e servizi sociali a Colonia. Dal 2000 lavora come teologo e mediatore d'arte ed è un apprezzato interlocutore nel dialogo tra fede e arte. Oltre alla sua attività di direttore artistico della

Kunst-Station Sankt Peter di Colonia, è curatore di mostre e conferenziere. Nel 2009 ha conseguito il dottorato in teologia.

Dal 2011 è docente di liturgia cattolica all'Istituto di Musica Sacra della Robert Schumann Hochschule di Düsseldorf e dal 2022 è docente di Arte Cristiana presso la Hochschule für Philosophie und Theologie Sankt Georgen di Francoforte.

Eliseba De Leonardis. Lavora nel Ministero della Cultura dal 1999 e dal 2019 è funzionario restauratore, in servizio dapprima presso la Soprintendenza per le province di Chieti e Pescara e ora presso la Direzione regionale Musei Veneto. Si è diplomata in restauro dei beni culturali alla Scuola di restauro di Botticino (1998) ed ha conseguito la laurea in Storia dell’Arte presso l’Università di Bologna (2008), con una tesi su due artisti di ambito trevigiano del ‘500 dal titolo Francesco Beccaruzzi e Ludovico Fiumicelli: un difficile sodalizio. Ha svolto la professione di restauratrice di beni culturali fino al 2010 e da tempo si occupa di conservazione e restauro dei beni culturali nel Ministero della Cultura, in particolare nell’ambito del patrimonio storico-artistico..

Aldo Giorgio Pezzi. Dal 2010 é funzionario architetto del Ministero della Cultura, ora in servizio alla Soprintendenza per le province di Chieti e Pescara. Si è laureato in Architettura a Pescara (1998) dove ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia dell'Architettura e del Restauro (2004) pubblicando la sua tesi nel volume “Tutela e restauro in Abruzzo”. Presso la Facoltà di Architettura di Pescara è stato dal 2004 al 2010 prima Ricercatore e poi Professore Incaricato di Teoria e Storia del Restauro. Tutor e docente in diversi master universitari, coordinatore scientifico e relatore in svariati convegni nazionali ed internazionali in materia di conservazione, restauro e valorizzazione dei beni culturali, ha al suo attivo svariate pubblicazioni sugli stessi argomenti. Nel 2017 è stato Direttore delegato della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio dell’Abruzzo.

Stefano Cecamore. Ricercatore a tempo determinato (S.S.D. ICAR/19), docente di Disegno e Storia dell'Arte e Dottore di

Ricerca in Storia, Conservazione e Rappresentazione dell’Architettura (XXVII ciclo), svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Architettura dell’Ateneo ‘Gabriele d’Annunzio’ di Chieti-Pescara e collabora con il MIC attraverso studi relativi alla conservazione del patrimonio storico-culturale e dell’architettura moderna e contemporanea, alle tecniche costruttive tradizionali e alle ricostruzioni post-simiche e post-belliche.

Luca Maria Cristini. Architetto, si laurea a Firenze e ha un master in Storia e Restauro alla facoltà di Architettura di Ascoli Piceno. Nel 2000 è abilitato per il ruolo di funzionario Architetto nel MiC, ma sceglie la libera professione occupandosi di restauro di edifici storici, riqualificazione urbana e allestimenti. E’ stato docente all’Istituto di Restauro delle Marche presso l’Accademia BB.AA. di Macerata e Direttore dell’Ufficio BB.CC. dell’Arcidiocesi di Camerino – San Severino Marche, approfondendo la propria formazione specifica sugli interventi negli spazi liturgici in corsi organizzati da Cei e Istituto Santa Giustina di Padova. È giornalista pubblicista.

Ignacio Rubiño, Pura García Márquez, Luis Rubiño. Laureati in architettura presso l'ETSA di Siviglia e lavorano insieme dal 1986. Ignacio è stato Professore di Progettazione Architettonica all'ETSA di Siviglia, alla Facoltà di Architettura di Bologna e all'Accademia di Architettura di Mendrisio. Pura è stata Professoressa di Progettazione Architettonica all'ETSA di Siviglia e Architetto della Direzione Generale dei Beni Culturali e dell'Istituto Andaluso del Patrimonio Storico. Luis è Professore di Progettazione Architettonica all'ETSA di Siviglia e tiene un Master in Architettura e Patrimonio Storico presso la stessa Università. Loro lavori sono stati riconosciuti con i Premi FAD e i Premi Europei di Architettura Mies Van Der Rohe ed esposti nella Biennale di Architettura di Venezia, Biennale di Architettura Spagnola e Biennale Iberoamericana, nonché nel Padiglione spagnolo alle Esposizioni Universali di Hannover (2000) e di Aichi (2005) e pubblicati su riviste nazionali e internazionali.

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