NDAGINE ERMENEUTICA SUL DELITTO DI MILLANTATO CREDITO.

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DELLA TUSCIA FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE Corso di laurea in “Scienza della Pubblica Amministrazione”

INDAGINE ERMENEUTICA SUL DELITTO DI MILLANTATO CREDITO. QUESTIONI PROBLEMATICHE E NUOVI ORIENTAMENTI INTERPRETATIVI. Cattedra Diritto Amministrativo Penale

RELATORE

CANDIDATO

Prof.ssa Amalia Tranchino

Erika Porroni Sam 790

ANNO ACCADEMICO 2007/2008

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INDICE Capitolo 1: Millantato credito………………………….p. 4 Par. 1.1: Cenni storici……………………………….p. 4 Par. 1.2: Fattispecie delineata dall’art. 346 c.p……...p. 6 Par. 1.3: Interesse tutelato…………………………...p. 7 Par. 1.4: Sussistenza del delitto……………………...p. 9 Par. 1.5: Evento del delitto…………………………..p. 9 Par. 1.6: Soggetto del reato…………………………..p. 10 Par. 1.7: Configurazione del delitto………………….p. 10 Par. 1.8: Differenze tra i due commi………………....p. 13 Par. 1.9: Elemento soggettivo………………………..p. 14 Par. 1.10: Tentativo…………………………………...p. 15 Par. 1.11: Prospettive di riforma……………………..p. 16 Capitolo 2: Rapporto con altre figure di reato………….p. 18 Par. 2.1: Annotazioni generali……………………….p. 18 Par. 2.2: Millantato credito e truffa………………….p. 20 Par. 2.3: Sviluppo di principi…………………………p. 32 Par. 2.4: Elemento soggettivo……….……………….p. 35 Par. 2.5: Millantato credito e corruzione…………….p. 37 Par. 2.6: Millantato credito e millantato credito del patrocinatore……………………………………………...p. 48 Capitolo 3: Belusconi, Saccà e la Rai: a Napoli esplode il caso delle intercettazioni……………………………………….p. 52 Par. 3.1: L’Espresso pubblica le intercettazioni tra Saccà e il Premier……………………………………………………p. 52 Par. 3.2: Limitazione delle intercettazioni………….p. 60 Par. 3.3: La norma “ blocca processi ” emendamento inserito nel decreto legge sulla sicurezza………………………….p. 57 Par. 3.4: L’opposizione non è concorde sull’emendamento…………………………………………p. 59 Par. 3.5: Modificazione dell’emendamento………….p. 60 Par. 3.6. Annotazioni personali………………………p. 61 Conclusioni..............................................................................p. 62

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Abstract ................................................................. p. 66 Bibliografia ............................................................ p. 70

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Capitolo I Millantato credito 1.1.

Cenni storici

Prima di procedere alla disamina esegetico-dogmatica del delitto di millantato credito è opportuno compiere un preliminare inquadramento storico della figura criminosa in questione. Se si intraprende una ricerca sui precedenti normativi del millantato credito, si constaterà come non siano assenti nelle fonti romane figure criminose cui fare riferimento per risalire all’origine del reato in esame. Nel diritto dell’epoca imperiale, la volontà di rafforzare la difesa dei beni pubblici fece ampliare il novero degli illeciti penali, trovando attuazione in un modello criminoso volto alla tutela della magistratura, posto che come illecito risulta imperniarsi sulla promessa di realizzare un negozio il cui fine risiede nell’influire sull’azione del giudice. L’oggettività giuridica sembra potersi identificare nel prestigio di chi esercita la funzione giurisdizionale cui si reca offesa. Il delitto si fonda su di un unico estremo rappresentato dalla condotta promissoria, e giunge a consumazione prescindendo dalla ricezione o accettazione della promessa di utilità.

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L’ipotesi esaminata delinea l’agente, non come mediatore, bensì alla stregua di uno strumento di corruzione, per cui la venditio fumi si caratterizza per la specificazione dei requisiti del fatto tipico, consistenti nel vantare influenza, promettere di esercitare pressioni e richiedere denaro come retribuzione dell’opera promessa ma non svolta, in tal senso il delitto si presenta ancorato a due estremi: la vanteria e la mendace dichiarazione di aver effettuato l’intercessione. Avanzando con la memoria storica del delitto in esame, il legislatore del 1889, ancorando la consumazione della fattispecie al momento in cui l’agente riceve, fa dare o fa promettere l’utilità sembra essersi allontanato dai precedenti normativi, conferendo tipicità alla promessa dell’indebito, e ponendo una distinzione tra il ricevere ed il far dare. Profilo innovativo, contenuto nel codice penale del 1930, consiste nell’avere tenuto distinte le due ipotesi contemplate in forma alternativa nel codice Zanardelli, ossia la figura costituita dal millantare credito e ricevere, farsi dare o promettere utilità come prezzo della propria mediazione verso il pubblico ufficiale, e quella punita più gravemente, sostanziantesi per contro nel ricevere, farsi dare e promettere altra utilità col pretesto di dover comprare il favore di un pubblico ufficiale o di doverlo remunerare.

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La scelta della diversificazione trova motivo nella considerazione che la seconda ipotesi appariva più grave della prima, poiché più serio era il discredito che ne conseguiva per la pubblica amministrazione, e maggiore doveva essere la sanzione da comminare. 1.2. Fattispecie delineata dall’art. 346 c.p. Art. 346 c.p.: “ Chiunque, millantando credito presso un pubblico ufficiale, o presso un pubblico impiegato che presti un pubblico servizio, riceve o fa dare o fa promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione verso il pubblico ufficiale o impiegato, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da 309,87 euro a 2065,83 euro. La pena è della reclusione da due a sei anni e della multa da 516,46 euro a 3098,74 euro, se il colpevole riceve o fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, col pretesto di dover comprare il favore di un pubblico ufficiale o impiegato, o di doverlo remunerare ”. MILLANTARE: significa esagerare, accrescere, amplificare, ovvero vantare un fatto in maniera superiore alla sua consistenza. CREDITO: è l’influenza, l’ascendente, la favorevole disposizione di una persona verso l’altra, la stima e la considerazione. La millantazione del credito va intesa restrittivamente, nel senso che il colpevole deve assumere un’obbligazione di risultato, e non soltanto di

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mezzo, che non deve solo promettere di compiere dei passi, degli interventi, delle pressioni, ma deve garantirne l’efficacia. L’analisi dell’espressione “ millantato credito ” esige che l’attenzione si soffermi sulla circostanza se la magnificazione

debba cadere

sull’esistenza tout court dell’influenza, oppure possa concernere anche l’entità di quest’ultima. Le condotte ingannatorie qualificate come millanteria e come pretesto rappresentano, nella dinamica della fattispecie, il mezzo con cui il colpevole induce la sua vittima all’atto di disposizione. Questa funzione strumentale può, ovviamente, esplicarsi solo attraverso un errore della vittima, che prenda per buoni la millanteria o il pretesto e conseguentemente si decida all’atto di disposizione, non avrebbe senso, infatti, ipotizzare una condotta ingannatoria se il reato dovesse perfezionarsi indipendentemente da ogni rapporto causale tra il mendacio e l’atto di disposizione. 1.3. Interesse tutelato Nel delitto di millantato credito, l’interesse protetto è il prestigio della pubblica amministrazione, il quale viene offeso ogniqualvolta si dia a credere che il pubblico ufficiale o pubblico impiegato addetto a pubblico

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servizio, anziché uniformarsi a criteri di probità e correttezza, si lasci corrompere nell’adempimento dei doveri inerenti alla loro qualità. Tale affermazione esclude, per conseguenza logico-giuridica, la tutela del compratore di fumo, in quanto persona biasimevole ed abietta sotto il profilo etico-sociale. Il legislatore ha ritenuto indifferente per l’economia della fattispecie, la natura dello scopo perseguito dal compratore di fumo, ed il disvalore giuridico della condotta, di tale soggetto, debba essere ricercato esclusivamente all’interno della struttura oggettiva della fattispecie. Sotto questo profilo non si può non rilevare che, richiedendo o accettando la mediazione, il compratore di fumo si pone come soggetto essenziale e necessario della condotta complessiva posta in essere dal preteso mediatore, poiché in caso contrario quest’ultimo non potrebbe assolutamente porre in opera i propri propositi lesivi dell’imparzialità e probità del rapporto amministrativo. Il legislatore ha sanzionato il venditore di fumo poiché i beni tutelati sono lesi dal millantatore agendo sul compratore di fumo, non da entrambi, pertanto il secondo è vittima dell’inganno, donde l’esigenza di giustizia di mandarlo indenne a sanzione penale.

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1.4. Sussistenza del delitto Nella figura criminosa del millantato credito la obiettività è costituita dall’offesa ad un preminente interesse pubblico, in particolare al prestigio dello Stato, sicché titolare dell’interesse speciale della norma, e quindi soggetto passivo del reato, è la pubblica amministrazione, mentre il pubblico ufficiale, del quale si faccia credere la corruttibilità, deve qualificarsi danneggiato del reato. In tale reato persona offesa non è solo la pubblica amministrazione, ma altresì colui che effettua o promette la prestazione: invero elemento essenziale della condotta criminosa è anche la lesione dell’integrità patrimoniale del soggetto vittima della millanteria. 1.5. Evento del delitto Dal punto di vista dell’evento si ha una fattispecie ad eventi multipli e successivi, eventi a catena, legati l’uno all’altro da un rapporto di causa ed effetto. Gli eventi sono: il primo è l’appercezione della vanteria da parte del destinatario; il secondo è l’induzione in errore di questo; il terzo è la determinazione della volontà, eventualmente viziata dall’errore, a dare o promettere; il quarto è la condotta della persona consistente nel dare o

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promettere, ed il quinto è nell’ipotesi del ricevere la condotta di chi riceve. I primi tre sono eventi psichici, il quarto e l’ultimo sono eventi materiali. Oggetto materiale è la persona destinataria della millanteria, perché la condotta è diretta ad agire sulla volontà di essa; soggetto attivo può essere chiunque ossia qualsiasi privato cittadino. 1.6. Soggetto del reato Nell’art. 346 c.p. non è previsto un reato-contratto e neppure un reatoaccordo, ossia un reato plurisoggettivo in senso proprio, bensì un reato plurisoggettivo in senso improprio, perché la condotta altrui non è descritta nella fattispecie legale, come necessaria per l’esistenza del reato, ma soltanto come evento e cioè per la consumazione del reato, essendo punito solo il millantatore. 1.7. Configurazione del delitto Gli estremi della condotta del reato devono intendersi realizzati nel solo fatto di chi, vantando in modo esplicito o dando ad intendere di avere possibilità di influire sul pubblico funzionario, si faccia dare o promettere un compenso per la propria mediazione presso il medesimo funzionario. Il reato è configurabile anche quando la persona presso la quale si millanta credito venga falsamente qualificata come pubblico ufficiale, a

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meno che il privato verso cui è diretta la vanteria non sia a conoscenza dell’insussistenza della qualifica. Nel delitto di millantato credito la condotta offensiva ha ad oggetto la vanteria dell’agente di essere nelle condizioni di poter frustrare, per personale

tornaconto,

i

principi

che

presiendono

all’azione

amministrativa, ossia i principi di imparzialità, di economicità, e di buon andamento a garanzia della collettività amministrata ( artt. 54 e 97 Cost.). Il delitto di cui all’art. 346 c.p. è configurabile anche quando il credito vantato presso il pubblico ufficiale o impiegato sia effettivamente sussistente, ma venga artificiosamente magnificato e amplificato dall’agente in modo da far credere al soggetto passivo di essere in grado di influire sulle determinazioni di un pubblico funzionario, e correlativamente, di poterlo favorire nel conseguimento di preferenze e di vantaggi illeciti in cambio di un prezzo per la propria mediazione. Per la configurazione del reato di non è necessario che le persone verso cui si millanta credito siano nominativamente indicate oppure individuate mediante indicazioni fornite. Il reato di millantato credito è configurabile anche quando l’iniziativa parta dal soggetto passivo, non occorrendo che l’agente vada alla ricerca della persona alla quale offrire la sua illecita ingerenza, giacché oggetto

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specifico della tutela penale è il prestigio della pubblica amministrazione, che è comunque leso per il mercanteggiamento della pretesa influenza. Art. 346 comma 1° c.p.: tale comma sarebbe posto a protezione dell’onore, ossia qualità morali, della pubblica amministrazione. Esso identifica gli estremi della condotta offensiva che si ritengono realizzati nel solo fatto di chi, vantando in modo esplicito o dando ad intendere di avere possibilità di influire sul pubblico funzionario, si faccia dare o promettere un compenso per la propria mediazione presso il medesimo funzionario. E’ proprio il traffico di influenze reali che contiene un’offesa alla pubblica amministrazione allo stato puro. Il delitto si avrà non soltanto nel caso della vendita di fumo, ma deve considerarsi ricompreso nel delitto anche il fenomeno c.d. del compratore di arrosto, cioè l’ipotesi della raccomandazione a pagamento, ove la promessa sia stata mantenuta. Art. 346 comma 2° c.p.: l’ipotesi contenuta in tale comma è considerata come una forma circostanziata della figura delittuosa descritta nella prima parte della norma; per contro, possiede differente struttura e costituisce autonomo reato, si tratta di una vera e propria truffa.

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Tale fattispecie riguarda la condotta di chi riceve o accetta la promessa di denaro o di altra utilità col pretesto di dover comprare il favore di un pubblico ufficiale o impiegato oppure di doverlo remunerare; facendo apparire il pubblico ufficiale come persona corrotta o corruttibile. L’utilità è carpita qualora vi sia il pretesto di dover compensare il pubblico ufficiale o impiegato dell’opera svolta, allorché ciò non avvenga sussiste il diverso reato di corruzione. 1.8. Differenze tra i due commi. La differenza tra le due ipotesi di delitto non sta nell’oggettiva destinazione del denaro o dell’altra utilità data o promessa, ma nella diversa rappresentazione della destinazione delle cose che l’agente fa al soggetto passivo: nella prima ipotesi, il millantatore si fa dare o promettere denaro o altra utilità come prezzo della sua mediazione verso il pubblico ufficiale; nella seconda ipotesi egli promette la corruzione del pubblico ufficiale. Il reato si consuma, infatti, in questo secondo caso, nel momento in cui l’agente fa promettere l’utilità col pretesto di dover comperare il favore del pubblico ufficiale o impiegato.

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1.9. Elemento soggettivo Il delitto di millantato credito costituisce reato a dolo generico, non richiedendo l’art. 346 comma 1° c.p. alcun fine specifico e limitandosi esso ad esigere la volontà del fatto descritto. Il dolo consiste nella coscienza e volontà di ricevere, far dare o promettere a sé o ad altri utilità e di servirsi per tale scopo dei mezzi di persuasione. Per l’esistenza del dolo è necessaria e sufficiente la volontà di carpire il compenso mediante l’azione millantatrice; la dottrina è concorde nel ritenere che colui il quale aderisce alla millanteria, ossia il compratore di fumo, non può considerarsi concorrente nel reato e, quindi, non punibile. Occorre osservare che il dolo, come fatto palese dell’impiego del verbo millantare

da

parte

del

legislatore,

deve

corrispondere

alla

consapevolezza della idoneità della mediazione a raggiungere il risultato promesso. Nel delitto in esame il mediatore deve rappresentare anche il profilo offensivo del fatto, per cui è necessario che l’agente sappia di offendere almeno uno degli interessi protetti dalla norma incriminatrice.

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1.10. Tentativo L’art. 56 c.p. disciplina l’istituto del delitto tentato ossia: “ chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica. Se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costruiscano per sé un reato diverso. Se volontariamente impedisce l’evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà ”. Il tentativo costituisce un titolo autonomo di reato, e non una forma circostanziata del delitto consumato, infatti esso presuppone il mancato compimento dell’azione o la mancata verificazione dell’evento, e quindi un requisito negativo che, non solo non è speciale rispetto alla forma consumata, ma è addirittura incompatibile con essa. Per l’esistenza del tentativo occorrono due requisiti: che gli atti siano diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, e cioè l’univocità degli atti; e che tali atti siano idonei allo scopo, vale a dire l’idoneità degli atti. Il tentativo è punibile quando si è concretato in un’azione pericolosa, e siccome il pericolo non è altro che probabilità, il requisito stabilito dal

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codice deve considerarsi sussistente tutte le volte in cui il piano del reo, al momento in cui fu intrapreso, presentava delle probabilità di successo. Il tentativo sussiste qualora la millanteria non raggiunga il risultato prefissosi dall’agente, cioè la promissio o la datio, come nel caso di chi millantando credito presso un pubblico ufficiale ha tentato di farsi dare una somma come prezzo della propria mediazione al fine di ottenere un determinato provvedimento. 1.11. Prospettive di riforma. La fattispecie delineata nell’art. 346 comma 1° c.p. dovrebbe assumere la denominazione di traffico d’influenza, si dovrebbe espungere dalla norma l’estremo sostanziantesi nella millanteria, e volgere il modello a sanzionare il commercio d’influenza derivante da: aderenze personali; rapporti di parentela; legami associativi o derivanti dal rivestire il mediatore cariche pubbliche. Il nucleo essenziale della condotta tipica dovrebbe risultare, non più la millanteria, bensì la pattuizione di un’intermediazione di natura illecita. L’estremo della pattuizione potrebbe essere espresso mediante la formula “ chiunque riceve, fa dare o fa promettere a sé o ad altri, o accetta la promessa di utilità per esercitare o aver esercitato influenza su di un pubblico ufficiale ”.

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Un problema si pone relativamente alla descrizione della fattispecie concernente la formula con la quale definire l’oggetto dell’accordo: la vigente normativa ricorre all’espressione “ come prezzo della propria mediazione ” per indicare l’oggetto della pattuizione e per definire la controprestazione del mediatore. La prestazione del mediatore troverebbe più precisa e congrua definizione mediante la formula “ per esercitare o per aver esercitato su di un pubblico ufficiale un’influenza avvalendosi delle sue relazioni personali con questo o con un altro pubblico ufficiale ”, adottando codesta espressione la norma consentirebbe di individuare il tipo di prestazione che l’agente deve compiere o promettere di effettuare poiché l’accordo risulterebbe ancorato all’esercizio di influenza personale. La fattispecie potrebbe essere ricondotta sotto quella della truffa facendone un’aggravante specifica, ciò consentirebbe alla dottrina e alla giurisprudenza di ricondurre a questa forma di truffa aggravata i casi di effettiva millanteria di aderenze false, irreali ovvero assolutamente inidonee allo scopo per l’inesistenza del pubblico ufficiale indicato, per la sua incompetenza assoluta, o per la mancanza nel soggetto della stessa qualifica.

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Capitolo II RAPPORTO CON ALTRE FIGURE DI REATO

2.1. Annotazioni generali E’ noto che i classici italiani non facevano uso del concetto di bene giuridico per identificare l’oggetto del reato, ma parlavano di diritto soggettivo. Fu la dottrina germanica che, invece di diritto soggettivo come oggetto del reato, iniziò a parlare di bene giuridico. Tale concetto ha un rilievo di importanza scientifica al fine della classificazione dei reati. Si ritiene che la nozione di bene giuridico sia indubbiamente necessaria, ma la dogmatica attuale ha attribuito a tale concetto un’importanza molto maggiore di quello che esso effettivamente riveste, tanto più che la qualità del bene protetto indica soltanto la gravità del danno cagionato al soggetto passivo del reato, senza però che tale danno esprima tutto l’aspetto oggettivo del reato, in quanto su questo influiscono anche: le modalità dell’azione ed i mezzi adoperati; i rapporti tra il colpevole e l’offeso; la posizione del reo nella società; la natura del dovere violato; tanto più che il giudizio sull’entità del reato non spetta all’elemento

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materiale, bensì al momento soggettivo, essendo la colpa in senso lato la breccia attraverso la quale la personalità del reo è cominciata a penetrare nel diritto penale. Tale premessa è importante perché dimostra come il bene giuridico sia un criterio imprescindibile per l’interpretazione di alcune norme, e come possa essere utilmente invocato nell’interpretazione dell’art. 346 c.p.. L’oggetto specifico della tutela panale è l’interesse concernente l’onore e il prestigio della pubblica amministrazione, per salvaguardare gli uffici e i servizi pubblici dal discredito di chi mercanteggia pretese influenze presso pubblici funzionari o impiegati incaricati di pubblico servizio, facendoli falsamente apparire come corruttibili o altrimenti arrendevoli a inframmettenze illecite. Il millantato credito è uno di quei reati nei quali non vi è coincidenza tra soggetto passivo e danneggiato del reato, bisogna infatti compiere una distinzione tra soggetto passivo del reato, identificato nel titolare dell’interesse, la cui offesa costituisce l’essenza del reato, ed il danneggiato civilmente.

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2.2. Millantato credito e truffa Il reato di millantato credito e quello di truffa si differenziano sia per l’oggetto giuridico, onore e prestigio della pubblica amministrazione nel primo e patrimonio nel secondo, sia per il soggetto passivo, pubblica amministrazione nel millantato credito mentre nella truffa può essere chiunque. I due reati si distinguono anche quanto all’elemento materiale: per la sussistenza della truffa è necessario l’uso di artifizi o raggiri che possono invece mancare nel millantato credito. La Corte di Cassazione, in un primo momento, ritenne che: “ quando l’artificio consiste nel vantare aderenza presso un pubblico ufficiale e nel far credere di comprarne il favore, il titolo di truffa cede a quello di millantato credito, che si distingue dalla truffa per l’offesa alla pubblica amministrazione, che il millantato credito assorbe in sé la truffa ”, considerando il delitto di millantato credito come una speciale figura di truffa che offende, oltre al patrimonio, anche la pubblica amministrazione. Secondo tale impostazione non ricorre l’applicazione dell’art. 81 c.p., ossia la punibilità di ambedue i reati, trattandosi di un concorso di norme ai sensi dell’art. 15 c.p., costituendo il delitto di millantato credito una disposizione particolare e quello di truffa una disposizione generale, pel quale la norma speciale deroga

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quella generale di truffa, di cui all’art. 640 c.p., per cui quest’ultimo doveva cedere il posto al primo e da questo doveva essere assorbito. Successivamente la Corte di Cassazione è andata di contrario avviso, affermando che: “ il delitto di truffa può concorrere, a seconda della specie dei fatti ritenuti dal giudice di merito, con quello di millantato credito, e il primo non può essere assorbito dal secondo come elemento di reato progressivo; invero il molteplice effetto lesivo dell’azione illecita offende, con distinti mezzi, più beni giuridici, ciascuno dei quali riceve tutela da una diversa norma penale, per cui sussiste il concorso tra i reati di millantato credito e di truffa allorché siano violate contemporaneamente le predette diposizioni di legge con una sola azione ”. Secondo tale pronuncia dunque dovrebbe applicarsi l’art. 81 c.p., che prevede il concorso ideale di reati, e che riflette la pluralità di beni giuridici violati, a cui corrisponde una pluralità di distinte ed autonome infrazioni, ancorché commesse mediante un unico processo esecutivo, e non già l’art. 15 c.p., che prevede il concorso di norme giuridiche, e riflette la tutela del medesimo bene giuridico regolato da una pluralità di norme, con l’effetto che la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge generale salvo che sia altrimenti stabilito. Le argomentazioni utilizzate dalla giurisprudenza per sostenere l’ammissibilità di un concorso di reati escludono, quindi, la sussistenza di

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un concorso apparente di norme, le quali sono valide solo ove si proceda ad un giudizio di specialità in astratto, cioè valutando solo formalmente gli elementi essenziali delle due fattispecie. Diversamente, utilizzando il criterio cosiddetto di specialità in concreto, parte della dottrina esclude, nel caso di specie, la possibilità del concorso formale tra i reati in questione. Il rapporto di specialità concreta comporta non un raffronto tra le due fattispecie legali, onde individuare quella da applicare al fatto storico, ma un’analisi del fatto concreto in rapporto alle due fattispecie astratte, per stabilire se l’intero contenuto offensivo del fatto sia coperto da una sola, o necessariamente da entrambe le fattispecie. Il principio di specialità è invocabile quando un illecito comprende in sé un altro, presentando inoltre dei requisiti aggiuntivi. Nella specie, si è rilevata l’assenza di un rapporto di specialità fra millantato credito e truffa, in ordine ai quali è applicabile la regola del concorso. Secondo tale orientamento i reati di millantato credito e di truffa possono concorrere anche se la violazione consista in un’unica azione, in quanto allo specifico raggiro considerato nella fattispecie di millantato credito, consistente nelle vanterie di ingerenze o pressioni presso

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pubblici ufficiali, può accompagnarsi un atto diretto alla induzione in errore del soggetto passivo, al fine del conseguimento di un ingiusto profitto con altrui danno. È ammissibile il concorso tra i reati di millantato credito e di truffa qualora alla millanteria tipica del primo, di detti reati, si aggiungano altri comportamenti idonei a concretizzare ulteriori artifizi e raggiri suscettibili di indurre in errore la vittima, ivi compresi quelli che valgono a confermare quest’ultima nell’errore, e sempre che sussista, comunque, un rapporto di causalità fra tali comportamenti ed il verificarsi del danno, con correlativo ingiusto profitto dell’agente. Art. 15 c.p.: la maggiore difficoltà è data dall’interpretazione dell’art. 15 c.p.; iniziando una diatriba concerne il significato da attribuire all’espressione “ stessa materia ”: alcuni ritengono che tale espressione significhi identità di bene protetto, interpretazione questa che, secondo altri, sembra contrastata dalla Relazione al Re sul codice penale nella quale si osserva: “ più leggi sebbene non abbiano lo stesso identico oggetto, possono, però, regolare la stessa materia nel senso che ove questa non fosse regolata dalla legge speciale, soggiacerebbe alla disciplina della legge generale ”. L’espressione “ la stessa materia ” non è da assumersi nel senso di una perfetta identità, ma nel senso che se la legge speciale non eccettuasse

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espressamente la materia di cui si tratta, questa rientrerebbe perfettamente, e non soltanto per analogia, nella disciplina della legge generale, in questo senso, cioè con riguardo alla identità essenziale, e non anche a quella accidentale, l’espressione è usata, altresì, nell’art. 5 delle disposizioni preliminari al codice civile, ossia l’espressione predetta va intesa nel senso di medesima “ situazione di fatto ”. Proprio alla stregua della Relazione al Re, sopra riportata, si è però affermato che l’espressione “ stessa materia ” significhi identità del bene giuridico tutelato dalla legge penale, con la specificazione, fatta dal Maggiore, che per stabilire tale identità conviene rifarsi al criterio adottato dal legislatore nel determinare l’oggettività giuridica dei singoli reati e la loro classificazione, secondo il principio di prevalenza dell’interesse leso. Accogliendo tale impostazione deve rilevarsi come alcun raffronto sia possibile tra il bene che si è voluto tutelare attraverso la norma relativa al millantato credito, e quella che si è voluto tutelare attraverso la norma relativa alla truffa, ciò è tanto più vero in quanto, per aversi millantato credito, la cui oggettività giuridica è costituita dall’offesa al prestigio della pubblica amministrazione, basta la semplice promessa di denaro o di altra utilità, mentre per aversi la truffa è necessario il conseguimento

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effettivo dell’ingiusto profitto, non sembra, quindi, che possa parlarsi di concorso tra disposizioni della stessa legge nelle fattispecie contemplate agli art. 346 e 640 c.p. L’art. 15 c.p. asserisce che: “ quando un medesimo evento è compreso nel precetto di due norme diverse, quella tra di esse che ha il contenuto meno ampio, ossia specifico o speciale, prevale sull’altra che ha contenuto più ampio, ossia generico o generale ”, onde, in tal caso, l’applicazione della regola del concorso è esclusa dal principio della continenza, perché come nel più sta il meno, così nel genere si contiene la specie, per cui deve ritenersi escluso il cumulo quando, pur essendo l’evento previsto da più norme penali, alcune di queste lo prevedono come genere e altre come specie, e soltanto se l’azione mette capo ad un evento previsto come speciale da ciascuna delle norme diverse, essa si può scomporre in diversi eventi punibili. Nei delitti di millantato credito e truffa l’azione realizza un evento previsto come speciale da ciascuna delle norme diverse e, pertanto, essa si può scomporre in diversi eventi punibili, onde la sussistenza del concorso di reati. Quando la mediazione venga prospettata non soltanto con la semplice millantazione di credito, ma con un’attività più complessa, ossia con un’attività più artificiosa, e quando il pretesto di dover comprare il favore

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del pubblico ufficiale o impiegato oppure di doverlo remunerare, non consista soltanto in una falsa asserzione, il concorso tra millantato credito e truffa non può essere negato. Senz’altro le rilevanti differenze strutturali e di oggettività giuridica esistenti fra le fattispecie della truffa e del millantato credito, impediscono di considerare la seconda come forma speciale della prima agli effetti dell’applicabilità dell’ art. 15 c.p., su questo punto il parere della dottrina è concorde rilevandosi che ciò vale solo se si proceda ad un giudizio di specialità “ in astratto ”, cioè alla stregua dell’esame formale degli elementi essenziali delle due fattispecie tipiche, dovendosi in tale prospettiva rilevare che la mera eventualità del danno patrimoniale, come evento del millantato credito, esclude in modo certo la configurabilità di un rapporto di specialità “ in astratto ”. La conclusione raggiunta non muta neppure se si adotta un principio di specialità “ in concreto ”; tale criterio postula che il giudizio di assorbimento di una figura criminosa in un’altra non debba fondarsi sul formale confronto fra gli elementi costitutivi delle due tipologie di reato, onde appurare l’esistenza della fattispecie speciale ed applicarla al fatto storico, bensì sul raffronto fra il fatto storico e i due tipi di fattispecie, al fine di accertare se una di esse risulti, attraverso siffatto processo

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valutativo, coprire l’intero contenuto offensivo del fatto storico escludendo l’applicazione dell’altra. Si chiede cioè, perché possa parlarsi di concorso apparente di norme e non concorso formale di reati, che il fatto storico venga ad inquadrarsi in tutta la ampiezza del suo contenuto offensivo nel quadro della tutela penale propria di una delle fattispecie astratte in possibile concorso, talché applicata questa, possa dirsi concretamente che nessuno dei profili lesivi del fatto possa rimanere privo di sanzione. Nell’ipotesi in esame può affermarsi che il fatto storico è compiutamente assorbito in ogni suo aspetto lesivo dalla tipologia astratta del millantato credito, solo qualora si ritenga che tale fattispecie riconosca una tutela specifica del patrimonio del cosiddetto compratore di fumo, anche solo in via eventuale, solo in questa prospettiva si verrebbe a realizzare piena coincidenza, sotto il profilo offesa-tutela, fra fatto storico e fattispecie astratta; donde deriva che un giudizio di specialità fra le due tipologie di reato risulta realisticamente impossibile anche nella prospettiva di una valutazione “ in concreto ” e non solo “ in astratto ”, conseguentemente si deve concludere per il concorso formale fra i due delitti. Art. 81 c.p.: quando una sola condotta rientri nella previsione di entrambe le norme incriminatrici, deve trovare applicazione il principio

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sancito dall’art. 81 prima parte c.p., ossia il c.d. concorso formale di reati, caratterizzato dalla pluralità delle infrazioni e dei beni giuridici violati, non quello stabilito dall’art. 15 c.p., riguardante il caso in cui la tutela di uno stesso bene giuridico sia assicurata da più norme. Anche se collocati in diversi titoli del codice, i delitti in esame hanno di certo elementi in comune, ma è da respingersi la tesi che il millantato credito assorba in ogni caso la truffa. In merito alle differenze strutturali, individuabili attraverso un confronto astratto fra le due figure delittuose, si sono sollevati, in dottrina, i rilievi più disparati. Prospettandosi vari punti di divergenza tra i due nuclei di comportamento illecito nei rispettivi schemi legali, si è così contestato che alla fattispecie di millantato credito siano essenziali: gli artifici o raggiri; la induzione in errore; l’ingiusto profitto con l’altrui danno, costituenti invece estremi tipici della truffa. Non sembra, peraltro, che una differenziazione correlata all’elemento artifici o raggiri resista ad un attento esame della condotta tipica di millantato credito, di essa, l’artifizio appare requisito necessario costante, poiché l’azione del millantare credito non è altro che una menzognera vanteria di aderenze in realtà inesistenti o meno rilevanti di quanto l’agente dichiari; tale affermazione, falsa o esagerata, agisce come fattore

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condizionante del consenso del compratore di fumo, il quale dà o promette una prestazione destinata solo in apparenza a funzionare come prezzo per la mediazione illecita presso il pubblico ufficiale, o compenso per la corruzione dello stesso, mentre, nella realtà, essa servirà a locupletare il millantatore. Tale artifizio o raggiro può dirsi requisito essenziale e tipico del reato di millantato credito ed elemento specializzante rispetto alla fattispecie della truffa. Sul piano valutativo esso determina una particolare direzione dell’offesa nella quale si individua l’oggetto principale del reato. All’essenzialità dell’artifizio consegue quella dell’induzione in errore: non sembra ragionevole considerare l’ipotesi che chi

dà o promette sia

cosciente di comprare solo fumo. Maggior fondamento ha l’opinione che intravede una distinzione di materia tra i due reati, nell’elemento dell’ingiusto profitto con altrui danno, evento essenziale nella fattispecie di truffa, ritenuto, invece, meramente eventuale per la configurazione del millantato credito, su tale punto appare doverosa una precisazione, se è vero che quell’elemento è costituito da due componenti non necessariamente concorrenti, non può dubitarsi che, quel che effettivamente può mancare, nel fatto previsto

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dall’art. 346 c.p., è il solo danno patrimoniale, sussistendo sempre un ingiusto profitto per il millantatore. Analizzando le due forme, penalmente equivalenti, di realizzazione della fattispecie criminosa, costituite da una promessa o da una dazione si rileva facilmente che solo la dazione di denaro o di altra cosa avente valore patrimoniale determina un deminutio patrimonii coincidente con l’evento di truffa, non così, invece, la dazione di utilità non patrimoniale o la semplice promessa, con tale rilievo si individua in modo insuperabile il punto di assoluta non-coincidenza tra l’elemento obiettivo dei due reati. Non è esatto affermare che possa realizzarsi una fattispecie di millantato credito, senza che il millantatore procuri, a sé o ad altri, un ingiusto profitto, se è vero che la nozione di profitto ha subito, nell’interpretazione della giurisprudenza, un ampliamento tale da renderla coincidente con quella di utilità, non può dubitarsi che quel requisito sia necessario, anzi espressamente richiesto dalla norma incriminatrice, per la realizzazione del reato in esame, l’estremo dell’ingiustizia anche ristretto ai casi di profitto ottenuto sine iure e prescindendo dai mezzi di attuazione della condotta, è strettamente connesso alla circostanza che, alla conclusione del negozio, reale o obbligatorio, in cui si concreta

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l’accordo criminoso, il millantatore giunge promettendo in corrispettivo una prestazione che, per definizione, non sarà mai adempiuta. Sembra indubitabile che le espressioni: “ prezzo della mediazione e dover comprare

”,

usate

nella

formulazione

normativa,

denotino

un

concatenazione sinallagmatica tra la prestazione del compratore di fumo e quella mediatrice o corruttrice, falsamente promessa dal millantatore: rimane esclusa la configurabilità del reato quante volte la prestazione sia dovuta al venditore di fumo e costui, col millantare credito, se ne assicuri solo l’adempimento, in tal caso il denaro o l’utilità non sono in alcun modo qualificabili come prezzo o compenso trovando il loro titolo e la loro causa giuridica fuori dal pactum sceleris nel rapporto giuridico esistente tra i due soggetti. I risultati del confronto tra le note costitutive delle due figure criminose, precludono indubbiamente la possibilità di considerare, in astratto, il millantato credito come forma specifica di truffa, se la caratteristica peculiare del rapporto da species a genus è che la fattispecie speciale contiene, come suoi elementi essenziali, tutti gli elementi di quella generale, ed in più alcuni elementi specializzanti, la mera eventualità del danno patrimoniale, elemento essenziale del reato di truffa, come evento

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di millantato credito, esclude in modo certo la configurabilità di un rapporto di specialità in astratto.

2.3. Sviluppo di principi Il danno patrimoniale, se conseguito ad una condotta di millantato credito, sembrerebbe così coperto solo dalla tutela concessa dall’art. 640 c.p., onde si dovrebbe risolvere la confluenza delle due norme nei confronti del medesimo accadimento, nel senso del concorso formale eterogeneo di reati, se non che l’elaborazione dottrinale della norma risultante dall’art. 15 c.p., ha portato ad un progressivo sviluppo del principio ivi contenuto. Una prima dilatazione si è attuata con l’interpretazione dell’inciso “ stessa materia ” nel senso di “ stessa situazione di fatto ”, svincolando così la specialità dall’insostenibile concatenazione al medesimo bene giuridico. Un secondo e definitivo ampliamento si è affermato con la relativa necessità di un confronto in concreto, al fuori del quale quell’inciso apparirebbe una mera superfetazione. La recente dottrina, attraverso un accurato e rigoroso esame dell’art. 15 c.p., ha così intravisto, in quella norma, l’affermazione di un principio di specialità c.d. in concreto o lato sensu; si è negato che la sostanza del

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fenomeno di assorbimento di una figura criminosa nell’altra, sia connessa ad un confronto instaurato in astratto tra gli elementi figuranti nello schema descrittivo, che consenta a priori la individuazione di una norma speciale, unica applicabile, la comparazione verrebbe invece operata passando

attraverso

l’esame

dell’accadimento

concreto,

e

cioè

raffrontando una fattispecie astratta e talune ipotesi concrete di altra fattispecie, e concludendo per la sussistenza di un rapporto di specialità tutte le volte che la prima sia in una di esse pienamente ricompresa, sempre che possa dirsi, sul piano valutativo, che una sola norma contenga l’intero contenuto offensivo del fatto storico. Contenuto nei limiti derivanti da quest’ultima precisazione, tale indirizzo sembra pienamente accettabile, tanto sul piano teorico, per il suo stretto legame con la più coerente esegesi dell’art. 15 c.p., quanto sul piano pratico, realizzando pienamente l’esigenza fondamentale del ne bis in idem sostanziale, principio in base al quale: “ nessuno può essere punito più volte per il medesimo contenuto sostanziale di illecito ”. E’ veramente significativo notare come i risultati cui esso porta sono spesso patrocinati dagli stessi assertori del principio opposto, i quali finiscono per propugnare soluzioni di assorbimento insostenibili in termini di astratta specialità, che non comporta l’inapplicabilità dell’art. 15 c.p., e l’inevitabile

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sconfinamento nel campo del concorso formale di reati, attesa la riconoscibilità della tutela del patrimonio del compratore di fumo, se pur, in via eventuale, anche nella sfera di operatività dell’art. 346 c.p., infatti, quante volte la condotta di millantato credito sia causativa anche di un danno patrimoniale, la confluenza di detta norma con quella contenuta nell’art. 640 c.p., nei confronti del medesimo fatto storico, si può risolvere, sempre sulla base dell’art. 15 c.p., attraverso un confronto in concreto, il quale consente, per la ricorrenza di tutte le note costitutive della truffa nella concreta fattispecie di millantato credito, e per la duplice protezione riscontrabile nella ratio incriminatrice dell’art. 346 c.p., una diagnosi di unicità del disvalore giuridico del fatto, onde sarà applicabile tale norma. Sussiste una difficoltà per la precisazione di un esatto criterio giuridico per stabilire quando il concorso tra il millantato credito e la truffa ricorra; decisiva è la nozione di millanteria del’art. 346 con riferimento a quella d’induzione in errore con artifizi o raggiri dell’art. 640, come detto, millantare significa vantare, rappresentare a taluno influenze sul pubblico ufficiale con l’intenzione di indurlo a dare o promettere denaro o altra utilità, tali vanterie possono essere infondate o fondate.

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Se le vanterie, invece, sono fondate del pari sussiste il millantato credito, non venendo meno l’offesa alla pubblica amministrazione, cioè il discredito dei suoi appartenenti che invece appaiono più facilmente corruttibili. In tal caso va esclusa la truffa mancando l’inganno con artifizi o raggiri in quanto le vanterie, proprio perché fondate, non possono ritenersi né raggiri né è esatto che, il mero silenzio del millantatore circa la sua intenzione di lucro costituisca induzione in errore di altri, questa, secondo la più autorevole dottrina, nella truffa si esteriorizza e ciò non ricorre nella mera esposizione di vanterie fondate, né può parlarsi di menzogna, la quale consiste in un’affermazione non vera fatta dall’altra parte scientemente, perché chi tace non afferma cosa non vera, né infine appare applicabile al caso la severa giurisprudenza, affermatasi in materia di truffa, fondata sull’allegato obbligo del soggetto attivo di riferire all’altra parte circostanze determinanti il suo comportamento ad arte taciute. 2.4. Elemento soggettivo Su tale punto si rileva che il silenzio riguarda il dolo dell’agente e non già elementi di fatto che detta giurisprudenza, la quale è criticata dalla prevalente dottrina, rappresenta uno sforzo diretto a colmare la formula

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insufficiente dell’art. 640 relativamente alla punizione di maliziose forme di frode. Nel caso prospettato sussiste il delitto previsto dall’art. 346 che, se anche non è una forma particolare di truffa, ha molti elementi e lati comuni, il cosiddetto soggetto passivo, anche nella situazione prospettata è pur sempre una persona deprecabile perché vuole la corruzione del pubblico ufficiale. La tesi sostenuta che nega il concorso tra il delitto di millantato credito e la truffa va affermata anche per l’ipotesi prevista del cpv. dell’art. 346 che parla di: “ pretesto del millantatore ”, secondo molti il pretesto rileverebbe la simulazione e quindi la truffa, altri ritengono che la parola “ pretesto ” non indica necessariamente l’allegazione di un fatto non vero, una millanteria infondata, ma può esprimere anche l’allegazione di un fatto vero, come le influenze fondate, non sinceramente o non validamente invocate, in tale caso le vanterie non costituiscono raggiri perché non vi è inganno né il dolo si esteriorizza. Il dolo viene accertato per il successivo comportamento dell’agente, ossia per l’accertamento della mancata esecuzione di ciò che egli millantando ha concordato con l’aderente, pertanto in tal caso la parola suddetta ha

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riferimento propriamente all’azione delittuosa già consumata e non rileva la necessità dell’esteriorizzazione del dolo. 2.5. Millantato credito e corruzione Va posta in evidenza la stretta relazione che vi è tra l’art. 346 e i delitti di corruzione , previsti dagli art. 318 e segg., tentati o consumati. Il punto di vista si sposta dalla problematica del concorso formale di reati a quella del concorso reale, potendosi ipotizzare una condotta di corruzione che si innesti su quella originaria di millantato credito. In dottrina si è affermato che l’ammissibilità di un concorso reale fra i due delitti è manifestamente aberrante, e l’osservazione appare ineccepibile sul piano della giustizia sostanziale specie se riferita all’ipotesi del secondo capoverso, che ancora una volta appare distinta ed autonoma rispetto al primo comma. Il rapporto fra millantato credito e corruzione riguarda anche la fattispecie del primo comma, perché le pur rilevanti considerazioni di giustizia sostanziale non esimono dall’analisi esegetico e dogmatica degli istituti non potendosi non tener distinti i due livelli, ossia quello equitativo e quello di stretto diritto, in un campo, quale quello penale, regolato dal rigido principio di stretta legalità.

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Sorge, allora, l’esigenza di determinare con esattezza le ipotesi che possono realizzarsi e la conseguente possibile regolamentazione. La prima ipotesi può aversi allorché due soggetti si accordino affinché uno assuma, dietro compenso, il compito di entrare in contatto con il pubblico funzionario e, quindi, di ottenere determinati favori attraverso una condotta, non di sola “ pressione ” o “ influenza ”, ma di precisa cointeressenza dell’organo pubblico, cioè di corruzione; in questo primo caso, appare chiaro che non può parlarsi di concorso reale fra millantato credito e corruzione, poiché, preliminarmente, si è in presenza di un’azione unitaria ed inscindibile sia sul piano oggettivo che su quello soggettivo, essendo l’azione dei due soggetti indirizzata ad un unico ed esclusivo fine che è quello tipico della corruzione. Nell’ipotesi vengono a mancare gli estremi tipici della condotta di millantato credito giacché non solo manca il requisito essenziale del “ pretesto ” richiesto dal comma 2° dell’art. 346 c.p. quale centro focale dell’imputazione, ma manca, anche, il mercato di indebite influenze configurato dal comma 1° di detto articolo, poiché l’intermediario non “ fa mercato ” della propria indebita mediazione, ma bensì di una precisa azione corruttrice rispetto al funzionario, ed è chiaro che sussiste un’antinomia logica fra la “ pressione ” e la “ corruzione ” anche se non può

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negarsi che la prima sì può porre spesso come presupposto della seconda. In tale prima ipotesi pertanto i due soggetti risponderanno in concorso di corruzione, cioè dell’unica azione delittuosa realizzata pienamente. In diversa ipotesi, sorgono invece i problemi più sopra prospettati: può, infatti, darsi che il cosiddetto millantatore agisca esclusivamente con lo scopo di “ spillare quattrini ” al privato col pretesto, assolutamente falso, di dover corrompere il pubblico funzionario, ovvero con la perfetta convinzione di non avere credito presso lo stesso, o comunque di non porre in essere la mediazione, ma, appena perfetto l’accordo con il privato ed a sua insaputa, intervenga presso il pubblico funzionario e giunga a corromperlo onde compiacere l’interessato per fini di ulteriore lucro o per evitare le conseguenze di una possibile denuncia. Nei due casi, da ultimo riportati, risulta evidente che ci si trova di fronte ad una tipica ipotesi di concorso materiale eterogeneo di reati, poiché il soggetto agente pone in essere la condotta qualificabile come corruzione allorché la condotta di millantato credito è già perfetta e consumata, donde l’estrema difficoltà per l’interprete di veder operante una sola delle due norme, e in più, precisamente, quella che configura la corruzione.

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La difficoltà sorge poiché non si possono applicare, alla detta ipotesi, la tipica forma normativa diretta ad unificare più azioni diverse in un’unica fattispecie che le ricomprende necessariamente, e cioè, la forma del “ reato complesso ”, non è consentito ravvisare l’esistenza di un’unità normativa di reato, nonostante il configurarsi di un apparente concorso materiale eterogeneo, come è nelle forme classiche di “ alternative Mischegesetze ”. Infatti, l’applicabilità dell’art. 81 c.p. è esclusa dal fatto che, la pur articolata normativa sulla corruzione non prevede come elemento costitutivo o circostanza aggravante, di tale delitto, nessuno degli specifici elementi costitutivi del delitto di cui all’art. 346 comma 1° e cpv. Non può, infine, vedersi operante rispetto ai detti titoli di reato una forma di alternative Mischgesetze poiché le due norme, lungi dal configurare solo diverse modalità di realizzazione di un identico tipo di delittuoso, realizzano, al contrario, due tipi di illecito autonomi e distinti sia in relazione ai soggetti, infatti la corruzione è un reato proprio del pubblico ufficiale, sia in relazione alle modalità essenziali delle condotte, essendo la

corruzione

tipico

reato

dell’intraneo

rispetto

alla

pubblica

amministrazione, e il millantato credito, invece, reato dell’estraneo rispetto alla pubblica amministrazione; quindi, impossibile raggiungere

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una soluzione soddisfacente con riferimento ad una specifica disposizione normativa. Si deve, da ultimo, verificare se la problematica, sopra esposta, possa trarre motivi di chiarificazione nell’ambito delle tesi dottrinali che tendono ad applicare il principio del concorso apparente di norme per escludere l’applicabilità delle regole sul concorso materiale di reati, oltre che quelle sul concorso ideale, ossia le teorie rivolte ad inquadrare il fenomeno della pluralità di fattispecie concrete, non realizzate con una sola azione ed apparentemente integrative di più fattispecie legali, nella prospettiva dogmatica ed interpretativa della “ progressione criminosa ” e del cosiddetto “ antefatto non punibile ”. “Progressione criminosa ed antefatto non punibile ” presentano elementi comuni ed elementi differenziali: comuni sono senz’altro l’identità del soggetto attivo, autore delle varie azioni, del soggetto passivo e dell’interesse leso, nonché la contestualità delle condotte; l’elemento differenziale si ravvisa, invece, nell’essere il fatto antecedente assunto come non punibile essendo in rapporto di mezzo a fine rispetto al fatto punibile, mentre ciò non si verifica nella progressione criminosa, dove si attua il passaggio da un’azione lesiva meno grave ad una più grave dello stesso interesse tutelato, attraverso più risoluzioni successive non legate rispettivamente da una relazione di mezzo a fine.

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Proprio l’esistenza di tali elementi, e particolarmente l’esistenza di una dinamica che pone uno dei fatti, concretamente considerato in posizione vicaria rispetto ad un altro, ovvero fa evolvere più fatti progressivamente secondo una linea unitaria di approfondimento dell’offesa ad un identico bene giuridico, hanno portato la dottrina a vedere applicabile, nelle ipotesi del c.d. “ antefatto non punibile o di progressione criminosa ” il principio di specialità in concreto, giungendo a ritenere applicabile una sola norma repressiva capace di assorbire unitariamente tutto il complessivo disvalore penale delle condotte poste in essere dall’autore. Le impostazioni dottrinali proponendo l’applicabilità in concreto, cioè con riferimento alla fattispecie reale e non al modello legale, del principio di specialità anche all’ipotesi del concorso materiale di reati, possono portare al risultato per cui l’agente, il quale prima compia una condotta di millantato credito e poi realizzi la corruzione del pubblico ufficiale, sia inquadrabile nelle categorie del c.d. “ antefatto non punibile o della progressione criminosa ”. Sul piano di un giudizio in concreto non può negarsi l’esistenza in tale fattispecie dei due requisiti di fondo comuni tanto all’antefatto non punibile che alla progressione criminosa e cioè: l’identità del soggetto attivo, l’autore del millantato credito prima e della corruzione poi,

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l’identità del soggetto passivo, la pubblica amministrazione, e l’interesse leso, l’imparzialità e probità del rapporto amministrativo. Restano due ostacoli da superare per giungere ad una soluzione positiva in tal senso: nella fattispecie proposta in via di ipotesi non può ravvisarsi fra le due condotte quel rapporto di mezzo a fine che è proprio ed essenziale dell’antefatto non punibile, infatti, è chiaro che la condotta di millantato credito non costituisce un mezzo necessario per giungere a realizzare la corruzione del pubblico ufficiale, anzi, in realtà, può verificarsi il contrario, ossia che la corruzione dell’impiegato rappresenti il mezzo necessario perché il millantatore possa realizzare l’illecita mediazione promessa al cliente. In ogni caso fra le due condotte viene a sussistere un nesso non teleologico, ma solo occasionale. Al contrario, l’ipotesi si avvicina maggiormente alla forma della progressione criminosa poiché c’è un susseguirsi di determinazioni successive che portano a condotte le quali progressivamente giungono a livelli di offesa sempre più gravi dell’identico bene giuridico. Il millantatore in tale prospettiva: prima si determina all’indebito mercato di influenze, poi dirige la propria azione alla corruzione del pubblico funzionario, giungendo a passare dall’esposizione a pericolo della

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imparzialità e probità della pubblica amministrazione alla reale lesione di detti beni giuridici. Anche questa soluzione, che appare l’unica possibile, si palesa problematica sia sotto il profilo sistematico della operatività della c.d. “ progressione criminosa ”, sia sotto il profilo interpretativo della esistenza della reale contestualità fra millantato credito e corruzione come è richiesto per la configurabilità della detta progressione. Per quanto riguarda il primo profilo, va ricordato che non possono rimanere prive di rilievo le impostazioni che non riconoscono efficacia legale alla progressione criminosa nelle ipotesi create a livello dottrinale, salvo che non si rientri nella previsione esplicita del diritto positivo, ovverosia che si tratti di forme di reato progressivo accolte dall’ordinamento penale, e pertanto il problema implica un riferimento alla varia e controversa problematica di carattere generale, esulante dalla presente trattazione. Per quanto riguarda il secondo profilo, si deve notare che, pur presentandosi la contestualità delle condotte quale elemento comune tanto all’antefatto non punibile quanto alla progressione criminosa, nella seconda forma essa si presenta possibile in un’interpretazione più rigorosa: infatti negli esempi tipici che la dottrina enuclea: passaggio dalle

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percosse alla lesione; dal rifiuto di declinare le generalità personali all’attestazione di dati falsi, si rileva l’esistenza di azioni legate da uno stretto nesso di successione temporale tale da essere funzionale alla progressiva ma unitaria lesione crescente del bene tutelato. Ciò, in realtà, può non accadere per il rapporto fra millantato credito e corruzione, quando fra i due fatti sussista un apprezzabile lasso di tempo, mentre potrebbe verificarsi, in concreto, solo allorché il millantatore, conscio dell’assoluta insufficienza delle proprie relazioni e della immediata reazione del cliente, appena raggiunto l’accordo con quest’ultimo passi, senza por tempo in mezzo, a corrompere il pubblico funzionario interessato alla pratica. In tal caso la contestualità delle due condotte non pare negabile, si sottolinea che l’ipotesi è possibile, ma non estremamente probabile. Ciò posto, alla luce della più recente normativa sul reato continuato, l. 7 giugno 1974, n. 220, l’ipotesi in esame deve rientrare nella nuova struttura dell’art. 81 c.p., trattandosi senz’altro di più azioni compiute in esecuzione di un unico disegno criminoso e non essendo più necessario che esse violino la stessa disposizione di legge. Le parole “ comprare il favore e remunerazione ”, scritte nel cpv. dell’art. 346, hanno rispettivamente riferimento alla corruzione propria e a quella

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impropria, per cui la figura in esame può essere correttamente indicata come “ millantato credito corruttivo ”, e chi aderisce alla millanteria dando o promettendo può anche essere ritenuto responsabile del delitto di corruzione poscia commesso dal millantatore. Questi può consumare sia il delitto previsto nell’art. 346 ricevendo il denaro o l’utilità od accettandone la promessa, sia poi - in esecuzione della istigazione di chi ha dato o promesso - esercitare, con altri mezzi, successivamente l’azione corruttrice presso il pubblico ufficiale. Ciò mostra quanto sia semplicistico ed erroneo considerare l’aderente in ogni caso una mera parte offesa e, in tale situazione, deve decidersi se il millantatore debba rispondere solo del delitto di corruzione o se anche tale delitto concorra con quello di millantato credito, per cui esatta è la soluzione del concorso. L’elemento che distingue il millantato credito da una possibile intermediazione corruttiva e, dunque, da una forma di corruzione attiva, è il “ pretesto ”, infatti esso è la falsa causa che l’agente adduce con l’intento di ingannare il compratore di fumo e spingerlo ad una prestazione che questi, al contrario, non farebbe, esso ha un substrato di inganno, non ha importanza la forma del pretesto, che può essere velato anche sotto l’aspetto di suggerimento di opportunità, esso può

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consistere, anche, nella falsa affermazione che la prestazione del pubblico ufficiale sia già avvenuta, ma abbisogni di retribuzione. Il mediatore corruttivo è punito solo se non intendeva affatto corrompere il pubblico ufficiale, se invece aveva davvero intenzione di corromperlo, ma poi non ne ha fatto nulla, non può essere punito né come millantatore corruttivo, perché non ne è adempiuta la fattispecie, né come istigatore alla corruzione passiva, perché vi osta l’art. 115 c.p., per cui in tale condizione il legislatore dovrebbe incriminare autonomamente l’intermediazione corruttiva. La Corte di Cassazione ha ritenuto che: “ la natura bilaterale del reato di corruzione, e la conseguente responsabilità sia di chi accetta sia di chi paga, impedisce che possa tenersi conto della tenuità della somma versata, in quanto la lesione giuridica prodotta dal reato attiene al prestigio e all’interesse della pubblica amministrazione, indipendentemente da qualsiasi riflesso patrimoniale ”. Nel reato di corruzione i rapporti tra chi dà e chi riceve sono diretti, onde, nel caso di un dono di cortesia, chi dà sa benissimo che da quel dono non può dipendere l’attività, in un senso o nell’altro, del pubblico ufficiale e non può esservi discredito della pubblica amministrazione; nel reato di millantato credito tra chi dà o promette ed il pubblico ufficiale non vi è alcun rapporto, onde, anche chi dà o promette tenue cosa, può

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essere indotto a pensare che quella tenue cosa costituisca il mezzo per ottenere anche ciò cui si ha diritto. Non può parlarsi di specialità, non prevista dalla legge, o anche di assorbimento o composizione, non comprendendo le figure della corruzione degli elementi del millantato credito, è vero che tutti i detti delitti in esame proteggono interessi della pubblica amministrazione ma i loro elementi costitutivi sono diversi e collocati in capi diversi del titolo secondo, anzi il concorso può essere solo materiale e non formale perché manca l’estremo del medesimo fatto, da taluni ritenuto presupposto indispensabile del concorso apparente, con una sola azione non possono commettersi il delitto di millantato credito e quelli di corruzione e questi, salvo l’ipotesi dell’art. 322, richiedono un accordo con il pubblico ufficiale, elemento del tutto estraneo all’art. 346. 2.6. Millantato credito e millantato credito del patrocinatore Il millantato credito del patrocinatore ha carattere speciale rispetto al reato di millantato credito corruttivo previsto dall’art. 346 2° comma c.p., onde prevale su quest’ultimo ai sensi dell’art. 15 c.p. in quanto costituisce una species appartenente al medesimo genus. Elementi specializzanti della fattispecie prevista dall’art. 382 c.p. sono la qualifica del patrocinatore come soggetto attivo del reato, nonché l’essere

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la condotta di millanteria commessa ai danni del giudice o del pubblico ministero che deve concludere, ovvero del testimone, perito o interprete. Il bene giuridico tutelato dalla norma è individuato nel prestigio dell’amministrazione della giustizia, nonché nell’interesse del cliente del patrocinatore, che è vittima dell’inganno da questi posto in essere. L’espressa menzione della condotta di millanteria contenuta nell’art. 382 c.p. rappresenta un elemento che rafforza la dimensione ingannatoria, che caratterizza la fattispecie, eliminando un problema che si pone, invece, rispetto all’art. 346 comma 2° c.p., poiché in esso manca la menzione tipicizzante della truffa che il patrocinatore consuma ai danni del cliente. Tale truffa si realizza con una condotta che getta discredito sull’amministrazione della giustizia in generale, oltre che sui soggetti nei confronti dei quali il credito viene millantato, poiché essi sono falsamente presentati come persone corruttibili. Un ruolo non secondario è svolto dal soggetto, che è vittima dell’inganno, in quanto la norma tutela anche il patrimonio di tale soggetto, quando il danno ha contenuto patrimoniale, e comunque la sua libertà di autodeterminazione. Alla persona ingannata non potrà dunque disconoscersi la qualifica di soggetto passivo del reato.

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Qualora la persona nei confronti della quale viene millantato il credito sia specificatamente indicata, alla stessa potrà essere attribuita la qualità di danneggiato, ma non già di soggetto passivo del reato, poiché la fattispecie non prevede quale elemento costitutivo che la millanteria riguardi una persona compiutamente individuata; con tale affermazione è concorde anche la giurisprudenza. L’art. 382 c.p. configura un reato proprio che può essere commesso solo dal patrocinatore; per indicare colui che dà o promette il denaro o altra utilità al soggetto attivo, il legislatore ha utilizzato l’espressione “ suo cliente ”, che appare indicativa di un rapporto professionale in atto del patrocinatore. Il cliente non è mai punibile, il tenore letterale dell’art. 382 c.p., prevedendo in termini inequivocabili la punibilità del solo patrocinatore, configurando un reato plurisoggettivo improprio. Secondo la prevalente dottrina il reato presuppone che sussista un procedimento in atto dinanzi all’Autorità giudiziaria, in quanto la fattispecie fa riferimento, per indicare i destinatari della condotta di millanteria, a qualifiche soggettive come giudice e pubblico ministero, che implicano tale presupposto.

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Ma il tenore letterale della norma non esclude casi in cui il procedimento non sia stato ancora instaurato, tanto più che la norma non richiede che la persona, nei confronti della quale si pone in essere la millanteria, sia nominativamente individuata, potendo essere addirittura inesistente. La millanteria può essere anche implicita: la recente giurisprudenza, in una sentenza del 2002, ha espresso che: “ è sufficiente ad integrare il reato la millanteria implicita, ovvero che l’agente prospetti la corruttibilità o l’avvenuta corruzione del magistrato, senza che sia stato richiesto il requisito della vanteria esplicita di una propria pretesa influenza su di lui ”.

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Capitolo III

Berlusconi, Saccà e la Rai: a Napoli esplode il caso delle intercettazioni 3.1. L’Espresso pubblica le intercettazioni di Saccà e il Premier Il settimanale “ l’Espresso ” ha pubblicato le intercettazioni dell’inchiesta dei magistrati di Napoli, cha ha avuto inizio nel dicembre dello scorso anno, fra il direttore della Rai Fiction, Agostino Saccà, e l’allora capo dell’opposizione Silvio Berlusconi. La Procura registrò alcune chiamate ove il “ Cavaliere ” segnalava al dirigente Rai delle attrici che dovevano lavorare nei vari programmi. La richiesta di rinvio a giudizio di Berlusconi è legata alla sua duplice veste di leader politico e di maggiore imprenditore italiano nel settore televisivo. Stando alle intercettazioni egli promise al direttore di Rai Fiction il sostegno economico per alcune iniziative private che quest’ultimo doveva intraprendere; in cambio Agostino Saccà doveva favorire politici anti-Prodi, tra i quali vi era, anche, la moglie del senatore di centrosinistra Willer Bordon, ovvero Rosa Ferraiolo, nonché il produttore Guido De

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Angelis ed infine Giancarlo Innocenzi, membro dell’Autorità Garante delle telecomunicazioni ed ex dirigente Mediaset. Saccà rassegnò le dimissioni dopo essere stato indagato per favoreggiamento, mentre il Cavaliere fu indagato per il delitto di millantato credito. Le accuse sono state pronunciate dopo l’ascolto della conversazione tra Giancarlo Innocenzi ed il Premier ove venivano richiesti contratti e contratti quadro con l’azienda Mediaset, in modo da favorire il produttore Guido De Angelis. Innocenzi doveva far in modo che alcuni Senatori di centrosinistra facessero cadere il Governo Prodi. Nelle

intercettazioni

riguardanti

Berlusconi

vi

sarebbero

raccomandazioni affinché Saccà faccia almeno una telefonata di interessamento ad Antonella Troise; altre segnalazioni, rivolte dal Cavaliere a De Angelis, riguardavano Evelina Manna, Elena Russo, Camilla Ferranti ed Eleonora Gaggioli: alcune di queste hanno avuto buon esito. Il senatore Willer Bordon raccomanda a De Angelis sua moglie, Rosa Ferraiolo, per la fiction “ Incantesimo ”, ma Fabrizio Del Noce non procede per problemi di costi.

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Saccà teme che il direttore di Rai Uno possa raccontare la vicenda sospettando un traffico di illeciti. L’ex senatore smentisce ogni addebito ed annuncia querele per chi metta in dubbio la sua onorabilità. Il sindaco di Milano, Letizia Moratti, raccomanda Luciana Barazzoni, moglie di Paolo Ghiesenti, ma il provino va male; Saccà afferma di aver fatto il possibile per il buon esito del provino ma, sottolinea, che non spetta a lui l’intera decisione. Il presidente di Mediaset, Fedele Confalonieri, raccomanda l’attrice Simona Borioni per la fiction “ Il bene e il male ”. Gianni Letta raccomanda la vedova di Renato Rascel, Giuditta Saltarini, per un provino ad “ Un posto al sole ”. Saccà chiede al produttore, Roberto Sessa, se può inserire il giornalista Ruggero Marino come scrittore e consulente della sceneggiatura del “ Terremoto di Messina ”: Saccà chiama Letta per informarlo del buon esito della richiesta a lui fattagli. Il consigliere della Rai Gennaro Malgieri chiama per raccomandare la società di Gabriella Bontempo, moglie di Italo Bocchino.

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Il presidente Claudio Petruccioli si raccomanda che la fiction “ Il capitano” vada in onda il giovedì come richiesto dal comando della Guardia di Finanza. Una serie di triangolazioni telefoniche tra Saccà, Berlusconi e Gianni Minoli sponsorizzano quest’ultimo come nuovo direttore generale Rai. Saccà deve rispondere delle contestazioni e dell’atto di accusa della Rai, contenuto in due lettere del dicembre 2007 e marzo 2008, firmate dal direttore generale Cappon, ed è accusato di aver agito in grave violazione degli obblighi discendenti dal suo rapporto di lavoro, ponendosi quale assuntore di iniziative riferibili e funzionali agli interessi, non della Rai, ma di Berlusconi e del suo movimento politico. 3.2. Limitazione delle intercettazioni Dopo le pubblicazioni da parte dell’ “ Espresso ” di conversazioni ritenute dai pm di Napoli compromettenti, il Premier è stato accusato di millantato credito; tale accusa, successivamente, è confluita nel reato di corruzione. Berlusconi sosteneva che la legge la quale regola le intercettazioni dovesse essere modificata, vietando le richieste dei magistrati per i reati ritenuti minori, quali i delitti contro la pubblica amministrazione.

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Inoltre il Premier auspicava che il provvedimento per l’autorizzazione all’intercettazione contenesse l’elenco dei reati ritenuti più gravi fra i quali associazione a delinquere, terrorismo e pedofilia. La modifica della legge è appoggiata da entrambi gli schieramenti politici ritenendosi le intercettazioni attualmente un costo insostenibile per la Procura, e rendendosi necessaria la redazione dell’emendamento ipso facto, ma mantenendone la possibilità di utilizzo per i delitti di corruzione e concussione. Il problema a cui dare risoluzione rimane l’utilizzazione delle intercettazione che coinvolgono terze persone, le quali sono escluse dall’inchiesta intrapresa dai magistrati. Il

Ministro

di

Grazia

e

Giustizia,

Alfano,

promuove

una

razionalizzazione di dette intercettazioni, per garantire l’anonimato a tali persone, mediante lo stralcio dagli archivi dell’inchiesta delle conversazioni ritenute ininfluenti riguardanti terze persone, e un inasprimento contestuale delle sanzioni contro le divulgazioni di informazioni riservate.

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3.3. La norma “ blocca processi ” emendamento inserito nel decreto legge sulla sicurezza E’ stato approvato l’emendamento “ blocca processi ” inserito nell’art. 2-bis del decreto legge n. 92 del 2008 che dispone: “ al fine di assicurare la priorità assoluta alla trattazione dei procedimenti, di cui all’articolo 132-bis del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, nonché nei procedimenti da celebrarsi con giudizio direttissimo e con giudizio immediato, i processi penali relativi a fatti commessi fino al 30 giugno 2002, che si trovino in uno stato compreso tra la fissazione dell’udienza preliminare e la chiusura del dibattimento di primo grado, sono immediatamente sospesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto della durata di un anno. In caso di pluralità di reati contestati, si ha riguardo alla data dell’ultimo reato. La prescrizione rimane sospesa durante la sospensione del procedimento o del processo penale, essa riprende il suo corso dal giorno in cui è cessata la sospensione. La comunicazione della sospensione del processo con l’eventuale indicazione della nuova data d’udienza è notificata con le modalità di cui all’articolo 148, comma 2bis, del codice di procedura penale, ai difensori delle parti e al pubblico ministero. La parte civile costituita può trasferire l’azione in sede civile, in tal caso i termini a comparire, di cui all’articolo 163-bis del codice di procedura civile, sono abbreviati

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fino alla metà, ed il giudice fissa l’ordine di trattazione delle cause dando precedenza al processo relativo all’azione trasferita. La sospensione non opera nei procedimenti relativi ai delitti, di cui agli articoli 51, commi 3-bis e 3-quater, e 407, comma 2 lettera a, del codice di procedura penale, ai delitti di criminalità organizzata, ai delitti puniti con la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a dieci anni determinata a norma dell’articolo 4 del codice di procedura penale, ai reati commessi in violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e, in ogni caso, ai procedimenti con imputati detenuti, anche per reato diverso da quello per cui si procede. Al fine di assicurare la priorità assoluta alla trattazione dei procedimenti di cui al comma 1, il Presidente del Tribunale può sospendere i processi, quando i reati in essi contestati sono prossimi alla prescrizione e la pena eventualmente da infliggere non sarebbe eseguibile ai sensi della legge 31 luglio 2006, n. 241. L’imputato può richiedere al Presidente del Tribunale di non sospendere il processo. Il Presidente del Tribunale, valutate le ragioni della richiesta, le esigenze dell’ufficio e lo stato del processo,può provvedere con ordinanza notificata con le modalità di cui al comma 3. L’imputato o il suo difensore, munito di procura speciale, e il pubblico ministero possono formulare la richiesta di cui all’articolo 444 del codice di procedura penale entro tre giorni dalla notifica di cui al comma 3 o nella prima udienza utile successiva

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alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, anche nei processi dei quali, alla data di entrata in vigore della presente legge, risulti decorso il termine previsto dall’articolo 446 comma 1 del codice di procedura penale e sino alla dichiarazione di chiusura del dibattimento. La richiesta può essere anche quando sia stata già presentata nel corso del procedimento, ma vi sia stato il dissenso da parte del pubblico ministero ovvero sia stata rigettata dal giudice, e sempre che la nuova richiesta non costituisca mera riproposizione della precedente ”. 3.4. L’opposizione non è concorde sull’emendamento Sotto il profilo procedimentale l’emendamento in questione non rientra negli scopi che hanno indotto il Governo ad adottare il decreto legge sicurezza, i quali vengono esplicitamente identificati con l’apprestamento di un quadro normativo più efficiente per contrastare fenomeni di illegalità diffusa collegati all’immigrazione clandestina ed alla criminalità organizzata oltre che per tutelare la sicurezza della circolazione stradale e quella sul posto di lavoro, in relazione all’incremento degli incidenti e delle relative vittime. L’estraneità dell’emendamento agli scopi del decreto sicurezza è in contrasto con l’articolo 77, comma 2 Cost.; avendo la Corte Costituzionale statuito che la mancanza del requisito della straordinarietà

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ed urgenza vizia il decreto legge e la relativa legge di conversione, (Cort. Cost. sen. n. 171 del 2006, b), è viziato pertanto l’emendamento in conferente con le finalità del decreto legge, conseguentemente privo di tale requisito, (Cort. Cost. sen. n. 128 del 2008). L’emendamento in questione, inoltre, è in contrasto con l’articolo 112 Cost., il quale sancisce l’obbligo dell’azione penale, posto che il suo venire meno altererebbe l’assetto complessivo, affermazione sostenuta anche dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 88 del 1991. 3.5. Modificazione dell’emendamento Si è resa necessaria una modifica promossa anche dall’Associazione nazionale dei magistrati. Il governo ha presentato due emendamenti che modificano radicalmente la cosiddetta norma “ blocca processi ”, contenuta nel decreto sicurezza, in fase di conversione alla Camera dei Deputati. Il testo, nella nuova formulazione, prevede che non vi sia più nessuna sospensione dei processi, ma solo un rinvio fino a 18 mesi di quelli aventi minore priorità. La nuova norma introdotta nel decreto sicurezza prevede che i capi degli uffici giudiziari, nelle valutazioni sulla formazioni dei ruoli di udienza,

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dovranno tener conto delle priorità indicate nella direttiva di carattere generale introdotta nell’emendamento. I dirigenti dovranno svolgere le sopradette valutazioni limitatamente ai procedimenti che prevedono pene inferiori a 4 anni, mentre per quelle relative a reati di maggiore gravità, il governo ha mantenuto la priorità. La sospensione della prescrizione non è stata modificata nei casi di rinvio e quindi non c’è nessun danno per la persona offesa, la quale potrà trasferire l’azione in sede civile con riduzione dei tempi del processo. 3.6. Annotazioni personali A parere della esponente, il reato di millantato credito contestato al Premier sembrerebbe integrato; infatti, secondo quanto emerge dalle intercettazioni pervenute alla Procura di Napoli Silvio Berlusconi avrebbe chiesto ad Agostino Saccà favori per alcune attrici, in cambio avrebbe fornito un aiuto economico a quest’ultimo per alcuni progetti di natura privata. Il reato in questione si palesa integrato in tutti gli elementi che lo caratterizzano, infatti, è presente la promessa; il pretesto e, da ultimo, la dazione per l’opera richiesta all’incaricato di pubblico servizio, in tale situazione è presente ogni elemento essenziale del reato trattato.

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CONCLUSIONI Millantato credito Millantare credito significa esagerare, amplificare l’influenza verso un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio. La norma del millantato credito si suddivide in due commi: il 1° comma dell’art. 346 c.p., nel quale la condotta criminosa si basa sulla promessa, da parte del compratore di fumo, di pagare denaro o altra utilità, ove per altra utilità sono compresi anche i favori sessuali; mentre il 2° comma dell’art. 346 c.p., nel quale la condotta criminosa si basa sul pretesto di remunerare il pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, per cui il delitto sussiste qualora il mediatore ottenga il denaro o altra utilità o la promessa per poter comperare il favore del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio. Il 2° comma dell’art. 346 c.p. costituisce figura autonoma di reato, in quanto la condotta criminosa si sviluppa nel carpire denaro, o altra utilità, per comprare il favore del pubblico ufficiale, invece, per il 1° comma, il delitto risulta integrato qualora via sia la promessa di pagare denaro o altra utilità al mediatore, ossia allo stesso millantatore.

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Nel delitto di millantato credito l’interesse tutelato è il prestigio della pubblica amministrazione, ovvero l’imparzialità, il buon andamento e l’efficienza dell’azione amministrativa. Il delitto di millantato credito costituisce reato a dolo generico. Il dolo consiste nella coscienza e volontà di ricevere, far dare o promettere a sé o ad altri utilità e di servirsi, per tale scopo, dei mezzi di persuasione. La fattispecie delineata nell’art. 346 comma 1° c.p. dovrebbe assumere la denominazione di traffico d’influenza. Il nucleo essenziale della condotta tipica dovrebbe risultare, non più la millanteria di credito, bensì la pattuizione di un’intermediazione di natura illecita: l’estremo della pattuizione potrebbe essere espresso mediante la formula “ chiunque riceve, fa dare o fa promettere a sé o ad altri, o accetta la promessa di utilità per esercitare o aver esercitato influenza su di un pubblico ufficiale”. Il reato di millantato credito e quello di truffa si differenziano sia per l’oggetto giuridico, onore e prestigio della pubblica amministrazione nel primo e patrimonio nel secondo, sia per il soggetto passivo, pubblica amministrazione nel millantato credito, chiunque nella truffa, sia ancora

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per l’elemento materiale, essendo necessario per la sussistenza della truffa l’uso di artifizi o raggiri, che possono invece mancare nel millantato credito. È ammissibile il concorso tra i reati di millantato credito e di truffa qualora

alla

millanteria

tipica

del

primo

si

aggiungano

altri

comportamenti idonei a concretizzare ulteriori artifizi e raggiri suscettibili di indurre in errore la vittima, ivi compresi quelli che valgono a confermare quest’ultima nell’errore, e sempre che sussista, comunque, un rapporto di causalità fra tali comportamenti ed il verificarsi del danno, con correlativo ingiusto profitto dell’agente. Va posto in evidenza la stretta relazione che vi è tra l’art. 346 c.p. e i diritti di corruzione , previsti dagli art. 318 e segg., tentati o consumati. Il punto di vista si sposta dalla problematica del concorso formale di reati a quella del concorso reale, potendosi ipotizzare una condotta di corruzione che si innesti su quella originaria di millantato credito. Il rapporto fra millantato credito e corruzione riguarda anche la fattispecie del primo comma, perché le pur rilevanti considerazioni di giustizia sostanziale non esimono dall’analisi esegetico e dogmatica degli istituti, non potendosi non tener distinti i due livelli, ossia quello

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equitativo e quello di stretto diritto, in un campo, quale quello penale, regolato dal rigido principio di stretta legalità. Nel dicembre del 2007 il capo dell’opposizione, Silvio Berlusconi, e il direttore di Rai Fiction, Agostino Saccà, vengono indagati dai magistrati della Procura di Napoli per i delitti di millantato credito e corruzione. Il giornale l’ “ Espresso ” ha pubblicato alcune intercettazioni tra i soggetti sopramenzionati ritenendole di carattere compromissorio. Il Premier, dopo tali fatti, ha richiesto la modifica della norma disciplinante le intercettazioni, proponendo la limitazione di esse ai soli casi in cui il reato prospettato sia di estrema gravità come associazione a delinquere, pedofilia ed immigrazione clandestina, nonché ha richiesto al Ministro di Grazia e Giustizia, Alfano, di aggiungere al decreto sicurezza l’emendamento denominato “ blocca processi ”, con cui veniva statuita la sospensione dei processi ritenuti di minore gravità tra i quali anche i procedimenti contro la pubblica amministrazione. L’emendamento sopramenzionato è stato modificato anche su richiesta dell’Associazione nazionale dei magistrati. Tra le novità ivi contenute vi è la discrezionalità da parte dei giudici per la sospensione del procedimento in atto.

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ABSTRACT False pretences Boasting credit means to overstate one’s influence to a public officer or an employee of a public service. The rule concerning false pretences is divided into two paragraphs: the former referring to art. 346 p.c. in which the criminal behaviour is based on the promise by the cheat to offer money or any other profit including sex favours, the latter in which the criminal behaviour is based on the pretext to remunerate a public officer or an employee of a public service, so that the crime subsists in case the intermediary gets money or something else or the promise to be able to buy the favour of a public officer or an employee of a public service. The latter paragraph of art. 346 p.c. is a crime in itself as the criminal behaviour lies in extorting money or any other profit in order to bribe the favour of a public officer, while, as to former paragraph, the crime is integrated in case there is the promise to offer money or any other profit to the intermediary. In the crime of false pretences the protected interest is the prestige of civil service or its good state and efficiency. The crime concerning false pretences is a crime of general fraud.

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It consists in the consciousness and will to receive, to make oneself or others given or promised

profits and to make use of means of

conviction to get that aim. The rule outlined in art. 346 par. 1° p.c. should assume the definition of “ activity of influence ”. The essential core of the typical behaviour should not be the bragging of a credit but the agreement of an unlawful mediation. The rule relative to the agreement could be expressed through the following sentence “ whoever receives, makes himself or others given, promised or accepts the promise of profit to exert or having exerted his influence on a public officer”. The crimes of false pretences and fraud are different both as for the legal object: honour and prestige of civil service in the former case, property in the latter, and as for the passive subject, civil service in false pretences while in the crime of fraud it can be whoever and as for the real element, as for the existence of the fraud it is necessary the use of cunnings or deceits which instead may lack in false pretences. It is allowable the complicity between the crimes of false pretences and fraud in case we add to the bragging typical of the former, other

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behaviours fit to make real further cunnings or deceits able not only to mislead the victim, but to confirm him in the error. However there must always be a link of causality between such behaviour and the happening of the damage with correlative illegal profit of the agent. We must put in evidence the strict connection that there is between art. 346 p.c. and the corruption crimes provided by art. 318 and following which may have been tried or committed. The point of view moves from the problem linked to the formal complicity of crimes to the ones of such real complicity, as we can suppose a conduct of corruption which is included on the primary one of false pretences. The relation between false pretences and corruption concerns also the rule of the former paragraph because the equitable level and the one of exclusive law must be kept distinct in the criminal field regulated by the principle of strict lawfulness. In December 2007 the opposition leader Silvio Berlusconi and the Rai fiction manager Agostino Saccà were investigated by the magistrates of the Naples office for the confutation of crimes relative to false pretences and corruption.

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The magazine “ L’Espresso ” has published some interceptions between the above-mentioned subjects believing that they could have a compromising character. After these events the Premier has asked the change of the rule regulating the interceptions, proposing their use only to the cases in which the supposed crime may be of extreme importance, such as criminal gang, child-abuse, illicit immigration. He has also asked the Minister of Justice to add the safety decree the amendment named “ Block trials ” which decided the suspension of less serious trials among which there were also the proceedings against public service. The above-mentioned amendment has been modified also at request of the Judges National Association. Among the contained novelties there is the discretion of the judges to stop the proceedings in debate.

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