IL DIRITTO DI VOTO NEL SISTEMA COSTITUZIONALE

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DELLA TUSCIA FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE Corso di laurea in “Scienza della Pubblica Amministrazione”

IL DIRITTO DI VOTO NEL SISTEMA COSTITUZIONALE Cattedra Istituzioni di diritto pubblico

RELATORE

CANDIDATO

Prof. Pasquale Lillo

Francesca Rossi 1032

ANNO ACCADEMICO 2007/2008


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INDICE CAPITOLO PRIMO PROFILI STORICI E RICOSTRUTTIVI DEL DIRITTO AL VOTO

1. Essenza giuridica del voto........................................p. 3 2. Processo evolutivo del diritto al voto........................p. 5 3. Disciplina costituzionale del diritto di voto...............p. 15 CAPITOLO SECONDO PROBLEMATICHE ATTUALI DEL DIRITTO AL VOTO

1. Il ruolo della donna...................................................p. 22 2. Le richieste del diritto al voto fino al 2 giugno 1946..p. 26 3. Dal 1946 fino ai nostri giorni....................................p. 45 4. La questione delle quote rosa....................................p. 52

Sintesi e conclusioni ….......………………..….……...…p. 54 Abstract ..........................……….….……….………...…p. 57 Bibliografia...............................................………..…...p. 60


3

CAPITOLO PRIMO PROFILI STORICI E RICOSTRUTTIVI DEL DIRITTO AL VOTO Sommario: 1. Essenza giuridica del voto; 2. Processo evolutivo del diritto al voto; 3. Disciplina costituzionale del diritto di voto.

1. Essenza giuridica del voto Il comma 1 dell'art. 48 Cost. dispone che “Sono elettori tutti i cittadini uomini e donne che hanno raggiunto la maggiore età...”. Questa disposizione ha una duplice valenza precettiva e funzionale: per un verso attribuisce ai cittadini maggiorenni una speciale capacità di diritto pubblico ovvero la capacità giuridica elettorale1, presupposto necessario di tutte le situazioni giuridiche soggettive in materia elettorale; per l'altro, invece, essa individua il corpo elettorale della Repubblica italiana. 1

La capacità giuridica può anche definirsi “capacità politica” essendo

strettamente connessa ai diritti politici.


4 Il voto, quindi, si può intendere come “espressione della volontà del singolo (individuo o gruppo) all'interno di un procedimento minimamente strutturato al fine di pervenire a decisioni collettive di tipo deliberativo o elettivo” 2. Nelle decisioni collettive degli ordinamenti pubblicistici il voto può assumere natura deliberativa o elettiva: nei procedimenti deliberativi il voto ha per oggetto una proposta, mentre nei procedimenti elettivi il voto ha per oggetto la designazione di soggetti ad un pubblico ufficio, instaurando così un rapporto rappresentativo. Una caratteristica comune al voto, tanto deliberativo quanto elettivo, che lo distingue dalle altre manifestazioni di volontà, è che si esercita in forma collegiale. In altri termini: «perché si abbia voto è necessario che vi sia un collegio, al quale imputare i voti dei singoli componenti presi in considerazione dal diritto non individualmente, ma nel loro complesso, in modo che produca gli effetti di volontà del collegio e non quella dei singoli votanti»3.

2

S. Cassese, Voto (diritto di), Enciclopedia dir., XLVI, Milano, 1993, p. 6204.

3

G. Ferrara, Gli atti costituzionali, Torino 2000, p. 4.


5 Il voto può essere attivo o consultivo: è attivo quando determina, in via diretta, la produzione dell'effetto; è consultivo quando si inserisce in un procedimento il cui atto finale non è determinato dai votanti ma da altri soggetti od organi, anche nel caso in cui le espressioni di volontà coincidono. Il voto deliberativo può essere sia attivo (nel referendum abrogativo e nel referendum costituzionale) che consultivo (negli altri tipi di referendum); invece, il voto elettivo è sempre attivo, purché esso sia espresso dal corpo elettorale. Sia il voto deliberativo che il voto elettivo hanno in ogni caso natura politica, sempre che siano espressi dai cittadini in quanto elettori.

2. Processo evolutivo del diritto al voto In Italia il percorso del diritto al voto è stato lungo e tortuoso. Temporalmente parte da quando l'Italia non era ancora uno Stato unitario. I primi accenni a qualche forma di voto risalgono al periodo feudale dove la societas civilis pre-moderna non riconosceva la “cittadinanza” del singolo in quanto tale, bensì dava riconoscimento all'articolazione


6 della collettività in corporazioni4, ma ciò non escludeva che entro lo stesso

ordine sussistessero differenze di status, connotate dal

riconoscimento di particolari privilegia5. Nell'Europa continentale, le assemblee medievali espressero un modello di rappresentanza non unificante; in essa vi erano anche signori feudali , forniti di peculiari diritti inalienabili. Questo fece sì che tali rappresentanze divenissero lo strumento atto a svolgere un'opposizione efficace alle eccedenti pretese

del Principe.

L'esperienza “costituzionale” medievale mostrava l'istanza unitaria offerta dal Monarca, forte di una legittimazione di carattere sacrale, ma ancora non riconducibile al modello di rappresentatività organica. In questi collegi non si trattava di votare per l'elezione di individui preposti alla cariche autoritative di un'entità astratta e unitaria, bensì di scegliere un semplice nuncius che riferisse fedelmente le istruzioni della comunità di provenienza; costui si sentiva legato alle istruzioni ricevute oltre che sul piano giuridico, su quello ideale, date le basi 4

5

B. Accarino, Rappresentanza, Bologna 1999, pp. 10 ss. M. Dogliani, L'idea di rappresentanza nel dibattito giuridico in Italia e nei

maggiori paesi europei tra otto e novecento, tomo I, Milano 1999, pp. 537 ss.


7 solidaristiche e di comune appartenenza sociale che lo accomunavano alla corporazione rappresentata. Al modello organizzativo medievale, fondato sul confronto tra Monarca e frastagliata società civile, fece seguito, tra il XV e il XVI secolo, un assetto tendente a favorire la concentrazione del potere in una sede centrale ed a gratificare il ruolo del Sovrano, emancipandosi progressivamente, dal modello imperniato sul reciproco scambio con i rappresentanti del mondo feudale. Il Monarca si trasformò da garante dei principi giuridici dell'ordine sociale 6 a sorgente dell'ordine sociale medesimo ed espressione di un corpo collettivo assunto in termini unitari. L'ideologia rivoluzionaria in Francia mutuò dall'assolutismo l'idea di comunità come corpo politico unitario e gratificò una prospettiva individualista, centrata sul riconoscimento delle libertà dei singoli e sulla loro eguaglianza nei confronti dell'autorità 7. Le libertà civili ebbero un effettivo riconoscimento nella Dichiarazione dei diritti 6

Il monarca era soggetto egli stesso ad assetti giuridici immodificabili

7

M. Barberis, L'ombra dello Stato. Sieyès e le origini rivoluzionarie dell'idea di

nazione, Pavia 1991, pp. 509 ss.


8 dell'uomo e del cittadino; i diritti politici (e tra questi in primo luogo il voto

per

le

Assemblee

rappresentative),

furono

attribuiti

prevalentemente alle classi più elevate per censo o per capacità, dando così vita ad un gruppo politicamente attivo, unitario e socialmente omogeneo. Nella prospettiva della Dichiarazione del 1789, assumeva centralità l'elemento partecipativo espresso sempre secondo forme e modalità applicative ambivalenti. In questa maniera, il circuito di legittimazione del potere politico veniva, sostanzialmente sdoppiato: per un verso, si sanciva l'intervento diretto dei cittadini in un modello di democrazia diretta; per un altro verso il novello sovrano (la Nazione) operava usando un tramite, ossia i soli rappresentanti che lo sostituivano, conseguendo così l'unità politica sulle cui basi individuare l'interesse generale8. Alla vita dell'apparato pubblico il cittadino partecipava attraverso rappresentanti sì eletti, ma liberi da qualunque vincolo di mandato e interpreti dell'interesse generale, ovvero di una realtà conoscibile da chiunque.

8

F. Cassella, Rappresentanza politica, Torino, 2000, pp. 463 ss.


9 Tale ambiguità di fondo rifletteva un differente modo di concepire la società civile e le dinamiche di partecipazione dal basso: nel caso della democrazia diretta, la stessa collettività provvedeva a fissare le regole della comune convivenza e, nel caso dell'archetipo improntato alla mediazione dei rappresentanti (c.d. “democrazia indiretta”), questi sostituivano la comunità nell'interpretazione e nell'espressione della volontà generale. La prospettiva trascendente che aveva animato il costituzionalismo medievale, segnava il passo con la Rivoluzione francese (ma, in verità, già con l'assolutismo secolarizzato), a favore di una prospettiva egualmente e teleologicamente orientata, ma immanente: la volontà della Nazione espressa dai rappresentanti con l'attività legislativa, naturalmente razionale ed indirizzata verso fini razionali, nei quali il singolo citoyen9 era chiamato a riconoscersi10. Il concetto di sovranità nazionale generale consentiva, attraverso il ricorso ad una figura astratta, di giustificare la limitazione del 9

10

Citoyen: termine francese indicante il cittadino A. Barbera, Le basi filosofiche del costituzionalismo, Roma-Bari, 1998, pp. 117

ss.


10 suffragio a favore di chi possedesse la capacità e l'intelligenza per attingere all'interesse generale, nonché l'idoneità di trascendere il particolare a favore dell'utilità generale. La Nazione concepita dagli spiriti rivoluzionari non coincise, inizialmente, con il popolo, portatore di istanze assai diversificate ed irriducibili ad una sintesi unitaria; l'ambizione ad esprimere una volontà generale e razionale non costituì automaticamente carattere democratico, offrendo, invece, le basi per elaborare un concetto di citoyen politicamente attivo, tagliato “su misura” per gli appartenenti al Terzo Stato. La Francia conobbe per lunghi periodi un suffragio limitato basato sul censo. La Costituzione del 1791 prevedeva soglie di acceso al voto ancora più rigorose, fino a stabilire per i secondi elettori la proprietà o l'usufrutto di beni, oppure la locazione di una casa; ma il decreto del 11 agosto 1792 abolì le elezioni di secondo grado introducendo il suffragio universale11. 11

In argomento, cfr. R. Martucci, Proprietari o contribuenti. Diritti politici,

elettorato attivo ed eleggibilità nel dibattito istituzionale francese da Necker a Mounier (Ottobre 1788- Settembre 1789), in Ann. Macerata, 1989, II, pp. 679 ss.


11 Se in Francia l'ambiguità non risolta della compresenza, nella Carta del 1789, di un governo rappresentativo accanto ad uno segnato dall'aspirazione

alla

democrazia

diretta

segnò

il

periodo

rivoluzionario, in Italia le vicende storiche pre e post-unitarie si aprirono ad esiti più univoci, con ripercussioni considerevoli sul versante elettorale. Infatti con la legge 680 del 1848 (riguardante la legge elettorale piemontese sui criteri censitari), si ebbe il suffragio universale e fu riconosciuto il diritto di voto agli uomini maggiori di 25 anni che sapessero leggere e scrivere e pagassero almeno 40 lire di imposte; ciò portò, numericamente parlando, il 2% della popolazione italiana alle urne. Invece, nel Granducato di Toscana permaneva il limite di censo, con diritto di voto riconosciuto anche per le donne. In seguito, si affermò, al momento dell'Unità, la logica dei plebisciti, molto meno impegnativa e rischiosa sul piano delle scelte sulla forma di stato e di governo, e meno ambiziosa sul versante della


12 democraticità delle procedure. Nei plebisciti il tema della forma di Stato fu dato per scontato. Il riconoscimento dei diritti pubblici soggettivi acquistava connotati funzionali, essendo i primi “concessi” per consentire allo Stato lo svolgimento della sua capacità giuridica. L'interesse individuale aveva come contenuto il solo fatto di valere come organo elettorale dello Stato12; mentre, l'esercizio della funzione elettiva vera e propria, era ricondotto allo Stato che agiva per il tramite dell'elettore-organo13. La dottrina italiana dell'ultimo scorcio del XIX secolo definì, nella cornice dei diritti pubblici soggettivi, il concetto di diritto politico come diritto all'esercizio di pubbliche funzioni e nei termini di un “diritto di partecipazione alla vita costituzionale ed amministrativa

12

Il diritto dell'elettore risultava circoscritto all'interesse, giuridicamente tutelato,

di ricorrere all'autorità giudiziaria avverso la mancata iscrizione nelle liste elettorali o l'illegittima cancellazione da queste. 13

L'assunzione del corpo elettorale nei termini di un puro organo di creazione non

impedì peraltro di cogliere, sul piano politico, l'instaurazione di un rapporto d'intensa correlazione tra eletto e base elettorale.


13 dello Stato, di divenire attivi per conto ed in nome dello Stato medesimo” 14. Infatti, nel 1872 la sinistra parlamentare abbassò la soglia della maturità elettorale da 25 a 21 anni; ed ammise, inoltre, al voto tutti i cittadini in grado di leggere e scrivere. Tuttavia, in una situazione di analfabetismo come quella italiana, la percentuale di elettori sulla popolazione si alzò in maniera poco significativa. L'attribuzione del diritto elettorale era inquadrata come una delle modalità attraverso cui lo Stato modellava la propria fisionomia, riconoscendo che l'effetto immediato dell'esercizio del diritto politico fosse quello di divenire organo dello Stato. Il modello di voto per censo o in base al titolo di studio dell'elettore si accordava con l'idea di diritto politico inteso come diritto 15 all'esercizio di pubbliche funzioni; ciò permetteva all'ordinamento statale di conformare l'elettorato attivo, riconoscendone partecipi solo 14

15

S. Romano, La teoria dei diritti pubblici subbiettivi, Milano, 1908, p. 190. La legge del 17 Dicembre 1860, n° 4513 fu l'ultimo anello di una serie di

passaggi che segnarono il transito dalla legge elettorale piemontese del 18 Marzo 1848 a quella per la Camera elettiva del neo-costituito Regno d'Italia.


14 i soggetti ritenuti capaci. Il suffragio limitato semplificò notevolmente la competizione elettorale, volta a selezionare i governanti più idonei. Il ruolo del suffragio, come manifestazione di un diritto dei singoli ad orientare le scelte di rilievo collettivo e strumento di legittimazione del potere politico, attraverso il libero consenso espresso dal popolo in quanto titolare della sovranità, risultò, dunque, sostanzialmente assente nelle ricostruzioni dei diritti pubblici soggettivi compiute nell'ultimo scorcio del XIX secolo. Il 24 Settembre 1882 venne promulgata la “legge Zanardelli”, con essa venne allargato il suffragio, e riconosciuto il diritto di voto sia ai maschi maggiorenni alfabeti, sia a coloro che versavano imposte dirette per una cifra annua di 19,8 lire. Così facendo il corpo elettorale venne più che triplicato. In seguito, nel 1912, la legge promulgata da Giovanni Giolitti stabilisce un suffragio universale per tutti gli uomini. Si previde infatti che tutti gli uomini capaci di leggere e scrivere con almeno 21 anni potessero votare, mentre gli analfabeti potevano votare a partire dai 30


15 anni. Inoltre il voto venne esteso a tutti coloro che avessero già presentato servizio militare. Nel 1919, venne modificata la legge precedente (legge Giolitti): potevano votare tutti i cittadini maschi di almeno 21 anni di età; venne, quindi, abolita la distinzione per gli analfabeti. Poterono inoltre votare anche tutti i minorenni che avessero prestato servizio militare nei corpi mobilitati. Il sistema proporzionale sostituì quello maggioritario a due turni; ed il corpo elettorale, con queste modifiche, venne portato a 11 milioni. Il 2 Giugno 1946 ci fu il “Referendum istituzionale tra Monarchia o Repubblica”

cui

venne

ammessa

“L'elezione

dell'Assemblea

Costituente”. In queste due occasioni, per la prima volta, fece la sua comparsa il voto universale per uomini e donne, che avessero compiuto la maggiore età che si raggiungeva, a quel tempo, al compimento dei ventino anni.


16 3. Disciplina costituzionale del diritto di voto Come è stato messo in rilievo, l'art.48 comma 1 Cost. non attribuisce «direttamente» il diritto di elettorato attivo, esso piuttosto attribuisce ai cittadini maggiorenni una speciale capacità di diritto pubblico 16. Dal riconoscimento di tale capacità, difatti, deriva la pretesa dei cittadini in possesso dei requisiti per essere elettori ad entrare a comporre il corpo elettorale della Repubblica mediante l'iscrizione nelle liste elettorali; grazie all'iscrizione a tali liste il cittadino acquista il diritto di elettorato attivo. L'iscrizione alle liste elettorali ha valore “dichiarativo” di un diritto preesistente, che nasce dalla legge sulla base della Costituzione: “Prima della legge non esiste alcun diritto al voto dei cittadini maggiorenni, ma soltanto la loro capacità giuridica [...] garantita nei confronti del legislatore che non può escludere dalla titolarità del voto i cittadini maggiorenni [...] o privarli dello stesso diritto se non come una sentenza penale irrevocabile” 17

16

T. Martines, Commentario della Costituzione, Bologna-Roma 1984, p. 47 ss.

17

T. Martines, Commentario della Costituzione, Bologna-Roma 1984, p. 52 ss.


17 Si possono distinguere tre grandi tipi di giustificazione del diritto di voto, a seconda che esso sia fatto dal singolo individuo, dalla comunità o da entrambi. Per il primo tipo di giustificazione, il diritto al voto rappresenterebbe un diritto innato dell'individuo in quanto essere umano, partecipe come tale della comunità politica, collocandosi in una dimensione prestatuale e giusnaturalistica18. A tale concezione si contrappone quella secondo cui la capacità di partecipazione

attiva alle decisioni, elettive e deliberative, si

configura non come un diritto, ma come una funzione pubblica esercitata nell' interesse della comunità. L'impostazione dualistica, infine, teorizza la funzionalizzazione del diritto dell'individuo ad autodeterminarsi all'interno della comunità nazionale o statale. Tale impostazione dualistica è stata superata dalla nostra dottrina contemporanea. Il d.P.R. n°223 del 20 Marzo 1967, reca l'approvazione del testo unico delle leggi per la disciplina dell'elettorato; in base ad essa sono elettori 18

F. Lanchester, Sistemi elettorali e forma di Governo, Bologna, 1981, pp. 45 ss.


18 tutti i cittadini che abbiano compiuto il diciottesimo anno d'età (art. 1) che sono iscritti alle liste elettorali. L'art.48 della Costituzione indica, in relazione al diritto al voto, dei requisiti positivi e determina degli standard, di democraticità nella formazione e nell'espressione del suffragio. I requisiti sono espressi nel comma 1 e sono: 1. Il requisito di cittadinanza 2. Il requisito dell'età. Quest'ultimo requisito è fissato dal legislatore; infatti, nel T.U. n° 223/1967 si afferma che sono elettori tutti i cittadini che abbiano compiuto il diciottesimo anno d'età. La Costituzione ha voluto che il diritto di voto e la capacità di agire di diritto privato coincidessero per ogni tipo di votazione, sia elettiva che deliberativa, prevedendo come unica deroga quella dell'art.58 comma 1 della Costituzione19. Quindi, l'ordinamento costituzionale non condiziona l'acquisto o l'esercizio dei diritti politici, ossia quello di status activae civitatis, 19

Art.58 co.1 “I senatori sono eletti a suffragio universale e diretto dagli elettori

che hanno superato il venticinquesimo anno d'età”.


19 che implica la cosciente e responsabile partecipazione, diretta o indiretta, dei cittadini al Governo dello Stato. Gli standards, invece, vengono espressi nel comma 2 e sono: 1. Personalità 2. Eguaglianza 3. Libertà 4. Segretezza. La garanzia costituzionale della personalità del voto implica che l'avente diritto esprima di persona il proprio voto; il d.P.R. n°361 del 30 Marzo 1957, recante il testo unico delle leggi elettorali, prevede che: “gli elettori non possono farsi rappresentare” e, tuttavia, “i ciechi, gli amputati delle mani, gli affetti da paralisi o da altro impedimento di analoga gravità esercitano il diritto elettorale con l'aiuto di un elettore [...], che sia stato volontariamente scelto come accompagnatore, purché l'uno o l'altro sia iscritto al Comune” (art.55).


20 A tutela della personalità del voto è poi prevista la sanzione penale della reclusione per l'accompagnatore che svolga in maniera infedele la funzione assegnatagli. Dal precetto costituzionale relativo all'eguaglianza del voto deriva il divieto di voto multiplo20 o del voto plurimo21. Infatti, l'art. 103 del d.P.R. n° 361/1957 punisce con la reclusione “chi assumendo nome altrui, si presenta a dare il voto in una sezione elettorale, e chi dà il voto in più sezioni elettorali di uno stesso Collegio o di Collegi diversi”. Il precetto della eguaglianza del voto è applicazione del principio di eguaglianza formale; ciò implica che venga assicurata la parità di condizione degli elettori nel momento in cui il voto è espresso (c.d. eguaglianza “in entrata”) e non il peso concreto del singolo voto espresso al fine della determinazione degli eletti, non estendendosi quindi al risultato del voto (c.d. eguaglianza “in uscita”). Ci sono diversi profili della garanzia alla libertà di voto. 20

21

Voto multiplo: quando l'elettore è ammesso a votare in più di un collegio. Voto plurimo: Quando ad un elettore vengono attribuiti più voti sulla base di

diverse situazioni o qualifiche.


21 Anzitutto, il Costituente ha voluto impedire che l'esercizio del suffragio possa essere influenzato da pressioni e controlli. Il d.P.R. n°361/1957 prevede, di conseguenza, una serie di sanzioni penali per chi influisca sulla libertà del voto. Il principio di libertà dà all'elettore la garanzia di essere messo nelle condizioni di esprimere una scelta consapevole, e assicura la possibilità di essere informati in modo completo

sulle proposte

politiche messe in campo dalle varie forze o schieramenti. Questo fa sì che vi sia un'obbligatorietà costituzionale che impone una legislazione di contorno, diretta a disciplinare le campagne elettorali e le modalità di svolgimento della propaganda politica nel rispetto del dettato costituzionale22. La garanzia costituzionale della segretezza è intimamente collegata a quella della libertà di voto. La segretezza è infatti volta a completare la tutela del singolo da ogni forma di coercizione nella manifestazione della propria volontà. Il d.P.R. n°361/1957 prevede, in attuazione del dettato costituzionale, una serie di disposizioni a tutela dell'elettore: la 22

A. Chimenti, Informazione e televisione. La libertà vigilata, Roma-Bari, 2000,

p.83 ss. e 124 ss.


22 prescritta “scheda di Stato”, uguale per tutti sulla quale apporre il voto, ed altre concrete modalità di esercizio del diritto in questione (art. 42 ss.). L'art. 48 comma 2 Cost. dispone, oltre agli standards predetti, che “l'esercizio del voto è un dovere civico”. La formula costituzionale, nella sua ambiguità, è frutto di un difficile compromesso, poiché lascia al legislatore ordinario il compito di precisare la «doverosità» del voto. La l. n° 277 del 4 agosto 1993 ha stabilito che “il voto è un diritto di tutti i cittadini, il cui libero esercizio deve essere garantito e promosso dalla Repubblica” (art. 1), abrogando ogni forma di sanzione previgente per l'elettore che non abbia esercitato il proprio diritto di voto in una consultazione elettorale.


23

CAPITOLO SECONDO PROBLEMATICHE ATTUALI DEL DIRITTO AL VOTO

Sommario: 1. Il ruolo della donna; 2. Le richieste del diritto al voto fino al 2 giugno 1946; 3. Dal 1946 fino ai nostri giorni; 4. La questione delle quote rosa.

1. Il ruolo della donna Le donne, rispetto agli uomini, per poter affermare la loro capacità politica e pubblica hanno dovuto combattere per molto tempo, poiché non veniva riconosciuta loro alcuna capacità esclusa quelle relative alle mansioni in casa e nella crescita dei figli. Questa usanza era tacitamente radicata nel tempo e le sue origini vengono fatte risalire a Varrone che in un mito esplica l'estromissione pubblica delle donne: “Si racconta che l'apparizione improvvisa sull'Acropoli di un ulivo e di una bolla d'acqua preoccuparono il re Cecrope, che mandò a chiedere all'oracolo di Delfi come interpretare


24 quei prodigi. Apollo rispose che l'ulivo indicava Minerva e l'acqua Nettuno: spettava ai cittadini scegliere la divinità eponima, da cui la città avrebbe preso nome. Vigendo allora la consuetudine che tutti, anche le donne, partecipassero alle consultazioni pubbliche, il re convocò la cittadinanza per il voto. Gli uomini votarono per Nettuno, le donne per Minerva, e, per la maggioranza di un voto femminile, prevalse la seconda, provocando l'ira di Nettuno che devastò la pianura con i flutti del mare. Per placarne il furore, gli Ateniesi inflissero alle donne una triplice punizione privandole: del diritto di voto, di trasmettere il loro nome ai nascituri e di essere chiamate Ateniesi” 23. Quindi, l'esclusione delle donne dalla vita pubblica avrebbe avuto origine da una punizione comminata dagli uomini per colpire la presunzione delle donne e per placare le ire del dio offeso; e nessuna voce si levò contro la loro esclusione nemmeno quella di Atena (del resto il silenzio di Atena non stupisce: ella infatti è colei che dice di se 23

Passo citato da, Varrone, De Civitate Dei, I secolo a.c. contenuto in Giulia

Galeotti, Storia del voto alle donne in Italia, alle radici del difficile rapporto tra donne e politica, Roma, 2006.


25 stessa, come si può leggere nelle Eumenidi di Eschilo, “nessuna madre mi ha dato la vita” ). Questa punizione inflitta dagli Ateniesi al genere femminile non le coinvolgeva solo il piano pubblico (togliendo il potere di voto e vietando di chiamarsi cittadine), ma riguardava anche quello civilistico (gli fu impedito di dare il nome ed il proprio cognome ai figli); tale continuità storica si ritrovava alla base della legge salica che escludeva le donne dalla successione al trono. Questo è il nocciolo del problema: la donna non poteva votare perché solo chi ha una propria soggettività avrebbe potuto partecipare alla cosa pubblica; quindi alla donna, poiché le mancava la soggettività giuridica, fu esclusa. Infatti in passato le donne venivano considerate un accessorio del capo famiglia (padre o marito). Nel codice di famiglia del 1865 era scritto che le donne non avevano il diritto di esercitare la tutela sui figli legittimi, né tanto meno quello di essere ammesse ai pubblici uffici.


26 L'istituto dell' “autorizzazione maritale” consacrava, infine, in modo tangibile, che esse non potevano essere un soggetto autonomo (infatti esse non potevano: donare o accettare una donazione, vendere beni immobili o sottoporli ad ipoteche, contrarre mutui, cedere o riscuotere capitali senza l'autorizzazione del marito)24. Per comprendere quali e quanti stereotipi abbiano condizionato la figura femminile e l'abbiano emarginata e discriminata, relegandola ad un ruolo solo “riproduttivo” e in una posizione d'inferiorità, basti pensare alla preghiera che recita “Signore ti ringrazio di non avermi fatto nascere pagano, ignorante e donna” 25. Per questo motivo esse erano subordinate nella sfera domestica e, quindi, era evidente che non avrebbe avuto senso riconoscere alle donne una qualche posizione di livello pubblico.

24

G. Galeotti, L'autorizzazione maritale nel primo codice civile unitario: un

istituto estraneo alla tradizione italiana?”, in Dimensioni e problemi della ricerca storica, n.2, Roma 2005, pp.155-182. 25

Talmud, Tefillà del mattino.


27 Effettivamente la condizione femminile fra la fine dell' '800 e i primi del '900 era di drammatica disparitĂ e questo si riscontrava anche in ambito penale. Infatti l'articolo 486 del codice penale prevedeva una pena detentiva da tre mesi a due anni per la donna adultera, mentre puniva il marito solo in caso di concubinato; e quasi tutte le donne occupate nell'agricoltura non venivano riconosciute come lavoratrici, a meno che non fossero titolari di una proprietĂ o di un contratto d'affitto.


28 2. Le richieste del diritto al voto fino al 2 giugno 1946 La culla dei movimenti in favore del suffragio femminile viene comunemente individuata nel mondo anglosassone, dove avvennero i primi movimenti suffragisti e femministi per il riconoscimento e la rivendicazione dei diritti di cittadinanza. Il processo di riconoscimento e rivendicazione delle donne fu lungo e conflittuale. Esso ha investito tutti i settori della vita politica, economica e sociale, ed ha avuto tappe differenti a seconda dei diversi Paesi e delle diverse tradizioni politiche e giuridiche. Ad esempio, il diritto al voto è stato a volte preceduto dalla conquista di alcuni diritti sociali e civili, mentre altre volte il riconoscimento dei diritti civili non ha significato il riconoscimento dell'uguaglianza giuridica e sociale con gli uomini. Sin dall'inizio i movimenti femministi si erano mossi in due direzioni: ossia, da un lato, rivendicavano l'uguaglianza con gli uomini e il riconoscimento

dei

diritto

universali;

dall'altro

chiedevano la difesa della specificitĂ femminile.

lato,

invece,


29 Questi movimenti facevano spesso riferimento alla Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789, per denunciare lo stato di subordinazione delle donne nell'ambito familiare e politico; un esempio è la “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina” scritto da Olympe de Gouges per rivendicare i diritti naturali delle donne nel 1791. Un anno dopo, nel 1792, l'inglese Mary Wollstonecraft scrisse la “Vidication of the Right of Woman” in cui sosteneva non solo che le donne dovevano godere degli stessi diritti degli uomini, ma anche che solo in questo modo potevano diventare vere compagne degli uomini, poiché

loro non volevano sovrastare gli uomini, ma soltanto

equipararsi ad essi. Fin dall'inizio, quindi, le donne avevano ben chiaro che l'affermazione della loro identità pubblica passava attraverso il riconoscimento dei loro diritti naturali anche nella sfera privata. In Europa i primi movimenti femministi si affermarono spesso in collegamento con i movimenti democratici e nazionali.


30 In Francia con i club patriottici nel periodo rivoluzionario prima e poi in connessione con i movimenti democratici ed i circoli socialisti; in Germania, seppure in forma ridotta, con la Rivoluzione del 1848; in Italia, le donne illustri erano al centro dei salotti politici frequentati dai patrioti. Infine, la mobilitazione e la circolazione delle idee femministe furono favorite dallo sviluppo dei primi giornali femminili a livello nazionale come “La Femme Libre” e “La Voix de Femmes”. La richiesta del riconoscimento del voto per le donne, in Italia, avvenne relativamente in ritardo rispetto agli altri Paesi europei, perché ci fu un ampio contrasto da parte degli uomini. Essi ebbero degli atteggiamenti sarcastici e negativi, causati dal timore che la partecipazione politica intaccasse l'unità familiare. Per questo motivo iniziarono a mettere in cattiva luce le femministe con accuse di sessualità ambigua, e in certi casi la maggior parte degli uomini le bollava con termini molto forti come “virago”, “arpie odiose” e “povere mentecatte”.


31 Queste argomentazioni vennero sostenute anche da alcuni studiosi, come Attilio Brunialti secondo il quale “la grande maggioranza delle donne non potrà mai esercitare, per deficienza d'attitudine il diritto elettorale con indipendenza e in piena coscienza” giacché “lungi dall'essere saviamente credenti e devote, sono asservite a pregiudizi religiosi e ad idee ultra-conservatrici, sicché il soverchiante peso delle loro schede farebbe improvvisamente mutare la fisionomia politica del paese”

26

; alla donna infatti, “mancano il tempo, le

attitudini e per fortuna la volontà di combattere per la conquista del voto politico” 27. L'unico uomo politico che si schierò da parte delle donne fu Salvatore Morelli. Egli cercò (stabilendo un nesso tra sviluppo della società e condizione femminile) di tradurre in concrete riforme legislative un ideale di democrazia che rispettasse anche i diritti delle donne.

26

27

Passo citato da, R. Viganò, L'Agnese va a morire, Torino, 1974, pp. 188,189. A. Bravo, A. M. Bruzzone, In guerra senz'armi. Storie di donne 1940-1945,

Roma-Bari, 2000, p. 16.


32 Lui cercò di mettere in pratica le tesi espresse qualche anno prima nello scritto Le Donne e la Scienza, la cui tesi di fondo era che le differenze sociali tra uomini e donne (tradotte poi in differenze politiche) sono esclusivamente frutto di un atto di oppressione. Morelli tentò di collocare le sue proposte nel solco della tradizione parlamentare; ad esempio, “ci tenne a precisare che sul voto aveva ampliato, recuperandola, l'originaria proposta Peruzzi che prevedeva il voto per censo con esclusione degli analfabeti” 28. Quindi fece stampare due progetti a sue spese, consegnandoli anche ad illustri personalità europee della sinistra. L'unica riforma che Morelli riuscì a realizzare fu la legge n°4167 del 9 dicembre 1877 che premetteva alle donne di intervenire come testimoni negli atti pubblici e privati29.

28

a cura di F. Taricone, M. De Leo, Elettrici ed elette. Storia, testimonianze e

riflessioni a cinquant'anni dal voto alle donne, Roma 1996, p.10. 29

Cfr. G. Conti Odorisio, Salvatore Morelli (1824-1880): emancipazionismo e

democrazia nell'Ottocento, Napoli 1992, bibliografica a cura di A. M. Isastia.

in particolare la nota biografica e


33 Ma anche Morelli come le suffragette fu mire di dileggio; al di là delle vignette e delle battute di cui il deputato fu oggetto, anche Giuseppe Cimbali (funzionario del Ministero del Lavoro e filosofo) disse la sua opinione affermando «quale idea potente la tua di “invirare” ossia rendere uomini le donne, e di “infemminire” gli uomini! Tu stesso, già, dovevi avere in te il primo germoglio di questa grande trasformazione; e se la natura, matrigna, ti aveva messo addosso organi virili, forse quegli organi alla fine diventarono tutt'altro, e moristi femmina»30. Nonostante l'appoggio avuto da Morelli, la questione femminile continuava ad ottenere ben poca attenzione e, se la otteneva, era solo per ridicolizzarla. Questo lo dimostrò nel 1882 Giuseppe Zannardelli, il quale nella relazione della commissione per la riforma di legge elettorale politica ribadì l'importanza della tradizione e l'opportunità del mantenimento del voto come prerogativa esclusivamente maschile.

30

G. Cimbali, Donne in calzoni e uomini in gonnella. A proposito del voto

femminile, Roma 1887, p. 27.


34 Esisterebbe dunque un'autentica incompatibilità tra suffragio e natura femminile, poiché le donne partecipando alla vita politica avrebbero finito per essere uomini; infatti, l'esclusione muliebre dalla cosa pubblica era ritenuta un dato di fatto nell'ordine naturale delle cose. Le donne, nel 1906, approfittando del silenzio legislativo relativo alle leggi elettorali, sulla spinta dei Comitati Pro Suffragio Femminile e grazie all'appello di Maria Montessori alle pagine del quotidiano “La vita” chiesero l'iscrizione alle liste elettorali politiche sulla base dell'argomento quod voluit legislator expressit, quod noluit siluit. Al contrario di quanto si pensasse, alcune commissioni elettorali accolsero la loro domanda31; il fatto suscitò, com'era prevedibile, grandi critiche. L'accusa primaria che veniva attribuita alle donne era quella di aver approfittato di una svista del legislatore, il quale in realtà l'esclusione voleva inserirla.

31

Tra queste Mantova, Caltanissetta, Imola, Palermo, Venezia, Cagliari, Ancona,

Firenze, Brescia, Napoli e Torino.


35 Questa convinzione era nell'animo di tutti coloro che parteciparono alla formazione della legge32; non v'è insomma dubbio alcuno del fatto che “l'universale coscienza pubblica negava alla donna nel tempo in cui la carta costituzionale e le leggi elettorali furono emanate [ ... ] supremi uffici e diritti politici”33. Nel Parlamento del Regno fecero l'apparizione due forze, ossia socialisti e cattolici, ed essi dedicarono attenzione alla questione del suffragio femminile, a differenza delle altre forze prima esistenti. Questo venne notato dall'Unione Femminile Nazionale che scrisse: «i partiti democratici occhieggiano al femminismo, si atteggiano di quando in quando a suoi paladini, ma non offrono nessun contributo di pensiero e di azione organico e duraturo. Soltanto i partiti clericale e socialista [ .. ] fanno un posto alla donna anche nelle loro organizzazioni economiche e politiche»34. Ma le donne comunque erano ai margini della società, e non potevano esprimere la loro opinione alle consultazioni elettorali. 32

I. Tambaro, Suffragio universale e suffragio femminile, Napoli, 1906, p.8.

33

Corte d'Appello, Napoli 5.11.1906, in Giurisprudenza italiana, 1906, 404.

34

Lettera aperta dell'Unione Femminile Nazionale all'Onorevole Salandra, 1919.


36 Nel 1912 Giolitti riuscì ad imporre il suffragio universale ma le escluse; infatti, potevano votare soltanto gli uomini dai trent'anni in su, anche se analfabeti. Giolitti espresse l'atteggiamento del Paese: una donna, pur se diplomata o laureata, non poteva “capire le cose della politica”. Nel 1915, con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, le rivendicazioni femminili si misero a tacere poiché con gli uomini fuori casa, esse dovevano mandare avanti l'economia familiare e tenere unita la famiglia. Le donne, impegnate a sostituire gli uomini chiamati al fronte, ebbero massicciamente accesso al mondo produttivo; il che implicò la sospensione e poi l'abolizione di norme restrittive nei loro confronti, come il divieto del lavoro notturno. Alla fine della guerra qualcosa cambiò nella cultura contadina della vecchia Italia. Infatti, anche se dopo la grande battaglia molte donne ripresero il ruolo gregario senza diritti, molte si resero conto che “la donna è uguale all'uomo” dal momento che dimostrarono di essere capaci di


37 amministrare e di garantire la vita della famiglia da sole, di guidare un tram tanto quanto una protesta popolare. Il ruolo giocato in una fase così delicata ed il clima ormai mutato a livello internazionale condussero, dopo la conclusione del conflitto, all'importante legge Sacchi del 1919 intitolata “Disposizioni sulla capacità giuridica della donna”. Essa superò in pochi articoli decenni di discussioni, abolendo l'autorizzazione maritale e stabilendo nell'articolo 7 che le donne erano “ammesse, a pari titolo degli uomini, ad esercitare tutte le professioni ed a ricoprire tutti gli impieghi pubblici”. Il regolamento emanato nel 1920 vietò l'ingresso femminile nella magistratura, nella carriera militare e nelle carriere direttive dello Stato. Sempre nel 1919, a coronamento di un processo che l'esito della guerra contribuiva a far sembrare concluso e conformemente e quanto stava accadendo in diversi altri Paesi, la Camera iniziò l'esame della legge Martini-Gasparotto che riconosceva alle italiane l'elettorato


38 passivo e attivo (il diritto cioè di eleggere ed essere elette), amministrativo e politico35. Ma l'iter fu bloccato dalla questione di Fiume che provocò la chiusura anticipata della legislatura con lo scioglimento del Parlamento e le nuove elezioni che si tennero nel novembre dello stesso anno. L'Italia era in preda a una grave crisi, che sarebbe culminata nel 1922 nella marcia su Roma e nell'avvento del fascismo. Nella fase di affermazione del nuovo regime la possibilità di procedere su questa strada non fu inizialmente esclusa in linea di principio,

come

lo

stesso

Mussolini

promise

al

congresso

dell'Alleanza pro suffragio del 1923. Ma una proposta delineata a riguardo ne diede un interpretazione pesantemente

restrittiva:

sarebbero

potute

diventare

elettrici,

facendone richiesta e limitatamente alle consultazioni amministrative, le donne con piĂš di 25 anni, provviste di licenza elementare, che esercitavano la patria potestĂ e pagavano tasse oltre un limite stabilito, e ancora le decorate al valor militare, civile o madri e vedove di

35

Camera dei deputati 29.07.1919.


39 caduti. Se elette, non avrebbero inoltre potuto assumere la carica di sindaco o assessore, né ricoprire altri ruoli di responsabilità. La legge, approvata nel 1925, si rivelò in realtà inutile poiché una riforma dell'anno successivo abolì le consultazioni elettorali amministrative, ponendo a capo dei Comuni i podestà di nomina prefettizia. Le tappe successive, corrispondenti al periodo di consolidamento del fascismo, registrarono pesanti tentativi di ridurre la presenza della componente femminile nel mercato del lavoro, ristabilendo anche al livello legislativo la centralità delle funzioni familiari e materne, sancita nel 1925 dall'istituzione dell'Opera Nazionale per la protezione della Maternità e dell'Infanzia (ONMI) ed esaltata dalla battaglia demografica lanciata da Mussolini. Parallelamente, una nuova normativa si propose di allontanare le donne dai posti direttivi o dalle professioni cui si associava un prestigio intellettuale che era ritenuto una prerogativa esclusivamente maschile. Così, ad esempio, a livello scolastico, il decreto del 1926 vietò alle laureate l'insegnamento di materie come latino e greco o


40 storia e filosofia nei licei, cioè delle discipline cardine della riforma degli studi delineata da Giovanni Gentile. Un altro decreto aveva sbarrato loro l'accesso alla funzione di presidi negli istituti superiori e provvedimenti di riorganizzazione degli studi previdero indirizzi specifici, imperniati su insegnamenti che avrebbero dovuto avviare le allieve a mansioni domestiche o ad impieghi comunque subalterni e puramente esecutivi. Negli anni che precedettero il secondo conflitto mondiale la politica del fascismo nei confronti della donna si caratterizzò sempre più per lo sforzo di trasformare l'impiego familiare in un terreno di mobilitazione collettiva, attraverso il superamento della sfera puramente “privata”. Ai ruoli tradizionali di “spose-madri-mogli” esemplari si cercò di sovrapporre l'immagine di donne pronte al sacrificio, inquadrate nelle organizzazione del regime e chiamate ai nuovi compiti che quest'ultimo affidava loro nella vita della Nazione. Tale

prospettiva

si

presentava

come

alternativa

rispetto

al

rivendicazionismo e al suffragismo dei decenni precedenti, indicati


41 dalla propaganda come espressione di un desiderio di esasperata affermazione individuale da parte di minoranze privilegiate e “borghesi”, lontane dai bisogni e dai sentimenti della maggioranza della popolazione. Il trauma della guerra in cui l'Italia entrò nel 1940, con il suo corollario di perdite di vite umane, devastazioni e ferite inferte nelle strutture materiali e nel tessuto sociale del Paese, comportò prezzi altissimi anche per le donne. Costrette per la lontananza degli uomini a fronteggiare spesso da sole situazioni estremamente critiche, in città che la guerra stava trasformando in cumuli di macerie, alle prese con problemi di sopravvivenza quotidiana, esse mostrarono doti di dedizione e di tenacia che contribuirono non poco a porre un argine ai disastri bellici ed a gettare le basi della ricostruzione. Le donne ebbero un ruolo molto importante nelle fila della Resistenza, infatti esse sia in città che in montagna garantirono servizi essenziali, come racconta la testimonianza della partigiana Giuliana Beltrami


42 Gadola36 che mette in paragone il patriottismo degli uomini con quello delle donne, specificando le mansioni delle donne ed evidenziando la pericolosità delle loro azioni. Un momento importante nel corso del conflitto si ebbe nel novembre 1943, quando si costituirono i Gruppi di Difesa della Donna per l'assistenza ai combattenti della libertà (GDD), che ai problemi della lotta di Liberazione affiancarono temi più specificatamente legati alla condizione femminile. Le condizioni politiche e sociali nell'ultima fase del conflitto, imposero ai partiti, e sopratutto a quelli che si avviavano ad essere i principali partiti di massa, la necessità di promuovere nell'Italia liberata una più attiva partecipazione delle donne alla vita del Paese. All'interno del PCI sussistevano non poche perplessità sull'opportunità di creare dei gruppi-cellule femminili separati da quelle maschili; ma, dopo accese discussioni, anche per questioni di opportunità contingente, come la gestione del suffragio femminile, si convenne che un'organizzazione a sé stante sarebbe stata la soluzione migliore 36

G. B. Gadola, Le donne nella Resistenza in Lombardia,a cura di A. G.

Marchetti e N. Torcellan, Milano 1992.


43 per permettere alle donne di riflettere sulla propria situazione e per consentire loro di svolgere, con maggiore facilitĂ , un lavoro mirato. Nel settembre del 1944 nacque ufficialmente a Roma l'Unione delle Donne Italiane (UDI), che si proponeva di raccogliere donne che giĂ avevano fatto parte dei GDD e dei Gruppi Femminili Antifascisti; quindi l'UDI fu una risposta del PCI alla necessitĂ di formare gruppi femminili di massa. Gli obiettivi che si proponevano riguardavano, innanzitutto, la partecipazione attiva alla vita sociale e politica del Paese, l'iscrizione delle donne ai sindacati, un'articolata opera di assistenza nell'ambito della ricostruzione, ma anche conferenze su problemi riguardanti le madri e i bambini e la promozione di corsi scolastici di base. In concomitanza con la nascita dell'Unione delle Donne Italiane, nel 1944 ebbe origine un altro grande movimento femminile, il Centro Italiano Femminile (CIF), che faceva capo all'Azione Cattolica e rispondeva, come nel caso dell'UDI, a necessitĂ di rifondazione morale e materiale e di assistenza.


44 Il CIF si proponeva di conquistare le masse femminili alla propria causa, educandole alla politica, ma anche aiutandole a migliorare le condizioni materiali di vita. Alla nascita di questa organizzazione aveva contribuito anche Giovanni Battista Montini, allora sostituto alla Segreteria di Stato vaticana e futuro papa Pio VI, che aveva intenzione di fare del CIF un punto d'incontro tra un nascente movimento politico femminile e l'associazionismo cattolico più tradizionale che vedeva ancora con difficoltà un impegno politico attivo. La decisione di ammettere le donne al voto venne presa formalmente a poco più di due mesi dalla conclusione del conflitto, ma essa era maturata fin dal 1944. Alcune donne fecero sentire la loro voce, perché un simile risultato non si configurasse nei termini di una pura e semplice concessione, infatti nell'ottobre 1944 l'UDI insieme ad altre associazioni inviò un promemoria al capo del Governo Bonomi affinché l'estensione alle donne

del

voto

e

dell'eleggibilità

fosse

tenuta

presente


45 nell'elaborazione delle leggi elettorali da introdurre nelle future consultazioni. In un'Italia ancora divisa in due, con il Centro-Sud liberato e la Repubblica di Salò nel Nord occupato dai tedeschi; a Roma su richiesta di De Gasperi e Togliatti la questione venne esaminata dal Consiglio dei Ministri il 24 gennaio 1945, il 30 si ebbe l'approvazione, e fu ratificata con il Decreto luogotenenziale n° 23 del 1 febbraio 1945 (definito in seguito Decreto Bonomi), un breve testo il quale stabiliva all'articolo 2 che, vista l'imminente formazione dei Comuni delle liste elettorali, nelle suddette si iscrivessero in liste separate le elettrici. Ma il Decreto Bonomi aveva disposto solamente il diritto di voto per le donne, tacendo invece circa la loro eleggibilità e sul momento la stampa non rilevò alcuna lacuna 37; tra i pochi che notarono la mancata menzione vi furono i liberali, ovvero gli scettici del governo Bonomi verso il suffragio femminile.

37

Ad esempio, il lungo articolo dell'Unità, Le donne voteranno sin dalle prossime

elezioni amministrative, è tutto orientato sulla donna elettrice, mentre non dice nulla sulla donna eletta.


46 Ma per completare (almeno sulla carta), la cittadinanza femminile dovranno passare altri 13 mesi. Sarà l'articolo 7 del decreto n°74 del 10 marzo 1946 a sancire l'eleggibilità dei “cittadini” e delle “cittadine” italiane che, al giorno delle elezioni, abbiano compiuto il 25° anno d'età38. Nella primavera le donne votarono per le elezioni amministrative, durante le quali furono elette circa 2.000 donne nei consigli comunali e provinciali. La differenza temporale tra la concessione dell'elettorato passivo e di quello attivo venne spiegata come una distrazione, ossia una dimenticanza dei politici “la concessione del voto fu accompagnata da una svista madornale” 39. Quindi le donne le donne iniziarono ad esercitare il diritto al voto a partire dalle elezioni amministrative che si tennero in tutta la Penisola fra marzo ed aprile del 1946. 38

Questo decreto determinò la legge elettorale per la formazione dell'Assemblea

Costituente, riconosce alle donne anche il diritto di essere elette. 39

E. Gradassi, Donne aretine. Guerra, pace, ricostruzione e libertà (mostra

documentaria), Montepulciano 2006, p.133.


47 In realtà nessuno sembra ricordarsi di questa tappa fondamentale della cittadinanza femminile, nemmeno gli storici; invece, per le donne, si trattò di una “data indimenticabile” come scrisse Gesuina Equadori su “La Felce”: «Nella storia d'Italia per la prima volta le donne si sono recate alle urne; il 10 marzo per noi donne rimarrà una data indimenticabile. Ad Arezzo abbiamo visto percorrere le strade donne vestite di nero, che per la mano avevano le loro figlie, ansiose di raggiungere il loro seggio elettorale, convinte di andare ad eleggere quegli uomini e donne che meglio sapessero portare al popolo quanto è stato fino ad oggi ad esso negato. Hanno compreso ormai anche le donne che non può risorgere la vera democrazia senza la loro partecipazione»40. Incredibilmente, gli uomini sembrarono accorgersi della novità, in molti infatti commentarono la massiccia presenza femminile ai seggi. Così fecero dei dispacci emanati dalle prefetture che, oltre ad attestare il calmo e ordinato svolgimento delle votazioni, registrarono la grande affluenza delle elettrici.

40

G. Equatori, Le donne alla prova, in “La Falce” 14.03.1946.


48 Nonostante la partecipazione effettiva al voto fosse stata pari a quella maschile, le donne (così anche il 2 giugno)vennero percepite come più numerose degli uomini a causa della novità della loro presenza; ne è significativo il commento di Marino Morelli sulle pagine del “Corriere della Sera” che scrisse: «le donne erano in prevalenza e a me pareva d'essere [ ... ] il solo gallo in un arruffato pollaio»41. Con le amministrative del 1946, dunque, una nuova figura entra nell'immaginario collettivo; le prime foto di donne in file per votare o in procinto di inserire la scheda nell'urna sembrano sconfiggere il luogo comune dell'incompatibilità tra il femminile e la politica. Il 2 giugno dello stesso anno le donne si recarono di nuovo alle urne per il referendum monarchia-repubblica e l'elezione dell'Assemblea Costituente; fu la prima volta che le donne italiane esercitano il diritto di voto in una consultazione politica (nella primavera avevano votato per le elezioni amministrative ossia a livello locale).

41

M. Moretti, Elettrici, in “Corriere della Sera”, 11.06.1946.


49 3. Dal 1946 fino ai nostri giorni Con l'istituzione dell'Assemblea Costituente ci furono diverse modificazioni nell'ordinamento giuridico italiano. Ai fini di un più efficiente svolgimento del proprio lavoro, l'Assemblea deliberò la nomina di una Commissione per la creazione della Costituzione, composta da 75 membri (“Commissione dei 75”) scelti dal presidente. Nella Commissione dei 75 vi fu anche una rappresentanza femminile di diversa astrazione politica; queste donne furono: Maria Federici per la DC, Lina Merlin per il PSI, Teresa Noce e Nilde Iotti per il PCI e il 6 febbraio 1947 si aggiunse Angela Gotelli del DC. La Commissione dei 75 presentò all'Assemblea il testo definitivo della Costituzione che lo votò il 22 dicembre 1947, ma per l'entrata in vigore si dovette aspettare il 1° gennaio 1948. La Costituzione repubblicana sancì l'uguaglianza dei diritti fra i sessi; la parità tra essi venne affermata negli articoli 3, 29, 31, 37, 48 e 51: 1. Nel articolo 3 viene espressa l'uguaglianza di tutti senza distinzioni di fronte alla legge.


50 2. Nel articolo 29 viene affermata l'uguaglianza tra i coniugi. 3. Con l'articolo 31 si tutelano la maternità, l'infanzia e la gioventù. 4. Nel articolo 37 viene equiparata e tutelata la donna lavoratrice. 5. Nel articolo 48 viene enunciato il diritto al voto e specificatamente il diritto all'elettorato attivo. 6. Nel articolo 51 viene dato il diritto alle donne di poter accedere ai pubblici uffici ossia viene assicurato l'elettorato passivo. Benché la Costituzione sancisca dunque la parità tra uomini e donne, alcuni articoli riflettono la difficile mediazione tra istanze diverse. Ad esempio nel articolo 29 l'enunciato della parità dei coniugi è accompagnato dalla formula: «con i limiti stabiliti dalla legge»; oppure l'articolo 51 anche se sanciva: «Tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere negli uffici pubblici e alla cariche elettive in condizioni d'eguaglianza», non garanti per molti anni la tutela di quel diritto. Tale accesso non fu accolto in modo esplicito dalla Costituente, la quale respinse l'emendamento aggiuntivo all'articolo sulla nomina dei


51 magistrati «Le donne hanno accesso a tutti gli ordini e gradi della magistratura», che voleva essere introdotto nel timore, suscitato dall'andamento del dibattito che l'articolo in questione non fosse sufficiente a garantire quell'accesso. Ma si deve notare soprattutto che al momento dell'entrata in vigore della Costituzione stessa i codici e le leggi vigenti erano ancora quelli del periodo precedente, per cui i principi stabiliti in essa non trovavano immediata applicazione nell'ambito familiare e nella vita sociale. Si può dire che in molti campi le donne erano, di fatto, “uguali per diritto, ma inferiori per legge”. Per questo in seguito si ebbero diverse proposte di legge e modificazioni per attenuare la differenza legale tra uomini e donne. Un primo esempio fu l'approvazione, dopo un lungo dibattito in Parlamento e nel Paese, della legge n°860 del 26 agosto 1950 sulla tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri, gestanti e puerpere. Nel 1956

fu fatto un disegno di legge, per opera di Aldo Moro, il

quale socchiuderà le porte delle aule di giustizia alle donne.


52 Infatti, da quel momento in poi le donne poterono accedere alle giurie popolari con il limite massimo di tre su sei e ai tribunali minorili (però questa norma resterà in vigore fino al 1978). Le limitazioni a questi ambiti erano attribuibili al fatto che, poiché le loro funzioni erano ancora quelle legate alla figura materna, era preferibile che i loro interventi fossero relativi a quelli che andavano risolti, più che con l'applicazione di fredde formule giuridiche, con il sentimento e con l'aiuto della conoscenza dei bambini che era peculiare delle donne grazie al loro istinto materno. In più questa concessione minima fu contestata molto aspramente dai magistrati: essi essendo una casta chiusa e impenetrabile alla concorrenza non erano avvezzi ad essere criticati (figuriamoci giudicati) dalle donne. Un altro atto proposto da una donna che attirò maggiore attenzione fu la legge n°75 del 20 febbraio 1958 proposta dalla senatrice Lina Merlin (Legge Merlin), che dispose la chiusura delle case di tolleranza.


53 Dal 1963 con la legge n°7 del 9 gennaio il matrimonio non venne più ammesso come causa di licenziamento. Inoltre, sempre nello stesso anno, le donne furono ammesse alla magistratura grazie alla legge n°66 del 9 febbraio. Questo fu un ulteriore passo in avanti nell'effettiva attuazione del articolo 51 della Costituzione e le donne poterono accedere a tutti gli uffici senza distinzione di carriere né limitazioni di grado. Per rendere attivo anche in materia penale l'articolo 29, ossia la disparità di trattamento in caso di adulterio (articolo 486) 42, con due sentenze del 19 dicembre 1968, la Corte costituzionale ha abrogato l'articolo sul diverso trattamento dell'adulterio maschile e femminile modificandolo con un nuovo articolo (articolo 559), che prevede una pena uguale senza differenza in base al sesso43.

42

L'articolo 486 del codice penale prevedeva una pena detentiva da tre mesi a due

anni per la donna adultera, mentre puniva il marito solo in caso di concubinato. 43

L'articolo 559 del codice penale recita: «la moglie adultera è punita con la

reclusione fino ad un anno, con la stessa pena è punito il correo».


54 Un avvenimento molto importante e che cambiò radicalmente il concetto di matrimonio, fu l'approvazione della legge n°898 del 1 dicembre del 1970. L'introduzione del divorzio in Italia era stata collegata alla questione del voto alle donne, ma in sede costituente il PCI, per una scelta di fondo sfociata nell'approvazione del articolo 7, non aveva sollevato la questione. La Commissione dei 75 avrebbe voluto includere l'indissolubilità del matrimonio nel testo della carta costituzionale; ma, dopo un'aspra battaglia in aula, la parola “indissolubile” non era stata inserita, bocciata con un esiguo margine di voti. Nel 1965, il socialista Loris Fortuna avanzò la prima proposta di legge, sulle orme del collega Renato Sansone, che negli anni Cinquanta aveva proposto a più riprese e senza successo una legge di “piccolo divorzio”, per i casi estremi di ergastolani, malati di mente, scomparsi, divorziati all'estero.


55 Dopo l'approvazione della nuova normativa, nel 1974 ha indetto un referendum abrogativo; ma, in seguito alla vittoria del fronte del NO, con il 59% la legge rimase in vigore. Nel 1978 venne approvata la legge sull'aborto; quattro anni prima i radicali avevano iniziato una campagna per un referendum al fine di abrogare le norme che penalizzavano l'aborto. Gli articoli dal 546 al 551 del codice penale stabilivano, infatti, che la donna che si procurava un aborto dovesse essere punita con al reclusione da uno a quattro anni (ma, se l'aborto era effettuato per “salvare l'onore”, era prevista una riduzione, che andava da un terzo alla metà della pena). Dopo l'approvazione della legge, un referendum abrogativo del maggio del 1981 non ebbe successo. La legge n° 442 del 1981 abrogò la rilevanza penale della causa d'onore come attenuante nell'omicidio del coniuge infedele. Tre anni dopo presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri è costituita la Commissione nazionale per la realizzazione delle pari opportunità fra uomo e donna presieduta da Elena Marinucci.


56 In seguito nel 1991 con la legge n°125 del 10 aprile titolata «Azioni positive per la realizzazione della parità del uomo e della donna nel lavoro» si cercò di intervenire per rimuovere le discriminazioni e valorizzare la presenza e il lavoro delle donne nella società. Su questo tema con la legge costituzionale n°1 del 30 maggio 2003, viene modificato l'articolo 51 della Costituzione con l'aggiunta: «A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini», così il principio delle pari opportunità riceve un fondamento costituzionale.

4. La questione delle quote rosa La prima introduzione delle cosiddette “quote rosa”, cioè di un certo numero di posti riservati alle donne nelle liste elettorali, risale al 1993, provvedimento in seguito abrogato, nel 1995, da una sentenza della Corte costituzionale e nel 2003 è stato modificato l'articolo 51. La legge n°90 del 8 aprile 2004 ha reintrodotto le “quote rosa” nell'elezione dei membri del Parlamento Europeo. Nonostante ciò, non


57 esiste ancora, in Italia, una legge che garantisca una reale uguaglianza rappresentativa. Dopo un acceso dibattito alla Camera, nell'ottobre 2005, in sede di discussione sulla nuova legge elettorale, l'emendamento che chiedeva una maggior rappresentanza delle donne in Parlamento è stato bocciato. Il 18 novembre 2005 il Consiglio dei Ministri ha approvato un disegno di legge sulla presenza femminile nelle liste elettorali; esso prevede un'alternanza di candidati uomini e donne per la prima e la seconda elezione dopo l'entrata in vigore della legge. Ma il decreto è stato bocciato al Senato il 24 gennaio 2006, ed è dovuto tornare in Commissione Affari Costituzionali. Infine nel febbraio 2006 le “quote rosa” sono state approvate dal Senato. Dopo un giorno e mezzo di polemiche, accuse e contraccuse, la legge che dovrebbe portare più donne in politica è passata con 229 sì, 4 no e 19 astensioni. Si tratta tuttavia di una “mezza vittoria”, dal momento che l'approvazione è avvenuta a fine legislatura, il che ha reso


58 concretamente impossibile la conversione in legge, in tempo per essere applicato alle elezioni politiche dell'aprile 2006.


59

SINTESI E CONCLUSIONI L'indagine sulla struttura del diritto al voto appare influenzata da molteplici fattori, tra cui i diversi contesti politici di riferimento. Nonostante i passi avanti compiuti in molti campi, le donne italiane attivamente presenti nella vita politica sono ancora una percentuale ridotta, tuttavia l'affermazione dei diritti femminili, il superamento delle discriminazioni che le costringono ad essere subordinate in base al sesso, è un processo molto lento. E, nonostante la parità tra le donne e uomini si affermi teoricamente (come nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani adottata nel 1948), di fatto, le donne incontrano numerosi ostacoli per essere riconosciute, pari agli uomini, sotto ogni aspetto della vita politica, sociale, economica e familiare. In molti Paesi ancora oggi, del resto, le donne vivono una condizione di sottomissione e spesso anche di violenza e abusi. Sono state moltissime le lotte che le donne hanno dovuto sostenere per superare le discriminazioni di cui sono state oggetto nel corso della storia.


60 In Italia il percorso dalla discriminazione all'affermazione della parità tra uomini e donne è stato lungo e difficile ed ebbe inizio con le norme del primo codice civile dell'Italia unita nel 1865. Ma la storia dell'emancipazione femminile dovrà aspettare ancora qualche decennio prima di dirsi affermata. Infatti nonostante la Costituzione italiana (articolo 3) sancisca la piena e completa parità di diritti tra l'uomo e la donna, sono molte le differenze di trattamento che si verificano, per esempio, nel mondo del lavoro tra uomini e donne. In questi ultimissimi anni sono state sempre più frequenti le “dichiarazioni” e le “convenzioni” nazionali europee ed internazionali (es. la Conferenza di Pechino, 1995) a sostegno della partecipazione femminile alla vita politica e sociale in condizione di parità. Molte sono state, però, le “vittorie” che le donne hanno riportato sul fronte dell'emancipazione, così come molte sono state anche le pressioni che gli Stati democratici e le varie organizzazione internazionali hanno esercitato (per sostenere la parità tra i due sessi) sui Paesi dove la condizione femminile è ancora di subordinazione e


61 di emarginazione e dove il percorso verso l'emancipazione femminile è lungo e difficile. È possibile che l'acquisizione di poteri e responsabilità da parte delle donne e il miglioramento delle condizioni sociali, economiche e politiche sia essenziale per il raggiungimento di un Governo veramente democratico, per favorire lo sviluppo in tutti i campi della vita. Io penso che gli ostacoli di ordine culturale, ma anche politico ed economico che impediscono alle donne di realizzarsi al pari degli uomini debbano essere rimossi se si vuole che la società si evolva in ogni ambito della vita pubblica e privata. Raggiungere l'obiettivo di una uguale partecipazione delle donne e degli uomini ai processi decisionali consentirà (probabilmente) a creare un equilibrio tra i due sessi e la crescita di uomini e donne liberi e consapevoli dei propri diritti e doveri come presupposto fondamentale per vivere in una società democratica e libera da pregiudizi e da stereotipi.


62 Senza un'attiva partecipazione delle donne e la loro integrazione a tutti i livelli dei processi decisionali non è possibile raggiungere obiettivi di uguaglianza, di sviluppo e di pace.


63 ABSTRACT

The study on the structure of the right to vote appears to be influenced by a number of factors, which create the needing to examine this right by several political contests. Indeed, there have been many steps forward in countless ways, however italian women actively present in political life are still a minor percentage. Nevertheless the affirmation of feminine rights, the surpassing of the discriminations that keep them in a state of subordination related of the sex status, is a very slow process and, despite of equality between men and women is affirmed theoretically (as in the 1948 Universal Declaration of Human Right), in fact in fact women encounter various obstacles in order to be recognised as good as men in every aspect of political, social, economical and familiar life. In many countries even now, after all, women live in a condition of submission, often also under violence and abuses. There have been many fight women have had to sustain in order to surpass discriminations of which they have been object through


64 history; in Italy the path from discrimination to the affirmation of equality between men and women has been long and difficult and started with the norms of the first italian civil code in 1865. But the history of feminine emancipation will have to wait some decades to be secure. In fact, even if italian Constitution (rule 37) states the full and complete equality of rights between men and women, many differences of treatment happen to be present and commune in the world of work. In these very last years there have been always more frequent the “declarations” and the “conventions” national, European and international (e.g. the Beijing Conference in 1995) in favour of feminine participation in political and social life in equality of conditions. Many have been the victories that women have had on the front of emancipation, as innumerable have been the appeals that democrat states and various international organizations have made in order to sustain parity between men and women in the different countries


65 where the feminine condition is still of subordination and where the path to feminine emancipation will still be hard and long. It is possible that the acquisition of powers and responsibilities for women and the

improving of social, economical and political

conditions, will be essential to reach a truly democratic govern, in order to favour development in every aspect of life. Obstacles of cultural, political and economical nature that resist the realization of women to equal of men need to be removed in order for the society to evolve in every aspect of life, public and private. Reach the objective of an equal participation of men and women to decisional processes will allow (probably) to create a balance between the two sexes and the growth of men and women free and aware of their rights as basics to live in a society democratic and free from prejudices and stereotypes. Without an active participation of women and their integration to every level of decisional processes will not be possible to reach the objectives of equality, progress and of peace.


66

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