www.themaprogetto.it ISSN 2384-8413
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Alejandro Beautell - Martin Bethenod - Andrea Dall’Asta - Gaetano Ginex Andrea Jasci Cimini - Sergio Massironi - Francesco Menegato Alessia Panepucci - Giuliana Quattrone - Claudia Sanna
THEMA RIVISTA DEI BENI CULTURALI ECCLESIASTICI
THEMA RIVISTA DEI BENI CULTURALI ECCLESIASTICI
THEMA 14|23 2023 periodico semestrale Pubblicazione registrata presso il Tribunale di Pescara, con autorizzazione del 15/6/2011, registro di stampa 10/2011 ISSN 2384-8413 Editore
Centro Studi Architettura e Liturgia via della Liberazione 1, Montesilvano (Pe) Direttore Responsabile
Francesca Rapini
pg.
1.
Editoriale
3.
L’isola di Corsica Uno scrigno di tesori del romanico
Redazione
via della Liberazione 1, Montesilvano (Pe) Stefano Agresti, Michela Beatrice Ferri, Stefania Gruosso, Sergio Massironi, Giuliana Quattrone, Paola Renzetti Comitato Scientifico
Luigi Bartolomei, Goffredo Boselli, Fabrizio Capanni, Andrea Dall’Asta, Esteban Fernández-Cobián, Antonio de Grandis, Renato Laganà, Andrea Longhi, Giuseppe Pellitteri, Claudio Varagnoli Corrispondenti
Andrea Jasci Cimini (Svizzera), Luigi Monzo ( Germania) Progetto grafico e impaginazione
Mauro Forte
Sergio Massironi
Claudia Sanna
9.
La bellezza angelica di un velario Andrea Dall’Asta
15. Il patrimonio Unesco delle chiese in legno della regione dei carpazi Giuliana Quattrone
27. Spiritualità accessibili. Due interventi di recupero nel complesso della cattedrale di Sora
Giuseppe Di Eleonora Amministrazione
Alessandro Amicantonio, Luca Litterio Credits & Copyrights
Legge 22 aprile 1941, n. 633
Art. 70 1. Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l’utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali. [...] 3. Il riassunto, la citazione o la riproduzione debbono essere sempre accompagnati dalla menzione del titolo dell’opera, dei nomi dell’autore, dell’editore e, se si tratti di traduzione, del traduttore, qualora tali indicazioni figurino sull’opera riprodotta.
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Dove non esplicitamente indicato negli articoli, il materiale fotografico è di proprietà dell'autore del testo o scaricabile liberamente da internet. www.themaprogetto.it themaes.editore@gmail.com
Alessia Panepucci
35. Chiesa ad Alcalá. Tenerife, Canarie Alejandro Beautell
43. Lina Bo Bardi e l’architettura sacra Andrea Jasci Cimini - Renato Anelli
47. Due architetture per guardare avanti Zlatko Ugljen a Visoko e a Zabilje, Bosnia Erzegovina Sergio Massironi
53. Aldo van Eyck e lo spazio del tempio Gaetano Ginex
In copertina
Chiesa ad Alcalá - Tenerife, Canarie - Foto Flavio Dorta
61. Ronan Bouroullec. Chapelle Saint Michel de Brasparts Martin Bethenod
Con il contributo di
67. Rubriche Esperienze a T(h)ema Francesco Menegato
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Hanno collaborato
Editoriale
Editoriale Sergio Massironi
SPAZI INDICIBILI, PERCHÉ UMANI In uno degli incontri pubblici con Mario Botta lo scorso anno, il grande architetto aveva tra le mani una citazione del suo maestro Le Corbusier. Alla fine della serata mi lasciò il foglio degli appunti, che ho conservato con affetto principalmente per la potenza di queste frasi: «Le Corbusier parla di uno spazio di confronto con l’infinito, con lo spazio “indicibile”, dove per l’uomo “è ora di lasciare riaffiorare un’intuizione memore di esperienze acquisite, assimilate, forse dimenticate e riemerse in forma incosciente. Lo spazio è dentro di noi, l’opera può evocarlo ed esso può rivelarsi a coloro che lo meritano, a chi entra in sintonia con il mondo creato dell’opera, un vero altro mondo. Si spalanca allora un’immensa profondità che cancella i muri, scaccia le presenze contingenti, compie il miracolo dello spazio indicibile”». Si tratta di un susseguirsi di folgoranti intuizioni e mi pare che Thema 14 le sviluppi, declinando geograficamente e storicamente l’umana esperienza di «spazi indicibili». Trovo quest’ultima espressione un modo laico e ispirato di dire oggi il Sacro. Esso non si esaurisce nelle regole delle costruzioni o del culto, ma sempre attiva il riaffiorare di ciò che il quotidiano nega o lascia sommerso. Nell’orizzonte cristiano dell’incarnazione ciò significa, poi, non tradire le cose di ogni giorno, ma riceverle nella loro profondità: c’è di più, c’è dell’altro. Una rivista non concentrata su una sola epoca storica, né su un unico ambito culturale, più facilmente restituisce l’ariosità di quest’avventura, antica quanto l’umanità. Dal romanico in Corsica, all’imponente testimonianza delle chiese in legno dei Carpazi, riaffiorano «memorie acquisite, assimilate, forse dimenticate» ed entrano in dialogo con istanze contemporanee di pace, quelle delle architetture di Ugljen in Bosnia, di bellezza, in un angelico velario e nel rinnovamento di una cappella bretone, di inclusione, negli interventi per facilitare l’accessibilità al complesso della cattedrale di Sora. Sono sorti nel secolo scorso - è il caso dell’opera di Van Eyck - luoghi di preghiera capaci di parlare a quello spazio che «è dentro di noi», ma proprio nel Novecento l’ingresso delle donne in architettura - in questo numero l’attenzione va a Lina Bo Bardi - ha intercettato, a questo riguardo, ulteriori strati dell’umano sentire. Antico e nuovo sembrano volersi combinare nella chiesa di Nuestra Senora de Candelaria ad Alcala’, a suggerire quanta delicatezza, quanto equilibrio, quanta audacia occorrano allo spirito per disporsi verso ciò che si rivela. «Può rivelarsi a coloro che lo meritano», suggeriva Le Corbusier, non certo nell’accezione competitiva con cui oggi si evoca il merito. C’è, piuttosto, una disciplina interiore che prepara l’incontro. Si tratta della sapienza che in ogni epoca una generazione trasmette all’altra. Si rende per ciò stesso interessante la rubrica con cui Thema 14 dà la parola a una vicenda professionale, parabola in prima persona che sollecita ogni lettore a coltivare la propria prospettiva. Nessuno, infatti, può essere un altro, né tanto meno venire toccato dal Mistero senza essere soltanto se stesso. Noi apriamo porte e finestre, affinché una casa non sia una tomba. Le apriamo, però, in quei muri senza i quali non c’è perimetro, né luogo, in cui si possano combinare desiderio di intimità e di infinito. Lo stesso, soltanto più radicalmente, avviene dove una comunità si raduna a celebrare la propria possibilità di abitare lo «spazio indicibile» della vita. Allora il costruire diviene, ogni volta, comune impresa e sorpresa. Lì, infatti, la luce, le soglie, i muri, il perimetro, la trasparenza, la gravità, nel momento stesso in cui sono, scompaiono. 1. Chiesa di S.Giovanni Battista a Mogno, Ticino, Svizzera - Foto Sergio Massironi
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L’ISOLA DI CORSICA.
UNO SCRIGNO DI TESORI DEL ROMANICO Claudia Sanna
Nel 1967 viene pubblicata una monumentale opera monografica sull’architettura romanica in Corsica, Les Églises Romanes de Corse1; al suo interno sono censite più di duecento chiese medievali datate tra l’XI e la fine del XIII sec, periodo a partire dal quale prima Pisa e poi Genova legano, per oltre cinque secoli, la storia di quella “montagna in mezzo al mare” che è l’isola corsa a quella della terraferma2. La condizione di insularità ha inevitabilmente determinato che le innovazioni, anche in campo artistico, siano pervenute via mare attraverso le rotte e i commerci che l’isola ha intrattenuto con il Continente, passando per i porti di Toscana, Liguria e della vicina Sardegna. Un contesto prettamente rurale e la rarefazione degli insediamenti hanno poi preservato molti di questi edifici da modifiche e restauri, facendoli giungere sino a noi sostanzialmente integri. Gli edifici romanici edificati in Corsica all’alba dell’anno Mille, come ad esempio Santa Mariona pieve di Talcini3, a Corte, San Giovanni Battista di Venaco o la chiesa dei Santi Pietro e Paolo di Lumio mostrano una forte assonanza con quelli contemporanei della Penisola. La correlazione si fa lampante con l’edificazione della prima grande cattedrale dedicata a Santa Maria Assunta, conosciuta come La Canonica (Mariana, Haute-Corse); la sua costruzione nel 1119 a sancisce il passaggio del clero corso a quello pisano: da questo momento in poi la costruzione di chiese romaniche subisce una forte spinta a causa della riorganizzazione ecclesiastica del territorio in diocesi e pievi4 per cui i modelli saranno dichiaratamente ispirati alle costruzioni d’oltremare. Poco dopo (ante 1144) viene eretta la chiesa di Santa Maria Assunta (Saint-Florent), cattedrale del Nebbio. Molto simili per schema generale e dimensioni, i due edifici hanno come riferimento diretto alcune chiese pisane, come quelle di San Sisto e San Frediano, senza dimenticare il ruolo giocato dalla fabbrica busketiana del Duomo (10641118), punto di svolta imprescindibile per le opere successive. Le due cattedrali costituiscono i maggiori edifici del romanico corso; le restanti fabbriche dell’isola, costituite per la maggior parte da pievi, si presentano di modeste dimensioni, mononavate e con abside orientata, ma continuano ad avere come modello gli edifici di Pisa e della Toscana, declinati in 1
Geneviève Moracchini-Mazel, Les Églises Romanes de Corse, I-II, Paris, C.Klincksieck, 1967, con schede per ogni edificio; Moracchini-Mazel ha dedicato la sua vita allo studio e alla divulgazione dell’archeologia e della storia dell’arte della Corsica mediavale; a tale proposito si vedano le sue opere: Geneviève. Moracchini-Mazel, Corse romane, La-Pierre-qui-vire, Zodiacque, 1972; Geneviève Moracchini-Mazel, Corsica Sacra, I, IVe-Xe siècles, Portovecchio, A Stamperia, 2004.Per gli studi più recenti sul romanico in Corsica si veda Roberto Coroneo, Chiese romaniche della Corsica, Architettura e Scultura (XI-XIII secolo), Cagliari, Edizioni AV, 2006.
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Paul Arrighi, Francis Pomponi, Histoire de la Corse, Paris, Presse Universitaire de France, 1967.
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La chiesa, situata a pochi km dall’abitato di Corte è uno dei soli tre edifici corsi che si presentano con due absidi affiancate. Per un approfondimento sul tema si segnala il lavoro di Paola Obinu, “Le chiese medioevali a due absidi della Corsica e della Sardegna: contributo allo studio del tipo”, in Studi Sardi, XXXII 1999, pp. 221-228.
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Per una visione d’insieme sulla storia ecclesiastica dell’isola cfr. S. Casanova, Histoire de l’Église corse, tome I: Des origines à la révolte de 1729, Zicavo, 1931.
1. Murato: San Michele. Facciata con torre campanaria - Foto C. Sanna
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La condizione di insularità ha inevitabilmente determinato che le innovazioni, anche in campo artistico, siano pervenute via mare attraverso le rotte e i commerci che l’isola ha intrattenuto con il Continente.
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2. Corte: Santa Mariona di Talcini. Vista delle absidi dall’interno - Foto C. Sanna 3. Corte: Santa Mariona di Talcini. Vista delle absidi dall’esterno - Foto C. Sanna 4. Venaco: San Giovanni Battista. Veduta di insieme con battistero - Foto C. Sanna 5. Venaco: San Giovanni Battista. Abside Foto C. Sanna 6. Lumio: SS. Pietro e Paolo. Particolare del portale con leoni - Foto C. Sanna 7. Lumio: SS. Pietro e Paolo. Abside - Foto C. Sanna In questa pagina
8. Mariana: La Canonica. Facciata e fianco sud - Foto C. Sanna 9. Mariana: La Canonica. Interno - Foto C. Sanna
una maniera locale sobria, a tratti misera per l’endemica povertà di materiali da costruzione. Tra queste (prima metà del XII sec.) un gruppo di chiese si evidenzia per severità e chiarezza formale, dovuta alla perfezione del taglio e della messa in opera delle murature, il cui unico decoro è costituito dall’archeggiatura nei terminali delle due facciate e nell’abside. Capofila è la chiesa di San Giovanni Battista a Grossa, la cui facciata è però movimentata dalla presenza di oculo e losanghe gradonati nell’ordine inferiore, e da archetti impostati su lesene sotto gli spioventi del frontone. Più semplici ma cronologicamente coeve sono San Giovanni di Carbini, San Giovanni Battista a Poggio di Tallano, Santa Maria Assunta a Santa-MariaFiganiella, tutte localizzate nella Corsica sud-occidentale. La seconda metà del XII sec. è caratterizzata dall’uso dell’opera bicroma, in sincronia con quanto accade nelle chiese di Pisa, Lucca e Pistoia. L’opera bicroma consiste nell’alternanza più o meno regolare di conci o filari di pietre di qualità o tonalità diversa, per creare effetti di colore e movimento e sottolineare le singole parti strutturali e decorative dell’edificio. In Corsica sono tre le chiese bicrome di una certa rilevanza: la Trinità, pieve di Aregno, San Ranieri a Montemaggiore e la chiesa di San Michele di Murato. Le chiese di Murato e Aregno si distinguono, inoltre, per la presenza di pezzi scolpiti con figure antropomorfe, geometriche o floreali, crochets, teste umane e di animali reali o fantastici, sia in facciata che nelle mensole su cui poggiano gli archetti che corrono lungo i terminali delle navate e dell’abside, ma anche nei davanzali delle monofore; un’esuberanza decorativa che contrasta con la sobrietà delle altre fabbriche romaniche dell’isola. Tra la fine del XII sec. e il XIII chiese e cappelle corse continuano a mostrare i caratteri del romanico maturo, presentati tuttavia in modo freddo e ripetitivo, avendo perduto le maestranze in vigore e scioltezza; le proporzioni degli edifici si fanno più tozze e anche la stereometria perde di armonia. Tra i duecento edifici romanici della Corsica, uno in particolare spicca per il vivace colorismo e la singolare architettura: isolata a un chilometro dall’ingresso del villaggio di Murato (Haute-Corse), la chiesa romanica di San Michele5 si offre improvvisa all’osservatore in una visione spettacolare su un promontorio panoramico che domina il Golfo di Saint-Florent. Oltre che per la policromia e la caratteristica torre di facciata, si contraddistingue per un’abbondanza di elementi scultorei che non ha pari in nessun altro edificio romanico dell’isola. 5
Geneviève Moracchini-Mazel, Les Églises (cit.), pp. 132-140, 260; Roberto Coroneo, Chiese romaniche (cit.) pp. 142-145, 154-156; Claudia Sanna, “La iglesia románica de San Michele de Murato en Córcega: hipótesis de restitución del campanario de fachada por la documentación histórica y gráfica anterior a la restauración”, in Miscelánea Medieval Murciana, n. 35 (2011): pp. 225-238. Murcia; Claudia Sanna, “La chiesa romanica di San Michele di Murato in Corsica: ipotesi di restituzione del campanile di facciata”, in Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Cagliari, N. S., vol. 65, 2011, pp. 49-78.
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6 10. Carbini: San Giovanni. Facciata - Foto C. Sanna 11. Carbini: San Giovanni. Abside e torre campanaria - Foto C. Sanna 12. Santa-Maria-Figaniella: Santa Maria Assunta. Facciata - Foto C. Sanna 13. Santa-Maria-Figaniella: Santa Maria Assunta. Particolare delle mensole decorate - Foto C. Sanna
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14. Aregno: SS. Trinità- Facciata- Foto C. Sanna 15. Aregno: SS. Trinità. Farticolare della decorazione in facciata. F- Foto C. Sanna 16. Aregno: SS. Trinità Abside. - Foto C. Sanna 17. Murato: San Michele. Abside. - Foto C. Sanna 18. Murato: San Michele. Monofora del fianco Nord con Tentazione di Eva e Cacciata dal Paradiso terrestre. - Foto C. Sanna 19. Murato: San Michele. Fianco Sud con Croce e Salvatore. - Foto C. Sanna
L’apparato decorativo medievale non possiede solo la funzione decorativa, ma ha anche e soprattutto la finalità di educare e ammonire alla devozione e al rispetto della Parola di Dio. Per quanto riguarda il San Michele appare chiara l’esistenza di un programma ben preciso6, un testo di pietra diviso in capitoli che, quasi come un percorso iniziatico, porta il fedele dalla soglia a Ovest, in cui campeggiano le due figure di Adamo ed Eva, peccatori per eccellenza, attraverso i due prospetti laterali, quello a Nord caratterizzato dalla scena della Cacciata dei Progenitori dall’Eden, opposto a quello meridionale, in cui appaiono la pianta di vite, chiaro simbolo del sacrificio del Cristo e il volto dello stesso Salvatore, fino all’abside posta a Est, il punto in cui sorge il Sole, in un passaggio dal buio alla luce, dal tramonto della morte all’alba di resurrezione, dalla caduta nel peccato alla redenzione dell’anima. 6
Claudia Sanna, “Caduta e Redenzione: il ciclo scultoreo della chiesa di San Michele di Murato in Corsica”, in III Ciclo di Studi Medievali, Atti del Convegno, Firenze, 8-10 settembre 2017, pp. 84-97.
LA BELLEZZA ANGELICA DI UN VELARIO Andrea Dall’Asta
Nelle nostre città storiche siamo abituati a imbatterci in cantieri di restauro. Vediamo allora l’edificio che deve essere restaurato impacchettato, rinchiuso, ingabbiato. Imprigionato. L’involucro esterno non offre alcuna informazione sull’interno. Per il tempo del restauro, l’edificio è sottratto alla vista dei cittadini, presentandosi rinchiuso in se stesso, come una sorta di fortezza impossibile da espugnare. Il caso del restauro del Palazzo Vescovile di Ferrara è stato presentato invece in modo alquanto diverso: un maxi telone realizzato da Lorenzo Cutùli, artista e scenografo ferrarese di fama internazionale, ha coperto infatti il ponteggio allestito sui due lati dell’Arcivescovado. È un omaggio al cardinale Tommaso Ruffo, Vescovo di Ferrara dal 1717 al 1738, che fece completare il Palazzo vescovile, trasformando un agglomerato confuso di modeste abitazioni in un edificio solenne e monumentale. In occasione del cantiere di restauro il telone di copertura, stampato su un materiale plastico traforato, si presenta con un forte impatto scenografico e s’inserisce nel solco già tracciato di precedenti teloni di copertura già progettati dallo stesso autore per il Teatro Comunale C. Abbado e per la Cattedrale estense. La copertura è molto ampia e, come in un abbraccio, si dispiega su entrambe le facciate del palazzo - quella principale di Corso Martiri della Libertà e quella più ristretta di Piazza della Cattedrale. La novità di questo intervento consiste soprattutto nel fatto che il telo non si presenta come un volume chiuso, ma appare concepito nell’intento di creare una quinta scenografica di grande effetto teatrale. Lorenzo Cutùli non interviene infatti con opere che, nascondendo i lavori in corso, risultano decontestualizzate, come accade spesso quando si affida progetti di questo tipo a un artista. Cutùli preferisce invece interpretare l’edificio in maniera originale. Crea infatti una raffinata narrazione visiva, evocando soprattutto dettagli architettonici scelti all’interno dell’edificio, in un gioco di apparizione-rivelazione, in una sorta di dialettica velamento/svelamento. In questo modo, si concentra sul maestoso e scenografico scalone d’onore che porta al piano nobile, sulla decorazione scultorea dell’oculo del soffitto. Il carattere scenografico del telone si amplifica con le decorazioni settecentesche dei grandi saloni del Palazzo, grazie a citazioni di dettagli degli affreschi dei soffitti. Si tratta dunque di un vero e proprio dialogo tra interno ed esterno, tra il nostro tempo presente e un passato che deve essere conservato e valorizzato. Questo grande velario bianco, che funge da sipario «aperto», permette in questo modo di sbirciare ciò che si preparerà nella visita dell’interno del palazzo. La cromia prevalente è quella del bianco nelle sue varie tonalità. I colori chiari che emergono soprattutto nelle tonalità del giallo e dell’azzurro, suggeriscono un profondo senso di levitazione e di leggerezza. Tutto deve suggerire la sensazione di candore. È un intervento molto articolato e come dice lo stesso autore integra anche Pagina precedente e successive
1/5. Foto Lorenzo Cutuli
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In occasione del cantiere di restauro il telone di copertura... si presenta con un forte impatto scenografico e s’inserisce nel solco già tracciato di precedenti teloni di copertura già progettati dallo stesso autore
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Cutùli preferisce invece interpretare l’edificio in maniera originale. Crea infatti una raffinata narrazione visiva, evocando soprattutto dettagli
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6. Bozzetto del telone per il palazzo Arcivescovile di Ferrara, Lorenzo Cutuli.
architettonici scelti all’interno dell’edificio, in un gioco di apparizionerivelazione, in una sorta di dialettica velamento/svelamento
diversi elementi tratti da altri monumenti della città di Ferrara: «Sono partito, per il soggetto e per i colori, da un’idea angelica, dove l’edificio è protagonista soprattutto nelle sue decorazioni interne, nelle lesene, negli stucchi e nella parte superiore del grande portale d’ingresso, con la balaustra e la grande finestra incorniciata da motivi decorativi a rocaille. Su entrambi i teloni ho poi realizzato una grande allegoria di mani, mani gigantesche che sorreggono parti del palazzo, elementi simbolici a rappresentare le mani dei primi operai che costruirono l’edificio. Ma non solo: lo accudiscono e lo curano, oltre a essere giunte in preghiera. Sono, insomma, anche mani votive, devote, in parte riprese da alcuni dettagli della scultura funeraria della Certosa. In particolare, sul telone di Corso Martiri, oltre alle mani votive, vi sono riferimenti ad angeli guardiani e alle acquasantiere del vicino Duomo. E ancora, nel lato sinistro dello stesso, è rappresentato la Madonna della Melograna di Jacopo della Quercia. Nel lato su piazza Duomo, invece, troneggia la grande statua di Atena, a sormontare lo scalone principale, affiancata da un altro grande angelo, che scrive la dedicatoria del palazzo del cardinal Ruffo. Poi, come pietra angolare, come fuga prospettica, ad angolo tra la via e la piazza vi è il ritratto dello stesso Ruffo, visto, però, come effige scenografica, attraverso un trionfo di angeli musicanti. Mentre nella parte inferiore si intravvede anche la Cattedrale, le grandi mani sono svelate da grandi drappi bian-
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chi, quasi dei sipari scenografici, che “disvelano” l’apparizione delle stesse mani»1. Ogni intervento di restauro è sempre particolarmente delicato. Lorenzo Cutùli ha voluto intervenire in maniera sobria, elegante, armonica.
Soprattutto, ha cercato di mettere in scena come il nostro passato possa continuare a nobilitare le nostre città e sia sorgente inesauribile di senso. Carlo Levi diceva che il futuro ha un cuore antico. Non ci può essere futuro senza attingere alla potenza generativa della tradizione. Questo splendido velario si presenta come una tangibile testimonianza della continuità tra passato e presente: il passato anima il futuro e la conservazione è in primo luogo un dovere affinché le generazioni che ci seguiranno potranno fare memoria della bellezza che li ha preceduti. 1
Tratto da: La Voce di ferrare Comacchio, a cura di Andrea Musacci, venerdì 4 giugno 2022.
IL PATRIMONIO UNESCO DELLE CHIESE IN LEGNO DELLA REGIONE DEI CARPAZI Giuliana Quattrone
Nell’Europa orientale esistono ancora circa 4.000 chiese in legno di cui oltre 2.000 delle quali solo nei Carpazi. Le chiese in legno dei Carpazi rappresentano un importante patrimonio ecclesiale per le comunità cristiane di queste regioni, che le hanno utilizzate come luoghi di culto e di preghiera per secoli, oltre ad avere un valore più ampio, in quanto rappresentano un patrimonio culturale e storico per l’intera umanità. Sono tutte molto diverse in termini di forme e costruzioni e sono manufatti di grande valore dal punto di vista architettonico, artistico e della conservazione dei monumenti. Un totale di 16 chiese in legno è entrato nella lista del patrimonio mondiale dell’UNESCO nel 2013: si tratta di 8 chiese in legno (tserkvas) della regione dei Carpazi che si trovano in Ucraina (4 si trovano nella regione di Leopoli, 2 in Transcarpazia e 2 nella regione di Ivano-Frankivsk) e 8 chiese a pochi chilometri di distanza, oltre il confine della Ucraina che si trovano nei Carpazi polacchi (nel paese collinare di Roztocze e nei Monti Precarpazi, nell’estremo sud-est della Polonia). Insieme formano un patrimonio culturale secolare di questa regione rurale di confine tra slavi occidentali e orientali, tra cattolicesimo, ortodossia ed ebraismo. Queste chiese hanno più di 300 anni, la più antica delle quali, infatti, risale al 1502-1600. Secondo l’UNESCO, questo patrimonio incarna l’espressione culturale di quattro gruppi etnografici, ma anche i cambiamenti formali, decorativi e tecnici adottati nel tempo. Gli “tsverkvas” testimoniano una tradizione costruttiva distinta, radicata nella tradizione ecclesiastica della Chiesa ortodossa, intrecciata con elementi del linguaggio e della tradizione architettonica locale e con riferimenti simbolici alla cosmogonia delle loro comunità. Le strutture architettoniche, i disegni e i motivi decorativi sono caratteristici delle tradizioni culturali delle comunità locali della regione dei Carpazi e illustrano una molteplicità di riferimenti simbolici e significati sacri legati alle tradizioni. Le forme architettoniche delle tserkvas, con la loro pianta in tre parti, cupole piramidali, cappelle che si aprono su uno spazio quadrilatero o ottagonale, campanili in legno, iconostasi, decorazioni interne policrome, nonché recinti parrocchiali, logge e tombe, rispettano le esigenze della liturgia orientale pur riflettendo le tradizioni culturali delle comunità locali. 1. Chiesa della Santissima Trinità nel sobborgo di Zhovkva
Un patrimonio che rischia di sparire Le chiese di legno hanno modellato il paesaggio dell’Ucraina occidentale e della Polonia sud-orientale per secoli. Purtroppo, oggi si trovano in vari stadi di degrado, con interventi minimi per quanto riguarda il loro stato di conservazione. Nella maggior parte dei casi, il restauro è stato effettuato come intervento di emergenza, in quanto non esistono programmi nazionali dedicati al restauro di monumenti in situazioni critiche che richiedono un ripristino immediato. Ragion per cui dal 1990 questi oggetti stanno scomparendo gradualmente. Non di rado, vengono distrutti a causa della mancanza di precauzioni di sicurezza; a volte anche dalle comunità dei villaggi in cui insistono vengono smantellate e distrutte. Dall’inizio del 20 ° secolo, i vecchi edifici in legno sono stati sempre più sostituiti da chiese in pietra. Solo in singoli casi i nuovi edifici sacri venivano ancora costruiti in legno. In molti villaggi in cui si trovano le chiese, sono state costruite nuove chiese in pietra per resistere meglio alle condizioni climatiche e geografiche specifiche della zona (ad esempio, le basse temperature nelle stagioni fredde e l’elevata umidità, che creano condizioni favorevoli a gravi danni al legno e allo sviluppo di varie specie di funghi, sia all’esterno che all’interno). All’interno di queste chiese dall’aspetto spesso semplice, il più delle volte, si trovano iconostasi e dipinti murali sorprendentemente magnifici e colorati. Le 16 chiese riconosciute nella lista del patrimonio UNESCO come parte dell’oggetto “Le chiese di legno della regione dei Carpazi in Polonia e Ucraina” si sottraggono col nuovo regime di tutela a questo infausto destino. La possibilità di includere questi monumenti in legno nel patrimonio mondiale dell’UNESCO li colloca tra le strutture più importanti create dall’umanità. È solo un peccato che nonostante le prospettive che si aprono nei rispettivi villaggi in questo caso, invece di causare il restauro della vecchia chiesa, o il restauro della sua copertura, le comunità spesse volte si adoperino per costruire nuove chiese in pietra nelle vicinanze. Probabilmente il problema è dovuto al fatto che nessuno ha mai spiegato alle popolazioni cos’è un monumento architettonico e cosa dovrebbe essere correlato ad esso. Le istituzioni teologiche non prestano attenzione alla storia e alla cultura dell’arte, quindi i sacerdoti non hanno idea del valore delle chiese in cui operano. La maggior parte dei sacerdoti sogna un nuovo grande tempio e sono facilmente pronti a distruggere la piccola vec-
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chia chiesa preesistente ignorando che non si può costruire un tempio migliore con mattoni moderni o metallo-plastica, quindi è importante preservare ciò che i nostri avi ci hanno lasciato.
Le Chiese lignee espressione di una forte identità storico insediativa Queste chiese vanno tutelate perché sono espressione di una forte identità locale. Nei Carpazi, infatti, vivono popolazioni slave orientali che hanno scritto il loro nome nella tradizione dell’architettura in legno. Si tratta dei Ruteni una minoranza etnica che è riuscita a preservare la sua fede, la sua identità, e la sua lingua e ha creato una propria cultura forte e distintiva. I Ruteni o Rusini, sono un gruppo etnico slavo orientale che viene spesso indicato come ucraino ma, storicamente, e secondo gli stessi ruteni, sono un popolo slavo separato, disperso in vari Paesi per volontà del destino. Dopo la seconda guerra mondiale, quasi tutti dovettero lasciare la loro patria, poiché i nuovi governanti li vedevano come sostenitori delle aspirazioni separatiste. Durante l’”Aktion Weichsel” la maggior parte degli abitanti furono reinsediati negli ex territori orientali tedeschi o nell’ex Unione Sovietica. Solo pochi riuscirono a rimanere nella loro vecchia patria, o a tornare dopo pochi anni. Più di tre quarti dei ruteni europei vivono in Ucraina cioè nella regione della Transcarpazia. in Slovacchia i ruteni abitano la regione di Pryaszewski e in Polonia la parte sud orientale del Paese chiamata Lemkowszczyna. Ci sono 12 villaggi rusini a Maramorosha, nella Romania centrale. Ci sono anche villaggi ruteni nell’Ungheria orientale. Nonostante questa dispersione territoriale gli insediamenti ruteni sono tutti uniti dalla fede ortodossa da una comune lingua rutena che presenta una serie di dialetti, legati alla storia e al luogo di residenza e da una comune cultura secolare. Il popolo ruteno si divide in tre sottogruppi etnici: Lemky, Boyky e Hutsul. Queste minoranze rutene hanno creato i capolavori dell’architettura dei templi in legno dei Carpazi che oggi sono inclusi nel patrimonio dell’Unesco. Nel dettaglio includono stili Hutsul nel sud-est dei Carpazi ucraini a Nyzhniy Verbizh e Yasynia; stili Halych nei Carpazi settentrionali su entrambi i lati del confine polacco-ucraino a Rohatyn, Drohobych, Zhovkva, Potelych, Radruż e Chotyniec; stili Boyko su entrambi i lati del confine polacco-ucraino, vicino al confine slovacco, in Smolnik, Uzhok e Matkiv, e stili Lemko occidentali nei Carpazi occidentali polacchi a Powroźnik, Brunary Wyźne, Owczary, Kwiatoń e Turzańsk. Costruiti utilizzando la tecnica dei tronchi disposti orizzontalmente con elaborati assemblaggi angolari e dimostrando abilità di carpenteria e soluzioni strutturali eccezionali, gli tserkvas sono stati costruiti su basi di legno posate su fondamenta di pietra, con scandole di legno che coprono tetti e pareti. I tserkvas e i loro cimiteri associati, così come a volte i campanili indipendenti, sono racchiusi da mura perimetrali o barriere con cancelli e circondati da alberi. L’importanza culturale e storica per le comunità di villaggio delle aree in cui si trovano queste chiese è notevole, data la componente multietnica specifica della regione che comprende piccole comunità ortodosse. Le chiese in legno testimoniano le gravi conseguenze della denazionalizzazione, spesso accompagnata da persecuzioni religiose. Questi interventi abusivi, sia sulla popolazione locale che sulle chiese, hanno fortemen-
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2. Chiesa della Discesa dello Spirito Santo nel villaggio di Rohatyn 3. Chiesa di San Giorgio, nella città di Drohobych In questa pagina
4. Chiesa dell’Ascensione nel villaggio di Yasinya 5. Chiesa della Natività della Beata Vergine Maria nel villaggio di Nizhny Verbizh
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6. Chiesa dello Spirito Santo nel villaggio di Potelich 7. Chiesa della Cattedrale della Beata Vergine Maria nel villaggio di Matkiv 8. Chiesa dell’Arcangelo Michele nel villaggio di Uzhok 9. Chiesa dell'apostolo Giacomo il Giovane nel villaggio di Powróznik
te influenzato la vita comunitaria e la condizione degli edifici ecclesiastici fino ad oggi. Alcuni membri delle comunità religiose hanno addirittura lasciato i rispettivi Paesi o si sono convertiti ad altre confessioni, per cui il dovere di preservare i monumenti è rimasto di competenza della parrocchia o dello Stato (laddove inseriti nei registri). Quindi, da un punto di vista storico, le chiese in legno sono state un modo per le comunità ortodosse della zona di affermare la propria identità etnica e religiosa, mentre da un punto di vista culturale, il valore estetico, architettonico e artistico degli edifici dimostra un’evidente preoccupazione per la costruzione di strutture religiose sostenibili, che segnano la vita spirituale delle comunità praticanti. Attualmente, questi luoghi di culto hanno un valore strettamente patrimoniale e storico, e solo in alcune chiese vengono praticati i riti religiosi specifici del culto (ortodosso o latino). Essendo parte integrante delle comunità contadine, queste chiese hanno una serie di caratteristiche in comune con le case tradizionali: dimensioni simili, materie prime simili (tronchi di legno) e tecniche (come il “blokbau” ovvero l’incastro) che sono state utilizzate per la loro costruzione. La struttura delle chiese in legno comprende: il nartece, la navata e l’altare, disposti sull’asse longitudinale della costruzione a cui, in alcuni casi, si aggiunge il portico. Questi monumenti hanno un’evidente unità architettonica spaziale, in quanto sono spesso piccoli e misurati dall’ingresso al nartece fino all’altare, per cui la chiesa ha generalmente le dimensioni di una casa. L’architettura, le tecniche costruttive e le decorazioni delle chiese in legno sono simili a quelle delle case contadine. La caratteristica principale è rappresentata dallo stile austero degli esterni, in quanto gli edifici erano concepiti per adattarsi alla forma del terreno e al clima della zona.
Le chiese in legno sul territorio ucraino La chiesa della Santissima Trinità nel sobborgo di Zhovkva, fu costruita, nel 1720 al posto di una chiesa bruciata nel 1717. La struttura è composta da tre navate in legno e una sagrestia in mattoni. All’interno c’è un’iconostasi composta da circa 50 icone dipinte dai maestri della scuola di pittura e intaglio di Zhovkva di Ivan Rutkovych all’inizio del XVIII secolo. L’iconostasi è realizzata in legno di tiglio scolpito dal maestro Ignatiy Stobenskyj. Nel 197879 l’iconostasi fu restaurata. La Chiesa della Discesa dello Spirito Santo nel villaggio di Rohatyn è uno dei più antichi templi in legno in Ucraina. Fu costruita all’inizio del XVII secolo anche se è ancora ufficialmente datata al 1598 - questa data è stata trovata all’interno della chiesa sulla parete settentrionale della capanna centrale di tronchi. La chiesa è oggi adibita a museo, con un’importante collezione di icone e mobili del XVI-XIX secolo, provenienti dalle chiese circostanti. Operava nella chiesa una delle prime confraternite ecclesiastiche dell’Ucraina, per mezzo dei cui fondi è stata creata un’iconostasi rinascimentale-barocca unica, risalente al 1650 che è una delle tre più antiche iconostasi dell’Ucraina sopravvissuta fino ai nostri giorni. Nel 1800, la Chiesa dello Spirito Santo di Rohatyn divenne una parrocchia sussidiaria della Natività della Beata Vergine Maria a
Rohatyn. Nel XIX secolo fu aggiunto un campanile alla chiesa. Nel 1885, l’artista Julian Makarevich restaurò l'iconostasi della chiesa. Nel 1895, fu effettuato il restauro del tempio dall'architetto M. Kovalchuk All’inizio del XX secolo, a seguito della riparazione del tetto, la forma della cupola della navata e la forma del tetto dell’altare furono modificate. Nel 1980-1982 furono eseguiti accurati lavori di restauro nella chiesa sotto la guida dell’architetto Ivan Mohytych, e l’anno successivo fu aperta una filiale del Museo d’arte Ivano-Frankivsk all’interno della chiesa. Dal 2004, la Chiesa-Museo fa parte del complesso museale della città di Rohatyn (un ramo del Museo d’arte regionale IvanoFrankivsk), che fu fondato sulla base del museo-monumento della Chiesa dello Spirito Santo. Nel 2006,2007 e 2008 la chiesa ha avuto diversi restauri. Sebbene l’aspetto originale del tempio sia stato in qualche modo cambiato nel XIX secolo dall’aggiunta del campanile, così come dall’istallazione sopra la cima centrale di un ottagono aggiuntivo con una signatura porticata e una tenda ottagonale sottile alla fine, le caratteristiche distintive di questo classico esempio dei più antichi templi di legno ucraini sono rimaste quasi invariate. La base compositiva del monumento è costituita da una monumentale navata quadrupla con capanne esagonali di tronchi dei babiniecs e l’altare, nonché da un campanile a cornice attaccato alla parete occidentale del nartece di forma quadrata. Il campanile a tenda a tre livelli e il volume centrale della chiesa con una cima tetraedica a due aule dominano notevolmente la composizione complessiva della struttura, mentre le stanze basse dei babiniecs e l’altare sotto il tetto a due e cinque falde svolgono un ruolo secondario. Attorno al perimetro della costruzione vi è un ampio baldacchino su staffe arricciate. All’interno del monumento c’è un’iconostasi a cinque livelli, costruita nel 1650 a spese della confraternita Rogatyn. L’iconostasi ha una struttura architettonica equilibrata, magnificamente decorata con intagli ornamentali policromi. Le migliori icone del tempio includono composizioni sulle porte del diacono (“Arcangelo Michele” e “Melchisedec”), icone di Cristo e della Madre di Dio, scene del livello sotterraneo. La chiesa di San Giorgio, nella città di Drohobych, si trova nel sud dell’Oblast di Leopoli, ed è un monumento unico dell’architettura lignea galiziana della fine del XV e dell’inizio del XVI secolo. È uno dei monumenti meglio conservati dell’antica architettura sacra ucraina. La chiesa fu portata a Drohobych dal villaggio carpatico di Nadiiv nel 1656. L’edificio fu installato sul sito della precedente chiesa incendiata. Nel 1678 vi fu costruito accanto un campanile. La chiesa di San Giorgio è stata riparata più volte, ma non ha perso il suo aspetto originale. Oggi la chiesa fa parte del dipartimento di architettura in legno del museo “Drohobychchina”. È una chiesa in tre parti (tre cornici) con una navata principale quadrata e due ali laterali sfaccettate (conchiglie) e capanne di tronchi sfaccettate dell’altare e del portico(babiniec).Il fondo della chiesa è circondato da un’ampia presa sotto forma di una
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10. Chiesa greco-cattolica di San Paraskevi nel villaggio di Kwiaton 11. Chiesa dell'Arcangelo Michele nel villaggio di Brunary Wyzne 12. Chiesa della protezione della Madre di Dio nel villaggio di Owczary 13. Chiesa ortodossa di San Michele Arcangelo nel villaggio di Turzansk
galleria porticata su pilastri. Sopra i babiniecs ci sono cori con una galleria ad arco e la cappella Vvedenska. La chiesa è sormontata sopra le principali stanze di tronchi con tre cime senza pieghe e ali con piccole cime con una piega, il tutto su spogliatoi a otto lati. L’interno della chiesa è decorato con murales, realizzati sotto la direzione dell’artista Stefan Malyar. Oltre alle composizioni religiose che raffigurano la Passione di Cristo, è possibile ammirare un ricco ornamento decorativo, principalmente di natura vegetale.Iconostasi e icone dello stesso pittore sono l’”Acatista della Madonna”, gli “Atti dell’apostolo Paolo”, il “Taglio della testa del Grande Martire Yuri” in scala marrone-ocra e verde oliva. Il rilievo dell’intaglio della vite sulle colonne dell’iconostasi è molto simile all’intaglio sulla pietra. La chiesa dell’Ascensione nel villaggio di Yasinya, è considerata una delle chiese in legno più perfette di tutta la regione Hutsul. Si trova nel distretto di Rakhiv in Transcarpazia e fu costruita alla fine del XVIII secolo ma venne radicalmente ricostruita nel 1824 nello stile della scuola di architettura popolare Hutsul. Nel suo design architettonico, questa chiesa in legno è suddivisa in tre parti, cinque cornici, una cima, con la pianta a forma di croce. La cornice centrale è coronata da una cupola ottagonale a padiglione con una corona decorativa. Case di tronchi laterali più strette confinano con la casa di tronchi centrale quadrata su quattro lati, che sono completati con tetti con timpani e sormontati da piccole cupole. L’altare, i babiniecs e gli orti laterali sono rettangolari e terminano con tetti a capanna. Intorno al perimetro, la chiesa è circondata da un’ampio terreno. Il suo interno si distingue per la sua solennità, qui sono state conservate diverse icone antiche, che sono caratterizzate dall’armonia dei colori e dalla tipologia popolare. In generale, la struttura si distingue per una speciale plasticità e proporzioni armoniche. Ha un perfetto rapporto tra parti laterali e centrali, capanne di tronchi squadrate senza intoppi, tetti di scandole e piccole lanterne sopra di loro. Nelle sue forme architettoniche c’è una combinazione di tranquillità, grandezza e bellezza. Nel 1971, furono eseguiti i primi lavori di restauro nella chiesa. Nel febbraio 2006, la copertura a scandole è stata sostituita con una nuova. Nelle vicinanze, a nord della chiesa c’è un campanile in legno, costruito con legno di abete rosso nel 1813, il suo volume è progettato sotto forma di due livelli, e il tetto e le pareti sono coperti di scandole. Probabilmente, questo campanile fu trasferito qui nel 1895 da una chiesa distrutta da un incendio, che si trovava nella parte settentrionale del villaggio. A differenza della composizione del tempio, la soluzione architettonica del campanile crea una sensazione di continuo movimento verso l’alto. Il suo stipite superiore è decorato con una composizione di una croce e segni solari. Le caratteristiche architettoniche e artistiche del campanile creano uno degli esempi più perfetti di architettura popolare della Transcarpazia. La comunità greco-cattolica, che è stata rianimata a Yasin nell’ottobre 1995, tiene qui le funzioni alternativamente con i cristiani ortodossi. La chiesa della Natività della Beata Vergine Maria nel villaggio di Nizhny Verbizh. Si trova nel distretto di Kolomyia, nella
regione di Ivano-Frankivsk. La costruzione della chiesa iniziò nel 1756 e si protrasse fino al 1808. Si tratta di uno straordinario monumento di architettura sacra e arte monumentale, non tipico di questa regione, né di nessuna parte nelle vicinanze della regione - Pechenizhyn, Kniazhdvori o Kolomyia, e in generale nel territorio della regione di IvanoFrankivsk,dove non ci sono chiese a cinque cupole. Secondo diversi studiosi, la Chiesa della Natività della Vergine nel villaggio di Nizhny Verbizh non appartiene al gruppo tipologico delle strutture in legno Hutsul, ma ripete le forme delle strutture sacre di Podillya a Kiev e Slobozhanshchina. La chiesa ha una struttura battesimale centrale con cinque cupole, poste al centro della croce e agli angoli della croce. Il piano della struttura è formato dall’incrocio di due rettangoli, aventi un completamento sfaccettato in tutti e quattro i lati. L’aspetto delle terminazioni sfaccettate delle architetture di tronchi, così come la transizione della piazza centrale agli otto lati è associato alle influenze sulla costruzione popolare dello stile barocco. La chiesa è a tre livelli. I due livelli inferiori sono costruiti a forma di capanne di tronchi, le torri ottagonali del terzo superiore, sono coperte da cupole di tende con intercettazioni e teste con croci traforate. La torre centrale è leggermente più alta, con quattro finestre rettangolari tagliate nella parte superiore. Le torri laterali hanno anche una piccola finestra rettangolare con una finitura ad arco.L’altezza delle torri è di 11,5 m. L’ingresso centrale è sul lato sud, a causa delle caratteristiche topografiche. Le capanne di tronchi e le torri hanno una notevole pendenza delle pareti verso il centro per aumentare l’altezza delle cime all’interno. L’interno ha un’iconostasi barocca dorata a tre livelli con immagini di alta qualità artistica, nelle torri laterali ci sono lussureggianti altari barocchi in legno realizzati in modo latino con colonne corinzie dorate. Il disegno interno è moderno, tradizionale, realizzato con colori ad olio. Un campanile a quattro lati e a tre livelli costruito con tronchi è stato eretto accanto alla chiesa, con una galleria traforata e una tenda a quattro lati. La forma del campanile è tozza, abbastanza caratteristica della regione di Hutsul e dei territori della zona di confine nel XVII secolo. La chiesa è caratterizzata da una struttura complessa con dimensioni impressionanti, che ha richiesto ingenti fondi per la costruzione. Il design della chiesa e del suo interno riprendono caratteristiche del barocco, come: pieghe sfaccettate in tutti e quattro i rami della struttura, un ampio attico e una cornice profilata nel secondo livello, che contribuiscono ad arricchire gli effetti chiaroscurali; torri ottagonali dell’edificio,ecc. Inoltre vi è un netto restringimento di tutti gli elementi strutturali verso l’alto che conferisce all’edificio sofisticazione e caratteristiche piramidali e porta all’interno l’illusione di leggerezza e apertura ad alta quota degli spazi,.così, all’interno della chiesa, gli spazi fluiscono l’uno nell’altro attraverso le fessure a livello del secondo ordine, simulando ulteriormente gli effetti chiaroscurali. La chiesa dello Spirito Santo nel villaggio di Potelich, fu costruita nel 1502 sul sito della chiesa di Boris e Gleb, che fu bruciata dai tartari. Si tratta della più antica chiesa in legno nella regione di Leopoli. È una chiesa in tre parti, eccezionale monumento di architettura e arte monumentale della scuola galiziana.
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La chiesa è a due piani e ha tre cornici, Nel XVII secolo, fu installata nella chiesa, una nuova iconostasi a due livelli. I murales della chiesa furono realizzati nel 1620-1640. L’icona “Deisus” fu realizzata dal famoso pittore di icone Ivan Rutkovich nel 1683. Nel 1718, la chiesa fu restaurata sotto la direzione del maestro Kazimir Dominikovich. Nel 1736 e nel 1753, lo stesso maestro eseguì successivi restauri, durante i quali furono sostituite le fondamenta e i soffitti sopra l’altare, fu riparato anche l’attico , così come le porte occidentali e meridionali. Altri lavori di restauro furono eseguiti anche nel 1831, 1903 e 1923, durante i quali tutti i tetti ammalorati e il rivestimento delle pareti furono sostituiti con stagno. L’ultimo restauro risale al 1970-1972, durante il quale fu ripristinato l'aspetto originale della chiesa e fu restaurato il murale. Accanto alla chiesa c’è una piazza in legno a pianta campanaria a due ordini di 20 metri, costruita contemporaneamente alla chiesa. Il campanile fu riparato dal maestro Kazimir Dominikovich nel 1736; l’ultimo restauro ebbe luogo nel 1970.
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La Chiesa della Cattedrale della Beata Vergine Maria nel villaggio di Matkiv fu costruita nel 1838 dai maestri Ivan Melnikovich e Vasily Ivanikovich. La chiesa si trova su una bassa collina nella parte centrale del villaggio di Matkiv, poco distante dall’autostrada, nella valle del fiume Stryi. La chiesa che è a tre tronchi, e a tre cupole, appartiene ai templi di tipo Boyko. La composizione architettonica della chiesa è formata da capanne di tronchi quadrate (navate più larghe) che si trovano lungo l’asse ovest-est. Su entrambi i lati dell’altare si trovano piccole sacrestie rettangolari. I volumi principali sono completati da piani a otto lati, sopra la navata sono con cinque pieghe, e sopra l’altare e i babiniecs sono con quattro pieghe, sormontate da cupole con corone e croci. La chiesa ha una chiara forma rettangolare ed è molto alta; è circondata da un attico su sporgenze a gradini di capanne di tronchi, sotto le quali è disposto un portico vetrato nella facciata occidentale. Le pareti di legno, e le pieghe sono rasate verticalmente con tavole e piattabande. A sud-ovest della chiesa si trova un campanile quadrato in legno, a tre livelli, con un balcone sul secondo livello, rivolto verso una piccola piazza di fronte alla facciata meridionale della chiesa. Il campanile che fu costruito nel 1924 dal maestro Mikhail Veklich, è coperto da un tetto a tenda con una galleria a griglia sopra di esso. La chiesa dell’Arcangelo Michele nel villaggio di Uzhok, nel distretto di Velykobereznyansky, nella regione della Transcarpazia, è uno degli edifici più interessanti dello stile Boyko. La chiesa fu costruita dal maestro Pavlo Toniv e dal maestro Ivan Tsyganin nel 1745. Il tempio è a pianta quadrata e si compone di tre case di tronchi quadrate dove la dominante appartiene al centro, la cui parte superiore ha due pieghe quadrate e un completamento della tenda. La chiesa è fatta di travi di abete rosso, ed è coperta di scandole. La casa di tronchi centrale è più ampia di altre case rettangolari di tronchi. Le capanne di tronchi dei volumi centrali e orientali sono coperte da piani di tende con pieghe. A
nord-ovest dell’edificio si trova un campanile in legno a pianta quadrata, a due livelli, coperto da una tenda a quattro falde, costruito nel 1927. I tronchi delle case di tronchi, figurativamente rifiniti su giunti angolari, la pendenza del tetto, la porta d’ingresso con un ampio stipite, la cui parte superiore ha conservato una preziosa iscrizione con i nomi degli autori di quest’opera architettonica sono gli elementi compositivi principali. Esternamente, la chiesa di San Michele che è semplice e senza pretese, priva di decorazioni esterne o dettagli intricati, appare snella ed elegante. L’ampia pendenza della copertura, che copre l’intero edificio, gli conferisce un aspetto compatto e allo stesso tempo crea una transizione organica dall’ambiente alle masse principali del tempio, che crescono sopra la galleria. All’interno della chiesa di San Michele, i maestri costruttori hanno usato il contrasto di luci e ombre. Si passa dalla stanza per le donne bassa e scura alla parte centrale solenne, elegante e illuminata del tempio, che è percepita come molto più grande di quanto non sia in realtà. Questo effetto e l’impressione complessiva è esaltata da una bella iconostasi dorata scolpita, che intensifica la sua doratura per effetto della luce del sole che arriva qui attraverso le finestre della parte superiore. La pittura e le incisioni dell’iconostasi sono piuttosto particolari. Particolarmente importanti sono le porte reali, sulle cui stoffe sono posti due steli simmetrici, e nei riccioli superiori sono raffigurati l'Annunciazione in medaglioni, e in quelli inferiori i quattro evangelisti. La ricchezza decorativa del tempio è arricchita da un passaggio figurativamente tagliato dai babiniecs alla navata, da sculture dell’iconostasi del XVIII secolo, da alcuni frammenti conservati di antiche incisioni, da un bellissimo baldacchino e un kiot . Sfortunatamente, l'interno è significativamente danneggiato perché sono state installate nuove porte d’ingresso, le pareti lisce sono state coperte di cartone, carta e dipinte, tutte le icone sono state ridisegnate, sono stati appesi fiori di plastica, ecc.
Chiese in legno sul territorio polacco La chiesa dell’apostolo Giacomo il Giovane nel villaggio di Powróznik, si trova nel Voivodato di Malopolska, al confine con la Repubblica Slovacca. Oggi la chiesa è cattolica romana e fu costruita intorno al 1600. L’edificio che si sviluppa in tre parti, presenta una torre coronata da una cima a cipolla. All’interno è notevole il dipinto policromo nella sacrestia che risale al 1637 e raffigura scene dell’Antico e del Nuovo Testamento, l’iconostasi barocca è del 17° secolo. La Chiesa di San Giacomo è il più antico esempio dello stile architettonico dei Lemk occidentale. La chiesa greco-cattolica di San Paraskevi nel villaggio di Kwiaton, che oggi funge da chiesa cattolica romana. La chiesa si sviluppa in tre parti ed è datata della seconda metà del 17 ° secolo. Dal punto più alto, la torre, l’edificio scende gradualmente, con i tetti della navata principale e della sacrestia a gradini a forma di pagoda. Le tre parti sono ciascuna coronata da una torre a cipolla. All’interno degna di nota è l’iconostasi che fu creata intorno al 1905 dal noto pittore Michal Bogdanski. Molto importante è l’altare del 19 ° secolo con le sue colonne di legno tortuose ricche di ornamenti e un cielo stellato. La Chiesa dell’Arcangelo Michele nel villaggio di Brunary Wyzne, è un’ex chiesa greco-ortodossa che fu costruita nel
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14. Chiesa di San Michele Arcangelo nel villaggio di Smolnik 15. Chiesa ortodossa della Natività della Santissima Theotokos nel villaggio di Chotyniec
1797. La chiesa ora funge da chiesa di Santa Maria per la comunità cattolica romana. La chiesa di Brunary è una chiesa Lemko, tripartita, coronata da due torrette a cipolla. Sopra il vestibolo si erge una torre con un elmo sormontato da una croce in ferro battuto. Elmi simili si trovano sopra la navata centrale e il presbiterio. L’interno è adornato con un soffitto piano sfaccettato, e presenta un’iconostasi barocca del XVIII secolo che venne ridipinta nel 1831 nel corso delle opere di ristrutturazione. Nel presbiterio si trova l’altare maggiore con baldacchino del XVII secolo, mentre nella navata si possono ammirare due altari laterali risalenti alla seconda metà del XVIII secolo che contengono icone della Vergine Maria e della Trasfigurazione. Degni di nota ci sono, inoltre, il pulpito decorato, il coro musicale e la panca in stile barocco. La chiesa conserva una policromia che ricopre l’intero soffitto e le pareti interne dell’edificio, dai motivi del periodo rococò-classico, opera di Antonio e Józef Bogdański, mentre sulla navata sono conservati i frammenti delle antiche pitture in stile barocco, realizzati in più fasi tra il XVIII e il XIX secolo, mantenuti nei toni del blu, con un motivo a vite.
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La chiesa della protezione della Madre di Dio nel villaggio di Owczary è una chiesa parrocchiale greco-cattolica, costruita nel 1653. Attualmente, serve come filiale della parrocchia cattolica romana a Sękowa. È una delle più antiche chiese Lemko. La chiesa è tripartita, con una torre con una struttura a montanti sopra il vestibolo.È circondata da un basso muro di pietra di campo, in cui è incorporata la torre del cancello in pietra. Nel 1701,il presbiterio della chiesa fu completamente ricostruito, nel 1783 fu aggiunta una torre a opera dei maestri Dimitr Dekowekin e Teodor Rusinka, e nel 1870 il vestibolo fu ampliato per raggiungere una larghezza uguale alla navata. I tetti a scandole sopra le tre parti del tempio sono coronati da elmi con pseudolanterne e croci. Il presbiterio e la navata, dopo la ricostruzione, sono di uguale larghezza. All’interno c’è un’iconostasi barocca settecentesca, dipinta nei toni del blu, rosso e oro, riccamente decorata con colonne traforate con motivo a foglia di vite. Le icone nell'iconostasi sono state realizzate dall'artista Jan Medycki. Oltre all’iconostasi, la chiesa presenta anche gli altari laterali di San Nicola, della Madre di Dio e di Cristo che sono di particolare pregio. L’icona in quest’ultimo risale al 1664 ed era originariamente situata in un’iconostasi più antica nello stesso tempio. Negli anni 1983-1985 è stata effettuata una profonda ristrutturazione di tutta la chiesa, compreso il ripristino della copertura del tetto con scandole. Il Ministero della Cultura e dell’Arte ha assegnato a questa ristrutturazione una distinzione speciale. Nel 1995, la chiesa ha ricevuto il Prix Europa Nostra per l'edificio storico meglio mantenuto. Dal 1998, il tempio è la sede congiunta delle parrocchie cattolica romana e greca. La chiesa ortodossa di San Michele Arcangelo nel villaggio di Turzansk, fu costruita nel 1801-1803. La chiesa appartiene al decanato di Sanok della diocesi di Przemysl-Gorlice della Chiesa ortodossa autocefala polacca. Negli anni dal 1947 al 1961 la chiesa fu utilizzata dai cattolici di rito latino della parrocchia di Komańcza. Nel 1963, il tempio fu dato in uso agli ortodossi, che sono stati i suoi ospiti fino ad oggi. Negli anni ‘80, ‘90 del XX secolo e dopo il 2000, sono stati fatti numerosi lavori di ristrutturazione della chiesa.
La chiesa ortodossa di Turzańsk è una chiesa Lemko di tipo nord-orientale, tripartita, senza torri, orientata, su una costruzione di tronchi. È coperta da un tetto a cresta singola e multipendenza rivestito in lamiera. Sul tetto presenta diverse torrette a cipolla singole o doppie. La torre principale di legno fu costruita nel 1817 e ha anche un attacco a forma di cipolla. Sopra la galleria delle donne,la navata e il presbiterio ed entrambe le sacrestie ci sono cinque torri di bolle simili con lanterne apparenti, e croci in ferro battuto. Il vestibolo è coperto da un tetto a falde monospioventi. Le pareti esterne sono chiuse verticalmente con tavole. L’edificio attuale fu ampliato con un vestibolo e la sacrestia nel 1836. Negli anni 1896 e 1913 furono fatti ulteriori lavori di ristrutturazione della chiesa, rafforzandone il tetto con lamiere. All’interno la chiesa è divisa in tre parti principali a otto campi con cupole a tenda, nelle restanti stanze vi sono soffitti. L’iconostasi chiaramente strutturata risale alla prima metà del 19 ° secolo, le icone policrome sono state create nel 1895 da Josyp Bukowczyk. I murales policromi raffigurano scene della cristianizzazione della Rus’ di Kiev, vi sono inoltre, altari laterali e diversi stendardi processionali decorati a mano. La chiesa di San Michele Arcangelo nel villaggio di Smolnik è stata prima una chiesa ortodossa e poi una chiesa grecocattolica. Fu costruita nel 1791 sul sito di un precedente edificio distrutto dai Tartari cento anni prima. È considerata l’esempio, più arcaico e archetipico, meglio conservato, di architettura sacra dei Bojken in Polonia. La chiesa di Smolnik rappresenta il tipo Boyko. Oggi è l’unico edificio sacro conservato di questo tipo nelle montagne Bieszczady e uno dei tre in tutto il Paese. Il tempio è tripartito con i tre edifici a forma di torre, che sono circondati nel terzo inferiore da una tettoia circonferenziale. Ha una struttura a tronchi, ognuna delle tre parti della quale è sormontata da un tetto di tenda con una piega, con una navata, un coro e un vestibolo di uguale altezza, ma larghezza disuguale - la navata è chiaramente più grande. Tutte le parti dell'edificio sono coronate da cupole a cipolla con croci in cima ai tetti delle tende. Il tutto è circondato dalla grondaia. La prima ristrutturazione completa della chiesa fu effettuata nel 1921 con un significativo sostegno finanziario della comunità locale. Il tetto di scandole fu sostituito con uno di lamiera e venne rinnovata l'iconostasi. Servì come chiesa parrocchiale grecocattolica fino al 1951. Successivamente il tempio fu abbandonato, devastato, saccheggiato, trasformato in magazzino. Negli anni 1969-1970 sono stati eseguiti lavori di ristrutturazione. Nel 1973, è stato consegnato alla parrocchia cattolica romana di Lutowiska. Nel 1974 è stata consacrata come chiesa filiale di rito latino dell’Assunzione della Beata Vergine Maria nella parrocchia di Lutowiska. Negli anni dal 2004 al 2007, la parrocchia ha effettuato una profonda ristrutturazione del tempio, durante la quale, tra le altre cose, le fondamenta sono state sollevate e livellate, le tegole sono state sostituite e gli elementi del traliccio del tetto sono stati riparati. Nel 2009 sono iniziati i lavori di conservazione dei policromi sulle pareti e nella cupola del presbiterio, nonché la sistemazione del presbiterio. Nel sagrato, devastato più volte, si sono conservate solo alcune lapidi. L’iconostasi originariamente situata nel tempio fu distrutta dopo il 1951. L'unico elemento dell'aspetto
16. Chiesa di San Paraskevi nel villaggio di Radru
originario della chiesa è un frammento di policromia raffigurante una tenda sorretta da angeli e cartigli vuoti, in cui si trovavano originariamente le figure dei profeti dell'Antico Testamento. Le icone della Dormizione della Theotokos e della Theotokos Hodigitria della chiesa di Smolnica, datate 1547, sono ora nel Museo di Arte Ucraina di Leopoli, mentre le icone degli apostoli Deesis sono nel museo di Łańcut. La chiesa ortodossa della Natività della Santissima Theotokos nel villaggio di Chotyniec è una chiesa parrocchiale greco-cattolica in legno, costruita nel 1615. La chiesa subì numerosi rifacimenti e significative trasformazioni nel 1733, 1858 e 1925. Nel 1947, fu chiusa e poi consegnato alla Chiesa cattolica romana. Negli anni ‘80 del XX secolo, fu chiusa di nuovo, a causa delle cattive condizioni. Nel 1990, divenne un tempio della rinata parrocchia greco-cattolica. Negli anni 19911994, venne effettuata una ristrutturazione completa dell’edificio. La chiesa si distingue per una forma originale e molto armoniosa. Si tratta di un edificio a navata unica, in quattro parti, realizzato interamente in legno,con una struttura a tronchi. Nella divisione interna si distinguono il presbiterio, la navata, il babiniec e il vestibolo. Il presbiterio, la navata centrale e il babiniec sono coperti da cupole su tamburi ottagonali e il vestibolo da un tetto a capanna. Il babiniec ha tre piani e il coro ne ha due. Le pareti laterali del secondo piano della galleria delle donne sono formate da gallerie porticate. Il campanile in legno del XVII secolo è stato spostato nel 1993 dal villaggio di Torki vicino a Medyka. Il campanile originale fu distrutto durante la prima guerra mondiale. All’interno della chiesa particolarmente belli sono i dipinti murali policromi del 18 ° secolo con una rappresentazione del Giudizio Universale, sulla parete meridionale della navata. Anche l’iconostasi, che risale al 1671, è stata conservata perfettamente e, recentemente, è stata restaurata. Il muro di icone a cinque piani
riccamente decorato ospita un’icona miracolosa della Vergine Maria, molto venerata. La chiesa di San Paraskevi nel villaggio di Radru, fu costruita intorno al 1583 ed è considerata la più antica chiesa greco-cattolica in legno in Polonia e anche la meglio conservata. Situata su una piccola collina, sopra il torrente Radrużka, nell’estremo sud-est della Polonia, la chiesa ha caratteristiche tardo gotiche ed è composta da tre componenti con tetti a più livelli. La chiesa di Paraskevi fa ora parte del Museo delle aree di confine orientali polacche “Kresy” a Lubaczów, che ha restaurato l’edificio storico negli ultimi anni. La chiesa, realizzata con tronchi di quercia e abete, tagliati, disposti orizzontalmente e ricoperti di scandole di legno. Il tetto, sempre in legno, è a forte pendenza. Sul terreno, la chiesa segue una pianta composta da tre piazze successive. La chiesa fa parte di un insieme comprendente anche un campanile in legno, la casa del diacono in pietra, un vecchio pergolato e un cimitero. Il tutto è circondato da un muro difensivo in pietra, esistente dal 1825, con una struttura di fortificazione. Infatti, oltre a essere utilizzato per i servizi sacramentali, lo tserkva era anche usato come fortezza contro le invasioni dei tartari. Di accattivante bellezza sono l’iconostasi riccamente decorata del 17° secolo e i due altari laterali. Dopo la seconda guerra mondiale e le trasformazioni territoriali tra Polonia e Ucraina, la chiesa si è trovata quasi al confine con l’Unione Sovietica e ha perso la sua comunità. Diventata proprietà dello Stato polacco, non è stata più assegnata al culto. Negli anni 1963-1965 la chiesa è stata restaurata da artigiani locali, sotto la direzione dell’amministrazione cittadina. È stata protetta nel 1986 e nel 2010. È stata inserita nell’elenco degli edifici a rischio di estinzione del World Monuments Fund nel 2012, quale edificio meritevole di conservazione e sponsorizzazione finanziaria.
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SPIRITUALITÀ ACCESSIBILI DUE INTERVENTI DI RECUPERO NEL COMPLESSO DELLA CATTEDRALE DI SORA Alessia Panepucci
La cittadella vescovile di Sora sorge su un’area anticamente occupata da un complesso sacro dedicato alle divinità dei Volsci e sulla quale i coloni romani costruiscono in tempi successivi un tempio. Alla fine del V secolo, a seguito di un ulteriore intervento trasformativo, si perviene all’edificazione di una basilica paleocristiana che ricalca in parte il perimetro del precedente tempio e ne conserva l’impianto tripartito. Le vicende di distruzione e riedificazione successive vedono, tra l’altro, la costruzione tra Quattrocento e Cinquecento del torrione a pianta circolare, appendice poco coerente con l’originario complesso monumentale, e il successivo trasferimento della sede episcopale Sorana nella vicina Arpino, forse più confortevole di un complesso edilizio divenuto ormai poco meno di un baluardo difensivo. Agli inizi del XVIII secolo i lavori promossi dal vescovo De Marchis conferiscono un aspetto unitario alla cittadella vescovile cui partecipano il nuovo avancorpo, affacciato sullo spazio pubblico antistante e la cappella del Purgatorio, in posizione opposta alla torre aragonese e sovrastante uno spazio destinato alle sepolture comuni necessario a posizionare il nuovo ambiente sacro alla quota del transetto della chiesa preesistente compensando il consistente salto di quota. Ulteriori incrementi delle volumetrie, come la più tardiva costruzione di un magazzino -poi demolito- interposto tra la torre e la cappella, occultano il muro perimetrale della cattedrale che delimita a nord la navata destra. La storia più recente della cittadella si accompagna a quella dei suoi restauri, a partire da quello del 1916, conseguente al terremoto della Marsica del 1915 e all’incendio del 1916, ai successivi degli anni Settanta condotti dall’ingegner Marta, fino a quelli del nuovo millennio finalizzati al riordino parziale dell’accessibilità della chiesa e del campanile e alla messa in luce di reperti archeologici rinvenuti in spazi sottostanti la scalinata di accesso. A quest’ultima fase dei lavori possono essere ricondotti il recupero dell’ambiente sottostante la Cappella del Purgatorio ed il nuovo sistema di collegamenti inserito nella Torre1.
Da ossario comune a sepolcreto dei vescovi La parte inferiore della Cappella del Purgatorio, parzialmente interrata, ospitava una sepoltura comune all’interno di spazio molto semplice il cui perimetro ordinatamente riprende quello soprastante ma che presenta una singolare articolazione determinata dalla presenza di un arco centrale a tutto sesto, ampio quanto l’intero vano, che concorre a sostenere le due volte a botte a giacitura parallela impostate sugli spessi muri perimetrali. La spazialità dell’ambiente soprastante è da sempre molto diversa in quanto sfrutta una volta a cupola per conferire unitarietà all’originaria cappella, riconfigurata nel Settecento anche con la chiusura di un’ampia finestra in asse con l’attuale ingresso dal transetto. Tale modifica ha consentito di posizionare l’altare in aderenza del muro d’ambito di fronte e illuminarlo mediante un’ampia apertura sul muro a valle che guarda il torrione, come attestato dalla prima traccia visibile dall’esterno e messa in evidenza nel corso dei lavori di restauro della parete e dall’uso di conci tagliati a misura per delimitare il nuovo vano. 1
Il Recupero del Sepolcreto della Cittadella Vescovile di Sora, Frosinone è opera segnalata in Arch&Stone’08-Architetture in pietra del nuovo millennio. Premio nazionale di architettura in pietra, Prima edizione; il Riuso della Torre Aragonese di Sora ha ricevuto una menzione speciale per il premio DOMUS International award restoration and preservation, VIII competition. I progetti sono entrambi di Mario Morganti – Gianfranco Cautilli – Renato Morganti (MCM). Dei due interventi, finanziati con fondi della Regione Lazio, sono stati incaricati Mario Morganti e Laura Scrimieri. Mario Morganti è stato incaricato della direzione dei lavori di entrambe le opere.
1. Vista del Sepolcreto. Contrasto materico tra la scala in acciaio corten e lo spazio circostante in travertino di falda - Foto Renato Morganti
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Il progetto di recupero intende porre in risalto proprio questa diversa caratterizzazione spaziale con la rotazione dell’asse della cappella sepolcrale, ridefinito secondo una giacitura parallela a quello della cattedrale e la realizzazione di una quinta fondale dietro cui collocare l’unico elemento di collegamento verticale - una scala a chiocciola in acciaio corten, contenuta nelle dimensioni - che mette in comunicazione la cappella Settecentesca con questo nuovo spazio. Manifesta è l’esigenza di rigore e di semplicità, tradotta in modi diversi. Dal punto di vista formale, l’approccio progettuale di tipo minimalista è coerente con le suggestioni scaturite dal tema dell’oltrepassamento, una condizione di minimum per la quale ci si priva dei beni materiali e si torna alla terra: quattro blocchi lapidei, identici nella geometria, ospitano le otto tombe -a due a due sovrapposte- distaccandosi dai muri originari e permettendo una piena riconoscibilità tra nuovo e antico ed una immediata leggibilità dell’intervento. Per quanto concerne le scelte costruttive, l’evidente minimalismo tecnologico è solo apparentemente riconducibile alla mono materialità, affidata al travertino di falda in lastre e radicalizzata nella scelta della dimensione delle lastre modulata nel rapporto di 1:3 proprio delle tombe, con l’unica eccezione di quelle poste in corrispondenza dell’arco, a memoria dell’originaria morfologia costruttiva dello spazio. La soluzione tecnica della scala a chiocciola, non a caso occultata alla vista, apre ad una condizione solo potenzialmente eteronoma correlata alle scelte materiche: è infatti affidata all’acciaio corten che la ribadisce attraverso la dissonanza dei cromatismi, la leggerezza del disegno, la scabrezza delle superfici.
Da torre difensiva a connettivo attrezzato e museo L’edificio, costruito nel XV secolo a scopo difensivo, presenta una pianta circolare e consiste di due ambienti voltati sovrapposti racchiusi da una muratura di spessore variabile: maggiore fino alla quota della cordonatura e digradante al di sopra. Il vano inferiore, probabilmente accessibile in origine solo da quello superiore, presenta in posizioni equidistanti -che possono essere idealizzate come i vertici di un ipotetico triangolo equilatero inscritto nel perimetro circolare- due cannoniere e l’attuale accesso alla torre, incongrua breccia risalente alla Seconda guerra mondiale. Il progetto di recupero nasce dall’esigenza di soddisfare i requisiti di accessibilità al fine di garantire una fruizione inclusiva al complesso ecclesiastico da parte di tutte le classi di utenza. L’intervento ha dunque previsto l’introduzione di un connettivo meccanizzato interamente ricompreso nello spessore murario alla quota più bassa, in parte a vista al livello superiore, stante la riduzione della sezione delle pareti. Per mediare tra le differenti quote degli oriz-
2. Vista di insieme del Complesso nei primi anni del 1900 con in primo piano il torrione, in secondo piano (a destra) la Cappella del Purgatorio e interposto tra i due il magazzino (poi demolito) 3. Vista di insieme del Complesso dopo i restauri del 2007 con in primo piano il torrione, in secondo piano (a destra) la Cappella del Purgatorio - Foto Renato Morganti Pagina successiva
4. 5. Viste del Sepolcreto, dettagli dell’arco - Foto Renato Morganti
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Manifesta è l’esigenza di rigore e di semplicità, tradotta in modi diversi 6. Vista esterna della Cappella del Purgatorio. Dettaglio della finestra chiusa in epoca Settecentesca - Foto Renato Morganti 7. 8. Il torrione aragonese in una foto antecedente al sisma del 1915 e dopo i restauri del 2007 - Foto Archivio privato, Sora Pagina successiva
9. 10. Il torrione aragonese dopo i restauri del 2007. Piano primo - Foto Renato Morganti 11. 12. Il torrione aragonese dopo i restauri del 2007. Piano secondo - Foto Renato Morganti
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13. 14. Il torrione aragonese dopo i restauri del 2007. Dettagli del parapetto in vetro - Foto Renato Morganti Pagina successiva
15. 16. Ingresso al Sepolcreto ed ingresso al Torrione - Foto Renato Morganti
zontamenti della torre si è ricorso ad un sistema di passerelle che, con l’ausilio di parti apribili dei parapetti, agevolano l’accesso al piano di calpestio dei vari ambienti del mastio dove il progetto prevedeva la collocazione di alcuni reperti archeologici oggi sistemati nei magazzini del Museo della Cattedrale. Il tema del distacco assume nella Torre tutt’altro significato rispetto al Sepolcreto: abbandonata ogni allegoria, si punta ad accentuarlo tra perimetro murario, piani di calpestio e passerelle, le quali si accostano ai muri laddove necessario per motivi tecnici o funzionali e si sviluppano rimanendo sollevate dalle superfici destinate a museo, a rimarcare la distanza tra sedime storico e suolo artificiale. Il distacco tra passerelle e muri e lo studio attento delle connessioni mette ancor più in evidenza la potenzialità della tecnologia a secco in termini di smontabilità e reversibilità rispetto a quella in umido di cui si fa limitatissimo uso. Contrariamente al Sepolcreto, nel Torrione anche la condizione di eteronomia materica viene meno a favore di una complementarità affermata attraverso un processo di svelamento la cui complessità trae vigore dalla necessaria complessità geometrica dell’impianto: il vetro dei parapetti è il complemento necessario a garantire i requisiti di sicurezza ed una completa visibilità di spazi e brani murari circostanti.
Intrusione e sottrazione In entrambi gli interventi il connettivo verticale viene concepito e collocato in modo da porre in evidenza con una intensità decisamente diversa il tema della sottrazione della materia antica: nel Sepolcreto è ricondotta al minimum per consentire l’intrusione dell’oggetto ferrigno che si confronta con il presupposto funzionale della necessità di un collegamento tra lo spazio parzialmente ipogeo e la soprastante Cappella del Purgatorio; nel Torrione il processo di sottrazione scaturisce invece dall’esigenza di salvaguardare l’integrum spaziale, per quanto possibile, di entrambi i vani, sicché l’incisione è stata volutamente massimizzata pur garantendo la necessaria stabilità del manufatto. Così concepiti, i due connettivi inducono due distinte percezioni dello spazio: il primo ne sollecita l’intima specificità, coerentemente con la natura spirituale del Sepolcreto; il secondo ne sollecita la manifesta integrità, coerentemente con le necessità prettamente funzionali del Torrione, in entrambi i casi amplificate dalla loro collocazione e dal loro nuovo uso. In questo intreccio di contrasti, analogie e distacchi, pur calcando la mano in alcuni punti ed alleggerendo il tratto in altri, il disegno del nuovo promana ordine, chiarezze e semplicità, mettendo in evidenza la cifra autoriale del progetto formalmente divaricata ma comunque riconoscibile.
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CHIESA AD ALCALÁ TENERIFE, CANARIE Alejandro Beautell Traduzione di Claudio Varagnoli
Nel luogo in cui oggi sorge questa chiesa parrocchiale, si trovava un antica cappella, purtroppo demolita nel 2011. Da allora, in un periodo di difficoltà economiche, gli abitanti di Alcalá, guidati dal loro parroco, si sono battuti per la costruzione di una nuova chiesa. Nel 2017, il Vescovado di Tenerife, con il sostegno del Governo delle Isole Canarie e del Comune di Guía de Isora, ha incaricato l’architetto Alejandro Beautell di progettare la nuova chiesa di Alcalá. Le esigenze presentate all’architetto erano certamente contraddittorie: da un lato i vicini desideravano rivedere la loro antica cappella, dall’altro la Diocesi richiedeva una chiesa più grande che rispondesse alla crescita demografica di un quartiere in espansione. Pertanto, la nuova chiesa doveva recuperare la memoria del primo sacello e, allo stesso tempo, diventare un punto di riferimento architettonico nel quartiere, un nuovo centro per Alcalá. La sfida posta richiedeva una riflessione che avesse a che fare, in modo molto particolare, con il tempo. Guardare al passato senza cadere nella malinconia, quella che il grande architetto catalano José Antonio Coderch amava chiamare “tradizione viva”. Partendo da queste premesse, la nuova chiesa è costituita due navate distinte, “la vecchia” e “la nuova”. Un unico spazio interno si traduce dall’esterno in due volumi diversi. Uno recupera la forma e la posizione della vecchia cappella, in una reinterpretazione dell’architettura tradizionale delle isole. Ricostruendola - in modo semplificato - si è cercato di recuperarne la memoria e di attenuare la sensazione di perdita causata dalla sua demolizione. Le pareti sono nuove, ma l’atmosfera che racchiude è la stessa e nella sua densità concentra tutti i momenti vissuti in quel luogo. L’immagine della Vergine torna così alla sua posizione incontaminata, occupando lo stesso posto di prima, alla testa del vecchio corpo, questa volta protetta in una nicchia di cemento, che, come una grotta, ricorda l’apparizione della Vergine ai Guanci, gli antichi abitanti delle Isole Canarie. L’altro, come una fiamma - il fuoco della candela - cerca la verticalità e conferisce maggiore significato allo spazio interno, culminante in un lucernario che illumina il presbiterio e collega le due navate, la vecchia e la nuova, a simboleggiare il ponte esistente fra tradizione e modernità. L’aggregazione dei volumi è radicata nella tipologia dell’architettura religiosa vernacolare, che si sviluppa per navate, alle quali è annesso un cortile. La strategia di scomporre l’edificio in volumi differenziati risponde anche alle rigorose condizioni urbanistiche che obbligavano l’allineamento alla strada lungo il perimetro del lotto. La costruzione ha una superficie edificata di circa mille metri quadrati distribuiti su due livelli. Il piano semi-interrato, a cui si accede dal lato su strada, ospita gli spazi Pagina precedente e successive
1. e 3/16. Chiesa ad Alcalá - Tenerife, Canarie - Foto Flavio Dorta
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Guardare al passato senza cadere nella malinconia, quella che il grande architetto catalano José Antonio Coderch amava chiamare "tradizione viva"
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Ricostruendola - in modo semplificato - si è cercato di recuperarne la memoria e di attenuare la sensazione di perdita causata dalla sua demolizione. Le pareti sono nuove, ma l'atmosfera che racchiude è la stessa e nella sua densità concentra tutti i momenti vissuti in quel luogo
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L'aggregazione dei volumi è radicata nella tipologia dell'architettura religiosa vernacolare, che si sviluppa per navate, alle quali è annesso un cortile. La strategia di scomporre l'edificio in volumi differenziati risponde anche alle rigorose condizioni urbanistiche che obbligavano l'allineamento alla strada lungo il perimetro del lotto.
di servizio: locali parrocchiali a uso multiplo, garage, magazzini, locali per gli impianti e servizi igienici. Al di sopra, con accesso dalla piazza sovrastante, si trovano la chiesa e la sacrestia. I materiali utilizzati e l’uso di risorse come l’illuminazione naturale conferiscono allo spazio un carattere ascetico che ricerca l’essenziale. Il corpo che richiama l’antico sacello è realizzato in calcestruzzo ciclopico, cioè addizionato con il pietrame grossolano recuperato nel sito. La finitura grezza di questo corpo è completata, secondo la tradizione, con uno scialbo. Il bianco della calce contrasta con il colore ocra utilizzato nella nuova navata, anch’essa realizzata in calcestruzzo, questa volta tinto in massa e bocciardato con diverse intensità. La nuova chiesa di Alcalá, dedicata alla Vergine della Candelaria, patrona delle Isole Canarie, ci parla di tradizione, del recupero della memoria di quell’antico edificio eretto dai pescatori che si ergeva solitario sul terreno lavico che giace sotto l’asfalto. È una chiesa moderna o antica? Non saprei cosa rispondere, mi piacerebbe pensare entrambe le cose. Concludo con alcune belle parole del poeta Octavio Paz, che spero di aver capito: “La ricerca della Modernità ci ha portato a scoprire la nostra antichità.... Una inattesa lezione storica che non so se tutti hanno imparato: tra tradizione e modernità c’è un ponte. Se isolate, le tradizioni si pietrificano e le modernità si volatilizzano; se unite, una anima l’altra e l’altra risponde dandole peso e gravità”.
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LINA BO BARDI
E L’ARCHITETTURA SACRA Intervista di Andrea Jasci Cimini al Prof. Renato Anelli* Traduzione di Beatriz Arcari
* Prof. Renato Anelli, Il tema del viaggio nella vita di una delle icone dell’architettura del XX secolo può essere descritto non solo dal punto di vista geografico, dall’Italia al Brasile, ma anche attraverso l’evoluzione della poetica espressiva, del tempo e dell’approccio culturale all’architettura. Nel salotto della Casa de Vidro a San Paolo, in una calda giornata di febbraio, abbiamo parlato con il Prof. Renato Anelli, membro del consiglio direttivo e curatore dell’Istituto Bardi / Casa de Vidro, professore presso la Facoltà di Architettura e Urbanistica dell’Università Presbiteriana Mackenzie. AJC Dopo le prime opere di Lina Bo Bardi in Brasile, in cui è evidente l’influenza del movimento moderno, è evidente un’evoluzione, soprattutto nelle opere di architettura sacra, come nella Cappella di Santa Maria dos Anjos a Ibiúna, in cui il linguaggio espressivo e le tecniche costruttive sono volutamente legate a una reinterpretazione dell’architettura tradizionale e popolare brasiliana. Come è nato questo approccio concettuale e in che modo la sua personale scoperta del Brasile l’ha influenzata in queste opere? I suoi viaggi in Brasile, insieme a Pietro Bardi, soprattutto nella regione della Bahia, e la sua conoscenza dei riti, delle religioni e delle tradizioni locali, hanno avvicinato Lina Bo Bardi a una diversa percezione dell’approccio di molteplici comunità locali ai temi del sacro e del simbolismo? C’è continuità con il processo di sincretizzazione iniziato nei secoli precedenti? RA Il suo interesse per l’architettura tradizionale e popolare brasiliana fu evidente fin dai primi giorni del suo arrivo in Brasile. Arrivò con la sua cultura italiana moderna, che esprimeva un peculiare equilibrio tra moderno e popolare nell’immediato dopoguerra. Prima di arrivare alla Chiesa di Santa Maria dos Anjos, dobbiamo ripercorrere i suoi primi anni in Brasile e in Bahia. In Brasile, lei e suo marito Pietro Bardi cercarono di capire ciò che il popolo produceva, la sua cultura popolare. Già nei primi anni a San Paolo, con la creazione del Masp nel 1947, si avvicinarono alla cultura modernista brasiliana e alla sua appropriazione etnografica della cultura popolare. Lina e Pietro approfondirono la lettura dei principali autori brasiliani che spiegavano il Brasile cogliendo le sue caratteristiche di mélange etnico e culturale come valori e non come difetti. Tra questi, Gilberto Freyre e Sergio Buarque de Holanda 1. Capela Santa Maria dos Anjos - Lina Bo Bardi © Instituto Bardi / Casa de Vidro
membro del consiglio negli anni Trenta direttivo e curatore e Darcy Ribeiro dell’Istituto Bardi / Casa de dopo gli anni Vidro, professore presso Cinquanta. Lina la Facoltà di Architettura e e Pietro Bardi Urbanistica dell’Università hanno scritto Presbiteriana Mackenzie di diversi articoli che San Paolo, Brasile. esprimono questo interesse. Il primo soggiorno di Lina a Salvador, nel 1958, aveva questo motto: immergersi in una cultura ricca di passato. Una città che è stata capitale del Brasile dal XVI al XVIII secolo e che unisce la forte presenza dei discendenti degli africani schiavizzati all’architettura barocca e alle chiese ricoperte d’oro. Il sincretismo delle religioni africane e cattoliche è il segno distintivo di questa cultura, ancora oggi viva e forte. Nel 1959 fu invitata da Martins Gonçalves, direttore della Scuola di Teatro dell’Università di Bahia, a progettare la mostra Bahia al parco Ibirapuera di San Paolo, sotto il tendone progettato da Oscar Niemeyer anni prima. La natura sincretica dell’esposizione di oggetti e sculture includeva quelli dei culti afro-brasiliani. La disposizione di foglie di eucalipto sul pavimento doveva simulare le foglie di pitangueira, utilizzate nei riti del candomblé. Lina si è immersa in una ricerca etnografica nelle aree povere, strutturata intorno al suo lavoro di direttrice del Museo d’Arte Moderna di Bahia. Da questa ricerca nasce la mostra Nordeste, inaugurata nel 1963 insieme alla nuova sede del museo nel Solar do Unhão, da lei restaurato. La religiosità popolare è apparsa attraverso oggetti di culto di varie religioni, con gli ex voto cattolici come presenza molto forte. Fin dalla prima rivista Habitat del 1951, gli ex voto del nord-est hanno fatto parte dell’interesse dei coniugi Bardi per la cultura popolare brasiliana. Ma ci sono anche i cipigli sulle barche del fiume São Francisco, la cui funzione era quella di garantire la sicurezza dell’equipaggio allontanando gli spiriti maligni, accanto alle consuete sculture dei terreiros del Candomblé. La sua esperienza a Salvador viene interrotta dal colpo di
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2. Exposição Nordeste - Photo Armin Guthmann © Instituto Bardi / Casa de Vidro
3. Exposição Bahia no Ibirapuera - Photo Miroslav Javurek © Instituto Bardi / Casa de Vidro
stato militare del 1964. Lina si ritirò nel sud-est, tra São Paulo e Rio de Janeiro, per gli anni successivi, dedicandosi al completamento della sede del MASP nell’Avenida Paulista e alle scenografie d’avanguardia per le opere di Zé Celso. Solo tra il 1975 e il 1977 Lina riuscì a progettare nuove opere architettoniche che sarebbero state costruite negli anni successivi, tra cui la Chiesa di Santa Maria dos Anjos a Ibiúna, la Chiesa dell’Espírito Santo do Cerrado a Uberlândia e il SESC Pompéia. AJC Le opere di architettura sacra sembrano incentrate sul tema della comunità, intesa non solo come comunità di credenti, ma anche come comunità attiva nel processo decisionale che precede il progetto o come parte attiva della costruzione. Può dirci qualcosa su questo coinvolgimento sociale della comunità? RA Lina ha vissuto questo avvicinamento alla religiosità popolare in un momento in cui la Chiesa Cattolica brasiliana era totalmente dedicata al rinnovamento guidato da Papa Paolo VI, alla Teologia della Liberazione e alle Comunità Ecclesiali di Base - CEB. Queste comunità hanno strutturato socialmente le periferie povere delle grandi città brasiliane tra gli anni Sessanta e Ottanta. Città che in quel periodo avevano ricevuto un’enorme migrazione interna dalla campagna. Hanno accolto i migranti e hanno contribuito a organizzare comunità di persone provenienti dalle regioni più diverse del Paese. In molti luoghi, la CEB era l’unica istituzione di sostegno sociale, spirituale e materiale per queste persone. Lina si è rivolta a loro per i due progetti della chiesa, ma è stato a Uberlândia che la collaborazione si è strutturata meglio. AJC Vorrei chiederle un parere sull’evoluzione o la moltiplicazione delle scelte architettoniche relative ai linguaggi e alle sintassi utilizzate nelle opere di Lina. Lei non sembra aver ripudiato gli insegnamenti del primo Novecento, ma allo stesso tempo, in altre opere come la Igreja do Espírito Santo do Cerrado a Uberlândia, c’è un riferimento all’architettura tradizionale. Pensa che abbia sviluppato l’idea che la scelta del linguaggio sia legata anche alla tipologia e al tipo di relazione (più o meno spirituale o domestica) che il fruitore instaura con il luogo? RA Non credo che la sua posizione fosse in conflitto con la sua comprensione dell’architettura della prima avanguardia moderna. Lina aveva una formazione approfondita sulla storia dell’architettura, compresa quella moderna. Comprendeva gli impegni sociali dell’avanguardia moderna e pensava che potessero essere ripresi. La Chiesa dello Spirito Santo del Cerrado è un progetto emblematico della sua scelta estetica di creare simboli riconoscibili dagli utenti. Il progetto è stato partecipativo, discusso con la comunità, ma definito dalla sua conoscenza della composizione geometrica dei trattati classici. Come si può mettere un tetto esagonale su un edificio cilindrico e inserire un altare quadrato in uno dei moduli triangolari senza conoscere mi-
nimamente la composizione geometrica classica? L’artista immerge l’altare nella luce zenitale installando piastrelle di vetro nel triangolo sovrastante, ricreando letteralmente il simbolo iconologico liturgico dello Spirito Santo. Oltre alla composizione geometrica classica, Lina sfrutta la sua conoscenza della scenografia per comporre lo spazio liturgico con il minimo dei mezzi per ottenere effetti intensi. AJC L’arte, in senso lato, è stata forse al centro della vita dei coniugi Bardi. Dai musei ai centri culturali, qual è stato il suo ruolo e il suo rapporto con gli artisti, in particolare negli edifici sacri? RA Nel suo lavoro nei musei, Lina ha interagito molto con gli artisti visivi. Per il senso di religiosità, spicca Edmar de Almeida. Artista di Uberlândia, aveva prodotto tre film con Flávio Império sul lavoro manuale dei tessuti nella regione. Nel 1975 ha organizzato la mostra Repassos al Masp, presentando i tessitori del Triângulo Mineiro. Edmar guida il riavvicinamento di Lina ai sacerdoti francescani e alla CEB del quartiere di Jaraguá, che la invita a progettare la chiesa. Edmar de Almeida approfondì la sua conoscenza dell’iconografia religiosa, presente in molte sue opere e sviluppò con Lina due arazzi: il Battesimo di Cristo sull’altare e l’Annunciazione della Vergine Maria nell’ingresso principale. Purtroppo, queste due opere hanno dovuto attendere decenni per essere prodotte e installate nella chiesa e costituiscono un importante complemento al carattere sacro dell’opera. AJC Infine, vorrei chiederle della nascita dell’Istituto e di come possa e debba continuare a trasmettere l’importante eredità dei suoi fondatori. RA L’Istituto è stato fondato nel 1990, con il nome di Istituto Quadrante, con tale obiettivo. Alla morte di Lina, nel 1992, è stato ribattezzato Istituto Lina Bo e P.M. Bardi. Nel verbale di fondazione si chiarisce che le finalità dell’Istituto “sono esclusivamente culturali e artistiche, comprese quelle relative alla storia dell’arte e dell’architettura; a tal fine può promuovere e svolgere ogni attività e atto inerente alle sue finalità”. Oltre a questi obiettivi, l’Istituto conserva la Casa de Vidro, classificata a livello comunale, statale e federale, nonché la sua collezione di opere d’arte, documenti, foto e disegni dei progetti di Lina. Promuove periodicamente mostre di ricerca sulla collezione e sugli artisti che dialogano con l’opera di Lina. È un’organizzazione privata senza scopo di lucro che non riceve finanziamenti pubblici. Per svolgere le sue funzioni, dopo l’esaurimento del fondo creato nel 1990 dalla coppia, l’Istituto dipende dai fondi ottenuti dai diritti d’autore delle immagini, dai diritti d’autore delle nuove edizioni dei mobili di Lina, dai biglietti per i visitatori, dall’affitto di eventi e dalle donazioni.
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DUE ARCHITETTURE PER GUARDARE AVANTI
ZLATKO UGLJEN A VISOKO E A ZABILJE, BOSNIA ERZEGOVINA Sergio Massironi
In una terra lacerata da conflitti etnici vestiti di religione l’architettura contemporanea può fare qualcosa. Molto, avrei scritto. Poco, direbbe qualcun altro. Una conoscenza più profonda della Bosnia Erzegovina e di ciò che bolle nella pancia dei suoi abitanti sarebbe necessaria per scegliere la parola giusta, ma evangelicamente il poco – se riguarda la fede – sposta le montagne. E riguarda la fede la scelta di costruire un luogo di preghiera e di incontro. Una moschea e una chiesa, bianchissime. Di questo parliamo. Segni che interrompono il dolce paesaggio collinare, a pochi passi da Sarajevo, di cui minareti e campanili fanno parte da secoli. Discontinuità nelle forme e continuità nella storia di comunità che hanno intessuto a lungo quel dialogo della vita che fonda e alimenta il dialogo interreligioso. Non è mai stato semplice. Relazioni spezzate in diversi momenti della storia, ma oggi più che mai contrastate, sul piano politico e culturale, dalle dissennate riletture che il conflitto post-jugoslavo ha messo in moto fra i serbo-ortodossi, i croato-cattolici e i bosgnaccomussulmani. Il linguaggio dell’architettura novecentesca diviene speranza e contestazione, portando in sé l’universalità che il grande umanesimo europeo ha opposto a identità fittizie e disgreganti. Quella che la peggiore politica insegue ancora. Per quanto i regimi del secolo scorso abbiano messo le mani sulle città e ne abbiano disegnato le evoluzioni, il movimento moderno ha offerto risposte irriducibili alle ideologie del momento, che giustamente oggi riscopriamo nel loro vigore. È come se un deposito di secoli – Atene, Roma, Gerusalemme, il Rinascimento – gridi contro il disfacimento della nostra civiltà attraverso le geometrie pure, i materiali semplici, le soluzioni tecniche che i grandi architetti ci hanno donato. Equilibrio e misura opposti al narcisismo. Qualità dei luoghi e non ostentazione di potenza. Umile lavoro, invece di rumorosi successi. Il sacro domanda tutto questo, smarcandosi da chi fa persino di una croce un’arma e di una cupola un’offesa al vicino. È anche un’intima esigenza di riparazione, un desiderio di ristabilire l’armonia fra le persone e con il creato. Esiste un’architettura che porta come inscritta questa ecologia integrale, che si fa anche con le pietre, quando non servono a colpire, ma ad abitare umanamente il mondo. È molto interessante, con queste premesse, che la più nota moschea di Visoko, piccola città alla confluenza di Fojnica e Bosna, sia stata per certi versi imposta nelle sue forme alla comunità religiosa. Di una moschea vi era l’esigenza, certo, ma il socia1. Moschea - Archivio Ugljen
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Una moschea e una chiesa, bianchissime. Di questo parliamo. Segni che interrompono il dolce paesaggio collinare, a pochi passi da Sarajevo, di cui minareti e campanili fanno parte da secoli. Discontinuità nelle forme e continuità nella storia di comunità...
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2. 3. Moschea - Archivio Ugljen
lismo jugoslavo derogò al proprio ateismo a condizione di veder percorse strade nuove, sganciando cioè dalla tradizione la costruzione del luogo di culto e affidandone il progetto a Zlatko Ugljen. Era il 1977. L’architetto modellò allora uno spazio mistico di grande dinamismo, conosciuto oggi come Moschea Bianca di Šerefudin. Una rilettura dell’architettura islamica in chiave europea e contemporanea, nel solco dei grandi maestri del Moderno. Un’opzione audace, che rammenta all’Europa stessa quanto l’Islam da secoli le appartenga, materializzandone un luogo di incontro che parla la nostra lingua. Si fosse intesa la lezione di Uglijen nei decenni successivi, forse politicamente e religiosamente non saremmo dove siamo. In effetti a Visoko, dopo le resistenze iniziali e superate non poche difficoltà tecniche, specie nell’impermeabilizzazione della copertura, i riconoscimenti venuti da lontano modificarono nella comunità la percezione del nuovo. Il premio più importante arrivò già nel 1983, quando la moschea ricevette l’Aga Khan Award for Architecture. Risuonano più che mai attuali le motivazioni della giuria, che difficilmente sarebbero state scritte con uguale libertà dopo il conflitto ex-jugoslavo degli anni Novanta. «La moschea funge da centro religioso e intellettuale per la sua comunità. La sua pianta geometricamente semplice racchiude un volume complesso, con soffitti inclinati e lucernari, puro, astratto, scarsamente ornato e dipinto di bianco. L’archetipo della moschea bosniaca ha una semplice pianta quadrata coronata da una cupola e alla quale si accede attraverso un piccolo portico. La pianta della Moschea Bianca è conforme all’archetipo, ma il suo tetto è un quarto di cupola liberamente deformato, bucato da cinque lucernari, a loro volta composti da segmenti di quarti di cupola. L’effetto è quello di un confronto tra la pianta elementare e la sofisticata gerarchia dei coni del tetto. I principali elementi simbolici, il mihrab, il minbar, il minareto e le fontane, hanno un carattere di fresca arte popolare sottilmente esaltato dalle geometrie d’avanguardia del loro ambiente». Zlatko Ugljen è stato anche lodato per
Una rilettura dell’architettura islamica in chiave europea e contemporanea, nel solco dei grandi maestri del Moderno. Un’opzione audace, che rammenta all’Europa stessa quanto l’Islam da secoli le appartenga, materializzandone un luogo di incontro che parla la nostra lingua 4. Moschea - Foto Lorenzo Buggio
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Qui scompaiono le linee curve dominanti nella moschea di Visoko e la pulizia delle linee rette disegna un grande recinto in cui gli ambienti all’aperto introducono i fedeli nella pace luminosa dell’interno
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8. Chiesa - Archivio Ugljen
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5. Chiesa - Foto Lorenzo Buggio 6. Chiesa - Archivio Ugljen 7. Chiesa - Foto Lorenzo Buggio
aver «magistralmente coniugato le influenze moderne, in particolare la cappella di Ronchamp di Le Corbusier, e le forme e gli elementi tradizionali ottomani»1. Va rilevato che il caso di Visoko non ha avuto molto seguito, se si guardano agli edifici di culto realizzati negli ultimi tre decenni sullo stesso territorio. La discriminante, però, si fa sempre più chiara e riguarda la comune appartenenza o meno al grande passato europeo. I nazionalismi contemporanei hanno bisogno di alimentarsi di altri miti, sebbene – e questo in Bosnia va visto e sostenuto – una resistenza della vita locale al fondamentalismo prevalga nella quotidianità. Come ama dire papa Francesco, «la realtà è superiore all’idea». Francescana, in effetti, nello spirito e nei fatti è una bella eccezione al trend più recente. I frati minori della provincia bosniaca, infatti, sono all’origine di una nuova committenza che ha impegnato col sacro l’ormai anziano Zlatko Ugljen, questa volta coadiuvato dalla figlia Nina Ugljen-Ademovic. Si tratta della chiesa di Santa Maria degli Angeli realizzata nel 2009 a Zabilje, filiale della parrocchia di Nova Bila. Qui scompaiono le linee curve dominanti nella moschea di Visoko e la pulizia delle linee rette disegna un grande recinto in cui gli ambienti all’aperto introducono i fedeli nella pace luminosa dell’interno. Fedele al suo metodo, Ugljen rilegge così la tradizionale bosanska kuća, la casa bosniaca, coniugando ancora una volta antico e nuovo 1
Aga Khan Development Network. Retrieved 2008-03-08.
in un minimalismo morbido. Aula unica e chiara, di grande equilibrio, il progetto sposa la concettualità del bianco con la dolcezza del legno, generando un luogo che pare voler risanare la memoria, lasciando entrare il cielo. Attorno alla chiesa, infatti, è il cimitero del villaggio, dove il volto e l’età dei sepolti non ha smesso di raccontare la guerra, insieme alla vita che va avanti. La chiesa parrocchiale, a un paio di chilometri, durante il conflitto fu ospedale da campo: le panche accostate e trasformate in letti, sale operatorie fra altari e cappelle, lavoro instancabile di infermieri, medici e volontari. Un dolore e una prova troppo gravi perché i muri cessino di evocare il passato. È lo stesso Ugljen ad averne rinnovato l’interno dopo la guerra. Ecco però, a distanza di tempo, l’esigenza di un segno più forte. Una chiesa nuova, senza cancellare la memoria, chiama a riconciliazione e porta nel futuro. Lo fa legando questa terra ferita alle modalità espressive di un cristianesimo che in Europa cerca nuove vie per essere sale, lievito e luce in questo drammatico avvio del terzo millennio. E chissà che un piccolo resto di cattolici e mussulmani, educati nello sguardo dai nuovi ambienti di preghiera, colgano come la fede di Abramo e la misericordiosa clemenza di Dio li uniscano sotto lo stesso cielo. È la scommessa che i francescani incarnano in Bosnia dal 1291. Missione che chi del poverello di Assisi ha preso il nome, Francesco, allarga oggi alla Chiesa universale.
ALDO VAN EYCK
E LO SPAZIO DEL TEMPIO Gaetano Ginex
[…] Per van Eyck lo spazio è un magma che prende forma solo nel momento in cui assolve ad un compito funzionale ben preciso…La sperimentazione di forme geometriche elementari, il desiderio di provocare un’espressione simbolica attraverso la forma architettonica con ripetizioni e combinazioni di elementi differenti può essere un segnale che porta a pensare che all’interno di questa geometria sia racchiuso un universo infinito che attraverso l’architettura viene a costituirsi come una delle tante rappresentazioni del “sacro”. (G. G.) I progetti qui presentati, sono modelli architettonici di chiese progettati dall’architetto olandese Aldo van Eyck in un arco di tempo che va dal 1963 al 1985. Queste chiese sono state scelte per una riflessione sui principi generativi della forma e dello spazio sacro in architettura. Un tentativo di comprendere quali potrebbero essere i fondamenti di una composizione formale sacra e quali sono le idee che sottendono la sacralità nella progettazione delle chiese. Tentare così di rintracciare quali sono i principi e le radici nell’ organizzare spazi sacri, in cui il volume non è solo il risultato di una funzionalità interna ma è essenzialmente l’integrazione coerente espressa in termini simbolici della Chiesa come concetto universale e come luogo fisico in cui si fissa un rapporto tra la comunità e la civitas dei.1 La Chiesa quindi come spazio che sà recingere e proteggere ma al contempo liberare una “nostalgia” verso un centro spirituale posto in “Alto”2. In tal senso i tre modelli presentati per questa narrazione sono in grado di esprimere contenuti sacri come risultato di una idea di architettura e l’architettura come costruzione coerente e logica correlata al suo uso, che nel nostro caso è un uso liturgico3. Si intende così attraverso il racconto del processo progettuale delle tre chiese mettere in rapporto la concezione di una forma in relazione allo spazio sacro che vuole rappresentare ed esprimere. Nel progetto della chiesa dell’Aja, Pastoor van Ars4 precedentemente analizzata nelle pagine della rivista Thema è stata condotta una approfondita analisi in cui, […] “l’idea di una funzionalità specifica a cui attribuire un volume è rafforzata dalle diverse specifiche soluzioni che caratterizzano la forma compiuta finale.” […] mettendo in evidenza che si possono elaborare forme di chiese basate essenzialmente sulla interazione spaziale e volumetrica degli elementi architettonici che caratterizzano lo spazio sacro interno al suo volume. In generale l’idea di chiesa si formalizza nel raccogliersi della comunità attorno ad un centro, un venire-a-raccolta […]. 5 Il tempio quindi vissuto come centro spirituale come spazio che racchiude in sé l’idea di sacralità. Su queste premesse si fonda il nostro ragionamento basato su un cammino figurativo e sull’atto della costruzione architettonica racchiusa tra la 1
Civitas Dei e Civitas Terrena, Agostino di Ippona, De civitate Dei, in Opera Omnia, vol. V in tre parti, Nuova Biblioteca Agostiniana, intr. di A. Trapé, tr. it. e note di D. Gentili, Città Nuova, Roma 1978-1991
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[…] L’architettura del tempio dovrà esprimere essotericamente questo “movimento”, questa trasformazione: la trasfigurazione dell’individuo disperso in “chiamato”, che da vita ad altri “figli della chiamata” alla Comunità [..] La chiesa è immagine della civitas dei, ma futura. […] che lo spazio del tempio sia davvero avvertito come “centro” –non “centro” fisico o geografico, ma centro spirituale […]. M. Cacciari, Ecclesia, in Casabella n° 640/641 dicembre 1996/gennaio 1997 pag. 1 Editoriale.
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H. van der Laan, Strumenti di ordine, in Casabella n° 634 maggio 1996 pagg. 70-77
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G. Ginex, I dolci ingranaggi della reciprocità Chiesa cattolica all’Aja Pastoor van Ars. THEMA n° 9 /19 pagg. 40-49
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[…] Il vero tempio è formato dal raccogliersi della comunità […] La Chiesa rappresenta l’energia di questo venirea-raccolta, di questo concentrarsi in uno del molteplice […]. M. Cacciari, Ecclesia, in Casabella n° 640/641 dicembre 1996/gennaio 1997 pag. 1 Editoriale.
1. Schemi di studio della configurazione spaziale dei tre modelli di chiesa - Disegni G. Ginex
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Queste chiese sono state scelte per una riflessione sui principi generativi della forma e dello spazio sacro in architettura.
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concezione sacra della liturgia e la concezione terrena dell’architettura6. Tratteremo tre fasi nella nostra narrazione: - L’individuazione dell’”elemento fondativo del rapporto tra chiesa intesa come edificio e Chiesa intesa come comunità”7. - L’individuazione degli elementi architettonici primari sia come “forme” che come strutture come “momenti elementari” nel processo della liturgia. - L’uso degli elementi in senso progettuale e simbolico. I tre progetti diventano così dei manifesti, ciascuno per la parte relativa ad un preciso punto di vista funzionale e volumetrico, ma tutti coerenti all’idea sacra di spazio. In tutti, il tema del qua6
[…] Perciò la Chiesa dovrà apparire da lontano, richiamare, ri-tagliarsi dall’accidentale, costituire uno spazio che, da un lato sappia recingere e proteggere (un’arca, una “nave”), ma dall’altro, anche liberare, sprigionare nuova nostalgia, ad –tendere, aprirsi tutto all’Ad-veniens […]. M. Cacciari, Ecclesia, in Casabella n° 640/641 dicembre 1996/gennaio 1997 pag. 1 Editoriale.
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ll concetto di chiesa come edificio e come comunità è stato trattato nell’articolo sulla chiesa Pastoor van Ars pubblicato su Thema n° 9/19: […] il processo di fondazione della chiesa acquista un particolare significato perché allude ad un cosmo il cui centro è la sacralità come principio fondativo [ …].
2. 3. 4. Le ruote del Paradiso a Driebergen, Pastoor van Ars a l’Aja, Chiesa molucca a Deventer. Piante e sezioni - Archivio Ginex 5. 6. 7. Studi sulla morfologia dei tre modelli di chiesa - Disegni G. Ginex
drato, del rettangolo e del cerchio è esplorato in maniera approfondita. Il “processo di scavo” della forma, la sovrapposizione coerente di strutture geometricamente differenti, sono i temi che più mettono in relazione il rapporto che esiste tra architettura e geometria nella configurazione dei luoghi in cui spazio sacro e sacralità dello spazio rappresentano una coerente definizione fisica, materica e semantica del luogo sacro con i suoi dati formali assoluti, universali ed eterni. Come sappiamo gli elementi che costituiscono, il telaio all’interno del quale si realizza la forma della progettazione della chiesa su cui è possibile edificare ogni costruzione sacra sono: il nartece come luogo liminare del sacro, gli spazi di mediazione dove sta il popolo di Dio, le soglie e le cappelle come luoghi di preghiera. Ma soprattutto l’uso simbolico della luce, elemento materiale e immateriale al contempo, ma anche fisico e spirituale che guida l’orientamento dell’edificio e dei differenti percorsi al suo interno, per giungere alla centralità spirituale dell’aula liturgica. Ed in ultimo l’idea del “sacro anello” formato dai fedeli raccolti attorno all’altare. Nei tre casi analizzati questi momenti liturgici vengono trattati di volta in volta secondo un telaio interno in cui il progettista cerca una corretta collocazione delle forme distributive e funzionali, in armonia con le ipotesi e gli assunti della religione. Questi elementi rappresentano così un ingranaggio che si lega all’Universo attraverso un gioco di geometrie elementari sapientemente articolate, dove la geometria è il materiale indispensabile per organizzare logicamente e spazialmente le forme e il luogo della Chiesa. Tre modelli di chiesa, realizzate e progettate in Olanda: La Chiesa cattolica dell’Aja, la chiesa protestante di Driebergen denominata “Le ruote del Paradiso” e la chiesa protestante per la Comunità delle Molucche di Deventer. Hanno tutte la stessa matrice geometrica originaria pur avendo regole organizzative logicamente e spazialmente differenti. All’Aja la percezione dello spazio interno è frazionato in cappelle laterali, in altari e in un percorso trasversale, uno spazio a grande altezza stretto ed allungato, che rappresenta la navata centrale della chie-
8. Due tipi di centralità? Due modi di stare insieme o da soli? Le immagini sono ambivalenti, anche se la collina rivela ciò che la conca può nascondere: l'orizzonte e il centro mobile, il centro e l’orizzonte interiore - Archivio Ginex
sa8, mentre nelle altre due chiese protestanti, predomina uno spazio unitario “senza alcuna distinzione tra una parte «più sacra» riservata ai pastori e una «meno sacra» per il popolo”. Un unico spazio in cui la comunità si raccoglie rappresentando i valori espressivi della propria appartenenza religiosa secondo contenuti simbolici e culturali specifici della propria fede. In questo caso l’organismo architettonico si sviluppa secondo una sua naturale evoluzione. L’elemento fondativo risiede nell’organizzazione della struttura sintattica degli elementi sia interni che esterni vincolati ad un unico principio di integrazione che mette in relazione il contenuto con il significato stesso della forma. In ogni caso vale per tutte, la forma della copertura che è collegata alla funzionalità interna in cui forma e contenuto interagiscono. In particolare per la Chiesa molucca […] a proposito dell’interno: non volevo creare un unico punto focale (il pulpito) sul quale la gente si concentrasse inconsciamente […] e inoltre van Eyck sottolinea che […] la sola copertura - “balue”, nel linguaggio delle Molucche, qui appoggiata su otto colonne sotto la quale la gente vuole raccogliersi in questa parte del mondo – risulti al tempo stesso più ampia e più chiaramente disegnata […]. 9 Avviene così una corrispondenza tra modello e linguaggio costruttivo che realizza una reciprocità architettonica tra le forme, orientandole verso la specifica sacralità del culto che nel caso della chiesa cattolica è rappresentato dai diversi momenti celebrativi distribuiti in luoghi differenti ma che nell’insieme costituiscono unità, e nel caso delle chiese protestanti la centralità del culto viene rappresentata da un solo momento celebrativo in cui tutta la comunità risponde. Non esiste alcuna discontinuità tra le forme architettoniche delle tre chiese ma una integrazione di elementi volumetrici e funzionali, in tutti i tre casi analizzati, felicemente fusi. La sacralità inizia nello stesso atto di concepire l’architettura in cui il concetto di elemento sta alla base del progetto, elementi 8
THEMA n° 9 /19
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Zodiac n° 16 Settembre 1996/Febbraio 1997: Aldo e Hannie van Eyck, Chiesa per la Comunità delle Molucche, Deventer, Olanda, pagg. 194/197
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9. 10. Chiesa protestante Le ruote del Paradiso e Chiesa della Comunità delle Molucche. Schemi di A.v.E. […] L'attenzione di tutti non dovrebbe essere «convocata» perentoriamente da un unico luogo centrale e cosa avviene proprio lì. Invece l'attenzione di ciascuno dovrebbe essere “concessa” liberamente ad un certo numero di posti.[…] […] Fin dall’inizio ho voluto che la Chiesa fosse multicentrica, ma non a-centralizzata. Volevo uno spazio unico chiaramente articolato (il singolare abbraccia il plurale; il plurale contenuto nel singolare). I centri o luoghi articolati che ne risultano non sono gli stessi, pur essendo ugualmente validi. In realtà non esiste una gerarchia di posti fissa in questa chiesa. A questo ci pensa l'articolazione quadripartita! Ogni luogo è multi-suggestivo […] Per quanto riguarda la diagonalità complessa, penso che aiuti l'idea della multicentralità. La disposizione dei posti sfrutta le varie direzioni implicite affinché ogni Persona possa vivere lo stesso spazio in modo diverso a seconda del gruppo di cui fa parte. Dove si incrociano le diagonali c'è, per una volta, solo spazio! - Archivio Ginex 11. "Le ruote del Paradiso”. Schemi configurazionali del processo di composizione - Disegno G. Ginex
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12. 13. 14. "Le ruote del Paradiso”. Assonometria, pianta ed esploso assonometrico, viste assonometriche del modello digitale - Elaborazione di di G. Ginex
come principi organizzativi, come momenti fondanti il processo della progettazione architettonica e che ne rendono possibile una forma in relazione al sacro e alla sacralità dell’atto religioso che si vuole rappresentare. Elementi sempre intesi come componenti, come forme non solo superficiali, ma principalmente come riferimenti, come citazioni, come “momenti elementari” del processo progettuale e liturgico. Ogni elemento è una possibile iterazione d’insiemi complessi. Una vasta analogia che collega il micro al macrocosmo. In tutti i casi viene messa in atto una geometria che ha un carattere strutturante, come fondamentale parametro di razionalità con cui è possibile leggere il processo progettuale. Le forme geometriche elementari come il rettangolo, il quadrato e il cerchio sono dei pretesti formali che mutano e trasmigrano continuamente, in funzione dei casi specifici o delle funzioni specifiche a cui devono assolvere. Ogni progetto di chiesa è la sommatoria di elementi spesso autosufficienti in sé ma che assumono un vero significato solo nel momento in cui entrano in relazione con altri elementi. È il caso della chiesa protestante di Drienbergen in cui l’intersezione tra cerchio e ret-
tangolo assume una valenza figurativa quasi subliminare10 che si conclude con la presenza di grandi abbaini poggiati sui cilindri del volume che materializzano l’idea della luce e al contempo della penombra realizzando una vera unità “celeste”. Sembra come se i cerchi ruotano in sintonia con il mondo, con il tempo, con lo spazio. Rettangolo e cerchio, compaiono sempre in tutti i progetti in una consequenzialità funzionale che attribuisce loro senso geometrico, spaziale e formale. Gli elementi hanno il ruolo di insiemi fondanti, logicamente ordinati e organizzati a costituire una forma compiuta. Ogni modello diventa una immagine che si sovrappone tra lo spazio esistente, la sua idea e la sua costruzione. Direi quasi una fruizione estetica del volume per la ricerca del giusto perimetro che diventa una soglia tra il visibile e l’invisibile che raggiunge il “sacro”.
Architettura del Bello, Architettura del Sublime: le risposte del Disegno. Atti del Terzo Seminario di Primavera, pagg. 139/149, Palermo, Maggio 1987.
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Analizzeremo i tre progetti attraverso una breve descrizione e con l’uso di immagini e disegni che consentiranno al lettore di comprendere meglio il ragionamento fin qui esposto. Ciò per evitare che lo stesso sia solo una esposizione astratta e teorica. I disegni di van Eyck sono intrisi di archetipicità questa traspare attraverso una attenta ricerca della primordialità presente nell’universo costruito, “affronta il sacro con un procedimento progettuale che ha le sue radici in modelli arcaici, antichi, archetipici”.11 Chiesa protestante a Driebergen (1963) “Le ruote del Paradiso” Tutto è contenuto in un singolo rettangolo con due cortili d’ingresso a ciascun lato! Questo progetto non fu realizzato ma è il preludio ad elaborazioni più profonde, sia sul profilo formale che funzionale. L’idea si basa su una forma rettangolare interrotta da quattro cerchi, due grandi e due piccoli. Il quadrato o la somma dei quadrati di per sè fortemente stereometrica è interrotta da cerchi piccoli e grandi. Uno spazio liturgico racchiuso entro mura apparentemente fragili ma fautori di un elementare “spazio labirintico”. Si configura uno spazio ecclesiale con più centri, non esiste una unica centralità ma al contrario essa si sposta in più direzioni. Il cerchio in questo caso è l’elemento determinante dello spazio progettato, l’elemento più importante sia in termini dimensionali, funzionali che figurativi. Il rettangolo di base assume una forma fluida e dilatata mentre i cerchi rompono questa linearità, tanto da essere dimensionalmente differenti tra di loro. Un centro presente in più direzioni e, Si rimanda al saggio: I dolci ingranaggi della reciprocità Chiesa cattolica all’Aja Pastoor van Ars. THEMA n° 9 /19 pag. 41
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al contempo, luogo unico, centro come punto di tangenza tra i cerchi. Tutto questo dà luogo ad una architettura semplice, concettuale e di grande impatto poetico. I cerchi sono sormontati da grandi abbaini che rompono la rigidezza del rettangolo di base, enfatizzando la forma circolare. Ai due lati estremi del rettangolo costruisce due corti a cielo aperto che sono un preludio all’architettura interna illuminata dai lucernai circolari. Il vuoto delle corti quadrate da vita ad una continuità formale elementare che rimanda all’idea di sacralità per l’effetto simbolico rappresentato dai cerchi della copertura sormontati dagli abbaini che distribuiscono la luce che si differenzia secondo i luoghi interni che illuminano. I disegni della chiesa raccontano il processo compositivo e programmatico del progetto, in cui è evidente la volontà di uscire da schemi geometrici rigidi, ottenuto da un processo alchemico dell’uso del disegno d’architettura.12 Chiesa cattolica a l’Aia (1964-69) Chiesa Pastoor van Ars13 In questo progetto van Eyck tenta di ordinare il complesso gioco delle relazioni gerarchiche tipiche della religione cattolica, rendendo lo spazio sia esterno che interno colmo di metafore spaziali a partire dagli ingressi alla chiesa rappresentati da “piccole” porte laterali in ciascuno dei due lati principali del rettangolo. Il volume della chiesa è racchiuso in un unico rettangolo differenziato nelle altezze e frammentato da lucernai circolari in copertura. La “strada interna” contiene i principali luoghi sacri allineati trasversalmente,
Ogni modello diventa una immagine che si sovrappone tra lo spazio esistente, la sua idea e la sua costruzione.
Si veda in relazione all’uso del Disegno di Architettura di Aldo van Eyck il saggio: G. Ginex, I disegni di Aldo van Eyck: quadrati ‘magici’ e cerchi ‘incantati’ in Ikhnos, Analisi grafica e storia della rappresentazione, 2010, Siracusa, pagg. 129/152
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F. Strauven, Pastoor van Ars Church The Hague a timeless sacral space by Aldo van Eyck, Verlag der Buchhandlung Walther und Franz Konig, Koln 2022
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15. 16. 17. Pastoor von Ars Church a l’Aja, da G. Ginex, Van Eyck in Olanda, itinerario Domus n° 806, 1998. 18. 19. Chiesa della comunità delle Molucche a Deventer. da G. Ginex, Van Eyck in Olanda, itinerario Domus n° 806, 1998 20. Studi sulla conformazione volumetrica della chiesa dei Molucchi a Deventer - Disegno G. Ginex
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rispetto a chi assiste alla funzione religiosa e quindi rispetto alla direzione tradizionale della chiesa cattolica. Attraverso i lucernai circolari, la luce cade uniformemente sull’altare e su tutti gli spazi circostanti, mantenendo una rigida struttura chiusa verso l’esterno ma, come sempre, fortemente articolata all’interno. Come per “Le ruote del Paradiso”, lo spazio è anche in questo caso fluido e ritmato da “luoghi” differenti, siano essi di incontro che di passaggio. Un perimetro regolare che poi viene frammentato in tanti altri spazi sia nel volume che nella superficie. 14 Chiesa protestante delle Molucche a Deventer (1989) Chiesa Maranatha A differenza della chiesa dell’Aja ha un linguaggio opposto. All’uso del cemento monocromatico utilizza nella chiesa per la Comunità delle Molucche strumenti espressivi opposti, come il legno compensato, i tralicci esterni che la avvolgono in uno spazio ininterrotto monopiano dominato da una luce diffusa in cui prevale la tonalità del blu. Gli angoli sono smussati ma come nella chiesa dell’Aja assume un perimetro quasi impenetrabile. È quasi un recinto. Anche in questo caso si parte da una geometria di base elementare, il rettangolo, che a tratti diventa rettangolo e che, a sua volta, è smussato, aperto, “lavorato” come un sistema geometrico mutabile che sembra a volte “incompleto”. Superfici curve piuttosto che cerchi che alleggeriscono a
rendono più fluida la struttura contrapponendola alla rigidezza del rettangolo. Ancora una volta, la copertura determina una forma dell’organismo molto coerente con i temi arcaici. Infatti il tetto, sembra quasi “un manto protettivo”15 che dà coerenza e forma all’idea di sacro che è alla base dell’opera. Ogni forma è coerente con la funzione che deve assolvere rendendo unitario e coerente tutto il sistema progettato, sia esterno che interno. Anche in questo progetto le forme architettoniche hanno tracce di arcaico e di remoto, come sedimento e come graffito ne sono un chiaro esempio i tralicci che avvolgono la superficie esterna del volume, in funzione di nuove possibilità formali e decorative.16 Come conclusione del processo di lettura delle tre chiese di Aldo van Eyck si potrebbe definire un primordiale abaco di elementi fondanti, funzionali e simbolici visti in relazione tra loro. Il processo di progettazione di van Eyck si basa sulla ricerca della giusta configurazione della forma architettonica. Una forma che più che cercare una configurazione autonoma diventa, in relazione al suo uso, un “luogo” in cui l’architettura è la protagonista. Il rapporto che esiste tra forma, disegno e segno è il 15
F. Strauven, Origin and development of the project, in Pastoor van Ars Church The Hague a timeless sacral space by Aldo van Eyck pagg. 109/187.
S. Brandolini, La Chiesa blu di Deventer di Aldo van Eyck, Casabella n° 605 ottobre 1993.
S. Brandolini, La Chiesa blu di Deventer di Aldo van Eyck, Casabella n° 605 ottobre 1993, pagg. 60/67. V. Gregotti, Aldo van Eyck Architetture e pensieri, Casabella n° 517 Ottobre 1985, pagg. 4/21
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12. 13. 14. Chiesa Le Ruote del Paradiso. Maquete Elaborazione di G. Ginex
frutto di una complessa ricerca morfologica che raggiunge una evidente chiarezza geometrica, che deriva dalla consapevolezza che l’elemento geometrico semplice (il cerchio, il rettangolo, il quadrato) può esprimere significati anche poetici amplificati dagli incastri e dalle relazioni geometriche con altre forme. In questa ottica la chiesa protestante di Drienberger “Le ruote del Paradiso” con i suoi abbaini che sormontano i cerchi delle aule di convergenza dei fedeli come punti focali immersi nel percorso di due luoghi essenzialmente ambivalenti: uno per il sacramento dell’Eucaristia e l’altro per lo stare insieme, trova una corrispondenza intenzionale e funzionale con la chiesa di Deventer della comunità dei Molucchi che ha anch’essa un punto centrale di confluenza di tutte le energie della Comunità, il punto in cui si incontrano tutte le diagonali realizzando un’esperienza di grande armonia religiosa. La struttura di base è il rettangolo, ma è un rettangolo che contiene un quadrato ruotato a 45°, immerso in una struttura di semicerchi. Lo stesso vale per i cerchi della chiesa cattolica dell’Aja che scandiscono il ritmo della composizione rettangolare in una cadenza di spazi che inducono all’incontro in una ottica in cui “si incrociano e al contempo si separano secondo le parti “istituzionali” della liturgia (navate, transetto, coro, cappelle, altare)”. Nelle tre chiese è sempre la geometria ad essere articolata poeticamente. In tutti e tre i casi, si assiste ad una sovrapposizione coerente di due strutture differenti, quella religiosa e quella della massa architettonica
Il processo di progettazione di van Eyck si basa sulla ricerca della giusta configurazione della forma architettonica. dell’edificio. Ciò crea una ricchezza di spazi realizzando in ogni caso una esperienza religiosa perniata da “una grande armonia spaziale”. Le tre chiese viste dall’alto potrebbero sembrare strutture fragili e quasi senza tempo e senza peso, potrebbero essere Architetture di una favola che viene raccontata tre volte in un tempo dilatato.
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RONAN BOUROULLEC
CHAPELLE SAINT MICHEL DE BRASPARTS Martin Bethenod Traduzione di Marilena Renzetti
I violenti incendi che hanno colpito i Monts d’Arrée nel luglio 2022 non hanno risparmiato Mont Saint-Michel a Brasparts. Ma il fuoco non ha raggiunto la cappella che corona la sua cima, a 381 m di altitudine. Costruita alla fine del XVII secolo - in linea con l’antica tradizione religiosa del sito - è ora oggetto di un restauro completo e di un progetto di arredamento disegnato da Ronan Bouroullec. La cappella di Saint-Michel a Brasparts è un modesto edificio rettangolare con abside inclinata. I muri hanno uno spessore di oltre un metro. Il tetto in ardesia dei Monts d’Arrée poggia su una struttura in legno di quercia, restaurata con cura dagli artigiani dell’Atelier Le Ber di Sizun. Il pavimento è in terra battuta, leggermente rialzato nella zona del coro. Le pareti sono in pietra imbiancata. La porta sul lato ovest della facciata principale è raramente utilizzata. Si entra dalla porta sud, 24 ore su 24: senza chiave, offre un rifugio, una sosta aperta a tutti, passanti, escursionisti e pellegrini. Ad eccezione di un’acquasantiera in pietra e di alcuni oggetti spontanei e precari - ex voto, croci di legno acciottolate, ciottoli e fiori secchi - la cappella è vuota. Non c’è illuminazione né elettricità. La luce entra dalle due vetrate dell’abside, nello stile astratto che fiorì negli anni ‘50 e ‘60, influenzato dalla rivista L’Art Sacré. Il contrasto della sua nudità con la bellezza del paesaggio che domina, con la forza del vento o della pioggia da cui protegge i visitatori, con la carica spirituale che porta con sé, produce un effetto di grande potenza. Ronan Bouroullec ricorda la cappella Saint-Michel di Brasparts per diversi motivi. Il ricordo di un punto di riferimento sulla strada che attraversava la Bretagna dal sud, dove viveva, al nord, dove abitavano i suoi nonni, come un segnale misterioso e lontano, visto dall’auto a ogni visita. Il ricordo degli incendi che avevano colpito la regione già alla fine degli anni ‘70 e l’immagine suggestiva del paesaggio annerito su cui si stagliava in contrasto la forma più chiara della cappella. Ad essa lo lega anche un altro tipo di memoria: quella involontaria - che, come sappiamo dalla Recherche du Temps Perdu (La ricerca del tempo perduto), costituisce una parte essenziale dell’esperienza umana - che nasce da un’impressione tattile, uditiva o olfattiva... Questa dimensione della sensazione fisica - la penombra, l’umidità, la sensazione della pietra, il rapporto del proprio corpo con volumi e spazi familiari - è all’origine del suo progetto per Saint Michel de Brasparts. È anch’essa, più in generale, determinante dell’intero processo creativo. Integrando fondamentalmente l’intuizione, il sogno a occhi aperti e la sinestesia, questo processo non consiste tanto nel fornire una risposta esplicita a una domanda diretta o nell’eseguire un programma funzionale, iconografico o simbolico predeterminato, quanto nel creare un’esperienza, cioè, nel senso di John Dewey, “un incontro totale con un fenomeno esterno [...], integrato nella coscienza come un’entità distinta da altre esperienze”. Progettare un oggetto, uno spazio o una mostra significa cercare di produrre, a partire da pochi elementi preparati e correlati, un effetto che vada al di là dei materiali, degli oggetti e del luogo stesso, per evocare nello spettatore o nel fruitore uno stato particolare, la sensazione che qualcosa stia accadendo e che ci stia trasformando. La cappella offre un contesto ideale per questo approccio. Sospendendo temporaneamente i movimenti e i rumori del mondo, il suo ruolo di luogo di culto e di contemplazione crea qualità molto particolari di silenzio, concentrazione, contemplazione e attenzione al mondo 1. Foto Claire Lavabre-Studio Bouroullec
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Il suo ruolo di luogo di culto e di contemplazione crea qualità molto particolari di silenzio, concentrazione, contemplazione e attenzione al mondo e a se stessi
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2. 3. Foto Studio Bouroullec 4. 5. 6. Foto Claire Lavabre-Studio Bouroullec
e a se stessi. A Saint-Michel de Brasparts, queste qualità sono ulteriormente rafforzate dal senso di elevazione associato all’ascesa alla cima della montagna, al rapporto con il cielo e al paesaggio. Il progetto di Ronan Bouroullec si basa su un triplice approccio: la ricerca di ridurre all’essenziale il vocabolario dei materiali; la ricerca di un equilibrio tra le sensazioni di massa e leggerezza; la ricerca della vibrazione delle cose attraverso il trattamento delle superfici e della luce. Materiali Il senso di forte continuità tra la Chapelle Saint-Michel e il suo sito, tra l’architettura e la natura, è una delle prime impressioni che colpisce chi la scopre. I materiali degli elementi aggiunti da Ronan Bouroullec prolungano a loro volta questa continuità, come se fossero derivati dal contesto. Il primo è un granito, chiamato “Nuit Celtique de Huelgoat”. È una pietra scura, costellata di schegge bianche, proprio come il cielo stellato notturno sopra la cappella, che è praticamente priva di inquinamento luminoso. Un grande blocco di pietra è stato estratto a Brennilis, a meno di 15 km di distanza in linea d’aria, e poi tagliato in tre pezzi da Christophe Chini, uno scalpellino di Plonévez-du Faou: una base orizzontale, l’altare sovrastante e una console per le candele e gli oggetti lasciati dai visitatori. Sebbene Ronan Bouroullec non utilizzi spesso il granito - il più simile è forse il basalto in una versione della lampada Piani (Flos 2011) - l’acciaio forgiato e martellato è un materiale ricorrente per lui, e dal 2015 ha dato vita a una ricca collaborazione con l’editore italiano Magis, la linea Officina - che comprende una serie di candelabri. Ma a differenza della linea Officina, gli elementi della cappella Saint-Michel sono prodotti artigianalmente, a mano, da Mathieu Cabioch, un ferraio di Roscoff. Anche il terzo elemento, il vetro, occupa un posto importante nel lavoro di Ronan Bouroullec, dal primo specchio creato nel 2003 per kréo, attraverso numerose collaborazioni, sia artigianali che industriali - con GlasItalia e Ittala in particolare - fino alla serie di specchi Flou, lanciata nel 2021 alla Bourse de Commerce. Il legame tra il vetro e il contesto di Saint-Michel de Braspart non rivela l’origine geografica (è realizzato da vetrai della regione di Venezia, con
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7. 8. Foto Claire Lavabre-Studio Bouroullec
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i quali Ronan Bouroullec collabora dal 2018), ma si inserisce in un dialogo logico con l’unico elemento decorativo esistente della cappella: le vetrate, attribuite al maestro vetraio bretone Auguste Labouret, che le ha realizzate anche per diverse chiese del Finistère, in particolare a Morlaix, Roscoff e Brest. Equilibrio Abbastanza pesanti da non poter essere spostati, abbastanza resistenti da non essere danneggiati, abbastanza ruvidi da non richiedere manutenzione, gli elementi che Ronan Bouroullec colloca nella cappella devono, nonostante queste caratteristiche o giocando su di esse, creare un’esperienza sensibile, stabilendo un rapporto intimo con il sacro. La sfida del progetto sta tutta nell’operazione quasi magica di creare leggerezza dalla massa. La nozione di equilibrio è quindi fondamentale. Equilibrio nelle proporzioni, sull’altare delle regole del rapporto aureo. Equilibrio nel rapporto paradossale tra la massa del blocco di granito della consolle e la sua sospensione virtuale su gambe d’acciaio che si prolungano in candelabri. Equilibrio tra il peso dello specchio e la sua dimensione impalpabile, quasi irreale. Anche l’equilibrio è al centro della riflessione sulle modalità di unione dei diversi elementi: la questione della giunzione è centrale per Ronan Bouroullec, tanto che gran parte del suo lavoro può essere letto attraverso di essa. Gli elementi in pietra sono assemblati direttamente, semplicemente appoggiati l’uno sull’altro, con una leggera sporgenza sulla base che dà la sensazione di essere leggermente sollevata da terra. I pezzi forgiati sono semplicemente inseriti nei blocchi di granito o nel pavimento. I due elementi della croce sono uniti da un semplice connettore, una barra con un foro incassato. Vibrazione Altrettanto determinante è la nozione di vibrazione, che nella Chapelle SaintMichel di Brasparts è ottenuta lavorando sia sulle forme - nessuna linea è dritta, nessuno spigolo è tagliente, tutti hanno un leggero raggio, scolpito con uno scalpello - sia soprattutto sulle superfici di ciascun materiale, per rafforzare l’effetto di continuità di texture tra di essi. La bocciardatura del granito, la sfumatura del vetro, la martellatura dell’acciaio, la scelta di una finitura galvanizzata per attenuare il contrasto tra la croce e i candelabri e il bianco delle pareti imbiancate a calce: ogni operazione concorre ad associare le sensazioni di ruvidità e morbidezza, forza e tremore. Infine, è la luce a dare vita all’intero progetto. Entra in modo abbastanza ampio attraverso le vetrate, e più generosamente quando le porte si aprono, per animare il disco riflettente posto dietro l’altare. Più che uno specchio, più che un oggetto, è concepito come una fonte di luce priva di materialità, come se un foro circolare, praticato nella parete, lasciasse apparire il giorno in modo casuale e costantemente mutevole. A questo si accompagnano due serie di candelieri, una composta da tre grandi candelieri con piedi incastonati nella base di granito accanto all’altare, l’altra da 14 candelieri incastonati nel granito della console. Una coppa saldata alla sommità di ciascun candeliere accoglie candele di diverse forme e dimensioni, dalla grande candela della chiesa alla modesta tea light. L’altezza della fiamma varia da 110 a 180 cm. Il numero delle luci non ha alcun significato simbolico o teologico, anche se il gruppo di candele vicino all’altare può ricordare ad alcuni il trikirion pasquale delle chiese orientali e il suo legame con il concetto di Trinità. Il progetto nel suo complesso, è stato definito in modo intuitivo, empirico, per tentativi, grazie a una serie di modelli in scala 1:1 e all’analisi delle sensazioni che provocano. Poi - ma solo in questa seconda fase, che segue quella della sensazione, dello stupore e della cristallizzazione - è stato oggetto di un dialogo serrato con il vescovo di Quimper e con il parroco di Chateaulin, per affinare ulteriormente gli aspetti di funzionalità e di utilizzo: aggiustare l’ampiezza dell’altare, ridurre il numero di candelieri sulla consolle in modo che possa accogliere anche altri oggetti, offerte o luci, che i visitatori verranno spontaneamente a collocarvi. Per concludere questo primo tentativo di descrizione del progetto di Ronan Bouroullec per Saint-Michel de Brasparts – innanzitutto perché è così aperto e lascia così spazio alla futura appropriazione da parte dei suoi utenti, che avrà senza dubbio bisogno di essere rielaborato nel tempo – vorrei menzionare il concetto di parsimonia. Questa regola – usata nel mondo della filosofia delle scienze – vorrebbe che la bellezza di una proposizione scientifica risieda nel fatto che poco spiega molto Saint Michel de Brasparts è il luogo adatto per questa piccola opera. Tre elementi, tre materiali - il ritmo è quasi da haiku - una luce rarefatta e fragile, ci ricorda Junichiro Tanizaki: “sentiamo che l’aria, in questi luoghi, contiene uno spessore di silenzio, che una serenità eternamente inalterabile regna su questa oscurità”. Potremmo anche dire: una grazia.
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11. Foto Claire Lavabre-Studio Bouroullec
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Rubriche ESPERIENZE A T(H)EMA Francesco Menegato
DIARIO DI VIAGGIO
STAGE PREMIO PRESSO MECK ARCHITEKTEN Introduzione La figura di Axel Fruahuf, architetto tedesco a capo dello studio Meck Architekten di Monaco di Baviera, si stagliava su uno sfondo nero mentre il suo videomessaggio veniva proiettato sulla parete di fondo del Broletto di Pavia, in occasione della giornata di premiazione della IX Edizione del Premio Europeo indetto dalla Fondazione Frate Sole. L’immagine, nel suo complesso, trasmetteva un certo rigore d’oltralpe e una disinvolta essenzialità da studio di architettura affermato, riscaldate dal sorriso aperto e sincero del suo titolare. Solo varcando la soglia di quello stesso studio nel centro di Monaco, qualche mese dopo, avrei scoperto come quel nero che si stagliava sullo sfondo del videomessaggio era in verità una parete dipinta interamente come una lavagna, con una grande porta scorrevole anch’essa di lavagna nera, sulla quale una serie di calamite tenevano in posizione di volta in volta ricordi, fotografie, schizzi di artisti e tavole di concorso, mentre dalle finestre che la fiancheggiavano entrava squillante il verde delle chiome degli alberi del cortile sottostante. Si potrebbe dire che quella grande parete sempre in mutamento e quel cortile silenzioso abbiano fatto da testimoni ai mesi intensi e operosi che ho passato durante lo stage premio presso lo studio Meck Architekten.
Il premio Questa preziosa esperienza di apprendimento è stata resa possibile grazie al Premio Europeo di Architettura Sacra che ogni due anni viene indetto dalla Fondazione Frate Sole di Pavia e che premia a livello europeo - e, dall’edizione 2023 anche a livello internazionale - le tesi che trattano e approfondiscono il progetto dello spazio sacro. Con la vittoria di questo premio, pertanto, alla soddisfazione per il lavoro svolto si è unita una grande trepidazione per il futuro e una curiosità punteggiata di timore per un’esperienza che mi avrebbe condotto in una realtà altra sia a livello professionale che umano. Con l’attento sostegno della Fondazione Frate Sole e il coinvolgimento entusiasta di A.N.C.E. Pavia è stato possibile creare un’esperienza di stage cucita su misura e intrecciare fin da subito sia con gli organizzatori che con lo studio di Meck Architekten un rapporto collaborativo e proiettato al futuro, che ha connesso le diverse realtà del premio (lo studio di Monaco ha infatti vinto il Premio Internazionale di Architettura Sacra rivolto alle chiese costruite, indetto ogni quattro anni sempre da Fondazione Frate Sole).
Lo studio Questo premio, vinto con il progetto della chiesa dedicata al Beato Rupert Mayer realizzata nella cittadina di Poing, è uno dei tanti che hanno riconosciuto sia in Germania che all’estero la qualità dei progetti di Meck Architekten e la targa che lo commemora si trova
RUBRICHE - ESPERIENZE A T(H)EMA 1. Cappella del Dominikuszentrum a Monaco di Baviera - Foto Francesco Menegato
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Rubriche
insieme ad altre sulle mensole metalliche della biblioteca all’ultimo piano dello studio nel centro di Monaco, tra libri, riviste e campioni dei diversi materiali utilizzati negli edifici realizzati. Questa immagine di premi affiancati ad oggetti di uso quotidiano ben descrive lo spirito che guida la vita professionale e le relazioni all’interno dello studio: a fianco di una struttura gerarchica organizzata e di un metodo di lavoro definito da regole semplici ma precise, che regolano a più livelli il confronto con clienti prestigiosi e lo sviluppo di progetti di grande complessità, molta attenzione viene posta alle occasioni che permettono di stringere e rafforzare le relazioni interpersonali e viene coltivata un’informalità rispettosa che favorisce una collaborazione molto stretta. Questo tipo di organizzazione (unita ad una diversa concezione del giovane professionista e della responsabilità individuale del lavoro rispetto a quella che ho riscontrato nel mio paese natale) fa sì che, ad esempio, ad occuparsi del progetto del nuovo centro congressi pensato per Siemens sulle sponde dello Starnberger See, un lago a sud-ovest di Monaco, sia un team di giovani architetti poco più che trentenni; anche con loro si condivideva la pausa di metà mattina, passata con tutti i membri dello studio a consumare le bevande e i bretzel che a turno uno di noi aveva predisposto sotto i due grandi alberi del cortile del palazzo. Ecco che, quindi, i discorsi sullo stato di avanzamento dei progetti e dei concorsi su cui ciascuno di noi stava lavorando si mescolavano a risate, ai racconti sulle avventure del weekend o ai suggerimenti per gli eventi a cui partecipare la sera.
I concorsi: Neupfarrkirche
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Quando rientravo nelle grandi stanze di coworking dello studio, arredate con uno stile industriale essenziale e funzionale, il mio lavoro si concentrava sui temi della progettazione e della definizione dello spazio sacro, grazie anche all’attenzione posta dal personale dello studio nel creare continuità tra l’oggetto del Premio Europeo che mi aveva condotto lì e il progetto a cui avrei collaborato. In un team di lavoro guidato da Axel Fruahuf e dall’architetto Sofie Langenscheidt ho avuto modo di mettermi alla prova con il concorso per la ridefinizione dello spazio sacro della Neupfarrkirche di Ratisbona, uno dei principali luoghi di culto del Protestantesimo nella Baviera orientale. La nostra proposta per la riprogettazione persegue la visione di offrire a questo edificio così rappresentativo un interno pulito, dignitoso eppure in cui possa essere vibrante il senso del sacro. Gli interventi richiesti in questo contesto si limitano perciò a una cauta triade di “riordino, sistemazione e correzione”. La chiesa è stata costruita sulle macerie del ghetto ebraico e della sua sinagoga su progetto originario pensato da Hans Hieber all’inizio del XVI secolo, del cui maestoso impianto a navata unica con grande coro poligonale poco rimane in seguito a numerose aggiunte, trasformazioni e ampliamenti. Tutti i tentativi compiuti in seguito per “completare” l’edificio sono rimati tuttavia provvisori, e pertanto non sono sfociati in una soluzione coerente che determinasse uno spazio architettonico sacro che soddisfacesse tutti i sensi. Seguendo un progetto che riprende i concetti di essenzialità e proporzione così importanti all’epoca della costruzione della chiesa e nelle teorie dell’Umanesimo che in parte influenzarono la Riforma, la correzione e l’arretramento del bordo anteriore della galleria sul coro occidentale fa sì che la navata a due campate a volta a crociera e il coro orientale poligonale possano essere nuovamente vissuti nella loro interezza. Si viene pertanto a creare un rapporto armonioso tra l’area polivalente d’ingresso dal soffitto basso e rivestita di legno e l’interno luminoso e ampio della chiesa.
I concorsi 2: Garzweiler Concluso con un terzo posto il concorso per l’adeguamento dello spazio sacro della Neupfarrkirche di Ratisbona, l’esperienza presso lo studio Meck Architekten mi ha dato modo di mettere ulteriormente in discussione le mie conoscenze applicandomi ad un secondo concorso che prevedeva di immaginare un’architettura a lungo termine, su di un paesaggio in drastico cambiamento. La miniera a cielo aperto Garzweiler, nella parte occidentale della Germania, divora con il passare degli anni terreni, strade e paesi alla ricerca di materiale combustibile fossile, creando
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Rubriche alle proprie spalle un paesaggio lunare e sconcertante. Nell’ottica di una sua dismissione e trasformazione in lago con un progetto che guarda da qui a cinquant’anni si inserisce il concorso per la definizione di un Centro di Documentazione che tenga traccia della storia secolare e dei mutamenti che hanno interessato la miniera e il suo territorio. Il nuovo edificio pertanto ha una forma architettonica simbolica e sorprendente, che ne determina la desiderata riconoscibilità nel paesaggio circostante in continua evoluzione. A causa della distanza tra il sito di progetto ed il bordo della miniera a cielo aperto, la struttura si innalza in modo da offrire una varietà di punti di osservazione sul luogo soggetto al cambiamento. Il centro di documentazione ed il padiglione che gli si affianca formano un insieme plastico su una terrazza leggermente rialzata, che definisce lo spazio dell’area museale rispetto alle circostanti strutture all’aperto e crea un’area di qualità su cui poter sostare ed avere una visione su ciò che sta accadendo. Il design riprende l’orizzontalità, il colore e la disposizione a terrazzamento della miniera a cielo aperto. Simile ad un ulteriore movimento minerario della miniera, lo sviluppo dell’edificio avviene sul bordo e si riflette nella sua forma. La struttura, realizzata in solida terra battuta, sembra essere stata modellata dal terreno. L’edificio punta ad essere un progetto pilota per l’edilizia sostenibile e la circolarità grazie all’impiego di un materiale che permette un basso consumo di risorse e un’ottima riciclabilità, tenendo conto anche di un concetto climatico ed energetico che punta al risparmio di risorse.
Conclusioni Temi così forti e stranianti nel loro essere così distanti da una quotidianità ordinaria mi hanno permesso di esplorare nuovi orizzonti e di mettere alla prova le capacità progettuali su questioni complesse, maneggiando un linguaggio architettonico che mi è stato trasmesso come derivato prima di tutto da una forte idea che innerva tutto il progetto, dalla concezione iniziale fino alla definizione dei dettagli. Nella città stessa di Monaco di Baviera si trovano diversi esempi di questa capacità maturata in seno allo studio Meck Architekten di concretizzare un linguaggio architettonico fortemente poetico attraverso soluzioni costruttive che rileggono nel tempo presente tecniche e materiali tradizionali: mi è stato infatti possibile vivere la traduzione spaziale dei concetti espressi nelle fasi decisionali dei concorsi all’interno di edifici come la stessa chiesa di Poing, in cui pietra e ceramica danno vita ad un prisma di luce che sovrasta lo spazio sacro, il Dominikuszentrum, i cui mattoni che ne definiscono le forme pure vengono impressi da iscrizioni di parole in una moltitudine di lingue diverse, smaltati di blu, incrostati di piccole croci dorate, o la sala funeraria di München-Riem, in cui pietra, cemento e acqua plasmano le preghiere e le invocazioni dei fedeli. Nel fisiologico moltiplicarsi delle esperienze che un’opportunità come lo stage di tre mesi presso Meck Architekten produce, la possibilità dell’architettura - e in particolar modo dell’architettura sacra - di dare forma e plasmare matericamente concetti e moti che vibrano all’interno dell’animo umano è sicuramente l’intuizione più forte che ho maturato. Vederlo testimoniato nella pratica progettuale e concretizzato in edifici compiuti, invece, l’insegnamento più stimolante che ho ricevuto.
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THEMA 14
HANNO SCRITTO PER THEMA 14|23
70 Claudia Sanna. Nasce a Cagliari nel 1980 e risiede a Samatzai nel Sud Sardegna di cui, da giugno 2019, è Assessora alla Cultura. Si laurea in Storia dell’Arte Medievale sotto la guida del Prof. Roberto Coroneo, maestro della cultura storico-artistica della Sardegna e del Mediterraneo medievale, con una tesi sulla chiesa romanica di San Michele di Murato in Corsica. Dopo la laurea si specializza in vari ambiti: archeologia, biblioteconomia e archivistica, tecnologie applicate ai Beni Culturali. Ha all’attivo diverse pubblicazioni nell’ambito del romanico di Corsica e Sardegna. Andrea Dall’Asta. Dopo aver studiato architettura a Firenze, entra nella Compagnia di Gesù nel 1988. Dal 2002 dirige la Galleria San Fedele di Milano. Ha fondato a Milano nel 2014 il Museo San Fedele. Itinerari di arte e fede. La sua attenzione è rivolta al rapporto tra arte, liturgia e architettura. Ha partecipato a importanti progetti come gli adeguamenti liturgici della cattedrale di Reggio Emilia (2011) e della Basilica di Santa Maria Assunta di Gallarate (2018), la realizzazione dell’Evangeliario Ambrosiano (2011), del Padiglione del Vaticano per la Biennale di Venezia (2013) e della sezione Disegnare il sacro alla Biennale di Architettura di Venezia (2014). Insegna alla Pontificia Facoltà teologica di Napoli (sez. San Luigi). Giuliana Quattrone. Architetto, Dottore di ricerca in Pianificazione Territoriale e Prima Ricercatrice in Urbanistica, Docente di Strategie per la Valorizzazione dei Beni culturali, è autrice di vari libri e saggi sulla valorizzazione delle strutture ecclesiali tra
cui: “La chiesa nella città moderna. Architettura, arte e progetto urbano”, 2007, edizioni Franco Angeli “I luoghi della fede e gli itinerari dell’arte” 2009 edizioni Città del sole, “Planning religious tourist routes for the development of Calabria territory”, 2012 edizioni Esperidi,“Strutture religiose storiche quali testimonianze identitarie sul territorio per la riorganizzazione territoriale e la promozione turística” 2019 in Atti del XXXII Congresso geografico italiano. Alessia Panepucci. Ingegnere edile-Architetto. Laureata con lode a L’Aquila con una tesi in Architettura e Composizione Architettonica dal titolo “Integrazione artistica e Design For All: riqualificazione del Viale Duca degli Abruzzi e riprogettazione della Scuola Giovanni XXIII”. Dall’anno accademico 2022/23 collabora in qualità di tutor allo svolgimento delle attività del laboratorio progettuale di Architettura Tecnica I e dallo stesso anno accademico è PhD student presso il Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile Architettura e Ambientale dell’Università degli studi dell’Aquila. Alejandro Beautell. Architetto con sede a Tenerife, Isole Canarie. Le sue opere hanno ottenuto numerosi riconoscimenti, evidenziando la sua presenza nelle mostre internazionali delle Biennali di Architettura di Venezia, Spagna e Buenos Aires, il Premio Edificio dell'Anno di Archdaily, il Premio di Arte e Architettura Religiosa concesso da Faith and Form e il Premio American Institute of Architects e il Premio Excellens della Reale Accademia di Belle Arti di San Michele Arcangelo.
71 Andrea Jasci Cimini. Architetto. Ha collaborato con diversi studi di architettura in Italia e all'estero. Le aree della ricerca spaziano dalla progettazione architettonica al tema della trasformazione urbana e del territorio. È stato tra i progettisti selezionati per il padiglione Italia alla Biennale di architettura di Venezia, 2018. Vive e lavora in Svizzera. Sergio Massironi. Teologo del Dicastero vaticano per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, dirige la ricerca internazionale Doing Theology from the Existential Peripheries. Editorialista de L'Osservatore Romano, cura il blog A misura d’uomo. Per Castelvecchi dirige la collana Teologia dalle periferie. Gaetano Ginex. Architetto e professore. Ha insegnato all’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Ha fatto parte del Collegio dei Docenti del Dottorato di Ricerca in “Architettura e Territorio”. È direttore del Laboratorio OFFICINA MEDI_TER del Dipartimento dArTe dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria promuovendo lo sviluppo delle regioni mediterranee con l’obbiettivo di valorizzare il loro patrimonio culturale (archeologico, ambientale, religioso) su scala locale e internazionale. Nel 2012 ha conseguito l’Abilitazione Scientifica Nazionale a Professore Ordinario (08/E1-1^Fascia-Disegno.). Martin Bethenod. Ha ricoperto numerosi incarichi nel campo della cultura e dell'arte contemporanea. Tra cui: direttore del Dipartimento Editoriale del Centre Pompidou (dal 1998 al 2001),direttore dello sviluppo di Connaissance des arts (2001
- 2002), redattore capo della rivista Vogue France (2002 2003), commissario generale della FIAC (dal 2004 al 2010) Amministratore Delegato di Palazzo Grassi SpA (2010), vicedirettore generale della Collection Pinault Paris (2016), redattore capo della rivista Pinault Collection (dal 2013 al 2019). Attualmente è presidente del Crédac–Centre d’art contemporain di Ivry (dal 2013) e presidente degli Archives de la Critique d’Art. Ha curato diverse mostre d’arte. Francesco Menegato. Architetto. Laureato all'università IUAV di Venezia con la tesi “Abitare la soglia”, progetto per una chiesa a L’Aquila, con cui vince il IX Premio Europeo di Architettura Sacra indetto dalla Fondazione Frate Sole di Pavia e grazie al quale ha modo di lavorare presso lo studio meck architekten di Monaco di Baviera. Prima collaboratore ed in seguito progettista in gruppi di progetto per concorsi di progettazione e adeguamento dei luoghi di culto a livello nazionale e internazionale.