Thema 16|24

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THEMA

RIVISTA DEI BENI CULTURALI ECCLESIASTICI

THEMA

RIVISTA DEI BENI CULTURALI ECCLESIASTICI

THEMA 16|24

2024

periodico semestrale

Pubblicazione registrata presso il Tribunale di Pescara, con autorizzazione del 15/6/2011, registro di stampa 10/2011

ISSN 2384-8413

Editore

Centro Studi Architettura e Liturgia

via della Liberazione 1, Montesilvano (Pe)

Direttore Responsabile

Francesca Rapini

Redazione

via della Liberazione 1, Montesilvano (Pe)

Stefano Agresti, Francesco Finocchiaro, Stefania Gruosso, Sergio Massironi, Francesco Miraglia, Giuliana Quattrone, Paola Renzetti

Comitato Scientifico

Luigi Bartolomei, Goffredo Boselli, Fabrizio Capanni, Andrea Dall’Asta, Esteban Fernández-Cobián, Antonio de Grandis, Renato Laganà, Andrea Longhi, Giuseppe Pellitteri, Claudio Varagnoli

Corrispondenti

Andrea Jasci Cimini (Svizzera), Luigi Monzo e Stefano Agresti (Germania)

Progetto grafico e impaginazione

Mauro Forte

Hanno collaborato

Massimo Angrilli, Beatrice Ciarletti, Giuseppe Di Eleonora, Don Armando Minelli, Donatella Rossi, Claudio Varagnoli, Ordine degli Architetti PPC della provincia di Siracusa

Partner

Dipartimento di architettura, Università degli studi

"G.D'Annunzio" Chieti-Pescara, Ordine Architetti PPC di Fermo Amministrazione

Alessandro Amicantonio, Luca Litterio

Credits & Copyrights

Legge 22 aprile 1941, n. 633

Art. 70

1. Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l’utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali.

[...]

3. Il riassunto, la citazione o la riproduzione debbono essere sempre accompagnati dalla menzione del titolo dell’opera, dei nomi dell’autore, dell’editore e, se si tratti di traduzione, del traduttore, qualora tali indicazioni figurino sull’opera riprodotta.

Dove non esplicitamente indicato negli articoli, il materiale fotografico è di proprietà dell'autore del testo o scaricabile liberamente da internet.

www.themaprogetto.it themaes.editore@gmail.com

In copertina

Claire Morgan, Act of God/Höhere Gewalt, 2015. Kunst-Station Sankt Peter Colonia

In quarta di copertina

Eduardo Chillida, Gurutz Aldare, 2000. Kunst-Station Sankt Peter Colonia

pg.

1. Editoriale

Sergio Massironi

3. La forma del tempo.

Aldo van Eyck per il Monastero dei Benedettini di Catania

Gaetano Ginex

13. Santa Maria in Piano a Loreto Aprutino.

Dal miglioramento sismico al disvelamento di nuovi dipinti murali

Eliseba De Leonardis, Marialuce Latini, Lorenzo Leombroni, Aldo Giorgio Pezzi, Paolo Taricani

19. Il Santuario della Madonna delle Lacrime di Siracusa.

Il concorso, la costruzione

Federico Fazio

27. Dall’urbano al trascendente.

La chiesa de la Ascensión del Señor a Siviglia, Spagna

Salvador Cejudo Ramos

33. Nuovo complesso parrocchiale Santa Lucia a Enna Giuseppina Farina

39. Presente e Memoria.

La chiesa di San Venanzio a Semonte - Gubbio

Claudio De Meo, Gabriele Orlando

47. Cappella São João Bosco a Diadema- Brasile

Andrea Jasci Cimini

53. "Come stella che cada dal cielo la speranza passò sopra le loro teste".

Sul senso della copertura in alcune chiese di Emil Steffann

Tino Grisi

61. Maestosità ecclesiale strabiliante nella semiotica dello spazio urbano. Il barocco delle chiese salentine

Giuliana Quattrone

65. Le chiese chiuse. Un patrimonio da svelare e da abitare Francesco Finocchiaro

69. Architettura e fotografia. Sant’Antimo

Federico Busonero

75. Dio è nei dettagli

Alessandro Sonsini

SPECIALE KUNST-STATION

79. Fin dove portano le immagini. Kunst-Station Sankt Peter Colonia Stefano Agresti

Editoriale

Mi sono imbattuto in un testo di trent’anni fa - 1994 - firmato da Álvaro Siza per la presentazione della tesi di laurea dell’allievo Roberto Cremascoli. Il maestro scrive: «La pratica dell’architettura deve essere Allegria, un’allegria che possa contaminare gli spazi». La citazione non finisce qui, ma confesso che la copertina di Thema 16 mi ha sin dal primo istante ricondotto a questa gioia contagiosa. Ne abbiamo una sete inesauribile ed è particolarmente facile smarrirne il ricordo. Vi sono infatti pratiche, persino architettoniche o artistiche, che hanno smarrito l’allegria. Questa espressione rinvia a una leggerezza non sciocca, perché contrasta l’appiattimento del banale e libera dalla pesantezza delle vie obbligate. «Per questo l’iniziazione in architettura - continua il Siza - comincia attraverso la conquista di un guardare attento e disinibito, che sia in grado di correggere la percezione globale e nebulosa per mezzo dell’analisi». È anche la scommessa di una rivista come questa, che innesta i propri sforzi su una storia di editoria attenta e disinibita, tesa a risvegliare e a collegare gli sguardi. Il bello e il buono emergono, sin dal canto biblico di Genesi 1, dal caos informe attraverso la luce di uno sguardo che distingue ciò che non è ancora e lo chiama a essere, tagliandolo dall’indistinto. Nuovi vincoli, infiniti legami sorgono da quel taglio, in un permanente venire alla luce.

Siamo coinvolti in questo processo di cui l’umanità è figlia e custode, tradendo il quale le tenebre ritornano, i nomi si perdono e tutto è rapidamente distrutto. Abbiamo gli occhi pieni di città devastate, di architetture disintegrate, di ambienti naturali violati. Ci occorrono pratiche gioiose, che rappresentino una correzione della percezione, maturino «nell’individuazione del dettaglio ed infine nel dialogo». Secondo il grande architetto portoghese, la scommessa sta nell’«Applicare questo primo passo della formazione alla pratica progettuale, all’invenzione (nella difficoltà di far convergere lo sguardo dei nostri due occhi fin da subito simultaneamente) trovata per tentativi successivi, in grandi cerchi intorno al processo del progettare, mutando le immagini e la distribuzione delle funzioni fino alla serenità, alla densità e al silenzio della Architettura».

Al lettore che si accosta a queste pagine possa giungere il riverbero di invenzioni antiche e nuove, portatrici di serenità, densità e silenzio. Queste tre parole paiono venire a noi dai luoghi, attraverso la potenza della fotografia e la lucidità degli scritti. La vita e soprattutto le regole di un mercato impazzito ci inducono a uno strabismo cui Siza oppone la convergenza sul bello che nessun interesse può asservire. Ciò che produce allegria è soltanto il gratuito che traspare nelle vere imprese, in quei processi creativi in cui il lavoro umano è degno e suscita dignità. È questo il sacro, il radicalmente nuovo, in cui la differenza umana brilla di cura e offre riposo. Da un coro di notte alla trascendenza nella vita urbana, dalla terra che trema al rapporto fra copertura e stelle, questo numero di Thema sia coi suoi contributi un contagio di allegria.

1. Dettaglio della stazione AV di Reggio Emilia, di Santiago Calatrava

LA FORMA DEL TEMPO ALDO VAN EYCK PER IL MONASTERO DEI BENEDETTINI DI CATANIA

Per chi si avvicina per la prima volta al complesso dei Benedettini di Catania subisce meraviglia e stupore insieme. Fondato dai monaci cassinesi nel 1558, edificato sull’acropoli della città. Si poggia a terra con una presenza materica che innesca nel visitatore un insieme di sensazioni che stimolano sentimenti “architettonici” di stupore, sia per la sua dimensione che per il suo colore. La scelta di occuparsi di una piccola parte di questo complesso sistema monastico, risiede nella volontà di affrontare il tema della concatenazione e della dipendenza formale degli spazi religiosi che fanno dell’architettura sacra un unico e irripetibile impianto di convenzioni spesso sconosciute. Questi piccoli spazi evocano in alcune parti della loro architettura momenti e atmosfere legati alla religiosità intima e segreta che fa di questi luoghi, spazio di meditazione e di silenzio.

Il Coro di Notte del monastero dei Benedettini di Catania1 si incastra in una piccola area della monumentale fisicità dell’intero sistema monastico, racchiudendo al suo interno un universo di senso religioso legato alla fede, alla solitudine, alla meditazione. Si colloca nelle pieghe degli spazi del monastero offrendo alla mente immagini senza tempo affidate al suono, al canto, all’impalpabile, ad atmosfere sacre in un luogo sacro e misterioso. Un luogo quindi di spiritualità e di pensiero. É parte del tutto ma al contempo è un luogo a sé, intimo quanto basta per essere quasi “invisibile”. Luogo delicato che richiama stati d’animo legati alla notte e al silenzio in un clima di contemplazione. É al secondo livello del grande sistema monumentale ed è suddiviso in ambienti che si sviluppano lateralmente al corpo principale. É costituito dalla sala ad unica navata che si conclude con un coro e un piccolo abside di forma ovoidale da dove si accede ad altri particolari luoghi come un delicato matroneo2 utilizzato dai monaci anziani per assistere alle funzioni religiose.

A Giancarlo De Carlo fu affidato l’incarico di redigere il Progetto Guida dell’intera compagine e di essere esso stesso una guida ufficiale culturale e scientifica di tutto il processo di recupero e di riconversione in una complessa problematica di restauro e di realizzazione di nuovi eventi architettonici presenti nella fabbrica o costruiti ex novo.3

Il Progetto Guida venne preceduto da un concorso di progettazione

1 Il progettista del Monastero è l’architetto Francesco Battaglia architetto siciliano che nel 1747 iniziò i lavori. Lavorò alla costruzione del convento dei benedettini di Catania con il grande architetto Giovan Battista Vaccarini.

2 Nella parte fondale del Coro di Notte, grazie ad un passaggio “nello spessore” del muro curvilineo, adiacente all’abside, è possibile scoprire un affaccio suggestivo e particolare: una sorta di “matroneo” che guarda dall’alto all’interno della Chiesa, all’altezza dei fregi della trabeazione

3 Nel 1866 il Monastero di San Nicolò l’Arena di Catania viene estromesso alla comunità benedettina, nel 1869 con Regio Decreto del 15 Agosto 1869 è inserito nella lista dei Monumenti Nazionali Italiani ed in particolare la Chiesa omonima entra nel patrimonio del Fondo Edifici di Culto del Ministero dell’Interno; Nel 1977 il complesso viene donato dal Comune di Catania all’Ateneo di Catania con condizione che diventi sede della Facoltà di Lettere e Filosofia. Il complesso monastico diventa proprietà dell’Università di Catania. G. De Carlo, Un progetto per Catania. Il recupero del Monastero di San Nicolò l’Arena per l’Università. Genova, Sagep editrice, 1988

L’obbiettivo del progetto del Coro di Notte nel progetto-guida di De Carlo era quello di farlo diventare

un luogo centrale per gli incontri formali e informali degli studenti

pubblico, un concorso di idee, che non ebbe un efficace esito. Tra le proposte molte idee di grande interesse ma nessun progetto in grado di soddisfare una adeguata utilizzazione degli spazi da destinare a sede universitaria salvaguardando l’identità dell’edificio. Il monastero, sebbene “per un verso incuta un certo timore”, come afferma lo stesso De Carlo, possiede una intrinseca capacità di adattamento che risulta stimolante alla luce della sua nuova destinazione d’uso da convento a sede dell’Università, Facoltà di Lettere e Magistero.4

Nel progetto guida, De Carlo coinvolse diversi architetti e ingegneri di chiara fama internazionale attribuendo ad ognuno un progetto specifico. In questa sede a noi interessa presentare il progetto del Coro di Notte, affidato da De Carlo ad Aldo van Eyck.5 Questa scelta era dettata oltre che dalla profonda amicizia tra i due, dalla capacità di van Eyck, riconosciuta internazionalmente, di sapere organizzare spazi particolarmente delicati con una maestria tale da riformulare senso e significato dei luoghi senza alterarne l’essenza. Van Eyck propose una idea di progetto senza portare l’idea definitiva a compimento. Quindi il progetto non fu mai realizzato! ma ci sembra interessante presentare la prima fase di esso, proprio per la particolare angolazione con cui van Eyck affrontò il problema progettuale rivelando nuove possibilità formali e spaziali del piccolo organismo del Coro di Notte che coinvolsero alla fine non solo il luogo del Coro ma tutti gli spazi ad esso collegati in un complessivo riordinamento funzionale ed estetico dell’area ad esso riconducibile. Il progetto inoltre invita ad un “nuovo” pensiero sulla riconversione dei luoghi sacri in nuove funzioni, spesso contrastanti con l’origine stessa del luogo e del suo significato, oggi tema architettonico particolarmente dibattuto.6 É un piccolo spazio dove i monaci si riunivano per sentire gli archetipi che prendono le sembianze dei suoni e dei canti e che si nascondono tra le pieghe delle pietre costruite. Ha un ruolo essenziale per i benedettini ed è dotato

4 Un anno dopo la redazione dell’Atto di Donazione si susseguono una serie di eventi che portarono alla stesura di un Bando di Concorso: Giugno 1979: Stesura del Bando, Novembre 1983 conclusione dei lavori della Commissione esaminatrice. Tra le proposte molte idee di grande interesse ma nessun progetto in grado di soddisfare la domanda dell’Università. Da tale constatazione, l’Università decide di conferire a Giancarlo De Carlo l’incarico di un progetto-guida al fine di raccogliere gli spunti più interessanti offerti dalle varie proposte presentate al concorso, integrandoli in un disegno più generale. AAVV. Quattro progetti per il Monastero di S. Nicolò l’Arena. Catania: Università degli Studi di Catania, Ufficio Tecnico Università. 1988

5 L’idea, di Giancarlo De Carlo, era quella di stendere una rete di minute contraddizioni negli spazi di discontinuità, così da consentire al visitatore occasionale di esperire questo edificio in modo nuovo e libero. Non si disponeva neppure di rilievi approfonditi o di studi che dessero conto delle trasformazioni avvenute dal 1868 in poi.

6 Alberto Ulisse, Le dimensioni del tempo, LetteraVentidue Siracusa 2022 pagg. 156 - 159

di completa autonomia. Un luogo complesso formato da piccoli spazi intrecciati, luogo quindi “delicato e inquietante per la sua fisicità formale”. Van Eyck7 riscopre (portando alla luce) alcune delle sue qualità architettoniche nascoste attraverso opportune trasformazioni della sua struttura e delle sue forme. Cambia la struttura dello spazio dandogli aria, luce, nuove possibilità di circolazione, movimento, leggibilità, convertibilità, fruibilità più vivace. Ma contemporaneamente lo rende indipendente dai volumi della chiesa trasformando tutti i legami formali tra gli ambienti in fonti di luce.8

Raccontare il progetto consente così di entrare nell’intimità del luogo, svelarne le concatenazioni e le potenzialità sia fisiche che intime mostrando come una architettura sacra può diventare altro senza necessariamente abbandonare la sacralità originaria. Van Eyck compie una operazione progettuale riconvertendo i significati originari del luogo in nuovi significati funzionali ed estetici che danno un nuovo vigore al luogo ampliando le potenzialità di parti che prima erano nascoste da operazioni murarie spesso azzardate compiute dai monaci.9

L’obbiettivo del progetto del Coro di Notte nel progetto-guida di De Carlo era quello di farlo diventare un luogo centrale per gli incontri formali e informali degli studenti, rendere il luogo accessibile e aperto. E fu così per van Eyck. In questa ottica e su questi presupposti iniziali, l’’assunto fu quello di riformulare gli spazi dando “respiro” a quegli spazi attualmente -a suo pareretroppo chiusi e soffocanti, intervenendo su di essi radicalmente, ma mantenendo nel contempo parte della loro complessità spaziale. Questa complessità viene raggiunta dalla varietà di luoghi e di eventi architettonici nuovi che riesce a mettere in gioco nel progetto.

Lo spazio progettuale è contenuto nel triangolo esterno formato dal transetto e dalla navata della chiesa su due lati e da un chiostro sul terzo.

Il progetto si sviluppa su 3 elementi fondativi a cui se ne aggiungono altri particolarmente significativi che metteremo in evidenza attraverso i grafici e le immaggini:

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2. Coro di Notte, schizzo di Giancarlo De Carlo. Da: G. De Carlo, Un progetto per Catania. Il recupero del Monastero di San Nicolò l’Arena per l’Università. Genova, Sagep editrice, 1988

3. Matroneo pianta

4. 2° Livello del Complesso benedettino. Da: G. De Carlo, Un progetto per Catania. Il recupero del Monastero di San Nicolò l’Arena per l’Università. Genova, Sagep editrice, 1988

In questa pagina

5, 6, 7. Facciata della chiesa di San Nicolò l’Arena e particolari - foto G. Ginex

- Il primo è costituito dal “muro” che delimita la chiesa su cui il progettista punta ad una sua valorizzazione liberandolo da contiguità che impediscono di riconoscere i confini reali tra chiesa e convento; Il progetto ne prevede la totale liberazione e la sua valorizzazione mediante

7 […] Giancarlo De Carlo, che era l’architetto incaricato del restauro dell’abbazia benedettina e del suo adattamento per il futuro uso universitario, suggerì che noi e Sverre Fehn avremmo dovuto fare ciascuno una parte specifica. Il consiglio universitario accettò questa proposta Un vasto complesso per soli 50 monaci benedettini. Anche l’architettura è piuttosto scarna; in ogni caso non ci siamo sentiti ispirati. Ma offre spunti infiniti per le moltitudini di studenti universitari che presto saranno ospitati lì. […] Da: Sale de Notte Benedictine Abbey, Catania 1989 (conversion) with Hannie van Eyck in: V. Ligtelijn, Aldo van Eyck Works, Berlino 1999, pagg. 247/249

8 Aldo van Eyck consegna il progetto di massima 1^ fase l’8 Febbraio del 1991. Inizia un interessante scambio di lettere tra van Eyck e De Carlo. In particolare van Eyck espone a De Carlo tutti i suoi propositi in questa fase della progettazione e come cambiare “volto” al complesso monumentale per lui troppo chiuso e bloccato: Lettera del 18/03/1991. Il 18 Febbraio 1993 De Carlo con una lunga lettera a van Eyck espone tutte le sue perplessità sul progetto. Ciò determinerà l’abbandono di van Eyck a proseguire con il progetto definitivo.

9 […] La principale idea strutturale è di svincolare la chiesa da quanto le è stato costruito contro, demolendo alcuni dei muri che ostruiscono sia il libero accesso che la vista verso ed attorno ad essa. Così l’università (non più monastero!) sarà, dissociata dalla chiesa, stabilendo nel contempo una chiarezza di rapporti tra i due in quanto adiacenti. Dovranno esse reseparati architettonicamente per poter essere riassociati in un nuovo modo […] lettera di van Eyck dell’8 Febbraio 1991 indirizzata all’Università degli Studi di Catania

8. 9. Interno del Coro di Notte adibito ad auditorium - foto S. Specchi
10, 11, 12. Matroneo - foto S. Specchi

la luce e il colore. Mediante la soppressione di alcuni elementi la parete in argomento acquista il valore di semplice quinta favorendo così la percezione dell’originaria facciata che delimita il chiostro.

- Il secondo consiste nell’aver individuato una serie di aperture passanti che consentono una fluida articolazione degli spazi che si trasformano in una sequenza di luoghi che valorizzano gli elementi esistenti 10

12. Schizzo di Aldo van Eyck Genesi dell’idea progettuale (disegno concesso dall’arch.Pietro Calì)

13. Schizzo di progetto (van Eyck) - disegno concesso dall’arch. Pietro Calì

4 Potrebbe essere leggero o spostato se leggero, andrebbe bene? Sì

Queste parti devono essere verificate strutturalmente ma non sono contrario a questa idea (vedi 3/2)

2 “deve essere isolato”?

“volume originale portato avanti ecc.?

Apertura 3/2 già chiusa (vedi nota) dallo spazio esterno del tetto

Apertura 3/3 già chiusa OK

Apertura 3/1 ok ora aperta. Va bene solo così com’è ma con porta scorrevole in vetro? SÌ

L’accesso contrassegnato 2b deve essere ridotto perché: in questo punto c’è una scala dietro il muro

Questo muro non deve essere toccato

L’accesso contrassegnato 2a è OK

3 L’”idea” va da A a B “quali altre aperture devono essere aperte? in realtà non queste che servono per illuminare l’interno OK. SONO DACCORDO CON L’IDEA

1 Si confermano i nuovi accessi previsti sul lato verso il chiostro e le finestre che danno sulla galleria. Le mie domande quali “nuovi accessi”?

“Senza le finestre, questo riguarda (1) solo la porta o le due aperture vicine (2)

- Il terzo riguarda la parete sud del corridoio antistante il Coro di Notte. Mediante la soppressione di alcuni elementi. Ad eccezione del soppalco del Coro di Notte e della relativa scala di accesso, i veri elementi del progetto sono rappresentati dal sistema di visuali e di varchi.

Come abbiamo detto, l’obbiettivo del progettista era quello di rendere il Coro di Notte, “trasparente” ed articolato così da diventare una sequenza di spazi contigui, continui e connessi tra loro. Inoltre svincolare la chiesa da quanto le è stato costruito attorno e in adiacenza, demolendo alcuni dei muri che ostruiscono la vista verso ed attorno ad essa. Ciò consentirà alla nuova università (non più monastero!) di “dissociarsi dalla chiesa”. Lungo tutto il muro interno-esterno della chiesa una sequenza di lucernari consentirà alla luce del sole di penetrare dall’alto. L’immissione dei lucernai inoltre darà una maggiore trasparenza alla relazione tra le due parti (chiesa e conventouniversità) e sarà proprio la luce a raccordare i due sistemi (sistema monastico-università). In tale ottica, i lucernai rappresentano dei captatori di luce con la funzione di unificare gli spazi differenziandoli allo stesso tempo. Il muro è reso attivo attraverso l’uso di colori, così da poter funzionare come fondale continuo che unifica i diversi spazi Sono interessanti in questo caso i disegni che mettono in evidenza la nuova spazialità proposta in cui il colore assume un ruolo determinante. I due chiostri nell’idea di van Eyck dovrebbero essere “riempiti” di vita! Così si esprime van Eyck nel consegnare la prima fase del progetto: […] piantare un giardino di limoni in un chiostro ed un giardino di aranci nell’altro In alternativa, come disegnato, si potranno piantare metà aranci e metà limoni nello stesso chiostro. La parte più interessante del progetto risiede nel fatto che il progettista ha disegnato un nuovo “ordine” costruttivo operando aperture laterali tra i diversi spazi con l’uso di colonne sormontate da architravi che dividono e sostengono le ampie aperture tra gli ambienti (preferibilmente, acciaio bianco, come i muri). Nei progetti di van Eyck si trova spesso l’immissione di un “ordine” costruttivo così da consentire una nuova

10 Dalla relazione di progetto: […] Tutto ciò che ho fatto, in effetti, è stato introdurre un sistema di telai in acciaio (ovvero colonne e architravi in acciaio) così da sollevare i muri dai pavimenti in alcuni punti. […] Far “respirare” il luogo, cioè renderlo ragionevolmente accessibile e aperto.

14. Pianta del progetto di Aldo van Eyck - Archivio del Museo della Fabbrica - UNICT

15. Sezioni di progetto - Archivio del Museo della Fabbrica - UNICT

16. Stato di fatto e progetto con destinazioni 1 corridoio, 2 piattaforma per concerti o conferenze, 3 Auditorium, 4 terrazza, 5 vuoto della sacrestia al 1° livello, 6 sala ricevimenti, 7 buffet, 8 stanza, 9 limoneto, 10 aranceto, 11 entrata, 12 atrio

17. Localizzazione dell’area progettuale

18. Spazi relativi alla proposta progettuale

19. Traduzione delle scritte nella tavola di progetto:

Università e chiesa disimpegnate attraverso la luce e il colore

Lungo tutte le pareti interne ed esterne della chiesa la luce proviene dall’alto e sulle loro superfici colorate tutti i nuovi spazi si aprono

La nostra immagine trasformativa = arance e limoni

Tra i frutteti interni all’esterno e le pareti esterne della chiesa all’interno di un’isola centrale si forma un nuovo guado tra le stagioni e il colore permanente

20. La nostra trasformazione: Arance e Limoni

Tra i frutteti interni all’esterno e le pareti esterne della chiesa all’interno, si forma un’isola centrale, un nuovo punto focale tra colori stagionali e permanenti

grammatica dello spazio architettonico tale che l’insieme diventi di “facile” lettura poiché il “meccanismo” inventato, consente di fare dialogare le parti nuove con le parti già esistenti, ed essere portatore evidente di funzionalità. Questi elementi introdotti nel progetto trasmettono alle forme esistenti una nuova energia oltre che funzionale, estetica e formale insieme. Nel dettaglio rappresentano dei veri congegni a volte semplici a volte un po’ più complessi ma che aprono visuali alternative arricchendo di significato l’interno del sistema, prima solo suddiviso da ambienti statici e spesso casuali. Riassumendo, gli elementi e le parti che entrano in gioco nel progetto sono: Il corridoio adiacente al Coro, (aggiunto nel passato) architettonicamente molto infelice. Esso viene sostituito da una struttura leggera, capace di rappresentare da lontano i nuovi spazi collettivi disposti lungo di esso, ad eccezione delle due estremità, in cui vengono inserite delle strutture leggere e vetrate, che si adattano agli angoli della struttura originaria. Le absidi della chiesa con la nuova configurazione progettuale sono più visibile e devono essere chiaramente rivelate. Un altro importante aspetto è il minimo numero di divisioni vetrate con porte per separare gli spazi. Nell’ ambiente adiacenti al Coro è posizionata la cupola della sottostante sacrestia, una cupola ovale che avrà una nuova configurazione dal momento che è una parte della chiesa che si introduce dentro l’università. Questa proposta si trasforma in una ricca e stimolante sequenza segnata da nuove prospettive che guidano la scoperta e la valorizzazione di elementi esistenti (la cupola di copertura del sacrario) e di nuovi elementi (la scala e il soppalco del Coro). Oltre le nuove aperture nelle spesse pareti interne, alcune basse, altre alte, alcune strette e altre molto larghe. Poi c’è l’idea dei giardini e del colore insieme alla proposta sulla piccola piattaforma che unisce il padiglione del chiostro alla parte dell’insieme. Aranceti e limoneti porteranno ombra ai due chiostri di grandi dimensioni e luminosità al muro della chiesa sgomberato, trasformato dall’arancione e dal giallo in combinazione (artista richiesto).

Van Eyck con il suo progetto ha introdotto una continuità orizzontale e diagonale come articolazione spaziale in profondità. Ha eseguito una serie di interventi “orchestrati” in modo tale che il posto “respira” perché è reso facilmente accessibile e riconoscibile in tutte le sue parti. In conclusione ha solo presentato un progetto di massima che meritava di essere sviluppato nel dettaglio per verificare le intuizioni spaziali e formali proiettate a ridare una nuova visibilità e funzionalità al vecchio complesso. Il motivo della rinuncia è forse da trovare nella lettera che De Carlo gli inviò in cui esprimeva un parere non del tutto positivo su tutte le scelte progettuali adottate, in particolare il tema dei chiostri con le arance e i limoni ma non solo!11

11 Lettera di De Carlo a van Eyck del 18 Febbraio 1993

21, 22. Caro Giancarlo […] tutto quello che ho fatto, in realtà, è stato introdurre una serie di colonne fisse con architravi in acciaio in modo da sollevare localmente le pareti dai pavimenti. Consentendo così la continuità orizzontale e diagonale come articolazione spaziale in profondità […] Il posto così “respira” perché è facilmente accessibile. […] Lettera di van Eyck a De Carlo con lo schizzo del sistema che propone. Le due assonometrie inserite ai lati della planimetria, sono tratte da: Sale de Notte, Benedictine Abbey, Catania 1989 (conversion) with Hannie van Eyck in: V. Ligtelijn, Aldo van Eyck Works, Berlino 1999, pagg. 247/249. Lettera per gentile concessione dell'Archivio del Museo della Fabbrica - UNICT

23, 24, 25, 26. Viste del modello - Archivio del Museo della Fabbrica - UNICT

Abbiamo raccontato e presentato un luogo con un programma di lavoro tutto da verificare. Anche se il progetto di massima presentato da van Eyck è già un programma chiaro di intervento e ciò lo si evince dalla planimetria di progetto in cui risulta una complessità di nuovi eventi architettonici ricca di significati che come abbiamo detto vanno esplorati singolarmente. Da ciò ne deriva un messaggio che è quello di imparare a tradurre in architettura idee in grado di essere coerenti con la crescita della società contemporanea. Van Eyck non resta ancorato a puri formalismi, o a semplici funzionalismi, ma piuttosto ricerca dentro le forme architettoniche e attraverso il disegno un metodo che utilizza correttamente la storia e la memoria. Ciò risulta da come si avvicina ad una architettura religiosa, da un lato con molta diffidenza e dall’altro rispettando i luoghi originari con interventi che ne amplificano la sacralità e l’essenza religiosa. Sicuramente i disegni presentati offrono una visione del progetto particolarmente parcellizzata che non consente di comprendere appieno i cambiamenti apportati al sito, cambiamenti in parte radicali ma che denotano comunque un rispetto dell’esistente e la voglia di riformularlo in nuove e più attuali configurazioni, che da un lato offrono al sistema la possibilità di cambiare funzione in modo coerente e “determinato”, diventare appunto Università, e dall’altro mantengono intatto senza particolari stravolgimenti il sistema stesso cambiando il senso dei luoghi in una nuova prospettiva più funzionale e fruibile in maniera aperta e libera. I disegni presentati raccontano inoltre una idea di spazio e di forma per punti strategici in un insieme di segni che aprono una nuova prospettiva all’idea di monumentalità che il convento nella sua totalità e per sua natura rappresenta.

Il

progetto cerca in tutti i modi di attuare i cambiamenti del convento in una nuova prospettiva contemporanea, considerandolo come un nuovo “caleidoscopico universo” fatto di piccole parti, di luoghi delicati e meditativi e di elementi che dialogano con la materia costruita secolare.

[…] non sono d’accordo con la tua proposta per il corridoio stesso e il chiostro. L’immagine delle arance in Sicilia è come quella dei papaveri in Olanda; […] Inoltre, qualsiasi proposta su quel corridoio e quel chiostro ha bisogno di un vero progetto […] Ma la cosa più bella è che De Carlo, conoscendo bene van Eyck e pensando ad una sua reazione, conclude dicendo: […] desidero conservare la nostra amicizia: più mi addentro nel profondo della mia vecchiaia e più penso che le poche persone che condividono le mie stesse passioni e i miei stessi affetti siano preziose […]. Ma ciò non servi a nulla ! Hanno trattato il progetto dei Benedettini di Catania le seguenti riviste: Spazio & Società n° 52 Ottobre- Dicembre 1990; Casabella n° 611 Aprile 1994; L’Architettura Cronache e Storia n° 581 Marzo 2004

Inoltre si veda per una collocazione storica della figura dell’architetto olandese: G. Ginex, Aldo van Eyck, dalle radici archetipe, in Controspazio n° 2 1999, pagg. 28-47

Per una revisione “critica” dell’intervento sui Benedettini si veda: G. Marzullo, Soglie eloquenti. Passare da uno spazio all’altro nel Monastero di San Nicolò L’Arena di Catania riadattato a Facoltà di Lettere da Giancarlo De Carlo, edA Esempi d’Architettura, Aprile 2017

Il progetto è stato redatto con Hannie van Eyck e con la collaborazione dell’architetto Pietro Calì di Catania che ha gentilmente concesso parte dei materiali grafici presentati. AIcuni dei materiali grafici pubblicati in questo articolo, e le lettere intercorse tra Aldo van Eyck e Giancarlo De Carlo sono stati concessi dall’“Archivio del Museo della Fabbrica, Università degli Studi di Catania”. dal Dott. Nicola Caruso (responsabile) che gentilmente mi ha fornito il materiale, facendomi così “entrare” nel dibattito tra i due grandi architetti (G. De Carlo e A. van Eyck) al fine di capire, in ultimo, il motivo della non realizzazione del complesso del Coro di Notte con un progetto di van Eyck. Peccato!

SANTA MARIA IN PIANO A LORETO APRUTINO

DAL MIGLIORAMENTO SISMICO AL DISVELAMENTO DI NUOVI DIPINTI MURALI

Eliseba De Leonardis, Marialuce Latini, Lorenzo Leombroni, Aldo Giorgio Pezzi, Paolo Taricani

I lavori in corso di miglioramento sismico e restauro della chiesa di Santa Maria in Piano a Loreto Aprutino (PE), curati dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Chieti-Pescara e finanziati con le risorse attinte dal Fondo per il finanziamento degli investimenti e lo sviluppo infrastrutturale del Paese istituito con la legge di bilancio per il 2017, interessano uno dei beni culturali di maggior rilievo artistico e spirituale dell’area Vestina. Nota soprattutto per le rilevanti superfici decorate interne, tra cui spicca il maestoso Giudizio Universale di controfacciata, l’antica fabbrica ha avuto vicende costruttive complesse, a partire dalla sua fase originaria, ascrivibile all’Alto Medioevo, passando per la sua ricostruzione del XIII secolo a seguito di un incendio, fino ad arrivare all’importante fase edificatoria della seconda metà del Cinquecento, quando fu ampliata con l’aggiunta di un porticato d’ingresso, di un portale laterale e dell’imponente abside ottagona sovrastata da un tiburio cilindrico coronato da lanterna. A questo periodo risale anche la sopraelevazione del notevole campanile, coronato dall’elegante cuspide ottagona ispirata ai modelli importati in Abruzzo da Antonio da Lodi. L’edificio sacro era chiuso dal sisma del 2016, che aveva amplificato un quadro fessurativo già precario, caratterizzato da diffuse lesioni verticali agli archi trionfali e nella zona absidale, dovute anche ad un cedimento fondale del terreno su cui poggia la porzione terminale della chiesa. A seguito di un rilievo fotogrammetrico complessivo e una approfondita campagna diagnostica (con indagini strutturali, geologiche e sugli intonaci), è stato predisposto il progetto di consolidamento, a cui si è dato corso con operazioni ora in fase di conclusione mirate in primo luogo a ridurre la vulnerabilità sismica della chiesa. Gli interventi attuati vanno dal restauro dei paramenti murari esterni e interni - con eliminazione della patina biologica e della vegetazione superiore, stuccature e stilature dei giunti e pulizia dei laterizi faccia-vista, risanamento delle pareti controterra - alla revisione complessiva della struttura portante della copertura, con sostituzione delle travi principali, non più recuperabili e dell’orditura secondaria, previo smontaggio del pianellato decorato, effettuata attraverso la numerazione degli elementi e la successiva ricollocazione nella posizione originaria. La parte sommitale dell’aula è stata interessata anche da un intervento di consolidamento con l’inserimento di un cordolo sommitale in acciaio sullo spiccato delle murature perimetrali dell’aula e sulle murature trasversali degli arconi, che inframmezzano l’aula stessa, ancorato alla copertura da profilati angolari ad “L” e collegato da calastrelli piatti al fine di assorbire i carichi verticali provenienti dalla copertura e distribuirli uniformemente alla parete sottostante. Sono stati effettuati anche consolidamenti strutturali al corpo a pianta centrale che si innesta, sul retro, all’aula romanica. In tale ambito sono stati eseguiti

Nota soprattutto per le rilevanti superfici decorate interne, tra cui spicca il maestoso Giudizio Universale di controfacciata, l’antica fabbrica ha avuto vicende costruttive complesse, a partire dalla sua fase originaria, ascrivibile all’Alto Medioevo

interventi di rinforzo e consolidamento delle fondazioni, con un sistema di micropali inseriti all’esterno dell’abside al fine di non intercettare eventuali strati interni di interesse archeologico, oltre al consolidamento della pseudo-cupola, avvenuto con l’apposizione di fasce in fibra di acciaio galvanizzato e geomalta certificata a base di pura calce idraulica naturale, avente funzione di placcaggio estradossale, opportunamente risvoltate sulle murature perimetrali del tamburo circolare. La copertura circolare del tamburo è stata smontata a causa dell’inadeguatezza delle travi spingenti e sostituita con una struttura portante con travi in acciaio e la successiva apposizione di un pacchetto costituito da tavolato, guaina, controcoppi e coppi.

Il campanile verrà rinforzato attraverso l’inserimento di barre elicoidali sui cantonali e una cerchiatura interna in acciaio su due livelli.

A completamento degli interventi di restauro effettuati, allo scopo di valorizzare gli apparati decorativi interni, si prevede la sostituzione dei corpi illuminanti presenti, costituiti da proiettori alogeni, con corpi a tecnologia LED sulla trave di colmo, opportunamente posizionati sulla base delle risultanze di un dettagliato studio illuminotecnico.

Il progetto prevede anche un intervento di abbattimento delle barriere architettoniche con la realizzazione di una rampa esterna in corten sul fronte anteriore porticato.

L’intervento ha richiesto anche le necessarie operazioni di messa in sicurezza delle opere interne, tra cui il maestoso altare seicentesco posto nell’abside della chiesa e le pregevoli superfici decorate. Per la complessa macchina dell’altare maggiore e per il Crocifisso in legno policromo della seconda cappella di sinistra, difficilmente smontabili in tempi celeri senza rischi per la loro conservazione, si è optato per la protezione con casse rigide chiuse realizzate in situ, che tuttavia consentono la circolazione d’aria necessaria a evitare ristagni e fenomeni di condensa e permettono al contempo la loro ispezione periodica.

A seguito dei danni strutturali alla chiesa, i dipinti murali della cappella dedicata a San Tommaso d’Aquino, adiacente all’arco trionfale, presentavano consistenti lesioni con distacchi degli intonaci di supporto dalle murature; sono stati pertanto messi in sicurezza con operazioni di consolidamento delle pellicole pittoriche, eseguite dopo la pulitura delle superfici dai depositi di polveri e di altri materiali estranei e dopo la rimozione di scialbature che occultavano parte delle decorazioni. Sono stati inoltre eseguiti tutti i consolidamenti di profondità in corrispondenza dei distacchi degli intonaci per ripristinarne la corretta adesione al supporto murario. Alcune stuccature di sicurezza sono state necessarie per condurre correttamente le operazioni di consolidamento degli intonaci e per garantire la continuità materica delle superfici decorate.

Anche gli importanti dipinti di controfacciata raffiguranti il Giudizio Universale sono stati messi in sicurezza con interventi puntuali diretti a ristabilire l’adesione degli intonaci di supporto alle murature. È prevista, inoltre, una equilibratura cromatica delle integrazioni eseguite in passato sulle estese lacune presenti nella parte alta e al centro della raffigurazione, dove i toni neutri, ormai virati, disturbano la corretta lettura dei valori cromatici e formali dell’opera. Sarà inoltre realizzata una scialbatura sulle zone di muratura a vista, dove sono andate perdute ampie porzioni dei dipinti murali, cromaticamente intonata ai colori originali, così da accompagnare la lettura della raffigurazione che oggi appare bruscamente interrotta dalle stuccature ‘salva-bordo’ e dalla tessitura dei laterizi a vista.

Durante le fasi di messa in sicurezza delle superfici decorate dell’arco trionfale sono emersi

brani di dipinti murali risalenti con ogni probabilità ad una fase decorativa più antica rispetto a quella di decorazione delle cappelle e del grande dipinto murale di controfacciata.

I dipinti riscoperti, sui quali sono in corso studi di approfondimento, mostrano lo stemma della famiglia d’Aquino - committente della decorazione della adiacente cappella dedicata a San Tommaso d’Aquino - con il leone rampante definito a punta di pennello nei particolari, mentre, ad un livello sottostante, brani di cornici decorative inquadrano un interessante Cristo benedicente nella mandorla, del quale si coglie una discreta raffinatezza di esecuzione nel volto e nella mano benedicente, nonostante le picchettature e le abrasioni che alterano la superficie pittorica. A destra della mandorla, sebbene poco leggibili a causa del degrado, si riconoscono le figure di un santo e di un angelo su fondo blu. Tale scoperta aggiunge un nuovo tassello alla conoscenza della storia della chiesa e ulteriore valore storico-artistico ad un monumento già di grande rilevanza per i cicli pittorici e le opere dei secoli XV, XVI e XVII che conserva e particolarmente amato dalla comunità loretese e abruzzese.

IL SANTUARIO DELLA MADONNA DELLE LACRIME DI SIRACUSA IL CONCORSO, LA COSTRUZIONE1

Federico Fazio

Tra il 29 agosto e l’1 settembre 1953, per quattro giorni consecutivi, “pianse” un’effige in gesso del Cuore Immacolato di Maria conservata nella modesta casa dei due giovani coniugi Angelo Iannuso e Antonina Lucia Giusto in via degli Orti di San Giorgio n.11, nel quartiere popolare della Borgata in Siracusa. Saputa la notizia, accorse subito una folla in delirio (La Stampa, 1953) e si suscitò presto la commossa attenzione dei vari mass media (La Madonna di Antonina ha trasformato Siracusa in una piccola Lourdes, Oggi 1953; An Italian Lourdes?, TIME 1958). La forte pietas della gente che giungeva da ogni parte del Paese, fece sì che l’Episcopato Siculo - vagliate testimonianze e relazioni scientifiche - già il 12 dicembre 1953 decidesse di promuovere la costruzione del Santuario, il quale avrebbe dovuto essere un monumento unico in Sicilia, alla stregua di Lourdes e di Fatima; questo doveva perpetuare la memoria del prodigio e conservarne la reliquia, rappresentare un ineludibile segno della fede nonché attestare il mutamento, che veniva maturando tra liturgia e luoghi di celebrazione, mutamento poi suggellato dal Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965). Il luogo scelto, dove avvenne la solenne cerimonia per la posa della prima pietra da parte del cardinale e arcivescovo di Palermo Ernesto Ruffini (1888-1967), fu un terreno privato della superficie di 40.000 mq - donato nel 1955 - in un’area urbana in sviluppo nei pressi delle catacombe di San Giovanni Evangelista e del nuovo Ospedale civico Umberto I (inaugurato in quell’anno) e non distante dalla Borgata2

In data 8 dicembre 1954 (festa dell’Immacolata Concezione, ultimo giorno dell’anno Mariano), Mons Ettore Barazini (1881-1968) Arcivescovo di Siracusa emanò il Decreto Arcivescovile di erezione a canonica della casa della Lacrimazione in chiesa pubblica e Santuario. Pochi anni dopo, con Decreto del Presidente della Repubblica del 3 luglio 1957, fu riconosciuta la personalità giuridica della Chiesa Santuario “Madonna delle Lacrime” in Siracusa. Il 6 novembre 1994 la S. Messa inaugurale fu celebrata da Sua Santità san Giovanni Paolo II (1920-2005) invitato da Mons. Giuseppe Costanzo (1933) oggi Arcivescovo Emerito di Siracusa3; nel 2024 ricorre pertanto il XXX anniversario della Dedicazione.

Sebbene il Santuario sia oggi uno dei segni caratteristici del paesaggio urbano del capoluogo aretuseo, non è stato oggetto di studi specifici, eppure

1 Il contributo è il risultato preliminare di una ricerca condotta dal sottoscritto presso l’Università degli Studi di Catania, dal titolo: Per una storia del Santuario della Madonna delle Lacrime di Siracusa: il bando, il progetto e il contesto urbanistico (coordinatore scientifico: Prof. Ing. Fausto Carmelo Nigrelli). Lo studio non sarebbe stato possibile senza il supporto del Rettore del Santuario Padre Aurelio Russo e di Beatrice Burgio, a cui vanno i miei più sentiti e sinceri ringraziamenti.

2 Sulle vicissitudini dell’Ospedale di Siracusa: F. Fazio, Opere pubbliche in aree archeologiche durante il Ventennio. L’Ospedale civico Umberto I e la distruzione del Giardino Spagna, in F. Nicoletti (a cura di), Siracusa Antica. Nuove prospettive di ricerca, Palermo 2022, pp.251-268.

3 Mons. Giuseppe Costanzo è stato Arcivescovo metropolita di Siracusa dal 1989 al 2008.

La soluzione per gli spazi interni e la dignità delle forme, come le possibilità costruttive e le soluzioni di funzionalità urbanistiche …. hanno reso il progetto meritevole per l'assegnazione del 1° premio
1. I coniugi Iannuso - archivio fotografico del Santuario

per la sua arditezza e l’innovativa concezione costruttiva rappresenta una delle vicende più significative dell’architettura contemporanea rientrando a pieno titolo nel novero delle più importanti realizzazioni strutturali del XX secolo. Interamente in calcestruzzo a vista, è conformato come un’imponente struttura a pianta centrale e comprende una cripta e l’aula fuori terra su piano rialzato; da 22 pilastri partono i costoloni inclinati che formano la “cupola” tronco-conica (71,40 metri di diametro), che si sviluppa per un’altezza di 94.30 metri comprendendo una struttura in acciaio alta 8 metri. Quest’ultima è costituita da 22 costoloni prismatici rastremati alla base fino alla sommità, collegati a un nodo centrale su cui poggia la stele con la statua della Madonna in bronzo dorato inserita in un’aureola ad elementi circolari e a raggiera4. Alla base del Santuario cappelle radiali a sbalzo controbilanciano le membrature principali agli assi degli appoggi per una superficie libera pari a oltre 4.000 mq; l’aula interna ha pavimento in pendenza verso l’altare, dietro al quale una parete rivestita in marmo ospita la teca contenente il quadretto della Madonna.

Per l’auspicato edificio il 29 giugno 1955 fu bandito un concorso internazionale dal Comitato promotore, con la sinergia dell’Istituto Internazionale di Arte Liturgica, della Pontificia Commissione Centrale per l’Arte Sacra in Italia e, in particolare, dell’UIA (Union Iternational Architects) grazie all’infaticabile operato del suo segretario, architetto Pierre Vago (1910-2002)5

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2. Vista d’insieme del Santuario di Siracusa - foto di S. Tinella

3. La commissione durante l’esame dei progetti - archivio fotografico del Santuario

4. Michel Andrault e Pierre Parat - archivio fotografico del Santuario

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5. Plastico del Santuario - Arte e Fede, 1957

6. Progetto vincitore del Santuario di Siracusa - archivio del Santuario

7. Articolo di Bruno Zevi - L’Espresso, 1957

Dell’esame dei progetti presentati fu nominata una commissione giudicatrice, presieduta da Mons. Baranzini composta da personalità italiane e straniere appartenenti al mondo cattolico, culturale e accademico, fra cui Vago, Luis Moya Blanco (1904-1990), Saverio Muratori (1910-1973), Vincenzo Passarelli (1904-1985) e Rudolph Schwarz (1897-1961). In un momento in cui si sviluppava il dibattito sui nuovi orientamenti dell’architettura sacra, alla scadenza del con-

4 L’opera è stata realizzata dall’artista avolese Francesco Caldarella (1945-2002). Fra le opere più importanti realizzate da Caldarella vanno ricordati: il Monumento ai Caduti di Palazzolo Acreide, il Monumento ai Caduti di Cassaro, il Monumento alla Libertà di Monterosso Almo, la Statua dell’Anziano di Ispica, Il Monumento al Carabiniere di Avola. S. Burgaretta, Francesco Caldarella. Un artista assetato d’assoluto, in «Avolesi nel mondo», a.9, n.1, febbraio 2008, pp. 6-9.

5 Su Vago: M.G.Turco (a cura di), Pierre Vago e la cultura architettonica del Novecento, Roma 2020.

corso (1957), furono presentati ben 99 progetti redatti da architetti e da ingegneri provenienti da 17 nazioni (Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Inghilterra, Irlanda, Italia, Messico, Norvegia, Olanda, Romania, Svezia, Svizzera, Sud-Africa, USA, Venezuela); tra i candidati italiani si ricordano: Pasquale Carbonara (1910-1998), Enrico Castiglioni (19142000), Vittorio Gandolfi (1919-1999), Eugenio Montuori (1907-1982) e Gaetano Rapisardi (1893-1988), quest’ultimo storico collaboratore di Piacentini6 Durante le sessioni plenarie furono vagliate le proposte suddivise per indirizzo compositivo: rispondenti alle nuove ricerche, soluzioni più moderate, sviluppi verticali, progetti semplici che denotavano il consolidamento dello stile internazionale. La commissione assegnò il primo premio pari a L.8.000.000 al progetto con motto Corona con nove raggi bianchi su sfondo azzurro dei “giovanissimi” Michel Andrault (1926 - 2020) e Pierre Parat (1928 - 2019) per la «soluzione degli spazi interni e la dignità delle forme, come le possibilità costruttive e le soluzioni di funzionalità ed urbanistiche» (Verbale della commissione,1957). I due architetti francesi concepirono «una forma geometrica pura con una completa rinuncia

6 Su Rapisardi: C. Barucci, M. Falsetti (a cura di), Gaetano Rapisardi architetto 1893-1988, Roma 2022.

8. Cantiere della cripta, 1966 - archivio fotografico del Santuario

9. Cantiere della cupola, 1991 - archivio fotografico del Santuario

10. Inaugurazione della cripta, 1968 - archivio fotografico del Santuario

a qualunque contrasto di volumi o gioco prospettico»7 o meglio una guglia traforata, che fosse ben visibile dall’intera città e richiamasse il concetto religioso di ascensione verso Dio; la pianta circolare era in grado di riunire la moltitudine di fedeli intorno all’altare. La struttura principale era composta da due elementi distinti e sovrapposti: la cripta seminterrata e il cono di elevazione (denominato Tempio Superiore) inserito in un volume assimilabile a un paraboloide iperbolico.

Il progetto, benché apprezzato e pubblicato nelle più importanti riviste tecniche di tutto il mondo come L’Architecture d’aujourd’hui (1957), fu tuttavia al centro di un’aspra polemica.

La realizzazione, che avrebbe dovuto concretizzarsi nel giro di pochi anni, venne osteggiata infatti da esponenti del mondo culturale fra cui lo studioso siracusano Giuseppe Agnello (1888-1976) e Bruno Zevi (1918-2000), che criticò la chiesa paragonandola a una “pagoda” (1957) e a un “cono gelato” (1971)8.

Non solo, ma l’avvio dei lavori fu bloccato anche dal vincolo emesso nel 1957 dalla Direzio-

7 V. Vigorelli, Due basiliche al centro del mondo, in «Arte cristiana», a. XLV, n.8-9, 1957, pp. 130-135.

8 B. Zevi, La Madonna piangerà in una pagoda, in «L’ Espresso», a. III, n. 14, 7 aprile 1957, p. 12; Ibidem, La Madonnina nel cono gelato, in «Cronache di Architettura», v. 2, 1971, pp. 349-351.

25 ne Generale Antichità e Belle Arti (revocato due anni dopo dall’allora Ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Medici) a causa dell’impatto ambientale che il Santuario avrebbe causato nel paesaggio urbano; per tale ragione, il progetto venne modificato con l’eliminazione di alcuni corpi secondari e l’altezza del cono superiore ridotta da 130 a 90 metri circa, pur mantenendo l’idea formale originaria. Queste lungaggini vanificarono purtroppo gli sforzi finanziari dei fedeli e dei vari enti pubblici, che avevano contributo fino allora alla costruzione del “grandioso” Tempio mariano. Malgrado ciò, superati gli intoppi burocratici, tra il 1963 e il 1964 - in concomitanza del 10° anniversario della lacrimazione - il modello in scala del Santuario fu sottoposto alle prove statiche e aerodinamiche, necessarie alla stesura del progetto definitivo, presso l’Istituto di Scienze delle Costruzioni del Politecnico di Milano sotto la direzione del prof. Arturo Danusso (1880-1968)9; Riccardo Morandi (1902-1989), uno dei più noti ingegneri italiani del cemento armato, eseguì i calcoli strutturali ai quali seguirono gli elaborati del primo lotto (consegnati il 16 marzo 1964) per l’importo complessivo di 610 milioni, con il contributo del Ministero dei Lavori Pubblici di 200.000 milioni e il resto con le offerte raccolte10.

Approvato il progetto esecutivo dalla Pontificia Commissione d’Arte Sacra in Italia e concessa l’autorizzazione a costruire (dopo l’esame tecnico) da parte del Provveditorato alle opere pubbliche di Palermo, fu indetta la gara d’appalto e nel 1966 si avviò finalmente il cantiere della cripta, sotto la direzione di Rodolfo Santuccio (1901-1974) ingegnere capo dell’Ufficio Tecnico di Siracusa11; durante gli scavi delle fondazioni dell’anello, furono rinvenuti alcuni resti di età romana e tardo-antica: un ipogeo pagano e un ambiente con pareti voltate e decorate a mosaico.

Inaugurata la cripta il 26 agosto 1968 dal nuovo arcivescovo Giuseppe Bonfiglioli (1910-1992), per mancanza di fondi si ebbe un progressivo rallentamento del cantiere; i ferri di ripresa del solaio di copertura rimasero per molto tempo esposti all’erosione e alle intemperie. Solamente negli anni Ottanta la Regione Siciliana, riconoscendo l’opera di interesse pubblico, con Legge n.31 del 17 maggio 1984 assegnava alla Curia Arcivescovile di Siracusa un finanziamento di 7 miliardi e 350 milioni di lire per il completamento del Santuario. Da parte sua, l’ing. Morandi fu impegnato nuovamente nei calcoli strutturali dell’ultimo lotto del Santuario12, suo ultimo incarico poco prima della morte avvenuta nel 1989; veniva così redatto il progetto esecutivo del Tempio Superiore, approvato dall’Assessorato Regionale al Territorio e Ambiente, nonostante le critiche mosse da molti quotidiani nazionali come l’Unità (Mostro di cemento sui tesori di Siracusa?, 1988) e i numerosi appelli di alcuni intellettuali come Antonio Cederna (19211996) presidente di Italia Nostra e ancora Zevi. Ben 19 anni dopo l’inaugurazione della cripta, il 26 gennaio 1987 iniziò la costruzione del Tempio superiore, inaugurato come già ricordato con solenne cerimonia alla presenza di sua Santità Giovanni Paolo II nel 1994 venuto appositamente per l’occasione.

9 Su Danusso: M. A. Crippa, P. Cimboli Spagnesi, F. Zanzottera (a cura di), Arturo Danusso e il suo tempo. Intuito e scienza nell’arte del costruire, Roma 2020.

10 Morandi era allora titolare della cattedra di Costruzione dei ponti presso la facoltà di architettura di Firenze. Sull’opera di Morandi: G. Imbesi, M. Morandi, F. Moschini (a cura di), Riccardo Morandi. Innovazione, tecnologia, progetto, Roma 1995.

11 L’appalto venne aggiudicato alla Ditta A. Guffanti & C. di Milano, che offrì il massimo ribasso del 9,90 %.

12 L’appalto venne aggiudicato al Raggruppamento AIA di Catania e ALOSA di Roma, che iniziò i lavori il 26 gennaio 1987.

DALL’URBANO AL TRASCENDENTE

LA CHIESA DE LA ASCENSIÓN DEL

SEÑOR A SIVIGLIA, SPAGNA

Il progetto per la chiesa di La Ascensión del Señor, risultato di un concorso a inviti organizzato dall’Arcidiocesi di Siviglia nel marzo 2010, completa il Centro Parrocchiale avviato nel 19981, consentendo così al complesso di assolvere alla sua funzione come punto centrale per le attività comunitarie. Situata alla periferia nord-orientale di Siviglia, la chiesa si trova in un’area residenziale che combina numerosi progetti di edilizia sociale pubblica, abitata in gran parte da residenti a basso reddito. Il quartiere è stato testimone, negli ultimi decenni, di una intensa crescita, raggiungendo i 20.000 abitanti, ed ha vissuto la crisi economica del 2008, restandone profondamente segnata. In questo contesto, il primo stralcio del progetto, che includeva uffici amministrativi, aule per la catechesi, l’abitazione del parroco e una sala polifunzionale adattata a chiesa parrocchiale, si è rivelato insufficiente per rispondere alle esigenze di una comunità così numerosa. Il progetto del nuovo edificio doveva prevedere i principali luoghi di culto e di spazi di servizio quali la sagrestia, i magazzini, e altri locali accessori, completando così la destinazione d'uso prevista dal piano urbanistico, unitamente a un edificio per le attrezzature, un centro sportivo, un asilo nido e aree verdi di collegamento.

Fin dall’avvio del progetto i nostri sforzi sono stati indirizzati al consolidamento del ruolo del complesso religioso come luogo di incontro e socializzazione, dal quale sviluppare sia il lavoro spirituale che l’attività assistenziale, incentivando il coinvolgimento di tutti gli attori del quartiere attorno a un obiettivo di rigenerazione comunitaria. Il progetto è stato inoltre affrontato con un atteggiamento critico, ripensando il ruolo dell’architettura religiosa nella società: da un lato, cercando di recuperare elementi caratteristici delle parrocchie storiche (in molti casi attenuati), come la tradizionale identificazione tra quartiere e parrocchia; dall’altro, aggiungendo nuovi livelli di significato che consentissero all’edificio di affrontare le nuove sfide della società contemporanea. Conferendo al quartiere un segno distintivo, un’immagine appropriata per i suoi abitanti, l’edificio potrebbe contribuire, ad esempio, a mitigare il senso di alienazione sociale, molto diffuso nelle aree di espansione periferica.

Questo carattere di accoglienza e interazione con il quartiere si incentra principalmente sul grande vuoto attorno a cui è stata organizzata la prima fase. Con il tempo la corte è divenuta centro della vita comunitaria, in cui le relazioni sociali tra gli abitanti si sono rafforzate, formando un gruppo coeso che proietta la propria attività sul resto del quartiere. La proposta per la seconda fase intendeva quindi potenziare il ruolo della corte nello schema

1 La prima fase del Complesso Parrocchiale dell’Ascensione del Signore è stata realizzata tra il 1998 e il 2000 secondo il progetto di José Antonio Carbajal Navarro. Questa fase ospita gli spazi formativi, la sala riunioni, gli uffici del parroco e del suo assistente, i servizi igienici e la casa parrocchiale, destinata ad alloggio del sacerdote.

Iglesia parroquial de la Ascensión del Señor

Complesso Parrocchiale 2ª Fase

Cliente: Arcidiocesi di Siviglia

Costruzione: Maggio 2011/Luglio 2013

Architetti: Salvador Cejudo Ramos

Joaquín Pérez-Goicoechea Dehesa

Foto: Imagen Subliminal, Miguel de Guzmán

La

grande corte centrale, consolidata come area di incontro e interazione con la comunità, si configura come un’oasi urbana che funge da polo di attrazione per i residenti del quartiere e, allo stesso tempo, articola le relazioni tra i luoghi di culto e gli altri spazi del centro.

1. Vista frontale della facciata della chiesa dalla corte.

funzionale dell’edificio. Da qui nasce il tema principale che struttura l’idea progettuale: l’uso della corte come elemento articolatore dell’intero complesso, incluso il tempio, privilegiando l'uso della corte rispetto alla configurazione tradizionale, che prevede l’accesso diretto dalla strada.

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2. Vista aerea del Complesso Parrocchiale. L’edificio della prima fase è a destra e sul retro, mentre la chiesa (seconda fase) è a sinistra.

3. Pianta piano terra, sezioni e diagramma.

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4. Vista del complesso dalla strada.

5. Vista frontale della facciata della chiesa dalla corte.

La grande corte centrale, consolidata come area di incontro e interazione con la comunità, si configura come un’oasi urbana che funge da polo di attrazione per i residenti del quartiere e, allo stesso tempo, articola le relazioni tra i luoghi di culto e gli altri spazi del centro. La chiesa è concepita come un’estensione di questo spazio aperto, in modo analogo al rapporto tra patio e soggiorno nella casa tradizionale. Pertanto, vengono impiegate strategie derivanti dall’approccio tettonico della formalizzazione del progetto, estendendo la pianta del cortile come se fosse un tappeto di pietra che si dispiega e penetra nel corpo principale della chiesa. La definizione dello spazio del tempio deriva, da un lato, da questo “tappeto” che si piega verticalmente verso le pareti, generando un vasto contenitore che accoglie la congregazione dei fedeli, distribuiti attorno al presbiterio in una disposizione che favorisce la partecipazione di tutta l’assemblea agli atti liturgici. L’altro elemento configura-

È così possibile rafforzare il binomio tra trascendenza e sociale, contribuendo a definire qualcosa di fondamentale in una parrocchia: la rete di relazioni affettive, sociali e persino culturali, che costituiscono l’identità della comunità parrocchiale e la sua rilevanza nel quartiere. Per enfatizzare tale carattere, sono state disposte due corti minori, una collegata all’area della fonte battesimale e un’altra alla cappella penitenziale e alla sacrestia. Questi spazi saranno destinati a diverse attività sociali, come mercati di beneficenza, cinema estivo, educazione (catechesi) o momenti di raccoglimento spirituale.

La relazione dell’edificio con l’esterno si formalizza attraverso varie strategie, comuni nella sintassi dell’architettura domestica. È stato già sottolineato il ruolo centrale del vuoto nel sistema formale e funzionale del complesso, fondamentale per modulare la luce, ottenere effetti di trasparenza ed estensione spaziale interno-esterno. Sensibili alle circostanze economiche, sono stati utilizzati materiali e tecniche di costruzione che coniugano economia e sostenibilità. Il rivestimento dell’edificio a contatto con la strada è costituito da lastre verticali cieche in intonaco bianco, che all’esterno presentano un’unica apertura, una fenditura orizzontale sulla facciata ovest che, attraverso una piega, consente l’ingresso della luce dietro il presbiterio, una mossa progettuale di carattere retorico che allude alla dimensione trascendente (Dio).

31 tivo dello spazio è la copertura, un foglio che si dispiega liberamente per coprire lo spazio dell’assemblea attraverso la congiunzione di diversi piani inclinati e pieghe che permettono l’ingresso della luce all’interno, qualificando in modo chiaro le diverse aree richieste dalla liturgia. In questo senso, la pianta della chiesa si articola in tre aree di culto: lo spazio principale della chiesa, la fonte battesimale con cappella penitenziale e la sacrestia, collegate e interconnesse, sia fisicamente che visivamente, con tre spazi vuoti che possono essere considerati un’estensione degli spazi sacri.

L’ingresso al complesso è definito da un’apertura ampia costruita come un corpo a volta, che ospita la cappella del Tabernacolo su un lato, e assume grande importanza come elemento catalizzatore, aprendo l’accesso verso l’interno e invitando i visitatori ad entrare. Riferimenti identificabili per questa configurazione si trovano nei propilei del complesso Brion di Carlo Scarpa, presentandosi come un vuoto costruito, il cui involucro materiale mette in relazione la scala dell’ambiente con l’universo spirituale, in cui il simbolo, in questo caso la croce cristiana, svolge un ruolo di identificazione e memoria. Questo spazio d’ingresso si misura con la scala della città, assumendo una dimensione consona, e si proietta verso l’interno come un portico, definito soprattutto dall’estensione a sbalzo del tetto della chiesa in alto e dalla pavimentazione sottostante. Come nella galleria del patio di una grande casa storica sivigliana, si tratta di uno spazio longitudinale capace di stabilire una connessione parallela tra cortile e tempio. Questo rende l’area un luogo di incontro prima e dopo la messa domenicale, stabilendo una transizione tra tempio e atrio, e tra il complesso parrocchiale e la strada, in un andirivieni costante. Protetto dal sole in estate e dalla pioggia in inverno, la sequenza tra l’ingresso e il portico ricorda quella del zaguán2 e della galleria del patio nelle case tradizionali sivigliane. Il portone d’ingresso scompare nello spessore della parete, in modo che la strada si estenda naturalmente in uno spazio intermedio alla stessa quota, per poi salire al livello del cortile e del tempio. In parallelo a questa sequenza ascendente della superficie del pavimento, il soffitto scende fino a raggiungere il portico, rapportandosi alla scala umana. Questo è il regno dei membri della comunità, dove ancora non si trovano riferimenti alla dimensione divina, che emerge dietro la vetrata che separa il portico dalla grande navata del tempio, dove le due scale convergono: uomo e Dio, l’individuo e la trascendenza.

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6. Vista della chiesa dalla corte, vicino all'accesso dalla strada.

7. Vista del confessionale dal cortile secondario.

8. Vista del portico d’ingresso dalla strada

9. Vista dell’interno della chiesa dalla zona penitenziale

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10. Vista notturna del campanile.

Una certa ricchezza spaziale è il risultato della congiunzione tra la luminosa e gioiosa espansività della navata principale del tempio e l’intimità mistica raccolta nella cappella del Tabernacolo, attraversando spazi dedicati all’incontro e alla meditazione nella cappella penitenziale. In questo modo si ottiene la coerenza necessaria in uno spazio costruito, in cui la scala della trascendenza deve coesistere con la dimensione umana.

2 Lo zaguán è lo spazio di ingresso presente nella maggior parte delle case tradizionali del Sud della Spagna. Si tratta di un ambiente vuoto con due porte contrapposte: una collega lo zaguán con la strada, mentre l’altra apre verso gli spazi interni della casa. Derivato dall’evoluzione storica degli spazi di transizione domestica del periodo musulmano nella Penisola Iberica, il termine zaguán discende dalla parola persiana ustuwan, che a sua volta deriva dal greco stoan (stoa, galleria).

NUOVO COMPLESSO PARROCCHIALE SANTA LUCIA A ENNA

Giuseppina Farina

La realizzazione del nuovo complesso parrocchiale e della chiesa titolata a Santa Lucia ha seguito un iter molto lungo. La ricerca di un’area edificabile disponibile, la richiesta del finanziamento, lo svolgimento del concorso di progettazione bandito dalla diocesi di Piazza Armerina ed infine la realizzazione del progetto hanno coperto un arco di tempo che ha superato i vent’anni.

Il complesso parrocchiale ha trovato spazio all’interno del quartiere Santa Lucia, nella parte bassa e più periferica di Enna, prevalentemente residenziale. L’area è caratterizzata da un disordinato tessuto edilizio, privo di un significativo ordinamento urbano. Inoltre, il forte pendio che caratterizza l’area accresce la difficoltà dei collegamenti e configura il quartiere come un insieme di recinti non comunicanti fra loro. L'impianto di progetto ha assunto, quale limite e orientamento, l'asse stradale principale che attraversa il quartiere da nord a sud e che segna il margine esterno dell’area di intervento. Chi percorre quest’asse in direzione sud-nord trova in alto di fronte a sé, quale punto di riferimento visivo, l’imponente fortificazione federiciana.

Distaccandosi da questo limite, per fatti normativi e per esigenze funzionali, i volumi del complesso parrocchiale s’impostano seguendo il perimetro dell’area. Unica eccezione è rappresentata dal volume ellittico che accoglie l’aula. Si forma così uno spazio interno destinato al sagrato su cui si apre il grande accesso della chiesa e degli altri edifici che compongono il complesso parrocchiale.

La definizione del limite, che segue la forma irregolare dell’area di progetto, permette di individuare differenti soglie e attraversamenti. I volumi, infatti, si aprono in punti strategici, permettendo, oltre all’accesso principale dal sagrato, il facile raggiungimento dell’area creando così un efficace innesto con la maglia urbana esistente e potenziando alcuni percorsi pedonali. L’intero impianto architettonico determina uno spazio di aggregazione a misura d’uomo, facilmente raggiungibile e con una ben definita identità. All’eccezione formale dell’ellisse, alla sua piena ed essenziale matericità, alle sue linee semplici e regolari è affidata non solo la riconoscibilità della chiesa ma anche l’obiettivo di indicarne la presenza nel territorio e di dare origine ad una condizione qualificante sul piano urbano. Il volume alto ed ellittico dell’aula, inciso e scavato dal grande portale d’accesso, in acciaio corten, è accompagnato dal campanile svettante. Entrambi sono legati dal più basso basamento formato dai volumi che accolgono il salone parrocchiale e i locali della sagrestia. Questi fanno da filtro fra il caos dell’asse stradale e lo spazio più riservato del sagrato. L’intersezione fra il basso basamento e l’ellisse mette in evidenza la zona absidale, elemento esterno che si rivela con elementare chiarezza di forme. Ideologicamente il principio insediativo generale si rifà al tema della rap-

Complesso parrocchiale Santa Lucia

Committente: Parrocchia Santa Lucia, Enna - Diocesi Piazza Armerina

Anno: 2017/2024

Liturgista: Prof.ssa Cettina Militello

Progettisti: Arch. Sebastiano Fazzi (Capogruppo e D.L.), Arch. Giuseppina Farina, Arch. Riccardo Girasole, Arch. G. Walter Libertino, Arch. M. Gabriella Fazzi (assistente D.L.), Ing. Massimo Vicari (Strutture e D.L.), Ing. Benedetto Giummulè (Impianti)

Artisti: M° Gianni Ruggeri - Cosèificio Santo Nicoletti

M° Angelo Salemi

Foto: Santo Eduardo Di Miceli

All’eccezione formale dell’ellisse, alla sua piena ed essenziale matericità, alle sue linee semplici e regolari è affidata non solo la riconoscibilità della chiesa ma anche l’obiettivo di indicarne la presenza nel territorio e di dare origine ad una condizione qualificante sul piano urbano.

ABBRACCIO CHE PROTEGGE

Henri Matisse, Vergine con il bambino, bozzetto per la Cappella di Vence, 1848-51

LA VERGINE/LA CHIESA

IL BAMBINO/IL FONDATORE

ABBRACCIO CHE ACCOGLIE

IL VENTRE CURVILINEO/ L'ACCOGLIENZA MATERNA

presentazione della “Madonna con il Bambino” (ci si è riferiti in particolare alle linee semplici dell’opera realizzata da Henri Matisse per la cappella di Vence fra il 1948-51).

Il tema è tra i più antichi dell’arte cristiana: la Madonna rappresentava la Chiesa, e il bambino Gesù, il suo fondatore. I vari rapporti tra madre e figlio non erano quindi legati all’intento di rappresentare una scena realistica ma simbolica. Ad esempio la Madonna che indica il figlio era chiamata “Odigitria”, e simboleggiava la Chiesa che indicava la strada della Salvezza attraverso Cristo.

La sequenza dei volumi si offre, secondo una traduzione architettonica di questi simboli, a un’equilibrata alternanza fra pieno e vuoto, in cui la singolarità verticale dello spazio ellittico che accoglie l’aula, è simbolo dell’aspirazione alla Gerusalemme nel cielo e dell’accogliente ventre materno. Contemporaneamente si rinvia a un’appropriazione orizzontale ed ecumenica del suolo, quasi un abbraccio alla Comunità e un invito ad attraversare il sagrato e intraprendere il cammino verso la Chiesa.

Le piante centrali, nell’accezione dell’ellisse, rappresentano la tradizione alla quale il progetto dell’aula ha fatto riferimento.

Lo spazio centrale dell’aula è fortemente dinamico e si rapporta in maniera differente con gli spazi scavati in nicchia che accolgono i luoghi liturgici.
In particolare il percorso di accesso risente di questo voluto dinamismo.

Dal sagrato, il fedele attraversa lo spazio che conduce al portale d’ingresso (esonartece) giungendo in uno spazio filtro (endonartece) che lo accompagna a un cambio di direzione del percorso che fa riacquistare la centralità interna dell’Altare orientato ad est.

L’interno della chiesa affida alla luce, naturale e artificiale, un ruolo fondamentale.

La luce naturale, indiretta e controllata, pone l’accento sui luoghi liturgici e accompagna le azioni rituali.

Tre grandi camini di luce sull’ambone, sul fonte battesimale e sulla cappella feriale convogliano la luce, riflessa ed amplificata dal colore e dalla lavorazione del marmo di carrara che caratterizza i differenti spazi. Dai due alti tagli verticali che definiscono l’abside, la luce entra filtrata dal forte sguincio e dalla presenza di un trittico di pale d’altare in vetro e resina colorate che rappresentano la trasfigurazione e la porta del paradiso. Un taglio sottile perimetrale a soffitto, segue l’andamento ellittico dell’aula e diffonde una tenue luce radente sulle pareti curve. L’unica luce diretta è quella proveniente dall’occhio in copertura che sottolinea la posizione dell’omphalos.

L’architettura del complesso parrocchiale si allontana, quindi, da un’immagine autoreferenziale e, a partire da una nuova interpretazione di segni storici, si relaziona alla città con una forte identità trasmettendo ad un contesto anonimo il senso di una diversa e significativa conformazione, assolvendo così al compito che la chiesa ha sempre svolto all’interno dei tessuti urbani.

PRESENTE E MEMORIA LA CHIESA DI SAN VENANZIO

A SEMONTE - GUBBIO

La frazione di Semonte, a nord-ovest di Gubbio, lungo la strada che conduce ad Umbertide, compresa tra gli imponenti volumi della cementeria e le coltivazioni a vigneti, si sviluppa sul declivio che arriva ai Prati di Petazzano con la Fonte di Suelle. La chiesa, sul cui sedime si è realizzato l’intervento che qui si presenta, ha sostituito nel 1964 l’antica pieve per meglio rispondere al concentrarsi degli abitanti nell’attuale insediamento; tra il 1998 e l’anno 2000 è stato realizzato il campanile su progetto dell’arch. Paolo Ghirelli. Il sisma del 2010 l’ha resa però inagibile ed è stata necessaria una nuova opera per la quale si è affidato il coordinamento dei lavori allo Studio Giacometti Manucci, il progetto architettonico all’arch. Claudio De Meo e il programma iconografico all’arch. Gabriele Orlando; consulente liturgico è stato il prof. padre Silvano Maggiani OSM, che purtroppo ci ha prematuramente lasciati a gennaio 2020. A lui va il nostro ricordo e l’infinita riconoscenza.

Il tema progettuale affrontato è quello della domus ecclesiae, sia come espressione della contemporaneità in un luogo e in un tempo determinato, sia come «metonimia figurativa della Chiesa di Dio»1. Così, l’idea del moderno in architettura, come affermazione di libertà da ogni gerarchia e da ogni riferimento, nel «gioco sapiente» delle forme, ha bisogno di ritrovare, nel progetto della chiesa, i suoi valori ed i suoi principi figurativi. Il racconto del progetto, agendo sui registri lessicali, può allora svilupparsi e tentare di proporre, al di fuori delle convenzioni allegoriche, la figura come metafora, capace di interrogare il visitatore al di là della sua appartenenza a una determinata cultura e religione2 L’odierno edificio, pur con le inevitabili e radicali opere di trasformazione, ha voluto conservare i segni che per la comunità rappresentano la permanenza ideale della sua storia, come sottolineato anche dal parroco don Armando Minelli: fra tutti, le finestre a nastro ed i contrafforti. Il corpo di fabbrica riprende la forma rettangolare, mentre il paramento murario in laterizio propone ricorsi disegnati dalla diversa disposizione dei mattoni; la cornice in pietra bianca, in prossimità dell’ingresso, s’interrompe per un taglio verticale che lascia penetrare la luce negli ambienti (fonte e penitenzieria) ricavati tra i due piani di facciata e nell’aula liturgica attraverso il rosone, facendo in modo che il prospetto esterno conservi la memoria del precedente. Si accede alla chiesa attraverso un piccolo sagrato che prepara al distacco dallo spazio urbano prima di entrare in quello eucològico e spirituale. Qui si accoglie il visitatore, nel luogo santo, perché la sensibilità religiosa cristiana non attiene all’ambito del sacro, del «fascinosum et tremendum», ma a quello della relazione, innanzi tutto con il suo Signore. Sul sagrato si affaccia il portale d’ingresso, costituito da una profonda strombatura in laterizio,

1 C. Valenziano, Architetti di Chiese, EDB 2005, 58.

2 Cfr. Dianich S., Costruire e abitare una chiesa: come parlare alla città, sta in Chiesa e Città, Atti del VII Convegno liturgico internazionale, 4-6 giugno 2009, Edizioni Qiqajon, Bose 2009.

... l’idea del moderno in architettura, come affermazione di libertà da ogni gerarchia e da ogni riferimento, nel «gioco sapiente» delle forme, ha bisogno di ritrovare, nel progetto della chiesa, i suoi valori ed i suoi principi figurativi

il cui progressivo restringimento s’interrompe su un secondo portale più interno, in pietra bianca traforata con motivo di palme lungo gli stipiti e l’architrave, realizzato da Luca Grilli di Gubbio su disegno di Claudio De Meo. Subito sopra, una lunetta in ceramica con bassorilievo, il cui autore è Giancarlo Grasselli di Gubbio, richiama Camerino e Semonte, l’Albero della Vita, l’Agnus Dei e San Venanzio Martire. Oltrepassata la soglia, s’incontra l’atrio dominato dalla porta detta «della luce»: un complesso sistema in plexiglas, contenuto da otto strette barre in ottone su infisso nero, disposte lungo i montanti a disegnare una scala, permette, sia alla luce che l’attraversa, sia a quella prodotta da led interni, di rivelare esili figure di angeli. Vetri, plexiglas e sistema interno dei led sono di Antonella Capponi di Gubbio. Superato l’atrio, si ha accesso all’aula dei fedeli, pensata come uno spazio unitario di colore bianco-crema: qui, la diffusa ed omogenea luminescenza, proveniente dal rosone e dalle finestre a nastro, si giustappone alle increspature proprie del laterizio esterno. Al centro dell’aula, in prossimità delle porte laterali, sono collocati, uno di fronte all’altra, l’ambone e la sede; la copertura è realizzata con capriate, arcarecci e ta-

2, 3, 4, 5. Sequenza delle porte Pagina successiva

6. Vista del territorio di semonte.

7. Vista del territorio di Semonte e della parrocchia di san venanzio dalla cementeria.

8. Vista della chiesa di San Venanzio dai vigneti.

9, 10. Prospetto principale

volato in legno. Guardando alla zona presbiterale, si nota un cambio di luminosità: strisce di luce più intense corrono attraverso lunghe e strette strombature che si raccordano ai piani interni; un quadrato, visibile al di sopra del grande portale che separa l’aula dal presbiterio, individua un secondo volume centrato sopra l’altare. È possibile scorgerlo per intero solo all’interno del presbiterio, di cui occupa tutta l’altezza: è di forma cubica e presenta in sommità le aperture del tiburio, tre per lato, che, con le loro strombature orientate simmetricamente verso il centro, alludono alla figura del cerchio, simbolo del cosmo. La faccia superiore del cubo ha un’incavatura dove è collocata l’immagine in gesso, con sottili e delicate sfumature argentate, dell’Agnus Dei, opera di Patrizia Ramacci di Gubbio. Sempre da questo piano, partono i cavi a cui è sospesa una croce in legno a due diverse essenze di Mario Damiani, falegname eugubino, con crocifisso in terracotta a basso rilievo di Giancarlo Grasselli, da un’idea di suor Agar Loche PDDM. Resta da esaminare l’aspetto liturgico, fonte ed ispirazione per il progetto. Con riferimento all’espressione «circumstantium», tratta dalla Prima e dalla Quarta Preghiera Eucaristica del Messale Romano e riferita ai fedeli presenti, lo spazio dell’intera chiesa individua due luoghi celebrativi: l’aula, riservata all’ascolto della parola, e il presbiterio, dove l’assemblea, raccolta attorno all’altare, celebra l’eucarestia; di qui, il riferimento alla Gerusalemme Celeste dell’Apocalisse nel disegnare il luogo finale del percorso celebrativo, cioè l’area dell’altare. A tal riguardo, è interessante la riflessione che Mies van der Rohe fa sull’opera di Romano Guardini. Il grande architetto, nel rigettare l’idea di forma come fine, che ridurrebbe l’ars aedificatoria a banale formalismo, sostiene invece che il suo scopo è perseguire la verità, nei materiali, nella tecnica e nel costruire. Citando San Tommaso, coniuga il concetto di verità a quello di forma attraverso la famosa locuzione cara all’aquinate: «adaequatio rei et intellectus»3. Tuttavia, la realtà di cui è portatrice la domus ecclesiae non è tutta contenibile in ciò che si riferisce alla cultura materiale della forma. C’è altro che va testimoniato e rappresentato: la dimensione escatologica, che per sua essenza

3 Cfr. F. Neumeyer, Mies van der Rohe. Le architetture, gli scritti, Skira, Milano 1997.

11, 12. Canonica

13. Tiburio

14. Abside e canonica

sfugge al tempo ed allo spazio determinati. Così, tornando all’ultimo libro del Canone, nella sua conclusione, troviamo un dialogo che coinvolge, con l’autore ed il Cristo, l’assemblea liturgica, il popolo di Dio. Sono i cittadini della Nuova Gerusalemme; la loro cittadinanza è universale, offerta a «uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione». Nella piazza della Città scorre «un fiume d’acqua viva»; lungo le sue sponde c’è l’albero della vita, un tempo perduto e qui ritrovato, perché la fine escatologica del tempo e della storia è in definitiva un ritorno. La conclusione del racconto, «Vieni, Signore Gesù», riporta il lettore nel suo tempo, in ogni presente della storia ed anche qui, nella chiesa di San Venanzio a Semonte.

Il progetto di una chiesa si fonda sui tre imprescindibili monumenti celebrativi: altare, ambone e vasca (o fonte) battesimale; per questo anche detti “eminenze” spaziali, poiché trasformano un edificio in una chiesa.

In aderenza a detto principio, la progettazione di altare, ambone e vasca battesimale (ai quali si aggiunge la sede) richiede lo stesso stile artistico e l’utilizzo dello stesso materiale, affinché siano riconoscibili anche visivamente come “struttura portante” dell’intera aula celebrativa.

15. Altare e presbiterio

16. Vista verso il rosone

17. Sede e ambone

Poiché il Battesimo è il Sacramento che introduce a tutti gli altri Sacramenti, il battistero di San Venanzio a Semonte è adiacente l’ingresso della chiesa, ponendosi così come “porta d’ingresso” alla vita Cristiana. Normalmente, il battistero ha la vasca battesimale, perché consente la corretta celebrazione del rito, cioè l’immersione da ovest, luogo del tramonto, quindi delle tenebre, della morte (peccato originale), per poi riemergere e risorgere con Cristo risalendo a est, luogo del sole nascente, della luce, della vita. Se ne deducono due aspetti fondamentali. Il primo: oltre all’acqua (fuoriuscita dal costato di Cristo), l’altro elemento del Battesimo è la luce, simboleggiata dal cero battesimale che arde perennemente. Il secondo: la forma più appropriata della vasca è l’ottagono poiché richiama l’ottavo giorno, cioè quello della Resurrezione. Quando, come nel caso di San Venanzio, lo spazio disponibile non permette la realizzazione della vasca, si ovvia con il fonte, la cui forma circolare vuole essere la proiezione a terra della cupola Celeste. Oltre a quanto sopra, il progetto presta la dovuta attenzione al sistema idrico, affinché il rito batte-

simale si svolga con acqua corrente (“acqua viva”), e non con acqua stagnante.

Dal battistero, il catecumeno va all’ambone, che non è il luogo della Parola; nel qual caso sarebbe sufficiente un semplice leggio. In realtà, l’ambone è il monumento della Resurrezione dal quale si proclama la Parola, perché (Lc 24) al mattino della domenica le tre donne si recano al sepolcro e lo trovano vuoto, ma nei pressi c’è l’angelo che annuncia: “Non è qui. È risorto!”. Abbiamo dunque la prima proclamazione neotestamentaria della Parola, e le tre donne diventano a tutti gli effetti “apostoli apostolorum”.

Di conseguenza, l’ambone di San Venanzio ha il leggio posto sopra un’apertura che significa l’ingresso (aperto) della tomba vuota e, allo stesso tempo, rimanda alla discesa negli inferi del sabato santo. Un secondo elemento obliquo, posto lateralmente, stilizza il masso spostato che chiudeva l’ingresso sepolcrale.

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18. Porta detta della luce.

19. Ambone e porta laterale. La Via Crucis è un’opera in terracotta realizzata negli anni ‘70 dall’artista Nello Bocci ed altri presso la Scuola d’arte di Gubbio.

20, 21. Crocifisso e Agnus Dei.

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22, 23. Fonte batesimale - Render di progetto.

La sua posizione è verso metà navata, non solo per facilitare l’ascolto della Parola (anche senza microfono), ma soprattutto per stare “in mezzo” all’assemblea, e non “di fronte” ad essa. Dall’ascolto della Parola si va all’Eucarestia, e quindi all’altare. Che (con la venuta di Gesù) non è più solo l’ara sacrificale veterotestamentaria, ma assume tutto il senso salvifico della Resurrezione. Pertanto, l’altare è sia mensa dell’Ultima Cena sia roccia del Calvario, affinché Passione, Morte e Resurrezione abbiamo una traduzione artistica unitaria, e non di un solo aspetto specifico. Ecco quindi che l’altare di San Venanzio è un cubo, avente il lato di un metro, poiché deve “reggere” solo il pane, il vino e il Libro, oltre che ospitare il solo celebrante (eventuali concelebranti stanno ai lati). Il cubo ha tutte le facce uguali, per cui si rivolge allo stesso modo verso le sei direzioni spaziali. Di fatti, la celebrazione è “versus populum”, ma l’altare in sé è “versus mundum”. Posto che il monumento eucaristico è inamovibile e di pietra, perché “Cristo è la pietra viva” (1Pt 2,4), la faccia superiore del cubo è diversificata per evidenziarne il ruolo di mensa, mentre la roccia è significata dalle facce laterali, al centro delle quali una parziale scanalatura rimarca l’orientamento verso le quattro direzioni cardinali.

Come la vasca (o fonte) battesimale ha il suo luogo nel battistero, e l’ambone nella navata, così l’altare ha il suo luogo nel bema (impropriamente chiamato “presbiterio”), termine che indica un luogo sopraelevato, da cui rivolgersi all’assemblea stando in asse verticale con il tiburio e su un’appropriata pavimentazione che integra la regalità del luogo.

CAPPELLA SÃO JOÃO BOSCO A DIADEMA- BRASILE

La costruzione di una cappella da parte di un privato è solitamente legata alla volontà di creare un monumento o un cenotafio familiare. Nel caso della cappella Don Bosco a Diadema si tratta invece di una opera voluta dal suo costruttore come un elemento funzionale alla vita quotidiana di un importante complesso industriale.

Si tratta del complesso industriale Papaiz a Diadema nelle vicinanze di San Paolo in Brasile, edificato nel 1982, lungo la Rodovia dos Imigrantes, ispirandosi alle costruzioni industriali lungo l’Autostrada del Sole in Italia. La cappella nasce dalla volontà del fondatore dell’azienda Luigi Papaiz di rendere omaggio a San Giovanni Bosco, per il centenario della sua morte. Prima del suo trasferimento in Brasile nel 1952, Luigi Papaiz aveva frequentato le scuole salesiane di Bologna, formandosi seguendo i principi della pedagogia salesiana incentrata sul tema della carità pastorale. Non si tratta però di un semplice monumento personale in quanto invece di essere costruita in uno spazio privato, si è scelto di edificarla all’interno di un complesso produttivo che ogni giorno ospita migliaia di persone. L’idea è di uno spazio di lavoro che accolga e che permetta di avere anche momenti di pausa e di convivialità, oltre ad un luogo di raccoglimento spirituale.

Una idea di azienda che può rimandare al modello Olivetti di Ivrea.

La cappella è stata edificata dal team di architetti Carlos A. R. Ruivo, Marina Y. Kuzuhara, Ademar C. Sonoda, nella posizione maggiormente sopraelevata e visibile del complesso. Partendo da San Paolo verso il Porto di Santos, lungo la grande autostrada (Rodovia dos Imigrantes) l’edificio è un elemento paesaggistico importante che segna idealmente la fine del municipio di San Paolo.

Si legge la volontà di edificare un luogo di culto contemporaneo dedicato a Don bosco ma che sia fortemente legato al contesto e alle condizioni climatiche brasiliane e in particolare alla regione dello Stato di San Paolo situata nella fascia tropicale.

La struttura è costruita da un foglio in cemento armato piegato su se stesso che forma lo spazio sacro, che non si chiude completamente, se non tramite una vetrata artistica che diventa l’ingresso e la principale fonte luminosa dell’aula.

La particolarità della costruzione è la compenetrazione dell’aula con il suo intorno. Essa è edificata e concettualmente sospesa sopra uno specchio d’acqua, che è percepibile da aperture sul pavimento che circondano l’aula. Questa situazione permette una ventilazione e un raffrescamento naturale dello spazio sacro, mitigando le calde temperature tropicali. Al tempo stesso l’acqua riflette la luce all’interno, aumentando la sensazione di essere sospesi sia da un punto di vista sia fisico che concettuale, distaccandosi dal terreno verso il trascendente.

Cappella São João Bosco

Progetto: 1986-1988

Costruzione: 1988

Committente: Luigi Papaiz

Architettura: Carlos A. R. Ruivo, Marina Y. Kuzuhara, Ademar C. Sonoda

Ingegneria: Francisco Graziano, Mauro Wajchenberg

Foto: Beatriz Arcari

...
edificata e concettualmente sospesa sopra uno specchio d’acqua, che è percepibile da aperture sul pavimento che circondano l’aula

Gli arredi e i poli liturgici sono ridotti al minimo ma tutti disegnati appositamente per questo progetto. Una semplicità stilistica che mira ad enfatizzare la plasticità della vela in cemento che culmina verso l’alto con un sistema di luci artificiali e naturali.

L’altare in pietra è centrato rispetto a due colonne dello stesso materiale e della stessa altezza. Su di esso è presente un crocifisso metallico che evoca la natura industriale del contesto.

Sopra l’altare un bassorilievo di San Giovanni Bosco tra i ragazzi, sormontato da una madonna con il bambino. Le panche curve, in legno massello locale, posano su un pavimento marmoreo chiaro posato in lastre quadrate.

La cappella a trenta anni dalla sua costruzione è stata iscritta dal 2018 nel registro dei monumenti di interesse culturale del municipio di Diadema, rappresentando un esempio raro di architettura religiosa privata all’interno di un complesso industriale.

Recentemente sono stati effettuati dei restauri e sono previsti ulteriori lavori in futuro oltre ad una sistemazione paesaggistica dell’intero complesso.

COME STELLA CHE CADA DAL

CIELO LA SPERANZA PASSÒ SOPRA LE LORO TESTE

SUL SENSO DELLA COPERTURA

IN ALCUNE CHIESE DI EMIL STEFFANN

L’Espérance voit ce qui n’est pas encore et qui sera.
Charles Péguy

Le chiese di Emil Steffann (1899-1968), come abbiamo diffusamente mostrato in altra sede,1 presentano, pur nel rigore progettuale, una mutevole varietà, per cui la loro analisi completa presuppone perlomeno una suddivisione attraverso analoghe caratteristiche di contenuto ed espressione. È di conseguenza assai probabile che altre categorie interpretative si possano formare, solcando e intersecando questi insiemi primari, per esempio in considerazione, come qui sta per accadere, della contiguità rispetto alla forma di un elemento tettonico basilare quale la copertura dell’edificio. Ci riferiremo, nello specifico, alla semplice copertura a tetto con una o due falde inclinate la quale assume, in alcune principali architetture liturgiche di Steffann, l’inusuale orientamento opposto alla direzione dell’altare, dove cioè il colmo coincide con l’asse trasversale dello spazio.

Già Pevsner, nella sua analisi del Santuario neumanniano dei Quattordici Santi, ci aveva avvertito di come sia possibile, all’interno della chiesa, imbattersi, laddove si presumerebbe il massimo dell’ascesa, in “una depressione, un contrappunto spaziale” dal contrario, ma non meno acuto effetto sulla nostra percezione.2 Ora, quanto appare subito chiaro negli edifici provvisti da Steffann del tipo di copertura cui si è fatto cenno è la presenza dell’altare proprio di sotto a una sua porzione depressa: l’abbassamento, cioè, della falda che corre verso il muro absidale dopo aver avuto origine nel punto più alto dell’aula posto, invece, sopra l’assemblea.

Questo particolare schema di sezione appare limpido fin dai disegni per la chiesa-granaio di Boust (1942): lo schizzo dell’interno mostra il profilo di copertura con il colmo a circa due terzi del suo sviluppo e la falda, sul fondo, che scende a racchiudere lo spazio rialzato dell’altare; sulla destra, la porta permette di accedere lateralmente all’aula liturgica. Tra le prime conseguenze di questa geometria del tetto sta proprio il fatto per cui l’edificio non ha una vera e propria facciata, bensì appare principalmente all’esterno un fianco, di preciso quello meridionale, dove la chiesa mostra proprio il suo profilo longitudinale. La parete nord è trattata come qualcosa di ancestrale, un piano d’ombra spezzato da luce tenue in prossimità dell’altare e lungo il quale si appoggia in lunghezza la chiesa; a est e ovest i muri compressi dalle falde sono limite e raccordo con i corpi di fabbrica circostanti;

1 Tino Grisi, «Können wir noch Kirchen bauen?» / «Possiamo ancora costruire chiese?». Emil Steffann und sein / e il suo Atelier, Regensburg, Schnell und Steiner, 2014, cui si rimanda per la trattazione ampia di tutte le chiese qui citate.

2 Nikolaus Pevsner, An outline of european architecture, 1942 (tr. it. Storia dell’architettura europea, Bari-Roma, Laterza, BUL, 1984, p. 176).

è la presenza dell’altare proprio di sotto a una sua porzione depressa: l’abbassamento della falda che corre verso il muro absidale ...

solo a meridione l’involucro di pietra mostra la sua disponibilità a schiudersi ad arco sull’asse mediano della falda più lunga.

Si può obiettare come il nascondimento, la capsula ribassata che cela la mensa eucaristica, l’obliquità percettiva dei suoi fronti facciano parte del processo mimetico di questo edificio nel particolare contesto storico e geografico in cui fu eretto.3 Una chiesa che si finge granaio / un granaio che assume le sembianze di una chiesa comportano delle scelte progettuali forzate, in qualche modo semplicemente ibridate nella dissimulata convivenza dei tipi. Prima di confutare questa ipotesi, introduciamo un altro esempio archetipico della forma di copertura qui analizzata nella produzione chiesastica di Steffann.

In St. Elisabeth a Opladen (1950-58, con Friedrich Ott) l’unica falda scende repentina dal piano di sezione ovest verso il presbiterio, dove la presenza della conca absidale, racchiusa dai piloni d’appoggio di due travi reticolari, accentua ancor più la compressione dello spazio. La pianta è,

3 Per approfondire le condizioni in cui maturò la costruzione della chiesa-granaio durante l’occupazione nazista della Lorena si veda: Susanne Grexa, “‘Notkirchen’: über Improvisation und Beschränkung als gestalterische Prinzipien zur Typologie der ‘Notkirchen’”, in: Conrad Lienhardt (a cura di), Emil Steffann (1899-1968). Werk Theorie Wirkung, Regensburg, Schnell und Steiner, 1999, pp. 32-33.

in questo caso, quadrangolare e l’apertura maggiore, la smisurata finestra ad arco, campeggia sul fronte occidentale rivolto al cortile d’accesso, ma a ben vedere l’entrata avviene da un portico periferico, imponendo ancora la visione di scorcio verso destra dell’altare dal basso atrio sotto la cantoria, ed è la parete sud, di nuovo, a mostrare verso la città la forma e la struttura del fabbricato, oltre a un ulteriore varco d’accesso.

A Opladen si ripete il principio compositivo per cui in corrispondenza del punto più alto della copertura stanno in maggioranza i fedeli radunati, mentre la mensa è prossima all’altezza minima dell’aula. Il fatto che ciò accada sotto un’unica falda e in uno spazio centralizzato, conferisce a questa chiesa la particolarità di una costruzione in fieri, dove il muro ovest, in realtà sottile setto tra imponenti pilastri, è un diaframma quasi provvisorio verso l’aperto del cortile il quale ne rappresenta un potenziale completamento. Gli speroni murari digradanti del lato meridionale, appena segnato dal sottile bordo del tetto a filo, interpretano icasticamente quest’idea di spazio non-finito. Tale virtualità si manifesta, invece, tangibilmente nel centro parrocchiale di St. Maria in den Benden (Düsseldorf-Wersten, 1955-59, con Nikolaus Rosiny e K.O. Lüfkens): allo sviluppo assai simile dello spazio liturgico, ripidamente compresso dal soffitto inclinato verso l’abside e aperto al tramonto da una vetrata tra due plastici setti, si accompagna, infatti, la creazione

della sezione a capanna, con l’accostamento di una seconda falda a coprire gli spazi atriali e pastorali, lasciando scoperta la corte centrale. Ne deriva un singolare movimento d’approccio a spirale il quale, oltre l’ingresso aperto dallo sfalsamento nel fronte sud, conduce alla visione diagonale dell’altare e a ricomprendere nell’ambito celebrativo, attraverso la parete trasparente, ora vero e proprio sipario alzante, il vuoto a cielo aperto. Possiamo dunque verificare la presenza di alcune scelte paradigmatiche non certo attribuibili alle sole circostanze vincolanti dell’originario esempio di Boust, bensì che esprimono una convinta modellazione dell’architettura liturgica: la lateralità del fronte principale, l’eccentricità della porta, il cambio di direzione nell’avvicinamento all’altare e la compressione in altezza del suo spazio di pertinenza, compressione ripetuta, dopo l’accoglimento dell’assemblea nella porzione dell’aula prossima al colmo della copertura, nel polo opposto, dove s’ibridano l’interno della chiesa e le sue parti esteriori.

Lo dimostra oltremodo la riproposizione, pressoché integrale, del modello lorenese nella parrocchiale di St. Bonifatius a Krefeld (1957-59, con K.O. Lüfkens): nel rispetto dello sviluppo longitudinale dell’aula e delle proporzioni 2:1 nella lunghezza delle falde, la depressione del tetto contraddistingue le opposte polarità del fonte e della mensa eucaristica; l’ingresso è, come in St. Elisabeth, spinto all’estrema sinistra, sotto il portico, e tra-

guarda la zona battesimale, comportando poi la consueta rotazione di prospettiva verso l’altare. L’apertura ad arco sul fronte sud assume i caratteri di una finestra dal davanzale elevato posta in asse col vertice della capanna, convogliando il massimo di luminosità nell’interspazio a maggiore altezza destinato ai fedeli. La posizione dell’apertura, corrispondente con perfezione al punto culminante del tetto, fa, di converso, apparire del tutto arbitraria la collocazione del contrafforte che la accompagna; esso sembra scorrere via dal consueto marcamento d’angolo per proporsi come un semplice puntello, nemmeno necessario a sostenere il massimo sforzo in copertura, invece messo ad ancorare, più in senso figurato che reale, il fianco/facciata al cortile antistante.

Si tratta di un processo metamorfologico4 nel quale le figure costruttive primarie si svincolano dal loro ruolo letterale per divenire elementi capaci di intensificare le relazioni spaziali.

4 Per il concetto di metamorfologia ci si riferisce a: Hiromi Fujii, “Architectural metamorfology: in quest of the mechanism of the meaning”, in Kenneth Frampton (a cura di) The architecture of Hiromi Fujii, New York, Rizzoli, 1987, pp. 76-79.

In questo dominio possiamo far ricadere anche la rotazione della copertura a tetto: essa produce una modifica valida dentro l’idioletto dell’opera come “alterazione di senso” in grado di generare “nuovo significato architettonico” pur nella “rassomiglianza” con il contenuto semantico tradizionale.

St. Laurentius a Monaco-Gern (1952-57, con Siegfried Östreicher) rappresenta, come per tanti altri aspetti dell’architettura ecclesiale di Steffann, la massima sintesi di quanto finora osservato. La doppia falda trasversale è completamente ricondotta all’interno dell’aula rettangola absidata, mentre il portico con l’ingresso decentrato ruota anch’esso allineandosi con la direzione del colmo e divenendo un endonartece.

In verità, tutto l’orientamento della chiesa è capovolto sull’asse est-ovest, in uno spazio pensato ab origine per la disposizione frontale del presbitero all’altare. Ciò non toglie che all’esterno campeggi comunque, attirando i passi del visitatore e mostrando la sezione del tetto, la nonfacciata corrispondente al lato meridionale dell’edificio, con tre alte finestre ad arco e la scansione umbratile dei contrafforti inclinati.

Entrando, la compressione spaziale dell’atrio richiama l’opposta, decisa discesa del tetto verso l’abside, con l’altare avvicinato al centro alto e luminoso, ove è raccolta l’assemblea. Stilizzazione, orientamento cosmico, continuità dei piani pur distinti dalla tessitura materica e nel colore, creano l’icona della chiesa come intero santuario. I significati acquisiti dagli elementi costruttivi e quelli indotti dalla nuova composizione non si sommano per rottura o sovrapposizione, bensì per via di una tensione che attraversa la forma come una vibrazione, concedendosi soltanto quell’apparenza libera da consuetudini capace di tenere assieme l’essenza delle figure architettoniche.

Questo semplice approssimarsi all’esperienza costruttiva degli edifici per il culto cattolico progettati da Emil Steffann ci può permettere un’interpretazione dello spazio celebrativo svincolata dalla nomenclatura frusta e riduttiva cui, in generale, ci abbandoniamo. Se, infatti, “la realizzazione di un’opera d’arte è in sé un’esperienza che presenta analogie con l’approccio al mistero cristiano”5 è allora “esatto lo schema estetico che ci fa possedere l’infinito nella finitezza della forma”.6 Lo sguardo profondo cui conduce la fede, l’incontro con il prossimo attraverso la carità, l’elevazione dell’animo nella speranza comportano per la liturgia cristiana (e la relativa architettura) l’essere “piena di stile” nella rinuncia a una “propria pretesa di stile”, cioè unendo ”con la sua celebrazione i due poli che debbono essere uniti: il Signore che si dà e la comunità che ha fame di lui”.7 La speranza, in particolare, è aspirazione alla felicità attraverso la grazia spirituale espressa nella preghiera per la salvezza universale. È la sospensione temporale e misterica espressa da Goethe, sul finire de Le affinità elettive, nell’incantevole e presaga frase:

5 San Giovanni Paolo II, Omelia durante la Messa degli artisti, Bruxelles, 20 maggio 1985.

6 Hans Urs von Balthasar, Herrlichkeit. Eine theologische Ästhetik, Bd. I, Schau der Gestalt, Freiburg i. Br., Johannes Verlag Einsiedeln, 1961 (tr. it. Gloria. Una estetica teologica, vol. 1, La percezione della forma, Milano, Jaca Book, 1971, p. 141).

7 ivi, p. 557

8 “Die Hoffnung fuhr wie ein Stern, der vom Himmel fällt, über ihre Häupter weg” (parte II, cap. XIII).

Così il punto elevato e splendente nell’architettura della chiesa accoglie la comunità orante e rappresenta la giustificazione della fede e la via per la carità le quali, al contrario, l’abbassarsi del tetto simbolicamente racchiude e proietta nelle soglie dell’altare e della porta, conciliandole nell’interezza della figurazione spazio-temporale.

Si può allora affermare come la riuscita e la forza dell’opera architettonica liturgica coincidano con il “fatto di aver saputo cogliere e concretizzare in una forma simbolica adeguata grandi connessioni oggettive del mondo che rimangono nascoste ai piccoli spiriti”.9 La progressione mondana, con il suo incerto futuro, richiede di essere sostenuta con “una speranza trascendente e una responsabilità immanente, assunta con coraggio”,10 proprio nell’esprimere il luogo dove accade la loro unione corporea e nello spirito.

Nell’ultimo esempio da prendere in considerazione ai fini di questa breve esposizione, la chiesa dello Spirito Santo (Heilig Geist) a Mülheim an der Ruhr (1965-68, con Gisberth Hülsmann), una vetrata verso il cortile murato opera un improvviso troncamento della falda occidentale a circa un quarto del suo sviluppo, definendo attorno al colmo, insolitamente retto da due pilastri di cemento a vista, uno spazio-soglia su un livello inferiore rispetto all’esterno e in continuità con la disposizione trilaterale dell’assemblea.

La depressione verso il presbiterio è accentuata dall’abbassarsi del pavimento e dall’unico gradino su cui riposa l’altare, di fronte alla parete rettilinea a est. Tutto l’ambiente assume un’impressione di accentuata trasversalità, poiché la pianta quadrata del complesso viene scandita in modo netto nei tre ambiti simbolici prima individuati, ritmando i dislivelli e i componenti costruttivi, così plasmando contemporaneamente l’aula e il cielo aperto.

La narrazione che questo edificio porta a termine, al momento della morte di Emil, inizia tre decenni prima nel progetto per una chiesa della Diaspora (1937): vi compaiono in nuce il raccoglimento dell’assemblea, la sezione di copertura ribassata verso l’altare, l’affaccio sul cortile nella disponibilità di un’architettura per la fede carica di speranza e orientata alla carità.

Le parole di questo racconto, nella loro autentica origine epica, appaiono elementi di un sogno irrompente nel tempo lineare attraverso la materia. Esse assicurano la verità della rappresentazione poiché “il poeta, per amore dell’oggettività del tutto, deve come soggetto retrocedere dinanzi al suo oggetto e sparire in esso”.11 Lo stile epico di Steffann “consiste nel fatto che l’opera sembra si canti da sé”12 e in questa giustezza oggettiva “la continuità, nel soggetto, fra materia sensibile e spirito, corrisponde alla forza immediata dell’oggetto, nella sua profondità spirituale, di manifestarsi sensibilmente” dove “la verità non si produce anzitutto creandola, ma la si riconosce”.13

9 Hans Urs von Balthasar, Herrlichkeit. Eine theologische Ästhetik, Bd. I, Schau der Gestalt, cit., tr. it. p. 523.

10 Hans Urs von Balthasar, Reform aus dem Ursprung, Freiburg i. Br., Johannes Verlag Einsiedeln, 1970 (tr. it. Romano Guardini. Riforma dalle origini, Milano, Jaca Book, 2000, p. 116).

11 Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Vorlesungen über die Ästhetik, 1835 (tr. it. Estetica, Torino, Einaudi, 1972, p. 1173).

12 id

13 Hans Urs von Balthasar, Reform aus dem Ursprung, cit., tr. it., p. 46.

MAESTOSITÀ ECCLESIALE STRABILIANTE NELLA SEMIOTICA DELLO SPAZIO URBANO IL BAROCCO DELLE CHIESE SALENTINE

Giuliana Quattrone

Le chiese, nello spazio urbano, generano senso di appartenenza per la comunità ecclesiale, ma quando la loro architettura delinea un vero e proprio preciso “linguaggio” architettonico non assolvono solo ad una determinata “utilitas” ma divengono connotanti di un determinato spazio, segno iconico di un territorio. In tal caso le architetture ecclesiali non solo assolvono alla loro precisa “funzione” di edifici per il culto ma, semioticamente “comunicano”. E, anzi, la loro stessa funzione può essere interpretata sotto l’aspetto comunicativo. Così attraverso l’esuberanza formale, il gusto per il pittoricismo e l’uso di superfici aggettanti e discontinue tipiche del barocco l’architettura ecclesiale salentina si presenta come un messaggio connotante che informa sulla funzione dell’edificio ecclesia e al tempo stesso possiede degli aspetti euristici e inventivi. In tal senso, il barocco salentino “comunica” grazie alla ricercata concordanza fra il racconto sacro e la forma dell’architettura.

Non solo a Lecce ma anche in altri paesi del Salento, come ad esempio Nardò, Gallipoli, Galatina e Galatone le chiese sono veri e propri complessi monumentali che raggiungono esiti di grandiosità scenografica, sorprendendo per le soluzioni originali. Le chiese, in quanto monumenti, prodotto di risultanze storiche e culturali, sono i simboli delle città salentine e l’identità locale è strettamente interrelata ai simboli delle città. L’architettura ecclesiale nei territori salentini è caratterizzata da un’esuberanza delle decorazioni che si traduce in semiotiche originali con una forte accentuazione del plasticismo e la ricerca del movimento e dei contrasti, nonché il ricorso alle forme naturalistiche con l’elevata efflorescenza decorativa. Inoltre, la fastosità delle decorazioni floreali scolpite nella pietra, grazie alla malleabilità della pietra leccese, è capace di rendere visivamente il fervore devozionale della comunità locale.

Lecce è un gioiello dell’architettura ecclesiale barocca e l’architetto che ivi si occupò della realizzazione delle maggiori opere barocche fu Francesco Antonio Zimbalo il quale avvia nelle architetture ecclesiali della città un cambiamento stilistico e formale che nel tempo diventerà sempre più radicale. Infatti, all’inizio del seicento il barocco non è ancora distinguibile come una corrente unitaria tipica del territorio. Solo più tardi l’architettura sarà definirà “leccese”, e, quando Lecce assumerà anche il controllo di polo economico e culturale del Salento, gli altri centri salentini tenderanno a ispirarsi ai caratteri stilistici delle sue costruzioni rendendo così unitario il barocco a far data dalla seconda metà del Seicento.

Uno dei massimi esemplari del barocco leccese, dichiarato nel 1906 dal Consiglio Superiore delle Belle Arti “monumento nazionale”, è la Basilica di Santa Croce, alla cui costruzione parteciparono diversi architetti della Lecce cinque/seicentesca.

L’impianto generale della basilica fu redatto da Gabriele Riccardi, il quale

L’architettura ecclesiale nei territori salentini è caratterizzata da un’esuberanza delle decorazioni che si traduce in semiotiche originali

ultimò l’ordine inferiore della chiesa nel 1582, i lavori proseguirono a partire dal 1606 sotto la direzione di Francesco Antonio Zimbalo, che aggiunse alla facciata tardo cinquecentesca i portali e realizzò l’altare di San Francesco. La chiesa venne ultimata nel 1656 da Cesare Penna.

Il portale principale, in particolare, è incorniciato da un protiro a colonne binate di pregevole fattura, poggiate su un basamento ruotato di 45° che introduce nella facciata inferiore un elemento di movimento, tipico del barocco. Nella parte superiore della facciata si trova un rosone inscritto in un quadro incorniciato da due colonne, terminanti con capitelli con motivi cristologici; ai lati del rosone, in due nicchie, sono allocate le statue di San Benedetto e di San Celestino V°.

Il fastigio è a sua volta separato dal secondo ordine con un’altra ricercata cornice. Il fregio, che riproduce il tema del timpano spezzato, modulato con le mezze volute, contiene la summa dell’intera facciata: il trionfo della Croce, ormai gigliata, simbolo della vittoria finale della vita sulla morte, illumina la storia e la vicenda di tutti gli uomini che cercano Dio e completa la ricca narrazione espressa dalle figure delle decorazioni. L’intera facciata della basilica, attraverso il plasticismo simbolico delle sue decorazioni costituisce, una sorta di catechesi iniziale prima di accedere al suo interno.

La Chiesa Cattedrale di Gallipoli, intitolata a Sant’Agata, fu costruita nel 1696, prendendo il posto di un’antica chiesa romanica precedentemente crollata. Il progetto originale è del 1629 opera di Giovan Bernardino Genuino mentre l’arricchimento barocco è avvenuto in un secondo tempo.

La chiesa presenta una facciata che nella parte inferiore è segnata da lesene-paraste scanalate di ordine dorico, che terminano con un abbozzo di capitello, oltre il quale si sviluppano un architrave con formelle dalla varia decorazione ed un cornicione dalla modanatura pronunziata che poggia su un dittico dentato e che inquadra tutta una zona inferiore. Il

2, 3, 4. Cattedrale di Gallipoli

portale è sormontato da un cornicione, sul quale si sviluppa un timpano spezzato con volute a “cartoccio”, al di sopra di esso, si apre una nicchia rettangolare con l’alloggiamento di una statua lapidea di S. Agata che si sviluppa oltre l’architrave, interrompendola. Lateralmente al portale, ci sono altre due nicchie rettangolari, che ospitano a destra la statua lapidea di S. Sebastiano sulla cui base è incisa la leggenda ISTEQUE MORBO LIBERAT URBEM e, a sinistra, quella di S. Fausto con l’incisione PROTEGE NOS, FAUSTE. Entrambe le nicchie presentano un sottile cornicione inferiore che poggia su mensole a voluta e un cornicione superiore completato da un timpano triangolare.

Completano la facciata due portali più piccoli, sormontati da semitimpani, che racchiudono un fregio e, superiormente, da una finestrella rettangolare, oltre la quale sono un altro fregio e un timpano curvilineo. Tutti questi elementi delineano l’alternarsi di pieni e di vuoti, e determinano un gradevole gioco di effetti chiaroscurali. L’interno della chiesa è pregiatissimo e sembra quasi una pinacoteca, perché è arricchito dalla presenza di ben 106 tele seicentesche e settecentesche di ottimo livello.

La chiesa di San Domenico a Nardò, intitolata inizialmente a Santa Maria de Raccomandatis, fu realizzata per l’Ordine domenicano tra il 1580 e il 1594. Originariamente presentava tre navate, ma successivamente l’edificio fu trasformato ad aula unica per rispondere alle esigenze predicative di San Domenico di Guzman. In seguito al terremoto del 1743 la fabbrica fu quasi totalmente distrutta, ad eccezione della facciata, del muro laterale sinistro e di parte della sacrestia. La bipartizione della facciata in parte richiama quella della Basilica di Santa Croce di Lecce. L’impianto iconografico che è alla base delle decorazioni in facciata, si caratterizza per essere ricco di figure umane e cariatidi addossate le une alle altre con una parte superiore con forme più leggere. Nell’interno dell’edificio sacro importante è l’altare della Madonna del Rosario, che reca i quindici misteri nella parte sinistra, opera di Antonio Donato D’Orlando, un pittore locale.

5, 6. Chiesa di San Domenico a Nardò

LE CHIESE CHIUSE UN PATRIMONIO DA SVELARE

E DA ABITARE

“Migliaia di chiese sono oggi inaccessibili, saccheggiate, pericolanti. Altre sono trasformate in attrazioni turistiche a pagamento. Oggi non sappiamo cosa farcene, di tutto questo ben di Dio, e bene pubblico: mancano visione, prospettiva, ispirazione. Ma è anche lì che si potrebbe costruire un futuro diverso. Umano” … Possiamo decidere che anche questi luoghi speciali che arrivano dal passato devono chinare il capo di fronte all’omologazione del pensiero unico del nostro tempo. O invece possiamo decidere di farli vivere: per aiutarci a vivere in un altro modo.”

Lo scrive Tomaso Montanari, storico dell’arte, nel suo libro “Chiese chiuse” edito da Einaudi del 2021.

Le vocazioni al sacerdozio sono in forte calo, lo dicono i numeri degli iscritti ai seminari. Le nostre città possiedono un immenso patrimonio di luoghi di culto - nel migliore dei casi - sottoutilizzato, ma spesso abbandonato e quindi degradato. Ma nello stesso tempo, questi luoghi del sacro, sono i testimoni di una storia secolare, testimoni di tradizioni religiose e culturali, custodi di opere artistiche meravigliose.

Montanari pone l’accento su alcune possibili criticità, attraverso esempi concreti, paventando persino scenari futuri; mettendo in evidenza la necessità di ripartire - nella scelta dei paradigmi dell’uso - dalla sacralità dei luoghi, dai diritti di proprietà, dalla dimensione museale (didattica) e devozionale (religiosa); evitando storpiature e mercificazioni. “Le chiese si aprono ai ladri quando si chiudono ai cittadini”. La ricerca delle possibili funzioni, di quelle chiese (parrocchiali, arcivescovili, delle confraternite, private, pubbliche e del Fondo per l’Edilizia di Culto) che si avviano inesorabilmente verso un probabile abbandono, non possono prescindere, secondo lo storico dell’arte, dall’uso per la preghiera e per la liturgia dello sguardo. Lo dice la stessa Conferenza Episcopale Italiana nel 2005, intendendo inseparabili le due funzioni.

Ma cosa fare? Come utilizzare questo patrimonio? Il diritto canonico sancisce in relazione alla possibile funzione “laica” la dicitura “ad uso profano non indecoroso” come lo stesso codice dei beni culturali che recita: l’uso delle ex chiese sia “non indecoroso” e in particolare l’art. 20 comma 1 impone che “i beni culturali non possono essere distrutti, deteriorati, danneggiati o adibiti a usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione”.

Ovviamente l’onere di salvaguardare il patrimonio di beni culturali di interesse religioso (art. 9 Codice BB.CC.) non è solo dalla Chiesa ma anche dello Stato italiano, come previsto dall’Intesa firmata nel gennaio del 2005 dal

i beni culturali non possono essere distrutti, deteriorati, danneggiati o adibiti a usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione

Camillo

e da

(Stato italiano). E basterebbe utilizzareda parte delle Soprintendenze - l’art. 32 e 34 del codice dei beni culturali per scongiurare la rovina, l’abbandono o peggio ancora l’uso non decoroso. Ma in questo momento storico, il contributo del Terzo settore (associazioni di volontariato culturale) può essere determinante, per riaprire e manutentare gli spazi in abbandono o non utilizzati. Quello dell’affidamento o dell’adozione potrebbe essere uno strumento più efficace per continuare ad aprire alla collettività, inteso come azione di sussidiarietà.

Quindi in condizioni di fine della “dicatio ad cultum”, come presa d’atto o per decreto del Vescovo, si pone l’interrogativo di cosa fare per evitare l’abbandono e il successivo degrado, nel rispetto della testimonianza intrinseca dei luoghi come portatori di sacralità e di storia. È auspicabile, dove è possibile, integrare le funzioni (religiose e laiche), attraverso l’ibridazione, ponendo l’accento alle prestazioni acustiche, illuminotecniche, logistiche, espositive, liturgiche, didattiche e artistiche. Le città hanno bisogno di nuovi luoghi per crescere come comunità, luoghi per la lettura, l’ascolto, la teatralizzazione. Spazi per sperimentare, per narrare, per studiare. Nuove modalità d’uso che rimettano al centro la vita parrocchiale, non solo catechismo cattolico ma arte, incontri, ricerca, formazione, divulgazione. In ogni città c’è un patrimonio da riconfigurare, specie nei centri storici, ricchi di luoghi, di opportunità. Ma non è possibile una vera rigenerazione se non è accompagnata da un piano complessivo che vada oltre i confini parrocchiali. Una rete di spazi condivisi, tra le parrocchie, oppure un ente di gestione che sappia “usare” il patrimonio in accordo, attraverso “intese”, con gli attori pubblici e privati, il volontariato e le scuole. Un progetto che specializzi alcuni luoghi per “riavviare” la comunità, per tornare ad essere polarità sociale, culturale e religiosa, senza perdere l’identità originaria che costituisce essa stessa testimonianza storica di civiltà. Un’idea per recuperare un legame antico e funzionale tra il territorio e le “chiese”. Il degrado urbano passa anche attraverso il degrado dei suoi simboli, spesso chiusi e in rovina. Trasformare le chiese in luoghi dell’incontro culturale, artistico e religioso è la strada da percorrere, il sentiero da attraversare. Ma con un piano complessivo, un progetto di musealizzazione che diventi un museo diffuso, un parco letterario e religioso, un nuovo modo di pensare la città a partire dai suoi simboli più iconici.

Tutto questo, coerentemente agli Atti del Convegno del 2018 dedicato dal Pontificio Consiglio della cultura, dall’Ufficio nazionale per i Beni culturali ecclesiastici e dell’edilizia di culto e della Facoltà di Storia e Beni culturali della Chiesa della Pontificia Università Gregoriana, dal titolo: Dio non abita più qui? Dismissione dei luoghi di culto e gestione integrata dei beni culturali ecclesiastici, a cura di F. Capanni, Artemide, Roma 2019.

Cardinale
Ruini (CEI)
Giuliano Urbani

ARCHITETTURA E FOTOGRAFIA

SANT’ANTIMO

Nel 2003 i Canonici Regolari francesi dell’Ordine Premonstratense (istituito da San Norberto nel 1121) mi chiesero di fotografare l’abbazia di Sant’Antimo, rimasta vedova di monaci per cinquecento anni prima dell’arrivo, nel 1992, della nuova Comunità. Accettai l’incarico con gioia e, al tempo stesso, con una certa trepidazione, ben consapevole della difficoltà di rendere in fotografia un luogo di così rara bellezza e di grande importanza storica - luogo sacro per eccellenza, ἐκκλησία di uomini di fede, di viandanti, di pellegrini che di qui passarono in altri tempi. Pensai subito alla via che questi uomini e donne intrapresero per raggiungere da lontano l’abbazia; decisi, quasi di impulso, in un giorno di inverno, di fotografarla da un punto della collina soprastante con la vista sui cipressi, sulle querce spoglie, sulla strada bianca, immaginando un paesaggio non troppo dissimile da quello che i viaggiatori videro nel loro lento cammino di speranza verso la chiesa. Mi soffermai a lungo sulla collina in consonanza con quel luogo di predilezione, come se ci fossi già stato in un tempo antecedente, e dove, nelle parole di F. Sommer “The infinitely near is as far as the infinitely far, all things linger where time builds eternity “. Dalla collina ritornai sui miei passi in direzione del chiostro dove la mia attenzione si rivolse sull’entrata laterale. L’abbazia sembra innalzarsi dal nulla, profondamente infissa nella terra. I gradini e le colonne recedono irregolari dentro il suolo, una frattura attraversa le finestre e la parete, il portale si apre, sospeso nella pietra. Ero all’esterno, fisicamente e concettualmente al margine di un altro mondo. Un senso di attesa, di stupore, di sospensione dello sguardo: il mio confine è l’entrata, o per essere più accurato, l’oscurità di quell’entrata. Ricordo chiaramente il momento della mia visione: percepii l’oscurità come uno spazio fisico racchiuso dal portale. L’oscurità era tangibile nella sua apparenza. Cosa stavo vedendo? Che cosa celava quell’oscurità? Nell’istante dell’otturatore della macchina fotografica, quell’istante di tempo tra il percepito e la decisione di tradurlo in una fotografia che possa durare, presi coscienza di quell’oscurità. Al di là di essa, il mistero della trascendenza, l’altare e la croce. Oltre il visto e il riconoscibile - il monumento artistico e religioso - l’abbazia si erge come reliquia e memoria, l’alfa e l’omega, la finitezza della nostra esistenza nella necessità del sacro e dell’infinito.

A lungo, nel corso di molte visite, mi soffermai dinanzi a queste vestigia, la mente occupata da questioni di natura fisica - la qualità della luce riflessa sulla colonne di alabastro e marmo, sulle volte, sull’emiciclo, le variazioni dei colori e poi le proporzioni delle singole parti e l’inesplicabile armonia di esse nell’insieme. Ma, nell’atto del fotografare, fui preso anche da qualcos’altro, non altrettanto definito: l’altro lato del visibile - uno stato di immobilità, di perfetta sedimentazione delle cose e del luogo. L’adesso acquista un peso nella consistenza del passato e della certezza di un futuro.

I templi furono innalzati non solo per onorare la divinità ma per consentirci di sopravvivere alla fine di ogni cosa e di immaginare un altro tempo che, in ultimo, possa spiegare e rassicurare l’esistenza del nostro tempo.

DIO È NEI DETTAGLI

È una delle frasi più abusate in campo letterario ma raramente precisata nei significati che ha assunto, a seconda che pronunciata da Flaubert, Aby Warburg o Miers Van der Rohe. Flaubert, padre del romanzo moderno, lasciava intendere che dai dettagli si capisce la qualità divina di una creazione; Aby Warburg, padre della critica d’arte contemporanea, riteneva che proprio nei dettagli si nascondono stratificati i significati simbolici del tutto; mentre per Mies Van der Rohe, padre dell’architettura contemporanea, era la non manifestazione dei dettagli a rappresentare l’assenza di Dio, o meglio la sua non visibilità. È noto come proprio la lezione “more is less” di quest’ultimo sia stata una guida costante nella attività progettuale di Botta, così come il senso da attribuire all’espressione “Dio è nei dettagli” coincide, nel lavoro del maestro svizzero, con quello miesiano.

Nell’arredo per la chiesa di San Rocco a Sambuceto, curato e progettato dallo stesso Mario Botta, forse sono addirittura presenti tutti e tre i significati di “Dio è nei dettagli”, in quanto ci troviamo di fronte ad una serie di soluzioni, appunto di dettaglio, in cui permane un carattere formale discreto, non esibito, quasi assente, nella semplicità e nel rigore degli oggetti a cui appartengono.

L’aspetto dell’arredo sacro della chiesa di San Rocco, su cui però vorrei soffermarmi, riguarda il rapporto tra processi lavorativi artigianali, tecniche realizzative e design.

Un rapporto stringente, direi intimo, reso possibile in primis dalla predisposizione del Maestro verso questo tipo di sintesi e a seguire dalla presenza di Fratelli Schiavone, Design per l'armonia interiore, l’azienda che ha realizzato gli elementi e le soluzioni di arredo della chiesa, mettendo a disposizione un’esperienza ultradecennale che, partita da una condizione di artigiani del legno, si è via via arricchita con nuove professionalità e tecnologie all’avanguardia.

D’altronde un vero oggetto di design è sempre il frutto dello sforzo comune di molte persone, finalizzato a mettere insieme competenze che vanno da quelle tecniche, a quelle industriali, commerciali ed estetiche.

Gli elementi che compongono l’arredo sacro della chiesa di San Rocco sono molteplici: i banchi, l’ambone, la sede presbiteriale, il tabernacolo, il fonte battesimale e il presbiterio. Unico invece è il dato stilistico che li caratterizza, sia nelle linee generali che nelle soluzioni di dettaglio che contribuiscono a dare forma alle linee stesse.

Un dato stilistico che rappresenta non solo un esempio elevato di coerenza formale ma anche di sapienza e conoscenza profonda della materia legno, nello specifico massello di faggio qualità "Superior" della Pollmeier, selezionato e certificato per la provenienza da boschi sostenibili.

Legno massello, utilizzato spesso in listelli che, da elementi dimensional-

Foto dell'articolo: Fratelli Schiavone

mente finiti, diventano nel progetto di Botta superfici resistenti, caratterizzate da una raffinata marcatura rigata.

È quest’ultima la cifra distintiva di tutti gli elementi dell’arredo sacro della chiesa di San Rocco, dove Botta si affida allo stesso listello perfino per risolvere gli angoli tra le stesse superfici; e lo fa “lavorando” sulla testa dei listelli perché si facciano spigolo.

In questo modo di “svoltare”, di concepire l’angolo degli oggetti d’arredo, la tecnica si fa poesia, l’incastro si fa design, e i listelli trovano nel loro assemblaggio, un ritmo che si fa “misura” del tutto.

Ad evidenziarla, la sequenza di fori quadrati in prossimità degli angoli, che, nell’alternare pieni e vuoti, diventa, soprattutto nei banchi per il pubblico, la chiave di lettura della relazione tra progetto, processo lavorativo e tecnica realizzativa; all’uso della colla per l’assemblaggio dei listelli preferisce le barre di acciaio, più idonee ad unire, stringere, collegare, e lasciare che il legno continui a vivere “muovendosi” come Natura vuole.

A fronte di questa costante attenzione per il dettaglio, va però sottolineata la visione d’insieme che Botta dimostra sempre di possedere e a cui riconduce le scelte alla piccola scala di ciascuno degli elementi dell’arredo sacro.

Una visione che trova la sua rappresentazione in un presbiterio avvolgente e prospetticamente conclusivo dell’intero spazio liturgico, grazie ad un immaginario organo a canne a quattro cuspidi, realizzato con masselli dorati, che raccoglie e riassume l’arredo in faggio, variamente distribuito, prima di farsi cielo stellato.

Un cielo dipinto alla maniera dei grandi affreschi, al quale il Maestro ticinese affida il passaggio dalla condizione terrena, che necessita degli arredi sacri per avvicinarsi a Dio, a quella spirituale che niente meglio della luce filtrante dalla grande croce in alto può raccontarci.

FIN DOVE PORTANO LE IMMAGINI

KUNST-STATION SANKT PETER COLONIA

Stefano Agresti

Siedo con Guido Schlimbach, teologo, curatore dal 2000 del programma artistico della Kunst-Station Sankt Peter a Colonia. In compagnia di alcuni dei più bei cataloghi realizzati con gli artisti, da Jannis Kounellis a Christian Boltanski, da Simon Ungers a Melissa Kretschmer e Young-Jae Lee, comincia il racconto di un percorso che dal 1987 ha fatto di questa antica chiesa amministrata dai Padri Gesuiti un punto di riferimento internazionale per il dialogo tra arte contemporanea, fede e spiritualità.

Schlimbach, che dal 1994 appartiene alla parrocchia di Sankt Peter, ripercorre i passaggi costitutivi della Kunst-Station, risalendo a colui che di questa “stazione” dell’arte e del pensiero teologico è stato fondatore e anima per ventuno anni: padre Friedhelm Mennekes. Figura di alta cultura e di grande apertura spirituale e intellettuale, attivo in prima linea fino al suo congedo nel 2008, il gesuita Mennekes ha contribuito con le mostre e i concerti della Kunst-Station Sankt Peter a Colonia ad ampliare il dibattito su come le arti del nostro tempo possano approfondire il nostro rapporto con la fede e con il Divino. La sua azione, che nasce nel vivace contesto degli anni Settanta e Ottanta, ha aperto la via a più di un percorso di studio e di sperimentazione, divenendo col nuovo Kolumba Museum, inaugurato nel settembre 2007 nel complesso architettonico progettato da Peter Zumthor, polo di informazione e ricerca in Germania e in tutta Europa. Riconoscendo all’arte una centralità in relazione al proprio ruolo e al proprio ministero (“[l’arte, ndr] appartiene in maniera costitutiva al mio lavoro, è sempre lì presente, ha sempre un ruolo centrale. Vive accanto alla pratica quotidiana del Credo.”1), Mennekes ne ha sempre rispettato l’autonomia di pensiero e linguaggio, evitando consapevolmente interferenze e imposizioni di ordine formale o di contenuto.

Al contrario, la libertà creativa dei linguaggi artistici - nelle arti visive

e

nella musica - è stata sempre percepita come fonte di ricchezza, stimolo alla conoscenza del mondo e del proprio Sé, un invito a pensare in termini nuovi la propria relazione con Dio, a riconsiderare le domande fondamentali dell’uomo.

La sua posizione è in sintonia con una visione del credo che ha nella non-certezza (Unsicherheit) e nel dubbio (Zweifel) due elementi costitutivi e generativi della fede (“Non-certezza e dubbio sono immanenti alla fede, penso che alla fine i dubbi siano più importanti per gli uomini che la ferma convinzione.”2). Come scrive Schlimbach nella preziosa monografia sulla Kunst-Station (Für einen lange währenden Augenblick. Die Kunst-Station Sankt Peter im Spannungsfeld von Religion und Kunst, Ratisbona 2009), l’arte sta a Mennekes e all’identità del programma artistico presso Sankt Peter come “strumento dell’interrogarsi” (Kunst als Instrument des Fragens), in grado di dischiudere nelle sue forme più alte un modo creativo e inatteso di indagare e ricercare sé stessi (das Pathos des Fragens)3 Questa idea ha fatto di Sank Peter uno spazio di espressione dove le opere non prendono forma per illustrare o raccontare temi o questioni; al contrario, l’intervento artistico, perimetrato spazialmente e psicologicamente nel contesto in cui viene “messo al mondo”, scaturisce da un libero sentire che intreccia - in maniera diretta o indiretta - la propria essenza con il mistero della rivelazione.

Lungo questo cammino sulla soglia tra conoscenza e autointerrogazione, distanza e avvicinamento, determinante è la scelta degli artisti. Fin dai primissimi anni a Francoforte sul Meno, dove Mennekes dal 1979 avvia la sua corrispondenza con l’arte contemporanea prima nella parrocchia di Sankt Markus, poi nella Stazione Centrale della città - nasce qui la “Kunst-Station”, il cui

nome sarà poi portato in dote a Sankt Peter - la questione della qualità dell’arte è un principio orientativo.

Sono

infatti i grandi artisti, al di là di recinti critici

e peculiarità linguistiche, a sondare l’inconoscibile, a formalizzare con le loro immagini una nuova sensibilità verso il mondo,

l’esistente e le dimensioni dello spirito.

Riconoscere i differenti linguaggi, le differenti posizioni diventa parte integrante dell’operato di Mennekes, che allo studio delle arti affianca il dialogo diretto con gli artisti. Un caso eccezionale è dato dall’incontro con Joseph Beuys, con cui il padre gesuita tiene un’importante, decisiva intervista pubblica a Sankt Markus nel 1984. Mennekes verrà notevolmente influenzato dall’arte e dal pensiero dell’artista tedesco; divenutone profondo interprete, scriverà su di lui alcune delle più dense pagine di critica d’arte.

L’importanza della continua indagine iniziata da Mennekes in Sankt Peter a Colonia ha tra i suoi fondamentali la presentazione dell’arte contemporanea nello spazio sacro. Ciò si verifica già tra 1987 e 1994 con l’avvio dell’esposizione di trittici contemporanei nell’abside centrale, in un contesto architettonico notevolmente diverso da quello che ammiriamo oggigiorno in seguito agli ultimi interventi di restauro e rinnovo compiuti tra 1997 e 2000. I trittici, di cui il primo concepito da Markus Lüpertz (Ich war in einem Land in dem die Schmetterlinge gekreuzigt wurden), non sono pensati come opere di arte cristiana. Si tratta piuttosto di lavori contemporanei - alcuni figurativi, altri non-figurativi, altri ancora, come per Rosemarie Trockel (1993) o Jenny Holzer (1993), di natura installativa - che fanno risuonare in maniera più o meno diretta, a seconda delle distinte nature formali e dei contenuti iconologici, i propri elementi espressivi o stilemi in quello che è uno dei momenti più significativi dello spazio ecclesiale. Ciò avviene non in una soluzione “astratta”, ma in un rapporto di comunicazione (Kommunikation) con l’altare (luogo della celebrazione liturgica), con la memoria della pala d’altare e con l’asse visuale della navata centrale.

L’esperienza dei trittici, che conosce non pochi momenti di alta intensità - si pensi alla presentazione nel 1993 a Tryptich ’71.

In Memory of George Dyer di Francis Bacon, proveniente dalla collezione Beyeler - e che si esaurisce a seguito dell’acceso dibattito contestuale alla mostra dei torsi di Alfred Hrdlicka, si sviluppa alla metà degli anni Novanta nei primi interventi installativi allestiti nel cuore dello spazio sacro, in particolare quelli di James Lee Byars (1995) e Anish Kapoor (1996).

Con The White Mass James Lee Byars ripolarizza lo spazio non

solo per mezzo della luce artificiale e della scultura - i quattro “corpi” agli angoli e l’anello in marmo bianco di Tasso collocati nell’esatto centro della chiesa - ma anche con la definizione di un nuovo luogo per la liturgia. Durante la durata della mostra il rito eucaristico viene infatti celebrato all’interno dell’area definita dall’installazione dell’artista, con paramenti sacri bianchi così come da sue indicazioni. Dimensione installativa e performatività rituale convergono nella medesima idea, ridefinendo, seppur per un periodo limitato nel tempo, la struttura stessa della pratica del culto.

In un diverso modo di percepire e di lavorare con un contesto divenuto co-testo, Anish Kapoor mette in evidenza attraverso un ribaltamento della percezione i rapporti tra ambienti e situazioni spaziali all’interno di Sankt Peter. La trama di punti, rimandi, rispecchiamenti che si svolge tra le navate e la cappella battesimale è organizzata attorno alla celebre pala della Crocifissione di San Pietro di Peter Paul Rubens (1638), da lui riallestita in corrispondenza dell’altare centrale con la parte superiore rivolta verso terra.

Entrambi gli interventi introducono una novità sostanziale nella storia della Kunst-Station. Con Lee Byars e Kapoor non si ha più a che fare con un’immagine che dallo studio dell’artista giunge nello spazio della chiesa già definita nella sua identità visiva e materiale. Al contrario, si verifica in situ un evento generato non solamente dal contatto tra l’artista e il luogo, ma anche dall’incontro dialogico con Mennekes stesso. Attraverso l’esempio degli artisti Sankt Peter accoglie, dunque, gli sviluppi di un’arte visiva che a partire degli anni Sessanta si è fatta ambiente, mostrando modalità di interrelazione e percezione che pongono come tema la presenza di uno spettatore non più solo spectator

Le potenzialità annunciate da lavori “site-specific”, insieme alla nuova sensibilizzazione verso lo spazio ecclesiale, definiscono una direzione operativa che si chiarisce con le mostre successive alla riapertura della chiesa nell’autunno del 2000 (nel 2003 verrà inaugurato anche il nuovo organo, poi ampliato negli anni a venire, pensato con una molteplicità di registri per l’esecuzione di brani di musica sperimentale contemporanea).

In un’architettura notevolmente riconfigurata, portata a un grado di essenzialità che dialoga con il vuoto in quanto momento della meditazione e luogo del possibile, Christian Boltanski inizia con la sua mostra lichtmesz (maggio-giugno 2001) un nuovo ciclo che, attraverso le distinte esperienze degli artisti, continua fino a oggi.

Lo spazio, inteso come sintesi e rapporto tra i diversi ambienti, viene occupato in tutta la sua estensione ed articolazione, offrendo l’opportunità di sondare con i linguaggi dell’arte una pluralità di frequenze espressive e spirituali. Mentre Boltanski introduce con la propria opera i temi della memoria, della presenza, dell’assenza - Schlimbach fa rivivere con le sue parole l’installazione nella cappella battesimale con i nomi dei battezzati presso la parrocchia scritti su piccoli fogli di carta apposti sul muro - nell’autunno del 2001 Jannis Kounellis “segna” con il proprio gesto la chiesa di Sankt Peter, “dipingendo” nella navata

principale la croce per mezzo di taniche di metallo riempite di occhiali; gesto che trova un’eco formale nella Via Crucis della tribuna sud e, nell’esterno della corte, nelle campane seminterrate.

La mostra di Kounellis amplifica un altro aspetto delle modalità di presentazione all’interno di Sankt Peter, in particolare nella fase del concepimento delle installazioni nello spazio sacro. Mi riferisco alla tensione politica del lavoro, da intendersi non come assestamento ideologico o partitico, bensì come segno linguistico capace di attivare integralmente la condizione intrinseca alla pólis, con cui anche la fede come rivelazione nella storia mantiene un rapporto molto stretto.

In termini diversi da Kounellis, anche la mostra di Barbara Kruger dell’estate 2003 documenta in modo efficace questa tensione politica. Kruger allestisce sul pavimento della navata centrale un grande “manifesto” stampato con l’immagine di due mani congiunte in preghiera e la frase Wer salutiert am längsten? Wer betet am lautesten? Wer stirbt zuerst? Wer lacht zuerst? Attraverso questa formulazione, che reinventa efficacemente l’immediatezza della grafica pubblicitaria, l’artista visualizza il lavoro di auto-interrogazione caro alla riflessione di Mennekes, assumendo ulteriore significato nel momento in cui, durante la celebrazione della messa, l’immagine diviene piano di calpestio e di seduta dei fedeli.

Accanto a questi interventi di dimensioni, la Kunst-Station continua a essere casa per opere che, in contiguità con un intimo raccoglimento, concentrano sé stesse in gesti minimi o in precisi punti dello spazio. Sono un esempio raffinato di appercezione quasi-devozionale le due mostre della ceramista Young-Jae Lee, nata in Corea e stabilitasi in Germania dal 1972, realizzatrice nel 2000 degli oggetti liturgici tutt’ora impiegati durante le messe. Prima nel 2002 con i suoi Gefässe disposti sul pavimento nella tribuna sud, poi nel 2022 con le ciotole (Schalen) per la mostra Sieben mal Sieben nella navata sud, collocate di fronte alla vetrata della Visitazione, Young-Jae Lee formalizza una disposizione dell’essere votata alla ricezione della luce come manifestazione dello spirito e come origine della vita tra dimensione terrestre e dimensione celeste.

Sintesi delle diverse anime artistiche convenute a Sankt Peter è forse lo specchio donato nel 2020 da Gerhard Richter Grauer Spiegel (2018), allestito per la prima volta in occasione di una mostra al posto del dipinto di Rubens - allora in restauro per due anni - e ora collocato come opera permanente all’estremo ovest della navata nord. Lo specchio, strumento di ricezione e di apertura alla realtà, assorbe le immagini e le restituisce alla percezione sotto forma di ombre; la sua dinamica visiva, avvolta dal silenzio di cui essa stessa partecipa, rende non solo gli osservatori-autori consapevoli del mistero dell’essere al mondo, ma raccoglie anche la memoria tragica della Germania, di Colonia e della stessa Sankt Peter, pressoché integralmente distrutta dai bombardamenti durante la Seconda Guerra Mondiale e rinata successivamente dalle macerie.

Dal punto di vista della ricezione, le proposte portate avanti alla Kunst-Station Sankt Peter, ieri come oggi, hanno incontrato

grande entusiasmo così come hanno generato dibattiti e, talvolta, polemiche. Emblematico resta il caso dell’altare di Eduardo Chillida (Gurutz Aldare), installato nell’autunno del 2000 e oggetto di un acceso confronto teologico e insitituzionale conclusosi con la decisione della Congregazione dei riti di ricollocare l’“altare-scultura” dall’area presbiteriale alla navata laterale nord (rimando per tutti i dettagli alla ricostruzione storica di Schlimbach pubblicata nel suo volume).

Nella consapevolezza della proiezione conoscitiva delle scelte artistiche e culturali realizzate in Sankt Peter, compiute sul filo di un’avanguardia che rimette in discussione o destabilizza l’orizzonte del già-scritto, del giàimmaginato, del già-pensato, la Kunst-Station ha sempre coltivato con costanza gli strumenti del dialogo verbale e dell’incontro diretto con i fedeli e, più in generale, con il pubblico.

Nella forma della discussione, che vive al giorno d’oggi nei numerosi Kunstgespräche tenuti dai curatori nell’arco della durata delle mostre, Mennekes e i suoi successori hanno individuato il mezzo privilegiato per accogliere e ascoltare l’altro, per raccogliere i suoi dubbi, le sue domande, alimentando il movimento del pensiero e dello spirito innescato dalle opere d’arte. Questo è un altro dei tanti aspetti che fanno della Kunst-Station un luogo di eccezione: non una torre chiusa, privilegio dei pochi, ma spazio-immagine - Schlimbach parla di Raum als Bild (“spazio come immagine”)4 - che unisce nella ricerca nella fede la conoscenza e la proiezione per una nuova e più libera socialità. Se non è descrivibile come progetto, il cammino della KunstStation è almeno percepibile come un instancabile ridisporsi nei confronti del divino, dell’uomo, del mondo, aprendo al contributo delle arti nella coscienza del procedere della storia. Una posizione che trova un contrappunto nell’installazione neon di Martin Creed, che dal 2000 segna la torre campanaria di Sankt Peter e che annuncia la presenza della Kunst-Station nell’area urbana circostante: “DON’T WORRY / NOLI SOLICITUS ESSE”. L’ésprit della Kunst-Station, la sua attenzione all’autonomia delle arti e la sua proiezione internazionale attraversano la più recente mostra allestita in chiesa, The Moon Is Beautiful dell’artista giapponese Ken Matsubara (a cura di Kai Kullen), affiancata per alcune settimane (fino allo scorso 17 novembre) dall’installa-

zione pittorica nella camera della torre di Dorothee Joachim Farbspeicher Matsubara, che dagli anni Ottanta lavora principalmente con il video, coglie con sensibilità tutta orientale l’essenza del luogo, portata a una soglia di sospensione del senso dove i pensieri e le immagini non rivelano contenuti ma suggeriscono una sensibilità; dove la percezione dell’uomo e del mondo è un vuoto aperto a raccogliere le infinite vibrazioni dell’esistente. All’interno di uno spazio consacrato alla religione cristiana dove si manifesta il divino, l’arte di Matsubara coltiva una spiritualità che scaturisce da uno sguardo terrestre verso il proprio orizzonte. Il metafisico, ovvero quell’istante impermanente in cui sembra scomparire ogni barriera tra la persona e l’anima del mondo, è una rivelazione che accade inattesa nel quotidiano - un barlume luminoso su una superficie d’acqua, una goccia che cade dal cielo, il volo di un uccello, il movimento di un oggetto. Di questo lessico Matsubara è raffinato conoscitore, e il lavoro a St. Peter ne è un prezioso viatico. Lo dimostrano le suggestioni evocate dai video-specchio contenuti nei cinque Ding - bacili di metallo impiegati nella tradizione buddhista come strumento di percussione prima della preghiera - nella navata centrale, dalla proiezione della crocifissione di San Pietro di Rubens su una superficie d’acqua in movimento di fronte alla pala stessa e, infine, dal video collocato dentro il fonte battesimale. Qui l’osservatore trova il riflesso della luna piena ancora su una superficie d’acqua ravvivata da un leggerissimo moto ondoso che ne scompone e ricompone la forma. Il fonte, portatore esso stesso di significati simbolici e normalmente impiegato con una precisa funzione liturgica, è momentaneamente accompagnato a uno stato di attesa con un gesto di alta poesia libero da ogni pretesa di interpretazione. Resta quello spazio di contemplazione, di melancolica bellezza nel nostro guardare, sentire il cosmo.

Nella sua specificità, la mostra di Matsubara documenta una continuità lungo il percorso iniziato da Mennekes e che Guido Schlimbach, affiancato da Padre Stefan Kessler - successore nel ruolo di parroco della chiesa - e da un comitato consultivo composto attualmente da Renate Goldmann, Kai Kullen, Anne Mager e Friedrike Schuler, ogni volta porta a riattualizzare.

In un panorama internazionale in cui il dialogo tra chiesa e arti della contemporaneità è spesso argomento di difficile elaborazione - o metabolizzazione - la Kunst-Station prova la sua vitalità e il suo spazio di autonomia, elaborando programmi e proposte di qualità che coinvolgono fedele e spettatore nell’attenzione alla percezione e nella problematizzazione dello spirituale.

*le traduzioni dal tedesco delle citazioni di Friedhelm Mennekes sono dell’autore.

1 Friedhelm Mennekes, Begeisterung und Zweifel. Profane und sakrale Kunst, Ratisbona 2003, in Guido Schlimbach, Für einen lange währenden Augenblick. Die Kunst-Station Sankt Peter Köln im Spannungsfeld von Religion und Kunst, Ratisbona 2009, 89.

2 Id., 91.

3 Guido Schlimbach, cit., 89-91.

4 Ibidem, 376-378.

Foto dell'articolo per gentile concessione della Kunst-Station Sankt Peter

Ken Matsubara The Moon Is Beautiful, novembre 2024 - Foto Christopher Klemm Franken
James Lee Byars
James Lee Byars, The White Mass, 1995
Anish Kapoor Christian Boltanski
Young-Jae Lee
oggetti liturgici in ceramica per Sankt-Peter (in alto). Sieben mal Sieben, 2022 - Foto Christopher Klemm Franken (in basso)
KUNST-STATION SANKT PETER
Gerhard Richter
Grauer Spiegel, 2018; veduta della collocazione attuale nella navata laterale nord - Foto Christopher Klemm Franken
Martin Creed
installazione per la torre di Sankt-Peter, 2000
KUNST-STATION SANKT PETER
Eduardo Chillida
2000. In fondo alla navata centrale, l’altare (Gurutz Aldare) - prima della ricollocazione
Frank Gerritz
Sculptural Light, 2022 - Foto Christopher Klemm Franken
KUNST-STATION SANKT PETER
PYLON, 2023 - Foto Christopher Klemm Franken

THEMA 16

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Sergio Massironi. Teologo del Dicastero vaticano per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, dirige la ricerca internazionale Doing Theology from the Existential Peripheries. Editorialista de L'Osservatore Romano, cura il blog A misura d’uomo. Per Castelvecchi dirige la collana Teologia dalle periferie.

Gaetano Ginex. Architetto e professore. Ha insegnato all’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Ha fatto parte del Collegio dei Docenti del Dottorato di Ricerca in “Architettura e Territorio”. È direttore del Laboratorio OFFICINA MEDI_TER del Dipartimento dArTe dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria promuovendo lo sviluppo delle regioni mediterranee con l’obbiettivo di valorizzare il loro patrimonio culturale (archeologico, ambientale, religioso) su scala locale e internazionale. Nel 2012 ha conseguito l’Abilitazione Scientifica Nazionale a Professore Ordinario (08/E1-1^Fascia-Disegno.).

Aldo Giorgio Pezzi. Funzionario architetto della Soprintendenza per le province di Chieti e Pescara. Laureato in Architettura (1998), poi Ph. D. (tesi pubblicata in Tutela e restauro in Abruzzo, 2005), nel 2017 è stato Direttore delegato della Soprintendenza dell’Abruzzo.

Eliseba De Leonardis. Laureata in Discipline dell’arte, della musica e dello spettacolo (2008), dal 2019 è funzionario restauratore, prima presso la Soprintendenza per le province di Chieti e Pescara e ora presso la Direzione regionale Musei Veneto.

Marialuce Latini. Funzionario architetto della Soprintendenza per le province di Chieti e Pescara. Laureata in Architettura, poi Ph.D., è stata docente in corsi di formazione e master e ha al suo attivo diverse pubblicazioni sul patrimonio storico-artistico abruzzese.

Lorenzo Leombroni. Laureato in Architettura (1999) poi specializzato in “Restauro dei monumenti” (2004). Come libero professionista, lavora per enti pubblici su temi di consolidamento, adeguamento liturgico e progettazione di nuove chiese.

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Salvador Cejudo Ramos. Nato nel 1970, è architetto (ETS Arquitectura Sevilla, 1995), con un Master in Housing and Urbanism (Architectural Association, Londra, 1999) e un Dottorato di Ricerca (Universidad de Sevilla, 2017). Vive a Siviglia, dove esercita come architetto e insegna Progettazione Architettonica all’Università di Siviglia. Ha lavorato in Spagna e all’estero (Regno Unito, Kuwait) e ha partecipato al Padiglione Spagnolo di Architettura alla Biennale di Venezia nel 2000. Ha ricevuto premi, come il WAF Award 2014 per la Chiesa dell’Ascensión del Señor.

Giuseppina Farina. (1978). Architetto PhD, si laurea (Palermo, 2003) con la Tesi “L’adeguamento liturgico della Cattedrale di Messina”. È stata Assegnista di Ricerca (Palermo, 2012/16) ed ha indagato le relazioni fra città e infrastrutture. È cofondatrice dello studio ATELIERDIARCHITETTURA (2004). Dal 2018 è docente di Storia dell’Arte e la sua ricerca affronta il rapporto fra arte e architettura. È autrice e curatrice di numerose pubblicazioni.

Claudio De Meo. Vive e lavora tra Roma e l’Umbria. Si è laureato a “La Sapienza” ed è iscritto all’Albo degli Architetti di Roma e Provincia. Svolge la sua attività soprattutto nell’ambito

del restauro e della ristrutturazione. Ha insegnato Architettura nei Licei Artistici e da ultimo al Caravaggio di Roma. Ha scritto alcuni articoli per la rivista “Rocca” di Assisi e partecipato al Master “Architettura e Arti per la Liturgia” presso il Pontificio Ateneo di S. Anselmo, conseguendo, il 26 giugno 2024, il Diploma di Alta Specializzazione.

Gabriele Orlando. Laureato in Architettura presso l’Università “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara. Iscritto all’Ordine degli Architetti di Pescara, ha svolto l’attività professionale in ambito di ristrutturazione e design per l’edilizia, nel mentre (2008) ha conseguito la Specializzazione biennale post-Laurea di II livello in “Architettura e Arti per la Liturgia” presso il Pontificio Ateneo S. Anselmo di Roma, con Tesi pubblicata. Di seguito, viene nominato Coordinatore Generale della stessa Specializzazione.

Andrea Jasci Cimini. Architetto, vive e lavora in Svizzera. Ha collaborato con studi in Italia e all’estero. Svolge attività di master class, concorsi e workshop, concentrandosi sui temi della progettazione architettonica e della trasformazione urbana. Ha esposto il suo lavoro alla Biennale di Venezia nel 2018.

Tino Grisi. Architetto, laureato al Politecnico di Milano. Dottore di ricerca presso il DA dell’Università di Bologna con tesi pubblicata (Regensburg, 2014) sull’architettura ecclesiale di Emil Steffann, ha conseguito il Master universitario di II livello in Progettazione e adeguamento di chiese alla Sapienza di Roma. Ha ideato e conduce il workshop didattico Church for the Future presso la Scuola AUIC del Politecnico di Milano.

Giuliana Quattrone. Architetto, Dottore di ricerca in Pianificazione Territoriale e Prima Ricercatrice in Urbanistica, Docente di Strategie per la Valorizzazione dei Beni culturali, è autrice di vari libri e saggi sulla valorizzazione delle strutture ecclesiali. Francesco Finocchiaro. (Catania 1965). Architetto vitruviano. Credente convinto e appassionato delle religioni. Esplora gli innumerevoli paesaggi dell’arte: dalla poesia al giornalismo, dall’architettura alla grafica, dalla comunicazione alle strategie

urbane. Docente di storia dell’arte e filosofo dell’abitare. Convinto sostenitore del futurismo e che l’innovazione ha le sue radici nella memoria. Vorace lettore di Papa Francesco, Pablo Neruda, Paul Valery e Omero. Vive l’architettura come un Pitagorico, in forma mistica e monastica come il suo architetto preferito, Peter Zumthor. Vive alle pendici dell’Etna nella città di Hybla Major.

Federico Busonero. Nato nel 1955, medico di formazione, dal 1988 si è dedicato a una personale ricerca fotografica. Ha esposto in varie sedi e istituzioni - in Italia, Francia, Germania, Stati Uniti d’America, Bulgaria, Gerusalemme. Su incarico delle agenzie delle Nazioni Unite – UNESCO, WHO, UNIFEM, UNIDO – ha  condotto campagne fotografiche in Palestina negli anni 2008-2009 e 2017. Le sue opere sono conservate presso la Biblioteca Nazionale di Francia e in collezioni private. Vive e lavora tra gli Stati Uniti e l’Italia.

Alessandro Sonsini. Ha ricoperto il ruolo di Professore di Tecnologia dell’Architettura presso la Facoltà di Architettura di Pescara (1981-2011), contribuendo alla formazione di numerosi studenti e all’approfondimento delle discipline legate alla progettazione architettonica e tecnologica. Oltre alla sua attività accademica, Sonsini ha sviluppato il suo percorso professionale nel contesto artistico e architettonico della città di Pescara e dintorni, dove tuttora partecipa attivamente alle attività culturali e alla scena architettonica locale.

Stefano Agresti. Storico dell’arte e membro della redazione di “THEMA”. Ha conseguito nel 2023 il dottorato di ricerca in storia dell’arte contemporanea presso l’Università di Roma “La Sapienza”. Ha collaborato come assistente esecutivo con il Museo dell’Ottocento Fondazione Di Persio-Pallotta di Pescara e, in qualità di referente scientifico per la ricerca e l’archivio, presso la Fondazione Ettore Spalletti. Svolge attività di ricerca indipendente in Europa e ha all’attivo pubblicazioni scientifiche e partecipazioni a convegni internazionali. Vive e lavora a Colonia, Germania.

Foto Engelbert Reinecke

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