teoria beni comuni

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INDICE

Capitolo primo Beni comuni: tertium genus tra pubblico e privato…..1 1.1 Una classificazione dei beni secondo la teoria dei commons…………………………………………………1 1.2 Le origini: le enclosures quale paradigma della società attuale…………………………………………………….8 1.3 L’inadeguatezza del sistema giuridico……………...15 1.4 La dicotomia Stato-Mercato e l’ecologia politica…..19

Capitolo secondo La riflessione teorica attuale……………………….....26 2.1 Lo sviluppo della ricerca sui commons…………….26 2.2 Il bene comune come costruzione sociale…………..32 2.3 La logica dell’azione collettiva di Olson…………...38 2.3.1 Cos’è l’azione collettiva………………...…....40 2.4 La visione biopolitica di Negri e Hardt…………….44


Capitolo terzo Da Hardin a Ostrom: dalla tragedia alla gestione dei beni comuni……………………………………………48 3.1 Hardin: quando i beni diventano scarsi e le persone sono libere………………………………………………48 3.2 Le soluzioni classiche alla tragedia dei commons….54 3.2.1 La teoria dei giochi: il dilemma del prigioniero……………………………………………...54 3.2.2 Il contratto sociale e l’etica individuale……...60 3.3 La critica ai tre modelli dell’economia dominante…62 3.3.1 L’approccio di Ronald Coase sui diritti di proprietà………………………………………………..67

Capitolo quarto La terza via di Elinor Ostrom………………………...71 4.1 La gestione civica del bene………………………....73 4.1.1 La comunità ieri e oggi: un concetto controverso……………………………………………..76 4.2 Governare I beni collettivi……………………...…..78


4.2.1L’institutional analysing and development framework………………………………………………84 4.3 I principi progettuali: cosa rende l’autogoverno un successo………………………………………………....86 4.4 L’esproprio dei beni comuni tra governance e monetizzazione…………………………………………93 4.4.1 La governance ottimale definita da Williamson……………...………………………………94 4.4.2 Governance vs. Governo e gratuità vs. monetizzazione………………………………………...100

Capitolo quinto Le public utilities: lo sviluppo del settore e i principali focus tematici………………………………………....107 5.1 La regolamentazione del settore e la concezione oggettiva di servizio pubblico (Art. 90 del Trattato CE)…………………………………………………….110 5.2 La guerra dell’acqua: un po’ di storia……………..117 5.3 L’acqua patrimonio pubblico e la sfida della gestione efficace delle risorse idriche…………………………..129 5.4 La vittoria referendaria rafforza la tesi della “terza via”……………...……………………………………..134


5.5 La conoscenza: un nuovo bene comune…………...137

CONCLUSIONI…………………………....................145

BIBLIOGRAFIA……………………………………...150

WEBGRAFIA…………………………………………155


CAPITOLO PRIMO BENI COMUNI: TERTIUM GENUS TRA PUBBLICO E PRIVATO

Negli ultimi tempi abbiamo assistito al costruirsi di un cospicuo fronte di resistenza intellettuale e popolare intorno alla difesa di taluni beni comuni, come l’acqua o l’ambiente, che ha tentato di opporre un argine alla furia privatizzatrice che imperversa nelle società industrializzate da oltre tre decenni. Pur essendo costituito da più culture politiche , esso si riconosce nella convinzione che i beni comuni rappresenterebbero un tertium genus capace di eludere la contrapposizione ritenuta ormai superata tra pubblico e privato. Testare la plausibilità di determinate convinzioni, rappresenta l’unico modo per verificare le ragioni di quanti sostengono che l’opposizione tra pubblico e privato è ciò che oggi impedisce lo sviluppo di una gestione cooperativa e condivisa dell’acqua, del sapere, della salute, dell’energia e del patrimonio culturale.


1.1 Una classificazione dei beni secondo la “teoria dei commons” All’interno della Teoria dei commons, viene utilizzata una classificazione dei beni in quattro categorie, costruite tramite l’incrocio di due variabili centrate sulla determinazione del rapporto tra bene e utilizzatori. I beni pubblici, per definizione non escludibili e non sottraibili, costituiscono uno dei poli della tipologia presentata, mentre al polo opposto si collocano i beni privati. Secondo la teoria economica e la definizione del premio Nobel per l'economia, Paul Samuelson, le caratteristiche che distinguono i beni pubblici da quelli privati sono due. I beni pubblici possono essere simultaneamente fruiti da più individui, principio della non rivalità, e nessun individuo può essere escluso dalla loro fruizione, principio della non escludibilità. Queste due caratteristiche, tuttavia, non fanno i conti con il vincolo costituito dalla scarsità del bene1. Due casi intermedi sono i beni di club o beni tariffabili (toll goods): sono beni escludibili e non-rivali; in questo caso, il bene può essere utilizzato da più soggetti contemporaneamente, ma previo pagamento, da parte di ciascuno di una tariffa (pagamento del pedaggio 1

Essendo il bene pubblico limitato, va da sé che la simultanea fruizione da

parte di più utenti è soggetta ad una soglia di fruibilità, che pone limiti alla quantità dei fruitori e quindi impone condizioni di escludibilità, necessarie per evitare l’esaurimento del bene stesso o il prodursi di congestione che riduce, fino al limite di annullare, l’utilità del bene stesso.


autostradale); e i beni comuni o risorse comuni (common goods): sono beni rivali ma non-escludibili, in questo caso, il consumo del bene da parte di un individuo preclude il consumo del medesimo bene da parte di altri, ma è impossibile evitare che chi lo desidera possa usufruirne. I common goods rappresentano beni il cui consumo è aperto a tutti, ma il cui stock viene progressivamente ridotto a causa della rivalità nel consumo.

SOTTRAIBILITA’

ESCLUDIBILITA’

Bassa

Difficile

Facile

Alta

BENI

RISORSE

PUBBLICI

COLLETTIVE

BENI

BENI

DI CLUB

PRIVATI


(Fig. 1 – Classificazione dei beni secondo il modello della teoria dei commons). Ciascun individuo nel momento in cui sceglie di usare ulteriormente una risorsa pubblica o meno, non tiene conto del fatto che questa sua decisione influisca sul beneficio suo e dell’altro individuo. Il problema non è distante dall’inefficienza comportata dall’esternalità2 e le vie di uscita possono essere sostanzialmente simili: vendere a un privato le proprietà comuni, oppure mantenere la proprietà pubblica, ma assegnando i diritti di sfruttamento. Da notare che non si tratta qui di categorie assolute, quanto di un "territorio" , di un piano cartesiano sul quale possono essere collocati i diversi tipi di beni reali a seconda delle loro caratteristiche, con ai poli i tipi puri, empiricamente difficili, anche se non necessariamente impossibili, da identificare. In effetti va segnalato che vi sono beni la cui natura può essere discutibile: per esempio, tutti i beni non rivali, possono essere comunque soggetti a problemi di congestione (ad esempio: l’utilizzo di una piscina pubblica che, una volta 2

Una esternalità si manifesta quando l'attività di produzione o di consumo di

un soggetto influenza, negativamente o positivamente, il benessere di un altro soggetto, senza che quest’ultimo riceva una compensazione (nel caso di impatto negativo) o paghi un prezzo (nel caso di impatto positivo) pari al costo o al beneficio sopportato/ricevuto. L'esternalità indica dunque l'effetto di un'attività che ricade verso soggetti che non hanno avuto alcun ruolo decisionale nell'attività stessa.


utilizzata contemporaneamente da più individui diventa rivale per gli individui che aspettano fuori dalla piscina l’utilizzo di questa); oppure i beni escludibili (ad esempio: l’utilizzo di un software subordinato all’acquisto di una licenza, ma facilmente copiabile, che viene così utilizzato anche da chi non acquista la licenza). Un tipico esempio di teoria del bene comune è la visione cristiana dei beni e della proprietà: il centro del discorso sono i principi di giustizia e di reciprocità (rapporti tra persone), e i beni (messi in comune o usati per il bene di tutti e di ciascuno) sono il modo per concretizzare la ricerca del bene comune. L’attenzione non è sul bene, ma sulle persone. Sia i beni pubblici che i commons, restano ancorati però ad una visione individualistica: tra le persone coinvolte non è richiesto alcun rapporto e alcuna “azione congiunta” La natura di bene comune che si afferma nell’economia moderna, è legata alle idee di indifferenza, individualità e muto vantaggio. Ogni discorso sul bene comune si gioca sulla capacità di saper individuare il punto critico delle mediazioni, al di là del quale la vita comune si “intristisce” e il bene comune si eclissa. Una politica per il bene comune, ad esempio, è quella che sa mediare i rapporti senza però impedire che le persone si incontrino.

Nonostante siano presenti ovunque i beni comuni, sono difficili da definire. Normalmente è la comunità locale che decide chi può usarli e come. Pur presentando tratti che a volte li avvicinano ad altri tipi di beni, si


distinguono da essi. Si possono distinguere tre categorie di beni comuni3. Una prima categoria comprende: l’acqua, la terra, le foreste e la pesca, vale a dire i beni di sussistenza da cui dipende la vita, in particolare quella degli agricoltori, dei pescatori e dei nativi che vivono direttamente sulle risorse naturali. A questa categoria di beni comuni appartengono anche: i saperi locali, i semi selezionati nei secoli dalle popolazioni locali, il patrimonio genetico dell’uomo e di tutte le specie vegetali e animali, la biodiversità. Per beni comuni non s’intendono solo le risorse naturali in quanto tali, ma anche i diritti collettivi d’uso, da parte di una determinata comunità, a godere dei frutti di quella data risorsa, diritti denominati usi civici. Ciò che contraddistingue sia i beni comuni sia gli usi civici è la particolare forma di proprietà e di gestione degli stessi, forma che è comunitaria, e che pertanto non è né pubblica né privata.4 Una seconda categoria di beni comuni comprende i beni comuni globali5: l’atmosfera, il clima, gli oceani, la 3

CORONA G., Beni Comuni, da Unimondo.org.

4

Contrariamente a quanto si crede, gli usi civici e le terre collettive esistono

ancora e sono importanti anche nei paesi industrializzati: in Italia, ad esempio, usi civici e terre collettive ricoprono ancora un sesto del territorio nazionale. 5

“La distinzione tra beni comuni locali e beni comuni globali, riportata in

letteratura, è poco fondata perché il globale è sempre un locale globalizzato: il


sicurezza alimentare, la pace ma anche la conoscenza, i brevetti, Internet, cioè tutti quei beni che sono frutto della creazione collettiva. Questi beni solo recentemente sono stati percepiti come beni comuni globali, dal momento cioè in cui sono sempre più invasi ed espropriati, ridotti a merce, recintati ed inquinati, e il loro accesso è sempre più minacciato. Una terza categoria di beni comuni è quella dei servizi pubblici6 forniti dai governi in risposta ai bisogni essenziali dei cittadini, bisogni che ovviamente variano nel tempo7. Si tratta di servizi quali: erogazione sistema globale che oggi governa il mondo non è infatti universale, ma la versione globalizzata di una tradizione locale (quella del capitalismo mercantile di matrice europea, che si è imposta al mondo con la forza e con la violenza dello sfruttamento e del colonialismo”. (RICOVERI G., Beni comuni vs merci, Jaca Book, Milano 2010, p. 25). 6

Beni, materiali o immateriali, che la pubblica amministrazione riconosce di

pubblica utilità ed in quanto tali ne assicura la produzione, distribuzione ed erogazione in modo tale da garantire a tutti i cittadini ed alle utenze interessate un uso libero e privo di qualsiasi restrizione i discriminazione economica, spaziale e temporale.( MELE R., Economia e gestione delle imprese di pubblici servizi tra regolamentazione e mercato, Cedam, Padova 2003, pag.5). 7

I servizi pubblici costituiscono una categoria aperta, poiché è è soggetta, nel

tempo, ad ampliarsi o a restringersi in conformità della diversa interpretazione che gli organi preposti alla guida dello Stato possono dare agli interessi ed alle esigenze della collettività. Ciò significa che quando una


dell’acqua, della luce, il sistema dei trasporti, la sanità, la sicurezza alimentare e sociale, l’amministrazione della giustizia. I processi di privatizzazione di alcuni servizi che distribuiscono i beni comuni ne mettono a rischio l’accesso universale.

1.2 Le origini: le enclosures quale paradigma della società attuale Per i Romani, la terra, l’acqua, l’aria, il cielo, la flora e la fauna, le vie navigabili erano beni comuni o res communes, una delle quattro categorie in cui il Codice di Giustiniano del 534 d.C. aveva riordinato il regime dei beni nel diritto romano. Della seconda categoria facevano parte le res nullius o zone libere, come erano allora determinata attività assume in un momento storico, per la collettività, un valore sociale può rientrare fra i compiti dello Stato assicurarne l’effettuazione e garantirne il godimento a tutti i cittadini ad esso interessati, eliminando ogni possibile speculazione che posso inficiarne il godimento. Quindi I servizi pubblici non sono individuabili sulla base di definiti caratteri, ma derivano da un esplicito riconoscimento della P.A., che costituisce il frutto di un processo sociale e politico. (MELE R., Economia e gestione delle imprese di pubblici servizi tra regolamentazione e mercato, Cedam, Padova 2003, pag. 5).


considerate le terre incolte che non appartenevano a nessuno; la terza comprendeva le res privatae, che riguardavano la famiglia e la sfera dei rapporti personali; e infine c’erano le res publicae, che erano le più importanti per i Romani: comprendevano gli spazi e le opere pubbliche (palazzi, piazze e infrastrutture), ma escludevano le risorse naturali. Nell’ Europa medievale, il principe riconosceva ai contadini senza terra il diritto di raccolta sulle sue terre o il diritto a coltivare un campo di sua proprietà, per permettere ai contadini di sopravvivere. In questo quadro istituzionale e sociale, i beni comuni erano la forma prevalente di organizzazione sociale e produttiva per la massa della popolazione. Quindi tradizionalmente, con esso si definisce, sin dall’epoca feudale, la proprietà collettiva e indivisa di porzioni di terreno lasciate alla popolazione residente in un dato territorio per il proprio sostentamento, così come è avvenuto in epoca feudale ai fini del mantenimento della stessa popolazione residente. In Inghilterra, prima della rivoluzione industriale, i commons erano le terre comuni ad uso agricolo: ogni nucleo familiare aveva il suo appezzamento, ma i diritti su di esso erano stabiliti sulla consuetudine più che dai titoli legali e lo stesso valeva per l’accesso ai territori su cui cacciare, fare provviste di foraggio e pascolare gli animali. Nell’esperienza inglese e in quella di altri Paesi, si è parlato di open fields. Nell’esperienza storica italiana, queste proprietà si sono venute definendo come “usi


civici”. Tutto è cambiato in Occidente con la Rivoluzione industriale, alla cui base ci sono stati due fattori chiave: da una parte la recinzione delle terre comuni inglesi, definita da Karl Marx l’arcano dell’accumulazione originaria8; dall’altra parte, la tratta atlantica degli schiavi, la colonizzazione delle Americhe e la recinzione delle terre, delle risorse e sei diritti dei popoli nativi. Come brillantemente descritto da Marx nel Capitale, i commons, terre non recintate, dalla destinazione compatibile con l’esercizio di diritti d’uso consuetudinari da parte delle popolazioni locali, che ne consentivano la sopravvivenza, sono stati espropriati dalle enclosures (recinzioni), meccanismo che, nell’Inghilterra del XVII secolo, diede inizio all’accumulazione primitiva del capitale, creando ricchezza privata sulla sottrazione di diritti alle popolazioni rurali locali. Ciò permise la sostituzione di un sistema di produzione locale e diversificato, fatto di produzioni locali di sussistenza ed esportazione di lana tessuta artigianalmente a domicilio, rimpiazzato dalla monocultura capitalistica della lana (pascolo per l’allevamento delle pecore), per fornire alle industrie 8

“Una accumulazione che non è il risultato, ma il punto di partenza del modo

di produzione capitalistico[…]. L’espropriazione dei produttori rurali, dei contadini e la loro espulsione dalle terre, costituisce il fondamento di tutto il processo[…]. I metodi dell’accumulazione originaria, sono tutto quel che si vuole fuorchè idilliaci.” (MARX K., Il Capitale. Critica dell’economia politica, libro I, Cap. XXIV, pp. 777-778, Editori Riuniti, Roma 1989).


tessili urbane non solo la materia prima, ma anche masse di contadini espulsi dalle terre comunali recintate, l’esercito industriale di riserva di cui il capitale aveva bisogno per espandersi. In questo modo si distrussero sia i piccoli proprietari terrieri dei villaggi (yeomen), i cui possedimenti erano di piccola dimensione e sparsi sul territorio, costretti ad abbandonare le terre perché non avevano le risorse sufficienti per realizzare le recinzioni; sia i cottagers, i contadini poveri senza terra, che vivevano grazie ai diritti d’uso delle terre comuni. Se ne avvantaggiarono i grandi proprietari terrieri, che aumentarono la dimensione della loro proprietà, ne modificarono la destinazione d’uso, introdussero innovazioni così da migliorare i rendimenti. Le recinzioni furono imposte con la violenza e la dislocazione forzata della popolazione, ma anche con leggi apposite, Enclosure Bills (leggi sulla recinzione).9 Ai poveri delle campagne venne negato l’accesso ai campi comuni (common lands) e ai campi aperti (open fields), quelli di proprietà privata nel periodo di semina e di raccolta, ma aperti ai poveri rurali nei restanti periodi dell’anno. Le terre di uso comune però non sono del tutto scomparse (terre, pascoli, 9

La scomparsa dei commons fu una premessa della rivoluzione industriale, le

terre erano recintate perché servivano all'allevamento intensivo di pecore la cui lana era necessaria alla nascente industria tessile e fu seguita da un'offensiva ideologica contro l'uso condiviso della terra, a favore della libertà di trasformarla in bene commerciale.


foreste, e sorgenti d'acqua da cui attingere, o fiumi e lagune con i pesci che vi si possono pescare, e così via): forme di proprietà e uso collettivo restano molto diffusi nel grande Sud del mondo e in parte, sotto forma di usi civici, perfino nella vecchia Europa. In questo snodo storico, i beni comuni sono stati recintati e privatizzati, sia nel senso letterale del termine, sia dal punto di vista del pensiero teorico, con la formalizzazione di teorie filosofiche ed economiche che legittimano i privilegi delle classi egemoni; sia, infine, dal punto di vista giuridicoistituzionale, nel senso che il diritto moderno ha registrato questi cambiamenti e li ha tradotti in forza di legge10. Significativo è dunque il percorso storico-filosofico europeo che ha portato alla negazione dei beni comuni naturali, alla loro recinzione, alla mano invisibile, all’individualismo proprietario e alla brevettabilità delle conoscenze. Infatti a sostegno degli spiriti della Rivoluzione industriale, vi era la scienza economica “moderna”, formulata alla fine del Settecento e nata come economia politica, alla cui base vi erano però altre scuole di pensiero e l’economia politica classica, in particolare la riduzione della società a società di mercato, o “mano invisibile” e quella della persona umana a homo oeconomicus. Nella “Ricchezza delle Nazioni”, Adam Smith si fonda sostanzialmente sul modello individualistico ed egoistico dell’uomo economico, l’economia ha espunto dal suo ambito i comportamenti 10

Per un approfondimento si rimanda al paragrafo 1.3 “L’inadeguatezza del

sistema giuridico”.


caratterizzati da relazioni di interdipendenza come i bisogni e quelli contrassegnati da motivazioni non economiche, come i legami interpersonali e di comunità. La regolazione spontanea degli scambi, nota come “metafora della mano invisibile”, ha giocato un ruolo determinante nella distruzione dei vincoli collettivi e nella polverizzazione sociale. Ripercorrendo quindi la storia e l’evoluzione dei beni comuni, molti autori utilizzano il concetto di enclosures, le recinzioni che hanno trasformato la società inglese, escludendo le persone comuni dagli usi agricoli, dai pascoli, dai campi coltivati, dalle foreste, attribuendone la proprietà ai nobili e ai possidenti e costringendo gli esclusi a fare i braccianti o ad emigrare in città Le enclosures rappresenterebbero il paradigma della società attuale e il caso della sostanziale privatizzazione dell’acqua è un buon esempio di enclosures e di mercificazione idrica11. Il tema dei beni comuni e della loro gestione si intreccia con la storia dell’umanità e ha a che fare da sempre con il potere, dal “dispotismo idraulico12” dei 11

RICOVERI G., Beni comuni vs merci, Jaca Book, Milano 2010.

12

Ipotesi secondo la quale secondo la quale lo sviluppo di una civiltà urbana

non potrebbe aversi se non per mezzo la produzione di un notevole surplus agricolo, permesso dall'introduzione di sistemi di irrigazione, e a sua volta questi inevitabilmente implichino la presenza di un potere centralizzato e


regni dell’Asia e del Medio Oriente, alle enclosures messe in atto in Inghilterra a partire dal XV secolo. La battaglia attorno ai beni comuni, non è scomparsa così come la spinta a recintarli o privatizzarli anzi si è accentuata. E ormai non si tratta solo di terre o risorse naturali, ma di un'amplissima gamma di beni e servizi necessari alla sussistenza degli umani e al loro benessere collettivo. La storia dell’umanità è fortemente segnata dall’uso del potere per espropriare le masse e appropriarsi delle risorse naturali, in tutte le parti del mondo e in tutte le epoche. Lo sfruttamento delle persone e quello della natura viene normalmente considerato compatibile con la democrazia parlamentare, un sistema in cui le persone sono prive della possibilità di decidere della loro vita e non hanno alcun controllo né sul proprio tempo, né sul proprio lavoro. Tutto è deciso dal mercato e dalle condizioni che il mercato determina. I beni comuni sono un’istituzione che ha resistito nel tempo, superando i tentativi ricorrenti di recinzione e privatizzazione, sia perché sono flessibili e capaci di cambiare di fronte alle sfide ambientali e tecnologiche, sia perché esprimono diritti umani irrinunciabili, spazi di autogoverno ed esigenze di cooperazione e di relazione sociale, aspetti del comportamento umano diversi e alternativi a quelli dell’homo oeconomicus teorizzato dall’ortodossia corrente. dispotico, che abbia la possibilità di impiegare la forza lavoro di migliaia di persone.


Il concetto di beni comuni ha subito nel tempo cambiamenti profondi: da una parte si è dilatato fino a diventare un termine di uso corrente per indicare i beni e servizi cui tutti dovrebbero avere accesso: cibo, acqua, farmaci, energia, salute; nello stesso tempo si è ristretto, tanto da far passare in secondo piano i beni comuni naturali, ancora attuali in mote parti del Sud globale, dove un terzo della popolazione mondiale vive nelle campagne e nelle vicine foreste e trae il proprio sostentamento direttamente dal libero accesso alle risorse naturali di sussistenza. Non è possibile e sarebbe comunque sbagliato definire in modo preciso e univoco i beni comuni. È possibile tuttavia descriverne i tratti distintivi e cercare di render conto del perché essi possono diventare utili, se riproposte in forme adeguate alla realtà attuale. Riproporre i beni comuni anche nei Paesi del Nord, nelle forme nuove adeguate alla realtà contemporanea, è infatti un problema diverso dal riappropriarsi dei beni comuni, che è l’obiettivo storico delle comunità del Sud, la cui vita dipende direttamente dall’accesso ad acqua, terra e foreste. Potremmo quindi definire i beni comuni come l'insieme dei principi, delle istituzioni, delle risorse, dei mezzi e delle pratiche che permettono a un gruppo di individui di costituire una comunità umana capace di assicurare il diritto ad una vita degna a tutti, tenendo conto delle generazioni future e avendo cura della sostenibilità globale del pianeta.


1.3 L’ inadeguatezza del sistema giuridico Sul piano squisitamente tecnico-giuridico, il concetto di “bene comune” individua forme di appartenenza intermedia tra le categorie dicotomiche di bene privato e bene pubblico; rappresenta, in buona sostanza, una “zona grigia” tra sovranità (Stato) e proprietà (privato). I cd. “commons” nascono nella pratica sudamericana, area in cui era impensabile considerare la terra come oggetto di proprietà13. I concetti eurocentrici di sovranità e proprietà, quindi, tipici della modernità, distruggono la relazione soggetto-oggetto di quei paesi in cui da tempo funzionava bene la “gestione del common”, grazie all’esistenza di limiti intrinseci, vale a dire il rispetto di norme basate su doveri morali e sociali e non giuridici. E’ forse la giuridificazione di tali limiti, articolata intorno ai tradizionali riferimenti pubblicoprivato, ad aver sollevato la difficoltà teorica di riuscire a pensare ad un bene che necessita di un orizzonte intermedio. Infatti, non siamo in presenza di un bene di proprietà dello Stato né del singolo privato, anche perché 13

All’epoca della colonizzazione, nelle Facoltà di Diritto spagnole si

dibatteva sulla legittimità della conquista in atto: non era affatto pacifico in dottrina pensare la relazione uomo-natura in termini di proprietà, di occupatio tramite apprensione, né negare alle popolazioni autoctone diritti che oggi chiamiamo fondamentali. (BELOTTI F., Tra pubblico e privato: il concetto di "bene comune" fra cambiamenti della società e inadeguatezze dell'ordinamento giuridico. Diritto Web, portale di informazione al diritto, 24 Dicembre 2010).


non ci sono link territoriali: il bene comune è transnazionale e appartiene a quello che Immanuel Wallerstein chiama “popolo mondo”. La categoria in esame si è affacciata nel linguaggio giuridico e in quello dell’opinione pubblica italiana solo negli ultimi anni: in primis grazie ai lavori della Commissione Rodotà, incaricata nel giugno del 2007 dal Ministro della Giustizia di redigere un disegno di legge per la riforma delle norme del Codice Civile sui beni pubblici. La necessità di rimettere mano alla disciplina dei beni pubblici derivava dall’assenza di garanzie adeguate e rigorose. L’insussistenza di ostacoli efficaci alla privatizzazione, come è noto, lascia i beni pubblici in balìa dei subitanei piani politici predisposti dal Governo di turno al potere, trascurando però che tali beni sono di tutti i consociati, che hanno il diritto di fruirne illimitatamente e simultaneamente. La vera sfida giuridica e sociale è, quindi, quella di parificare la proprietà pubblica a quella privata, cercando di tutelare i beni dello Stato (che ne è titolare in quanto proprietario e non come sovrano) dalla privatizzazione. Per farlo bisogna ripartire proprio dal bene, il cui carattere pubblicistico non deriva dall’appartenenza ad un ente pubblico, bensì dal “vincolo oggettivo di destinazione” pubblica gravante su di esso. “I beni comuni sono a ‘titolarità diffusa’, appartengono a tutti e a nessuno”, scrive Rodotà. “Devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarietà. Incorporano la dimensione del futuro, e quindi devono essere governati nell’interesse delle generazioni che


verranno. In questo senso sono davvero ‘patrimonio dell’umanità’”. Ivan Illich14 ha osservato che una legge generale sui beni comuni non è mai stata scritta, non solo perché la gente non era interessata a farlo, visto che le regole o le norme ci sono sempre state (quelle non scritte del diritto comune nei Paesi di cultura anglosassone e quelle derivanti dalla consuetudine negli altri Paesi), ma soprattutto perché i beni comuni esprimono una realtà diversificata, difficile da essere adeguatamente descritta in articoli di legge. Non esiste e non può esistere dunque una legge generale valida per tutti i sistemi dei beni comuni, proprio perché i beni comuni sono sistemi locali aperti, ricettivi adattabili al locale, come il clima, la differente dotazione dei territori in termini di risorse naturali, i saperi e le conoscenze delle persone che li abitano, il livello della loro professionalità, tutti elementi che non possono essere definiti per legge, così come non è possibile definire per legge la competenza degli specialisti.

14 ILLICH I., Il genere e il sesso, Mondadori, Milano 1982 in RICOVERI G., op. cit., p. 28.


La concezione del bene comune è uno schiaffo in faccia alla cultura moderna, secondo cui ogni punto del globo è semplicemente un nodo della rete globale degli Stati e dei Mercati: un terreno uniforme che definisce diritti e doveri di tutti e di ciascuno. Beni comuni significa al contrario che le popolazioni locali hanno il diritto di definire la propria rete, le proprie forme d’uso dei corsi d’acqua, dei pascoli e delle strade; di risolvere i conflitti che li riguardano a modo proprio; tradurre le conoscenze nella propria lingua; essere puniti, se necessario, in modi diversi da quelli delle leggi generali; considerare la propria casa non solo come il luogo dove risiedono cose e persone, ma come luogo insostituibile, da difendere a qualsiasi prezzo. (“Whose Common Future” in The Ecologist)

1.4 La dicotomia Stato-Mercato e l’ecologia politica Non è vero che tutto nella realtà sociale dell’economia sia inquadrabile o nello Stato o nel Mercato e che in quest’ultimo tutto sia competizione e non anche cooperazione. E ciò non per andare alla ricerca di “terze vie”, ma per verificare in concreto le altre esperienze e identificare le condizioni perché queste siano o possano essere di successo15. Il linguaggio e la prassi politica sono 15

RISTUCCIA S. (Presidente del Consiglio Italiano per le Scienze Sociali),

L’importanza di una riflessione sui commons. A proposito del Premio Nobel a Elinor Ostrom, in Contributi Bancaria del Dicembre 2009).


stretti in una contrapposizione fra privato e pubblico, fondata su due nozioni astratte: il mercato (privato) e la statualità (pubblico). Due nozioni che vengono contrapposte artificialmente nella modernità e intorno alle quali si organizza la contrapposizione politica nelle cosiddette democrazie liberali: la destra è paladina del mercato, la sinistra dello Stato. Con la caduta del muro, la sinistra scopre il mercato e abbandona lo Stato, mentre con la crisi di fine 2008 la destra scopre lo Stato. I modernizzatori degli anni novanta proclamavano “più mercato, meno Stato”, gli analisti della crisi attuale chiedono “meno mercato selvaggio e più controllo dello Stato”. Stato e mercato sono prodotti della stessa logica etnocentrica della modernità, fondata sulla proprietà privata e sulle recinzioni del comune: esclusione, concentrazione del potere, decisionismo autoritario. Il comune deve superare questa logica proponendo soluzioni che includono, diffondono il potere, incoraggiano il dialogo e bandiscono lo sfruttamento. Non è dunque dal potere che verranno le soluzioni. Perché “non si possono risolvere i problemi con gli stessi sistemi di pensiero con cui sono stati creati”16. Si sta delineando un nuovo paradigma storico, basato sulla cooperazione anziché sulla competizione, sulla condivisione anziché sull’appropriazione individualistica. Il concetto di beni comuni ha subito nel tempo cambiamenti profondi. Per 16

MAZZI E., Le radici vitali di una società fondata sui beni comuni, da Il

Manifesto del 3 Febbraio 2011.


affermare la natura collettiva di questi beni e servizi, molti dei quali considerati anche diritti umani, ne viene rivendicata la proprietà e gestione pubblica, e cioè dello Stato. L’assunto che pubblico e statale siano la stessa cosa, proprio della cultura giuridica dei paesi di tradizione giuridica napoleonica, comincia finalmente a essere messo in discussione: l’evidenza indica infatti che lo Stato non svolge più la funzione di terzietà rispetto alle imprese e ai cittadini, essendosi spostato dalla parte delle multinazionali, del profitto monopolistico e della finanza. Una specificità dei beni comuni difficile da accettare nella cultura occidentale riguarda la proprietà collettiva del bene su cui insistono i diritti delle comunità, che non può essere alienata proprio perché la comunità ne gode i frutti, ma non ne ha la proprietà in nessuna delle forme previste dagli ordinamenti giuridici occidentali, né pubblicastatale, né privata, né cooperativa. Il problema riguarda soprattutto il significato dell’aggettivo pubblico, che è stato “cancellato” e ridotto a “statale”, mentre i due concetti sono diversi. Quando il mercato sussume la società, gli attori presenti sulla scena si riducono a Stato e Mercato. Con l’avanzare della modernità e “l’abrogazione” dei beni comuni, di fatto e di diritto, le risorse naturali sono state privatizzate dandole in concessione ai privati. La discussione si è così spostata sul rapporto tra pubblico-statale e privato, tagliando fuori la società. Emerge con sempre maggior chiarezza che la distinzione tra pubblico e privato, che caratterizza il diritto di matrice napoleonica, non è netta come sembra: pubblico e privato spesso si intersecano, oppure si


alternano nel corso della vita di una risorsa. Negli ultimi anni si è aperto un intenso dibattito internazionale tra i giuristi più accorti sulla necessità di uscire dalla logica binaria della proprietà pubblica - proprietà privata, per arrivare ad una tripartizione che comprenda come terzo elemento la proprietà comune. È un’ istanza che nasce da due esigenze: la nuova centralità che i beni comuni stanno assumendo nella società contemporanea, che richiede soluzioni concrete anche sul piano del diritto e la consapevolezza che la logica binaria della proprietà è riduttiva e ha bisogno di essere arricchita da elementi di diritto comunitario. Elinor Ostrom osserva che la privatizzazione o la gestione statale dei beni comuni possono entrambe non essere la soluzione efficiente. I beni comuni sono infatti, spesso, difficilmente privatizzabili17. D’altro canto, la gestione statale può comportare un’eccessiva rigidità e meccanismi decisionali lenti, invece gli utilizzatori locali (appropriators), avendo una maggiore vicinanza e familiarità con la risorsa comune sfruttata, possono in certe circostanze essere in grado di preservarla, stabilendo regole di gestione flessibili e cambiando tali regole in base alle conoscenze che provengono dal suo utilizzo, anche in condizioni di informazione incompleta riguardante la natura stessa del bene. Inoltre i costi sostenuti dalla comunità, per vigilare sul corretto uso del bene e per punire chi trasgredisce a tali regole, tendono a essere inferiori ai costi della 17

Ad esempio, come si può circoscrivere un banco di pesci che migra? E

dunque come si può regolamentarne la pesca?


regolamentazione pubblica o privata. Le regole adottate dagli individui raramente sono interamente pubbliche o private, ma sono combinazioni di istituzioni di natura pubblica e di natura privata che non possono essere classificate all’interno di una sterile dicotomia. Si deve considerare che “bene comune” (cioè qualcosa da usare al suo meglio in favore della collettività, ma non da possedere individualmente) è un concetto totalmente estraneo, anzi decisamente opposto, alla logica dell’avere, costitutiva della cultura oggi dominante. Il recupero dei diritti delle comunità sui beni comuni, la loro riappropriazione delle risorse naturali, rappresenta un nuovo paradigma di società organizzata a livello locale e a partecipazione democratica, ecologicamente sostenibile, integrativo e in parte anche sostitutivo del mercato. Il controllo democratico del territorio da parte delle comunità locali può fare la differenza dando protagonismo alle popolazioni su scelte che le riguardano da vicino e rilegittimando lo Stato e l’intervento pubblico, ridotto oggi, sempre più spesso, alla copertura di interessi privati. La difesa dei beni comuni, dove esistono, e la loro riproposizione, dove sono stati cancellati, non è solo un problema di giustizia distributiva delle risorse, ma è la risposta alle forze distruttive del sistema, una risposta parziale che, nella fase attuale di crisi del sistema dominante, può avviare la costruzione di una società e di uno sviluppo alternativi a quelli delle merci e del mercato. Ma affinchè questa proposta possa essere presa in considerazione, occorre che la politica diventi “ecologia politica”, mettendo la Natura al centro delle politiche e


valutando a monte quali effetti sociali ed ecologici quelle scelte possano produrre. Se bene comune è non solo la natura nella sua totalità e integrità, ma anche in diritto di ognuno a fruirne per quanto necessario, ne discende l’esigenza di servizi che lo consentano: come la disponibilità di nutrimento igienicamente sicuro, aria pulita, mari e fiumi non inquinati, e pertanto di una politica che tenda ad assicurare, per quanto possibile, tutto ciò. Il ritorno al territorio, in risposta alla globalizzazione e alla finanziarizzazione, non darà i frutti sperati se le nuove comunità non saranno cosmopolite, aperte, solidali, capaci di valorizzare le specificità locali. È compito della politica fare in modo che ciò avvenga, ma non è detto che la buona politica esista sempre e dovunque: sarebbe però sbagliato e privo di efficacia entrare nei dettagli operativi e redistributivi della proposta, prima che si sia consolidata la sua logica generale, tendente a limitare l’attuale centralizzazione del potere economico e di quello politico. Le “nuove” comunità locali, dovrebbero essere delle istituzioni della democrazia diretta, che non sostituisce né lo Stato, né il gli enti locali, espressione del decentramento statuale: le comunità locali traggono infatti forza e credibilità proprio dal confronto e dalla negoziazione con i governi locali, cui restituiscono autorevolezza e legittimazione. Solo in questo modo, del resto, è possibile mediare i contrasti che possono sorgere tra comunità diverse sulla stessa risorsa o sullo stesso territorio e riequilibrare almeno in parte le differenze tra i territori in termini di dotazione delle risorse. “Tutto questo richiede una politica diversa nel merito e nel metodo. Nel


merito, occorre che l’ecologia diventi parte integrante della politica, così come la Natura deve diventarne un vincolo e un riferimento obbligato, per ridurre a monte l’impiego delle risorse naturali usate nella produzione di beni e servizi e valutarne ex ante gli effetti sociali e ambientali. Nel metodo, occorre restituire ai cittadini la possibilità di contare attraverso gli istituti della democrazia diretta, uno dei quali riguarda i beni comuni e le scelte sulle risorse locali, intese come “uno spazio” di dialettica e di confronto democratico, come uno spazio di democrazia reale”18.

18

RICOVERI G., op. cit., pag. 109.


CAPITOLO SECONDO LA RIFLESSIONE TEORICA ATTUALE Rispetto al lungo percorso che ha interessato il ragionamento sul concetto di bene comune, l’interesse per lo studio delle risorse collettive si è manifestato solo negli ultimi venti anni. Una prima serie di pubblicazioni relative alla gestione di specifiche tipologie di commons si colloca, infatti, tra il 1979 e il 1980. Se i risultati teorici raggiunti hanno interesse rilevante, non è possibile ignorare che la letteratura sulle risorse comuni, cresciuta quasi esponenzialmente negli ultimi dieci anni, ha avuto uno sviluppo prevalentemente empirico. 2.1 Lo sviluppo della ricerca sui commons La letteratura sulle risorse comuni è caratterizzata da due tratti. In primo luogo essa è fortemente interdisciplinare, grazie al contributo di scienziati politici, economisti, antropologi e sociologi, ma anche di agronomi, biologi e altri ricercatori legati alle scienze naturali nonché di operatori degli enti nazionali e internazionali per lo sviluppo e delle Organizzazioni non governative. In secondo luogo, è opera di ricercatori di


diversa origine geografica19, con una forte presenza, accanto ai nord-americani, di attori provenienti dai paesi meno sviluppati. In quest’ambito è, anzi, proprio l’Europa a svolgere un ruolo secondario con una crescita di interesse per il tema delle risorse comuni piuttosto lenta. A prescindere dalla provenienza geografica e disciplinare dei ricercatori, i più recenti studi bibliografici mostrano l’esistenza di oltre 22.000 opere sull’argomento, inclusi volumi, articoli e papers presentati a conferenze. Esse possono essere suddivise in 14 tematiche che insieme riassumono l’intero spettro degli interessi legati allo studio dei commons (vedi tab. 1). Uno dei principali limiti riguardo la ricerca empirica nell’ambito delle risorse comuni è stato l’aver studiato soprattutto risorse «tradizionali», legate all’agricoltura, alla pastorizia, allo sfruttamento delle foreste e all’utilizzazione delle aree di pesca , e su piccola scala, privilegiandole sia nei confronti dei commons presenti nella vita quotidiana dei paesi più sviluppati, sia rispetto ai tentativi di accrescere la scala dei campi di indagine. Se i limiti in questa seconda direzione possono essere facilmente comprensibili alla luce delle difficoltà che la teoria trova nel confronto con risorse su scala maggiore (con la parziale eccezione dei commons globali), il concentrarsi su risorse comuni di tipo tradizionale è spiegabile soprattutto nei termini degli interessi di studio, 19

All’ultima conferenza tenuta dall’International Association for the Study of

Common Property (IASCP 2000, Bloomington, IN, 31 maggio-4 giugno, 2000) erano presenti oltre 550 partecipanti provenienti da 53 paesi diversi.


legati allo sviluppo dei paesi del Sud del mondo, e della stessa provenienza geografica di molti ricercatori.

TAB. 1. Ambiti della letteratura sulle risorse comuni 1. Agricoltura (2.254 contributi)*. Include l’insieme dei contributi relativi a temi rurali: produzione, sviluppo, conservazione e gestione delle terre, partecipazione degli agricoltori, ecc. 2. Aree di pesca (2.841 contributi). Comprende la gestione delle aree di pesca – costiere, oceaniche o interne – nonché lo sfruttamento di altre risorse acquatiche e l’acquacoltura. 3. Risorse forestali (5.624 contributi). Vengono trattati i temi legati alla coltura, allo sfruttamento e al mantenimento di aree boschive e forestali. 4. Risorse generali e multiformi (1.884 contributi). Comprende da un lato risorse in senso lato quali biodiversità, ambiente, ecc., oltre che ricerche sulle politiche per l’ambiente e per la sua gestione; dall’altro studi su risorse la cui utilizzazione è multiforme. 5. Commons globali (981 contributi). Sono risorse a livello planetario o, comunque, sovranazionale. Include temi quali il deterioramento della fascia di ozono, il riscaldamento globale, gli oceani, la gestione delle regioni artiche, ecc. 6. Aree di pascolo (956 contributi). Include l’insieme delle risorse utilizzate nell’ambito della pastorizia stanziale, nomade e seminomade. 7. Risorse storiche (857 contributi). Raggruppa i paper di ricerca storica sul tema delle RC.


8. Risorse legate all’informazione e alla conoscenza (154 contributi). Comprende studi diversificati, dai problemi di proprietà delle opere di ingegno alla conservazione delle conoscenze locali e indigene. Una importante sottosezione è dedicata a internet e ai cosiddetti commons virtuali.

9. Proprietà e utilizzazione del territorio (1.915 contributi). Riguarda soprattutto la definizione dei diritti di proprietà e di utilizzazione della terra. 10. Risorse non-tradizionali (130 contributi). Include un ampio spettro di RC e di beni di club moderni: frequenze radio, corridoi aerei, gestione di risorse di interesse turistico, ecc. 11. Organizzazione sociale, comunitaria e di villaggio (2.407 contributi). Raggruppa gli studi sulle caratteristiche sociali, sulle capacità auto-organizzative delle comunità locali e sui loro effetti rispetto alla gestione sostenibile di RC. 12. Commons urbani (60 contributi). Parcheggi, complessi di appartamenti, condomini, aree industriali, gestione dei rifiuti e altre risorse utilizzate in ambito urbano. 13. Gestione delle acque (2.869 contributi). Include sia lo sfruttamento di fiumi e di sorgenti per l’irrigazione, l’industria, la produzione di energia, ecc., sia la più generale gestione delle acque e la loro depurazione. 14. Fauna e flora selvatica (504 contributi). Conservazione, difesa e sfruttamento dell’insieme biotico terrestre, soprattutto su scala regionale o locale. Un quindicesimo raggruppamento citato in Hess (1999) include le opere teoriche e sperimentali sull’argomento delle RC (3.090 contributi).

Fonte: Hess (1999), op. cit. * L’indicazione rispetto ai temi e al numero di contributi è tratta da Hess (1999). Poiché la materia è in continua


evoluzione tanto gli ambiti quanto i dati (aggiornati al 1999) verranno sicuramente superati già nel prossimo futuro. Inoltre, poiché una medesima opera può rientrare in più sezioni che non sono mutuamente esclusive, ne risulta che il totale ottenuto sommando i riferimenti descritti nella tavola è superiore ai 22.000 items citati. Il percorso seguito nel paper, che riflette quello compiuto dalla letteratura teorica sui commons, ha preso il via con il modello dei pastori di Hardin, nel quale gli attori, razionali ed egoisticamente motivati non sono in grado di trovare soluzioni cooperative al dilemma posto dalla gestione di una risorsa comune, per giungere, prima con l’introduzione del solo effetto di istituzioni e poi con l’analisi di ulteriori fattori agenti sull’arena di azione, allo schema dato dall’IAD framework20. Complicando il disegno iniziale con l’introduzione di elementi fisici, sociali e istituzionali, è stato possibile osservare come in determinate situazioni gli attori trovino incentivi in direzione di azioni cooperative tali da superare i problemi di azione collettiva e riuscire a gestire autonomamente e in maniera sostenibile le proprie risorse. L’approfondimento dell’analisi dei fattori in grado di 20

L’IAD framework analizza le componenti principali che formano un dato

sistema collettivo. Ha dotato di un linguaggio comune i ricercatori provenienti da diverse discipline impegnati nello studio dei commons e ha permesso di organizzare database specifici per alcune tipologie di risorse collettive. Per un approfondimento si rimanda al paragrafo 4.2.1.


influire sul raggiungimento di tale risultato rappresenta quindi una sfida per la ricerca nei prossimi anni tanto sul versante empirico quanto su quello teorico. Se lo sviluppo della «teoria dei commons» è iniziato empiricamente grazie allo studio di risorse su scala relativamente ristretta, alcuni dei risultati ottenuti hanno dimostrato una buona tenuta anche all’aumentare del numero di attori coinvolti, all’estendersi degli spazi geografici considerati e al ridursi delle possibilità di comunicazione tra gli utilizzatori. Non a caso uno degli ambiti più significativi oggi studiati riguarda i cosiddetti commons globali, soprattutto oceanici, atmosferici e legati a fattori quali i cambiamenti climatici dovuti all’azione antropica. L’applicazione dei modelli esposti ha qui particolare interesse anche a causa dell’impossibilità di appellarsi ad autorità esterne nonché agli attori realmente implicati nella contrattazione su misure «globali» siano di fatto in numero fisicamente limitato, anche se in rappresentanza della maggior parte delle nazioni terrestri. Di conseguenza, l’approccio metodologico prevalentemente micro adottato non trova sostanziali difficoltà all’applicazione su questa scala, mentre limiti più evidenti possono essere riscontrati nelle analisi a livello intermedio, regionale, sub-nazionale o nazionale, dove gli attori rilevanti aumentano fortemente di numero. In questi casi si osserva purtroppo spesso una perdita di accuratezza teorica che si traduce perlopiù in generiche analisi di polizie e della loro genesi. Un ulteriore limite raggiunto dalla teoria dei commons riguarda il suo versante sociologico e antropologico. Il focus sugli aspetti istituzionali del problema e


sull’interazione tra attori e istituzioni ha portato in molti casi i ricercatori a perdere di vista la relazione tra società e istituzioni nell’influenzare i risultati finali. L’introduzione nel modello di un maggior numero di variabili orientate in questa direzione non altererebbe peraltro l’impianto di fondamentale individualismo metodologico dell’analisi. Passi nella direzione di una maggiore considerazione di fattori di origine sociale nell’analisi delle risorse comuni sono stati comunque effettuati negli ultimi anni sia all’interno dell’IAD framework (che incorpora peraltro fin dall’inizio quelli che vengono indicati quali fattori sociali o «attributi della comunità »), sia grazie all’utilizzazione del concetto di capitale sociale21. Nonostante i limiti rilevati, il quadro teorico presentato possiede interesse e ulteriori possibilità di sviluppo, alcune portate avanti da Ostrom.

2.2 Il bene comune come costruzione sociale Il bene comune è stato analizzato e definito dalla teorie economiste come qualcosa di diverso dal bene privato, e definito dalla teoria dei commons sulla base del rapporto tra tipo di bene e i suoi utilizzatori, ma entrambe le teorie non considerano un altro elemento indispensabile 21

La locuzione capitale sociale è utilizzata per indicare l'insieme delle

relazioni interpersonali formali ed informali essenziali anche per il funzionamento di società complesse ed altamente organizzate.


a connotare il bene comune: il concetto di valore del bene in sé, che può essere assegnato solo dalla comunità di riferimento22. L’idea della costruzione sociale del bene comune è stata introdotta in letteratura da Mancur Olson nel suo lavoro sulla logica dell’azione collettiva23. In particolare, si fa riferimento all’affermazione che è il gruppo sociale a stabilire quali sono i beni collettivi e quali i beni privati, in quanto dal punto di vista individuale il bene pubblico non può esistere. Certamente nuova e stimolante è la riflessione sul concetto di bene comune svolta dall’antropologa Mary Douglas nel suo ragionamento sull’azione collettiva. Recuperando ed estendendo l’affermazione di Olson, Douglas sottolinea come il gruppo dei beni comuni non può dipendere dal genere di beni scambiati, ma dal tipo di comunità in cui avviene lo scambio. Da qui uno stesso bene può essere sentito diversamente a seconda del gruppo che ne fa uso , precisando poi che “… la questione dei beni pubblici si manifesta in forme differenti nei diversi tipi di comunità e le differenti definizioni offerte riflettono le diverse forme sociali in cui si inquadra il dibattito”24. Seguendo questo ragionamento si stabilisce che in una società fondata su 22

Kammarer P., sottolinea come la comunità di riferimento possa essere sia

quella tradizionale (tribù, popoli, classi sociali) sia quella globale, intesa come genere umano, in quanto oggi beni quali acqua, aria, comunicazione ecc., sono considerati global commons. 23

Per un approfondimento si rimanda al paragrafo successivo.

24

Douglas M., Credere e pensare, il Mulino, Bologna 1994, pag. 44.


relazioni di mercato (come lo è la nostra) i beni pubblici sono rappresentati da una classe residua di beni, quelli esclusi dalle leggi del mercato, di contro per una comunità collettivista i beni privati sono considerati un residuo dei beni collettivi25. Per spiegare le modalità attraverso le quali i gruppi tendono a raggiungere il bene comune, Douglas parte dall’assunto che gli individui che instaurano una relazione sociale (anche minima) sono coinvolti nel dibattito su ciò che la relazione è e su come dovrebbe essere gestita, arrivando così a legittimare la loro forma di società26. Il processo, secondo la teoria dell’analisi culturale a cui Douglas fa riferimento, viene indicato come il dibattito sulle norme. L’azione collettiva si può avvalere di due diverse modalità che caratterizzano il dibattito sulle norme. La prima presume che un dato gruppo (o una società tramite i suoi rappresentati) si trovi a discutere per individuare delle categorie concettuali utili a definire e/o raggiungere un obiettivo comune attraverso la forma del dialogo vincolato, identificato da Bruce Ackerman27 per descrivere il dibattito liberale, ma applicabile a qualsiasi forma di struttura politica identificata dall’analisi culturale. Il dibattito vincolato si basa, appunto, su tre vincoli: razionalità, coerenza e neutralità. Il primo vincolo, la razionalità, impone che ogni rivendicazione sia sostenuta da ragioni precise, 25

Ibidem, pp. 46-47.

26

Ibidem, pp. 31-32.

27

Ackerman analizza e giustifica i principi filosofici liberali, per l’autore il

liberalismo è «un modo di parlare del potere, una forma di cultura politica».


mentre la coerenza si pone a salvaguardia della chiarezza del dialogo come richiede la razionalità. La neutralità, infine, serve a proteggere la continuità del dialogo da dichiarazioni di superiorità intrinseca. La seconda modalità che può informare il dibattito sulle norme è ordinata al concetto di “habitus” di Pierre Bourdieu28. Tale concetto definisce il campo sociale in cui gli individui competono per la legittimità, una lotta che si svolge prevalentemente nella forma di una contrapposizione tra giudizi estetici e morali, che prevede la forma del dibattito pubblico che, coinvolgendo membri di generi diversi di unità sociali, rivela l’atteggiamento verso una autorità costituita. Il dibattito pubblico precede la scelta degli individui di affacciarsi o meno sulla scena politica. Quello che viene messo in gioco, in questo caso, è la forma futura della società, di cui i contendenti definiscono le opzioni. È questo il momento in cui gli individui lottano (con la forza, le minacce o altro) per difendere ed assicurare il sostegno al bene comune. In 28

Pierre Bourdieu è stato un sociologo e filosofo francese. Ha sviluppato il

concetto di "habitus", che permette di spiegare la maniera attraverso cui un essere sociale interiorizza la cultura dominante (la doxa) riproducendola. Il punto di vista dominante non è dunque né immobile (é il risultato delle percezioni sociali degli individui), né facilmente evolvibile (la violenza simbolica porta i dominati e i dominanti a riprodurre involontariamente gli schemi della dominazione).


base alla logica del dibattito sulle norme ogni gruppo umano, per legittimare la sua scelta collettiva, dovrà utilizzare uno di questi due principi e ogni scelta porterà a soluzioni radicalmente diverse. Douglas, ragionando sulle modalità che guidano l’azione collettiva, non fa riferimento alla dimensione del gruppo, che invece viene valutata in un lavoro precedente dedicato alle istituzioni. In questo lavoro l’antropologa riprende il pensiero di David Hume sull’azione collettiva, secondo il quale questa ha una maggiore possibilità di successo se avviene in una comunità ristretta, in quanto i componenti hanno meno risorse da contendersi, per sostenere poi che nella prospettiva antropologica i fattori favorevoli ad un esito positivo dell’azione collettiva dipendono dal rapporto tra popolazione e risorse, non dalle dimensioni del gruppo. Il ragionamento sulle istituzioni, quindi, aiuta a completare quello sulla costruzione dei beni comuni, in particolare per quanto riguarda le istituzioni non particolarmente complesse come quelle da cui dipende il governo delle risorse comuni. Un istituzione poco complessa viene definita come una convenzione, la cui genesi si ha quando tutti i membri di una collettività hanno un interesse comune all’esistenza di una regola che assicuri la coordinazione e nessuno devia dalla regola a meno che non cessi la coordinazione desiderata. Mettendo in relazione i due ragionamenti di Douglas, il primo relativo alle logiche che portano alla legittimazione di una scelta collettiva, il secondo sulla funzione di una istituzione, si può cogliere l’intenzione di decodificare i processi che regolano la costruzione o la realizzazione di un bene


comune. L’aspetto delle modalità con cui un bene comune viene costruito è, di fatto, poco considerato. In genere si parte dall’assunto che un bene è comune, senza stabilire il modo in cui questo sia diventato tale. A questo proposito risulta particolarmente interessante la descrizione della costruzione di un bene comune svolta dal filosofo e politologo Avelino Manuel Quintas29 che, partendo dall’importanza della comunità nella definizione del bene comune, arriva a parlare appunto della sua costruzione. Lo studioso individua due tipi di bene comune, che corrispondo poi a due momenti diversi della sua realizzazione: un bene comune da costruire (o realizzare) attraverso la collaborazione di tutto il gruppo, e un bene comune da distribuire tra i diversi membri del gruppo stesso. Il bene comune da distribuire chiude il ciclo del bene comune da costruire, quindi, da un punto di vista cronologico, gli individui prima desiderano il bene e dopo decidono di realizzarlo. Dalle teorie degli economisti, passando per l’antropologia e la filosofia della politica, oggi in tema dei beni comuni, o di bene comune in senso più ampio, c’è ancora molto da dire. In una recente pubblicazione che si occupa di beni comuni, Riccardo Petrella, coordinatore dei Comitati nazionali per il Contratto mondiale dell’Acqua, elenca una serie di nuovi criteri utili alla definizione di questi beni. Il primo è il criterio della responsabilità collettiva in base al quale un bene è comune quando la responsabilità di questo bene (o servizio), indispensabile al vivere insieme, implica un 29

QUINTAS A.M., Analisi del bene comune, Bulzoni Editore, Roma 1979.


impegno collettivo al mantenimento di questo bene. Il secondo criterio riguarda le regole che stabiliscono l’uso del bene: per qualunque bene (o servizio) comune c’è bisogno di un’autorità rappresentativa dal punto di vista della legittimità. Ultimo, fondamentale criterio, stabilisce che un bene pubblico si definisce solo in presenza di democrazia. Basandosi su questi valori, e in particolare sull’ultimo, è fondamentale che il riconoscimento dei beni comuni avvenga in primo luogo nella Costituzione degli stati. Se non c’è costituzionalizzazione non può esserci giurisdizionalità e, quindi, nessuno potrebbe ricorrere allo Stato per proteggere il diritto ad accedere al bene comune o a garantirne la sopravvivenza come tale.

2.3 La logica dell’azione collettiva di Olson Con il suo libro “La logica dell’azione collettiva”, Olson si concentra sulla base logica dell'appartenenza e della partecipazione a gruppi d'interesse. Le principali teorie politiche del suo tempo assegnavano ai gruppi uno stato quasi primordiale. Olson offrì un resoconto radicalmente diverso della logica di base dell'azione collettiva organizzata. Egli ha teorizzato che "solo un incentivo separato e 'selettivo', stimolerà un individuo razionale in un gruppo latente ad agire in un modo orientato al gruppo", cioè solo un vantaggio strettamente riservato ai membri del gruppo motiverà qualcuno a partecipare e contribuire al gruppo. Ciò significa che gli


individui agiranno collettivamente per fornire beni privati, ma non per fornire beni pubblici. Il libro nota altresì che i gruppi più grandi avranno costi organizzativi relativamente elevati, mentre i costi dei gruppi più piccoli saranno bassi. Inoltre, il guadagno pro-capite derivante da un'azione collettiva di successo è relativamente minore nei gruppi più grandi, rispetto a quelli più piccoli. Per tutti questi motivi, l'incentivo all'azione di gruppo decresce con l'aumento delle dimensioni del gruppo: i gruppi più grandi sono meno capaci di agire nel proprio interesse comune rispetto a quelli più piccoli. Nel 1982, ampliò la sua logica dell'azione collettiva nel tentativo di spiegare "The Rise and Decline of Nations30". L'idea è che nei paesi si formino col passare del tempo piccole coalizioni distributive. Gruppi come i coltivatori di cotone, i produttori di acciaio, i sindacati ecc. saranno incentivati a formare lobby politiche e ad influenzare le scelte politiche a proprio favore. Tali politiche tenderanno ad essere protezioniste e anti-tecnologia, e quindi danneggeranno la crescita economica; ma dal momento che i vantaggi di queste politiche sono incentivi selettivi concentrati tra i membri di piccole coalizioni, mentre i costi sono diffusi in tutta la popolazione, la "logica" dell'azione collettiva detta che la resistenza pubblica nei loro confronti sarà scarsa. Pertanto, con il passare del tempo, e con l'accumularsi e la crescita di queste coalizioni distributive, la nazione da esse afflitta cadrà nel declino economico. La teoria di 30

Trad. it. "Ascesa e declino delle Nazioni. Crescita economica, stagflazione

e rigidità sociale" Il Mulino 1984.


Mancur Olson è diventata una delle tesi fondanti della teoria della scelta pubblica, una teoria che tenta di spiegare le scelte politiche osservate nel mondo reale sulla base di considerazioni economiche. È nota come legge dei benefici concentrati e perdite diffuse, ovvero legge dei profitti privati e perdite pubbliche. Egli ha inoltre sostenuto che un "bandito itinerante" (sotto anarchia), ha un incentivo solo a rubare e distruggere, mentre un "bandito stanziale31" (un tiranno) è incentivato ad incoraggiare una certa misura di successo economico, in quanto egli si aspetterà di restare al potere abbastanza a lungo da acquisire una quota della ricchezza prodotta. Il bandito stanziale assume così la funzione primordiale del governo, la protezione dei cittadini e della loro proprietà contro i banditi itineranti. Olson ha visto nel passaggio da banditi itineranti a banditi fermi il seme della civiltà, che spiana la strada per la democrazia, la quale migliora gli incentivi per un buon governo allineandosi più strettamente con i desideri della popolazione.

2.3.1 Cos’è l’azione collettiva Mancur Olson elabora l’argomento della superiorità della democrazia rispetto all’autocrazia e di questa rispetto all’anarchia, usando la sua teoria dell’azione 31

In OLSON M. (1983), op. cit., i banditi stanziali sono definiti “Signori

della Guerra”.


collettiva32. Questa si presenta quando gruppi organizzati, grandi o piccoli, agiscono per migliorare il benessere dei loro membri. Esistono due aspetti principali dell’azione olsoniana: quello “micro”, cioè come si forma l’azione collettiva,e quello “macro”, cioè l’impatto del gruppo sull’efficienza del sistema. Per quanto riguarda il primo aspetto, secondo Olson soltanto le organizzazioni composte da pochi associati non hanno bisogno di incentivi aggiuntivi per motivare l’azione dei loro membri. Ognuno sa che il risultato della sua azione più quello delle altre sarà un miglioramento economico diviso per un numero ristretto di soggetti, quindi il costo dell’azione individuale in genere non risulta superiore al ritorno economico. Invece nelle grandi organizzazioni, l’aumento del benessere deve essere suddiviso per un numero cospicuo di beneficiari, quindi, generalmente, il guadagno è nettamente inferiore al costo dell’azione. Per questo motivo le grandi organizzazioni devono introdurre incentivi33 per stimolare la partecipazione individuale all’azione collettiva. Dal punto di vista “macro”, si analizza invece l’impatto sociale ed economico che hanno 32

OLSON M., The Logic of Collective Action. Public Goods and the Theory

of Groups, Harvard University Press, Cambridge 1965. (Ed. It.. La logica dell’azione collettiva: I beni pubblici e la teoria dei gruppi, Feltrinelli, Milano 1983). 33

Gli incentivi sono vari, vi è ad esempio la clausola del closed shop: la

mancata iscrizione al sindacato comporta una mancata possibilità di assunzione nelle fabbriche.


le varie tipologie dell’azione collettiva. Una maggiore ricchezza dei gruppi, apporterà una perdita di efficienza del sistema, quindi una diminuzione della ricchezza nazionale e una riduzione del reddito individuale dei membri dell’organizzazione. Anche qui le dimensioni del gruppo sono importanti: mentre su un gruppo di piccole dimensioni le ricadute della diminuzione della ricchezza nazionale sono irrisorie rispetto al guadagno dato dall’azione collettiva, un’organizzazione di grandi dimensioni si pone più problemi nella sua azione di carattere rivendicativo. Il mattone che va a formare l’edificio istituzionale e sociale è l’individuo. L’attore sociale di Olson è la caricatura di un attore sociale reale. Egli calcola l’utilità individuale dell’azione, dividendo l’utilità globale per il numero di persone beneficiarie e sottraendo il costo dell’azione. Se il risultato è positivo agisce, se negativo non partecipa. Il costo della propria partecipazione ad un’azione collettiva è differente a seconda del tipo di coinvolgimento. Esiste una propensione inferenziale chiamata mental budget allocation che ci rende restii ad effettuare una data spesa per la prima volta, ma una volta effettuata si tende ad aumentarla sempre di più. Quindi nel tempo cambia la percezione del costo dell’azione sociale, inoltre non la si abbandona, anche se è costata molto ed è volta alla sconfitta. Qui si introduce il concetto di regret, un altro meccanismo psicologico studiato dalla scienza cognitiva, cioè il rimpianto o il rammarico che produrrebbe l’abbandono di iniziative già avviate. Di fronte al dilemma agire o non agire vi è un altro fenomeno considerato dai


teorici dell’azione sociale: il costo dell’agire34. Questo, unito al mental budget allocation, ci permette di spiegare la tendenza non partecipativa di molte categorie sociali. La valutazione dell’utilità e la risposta dell’attore, cambia inoltre in base al contesto di riferimento. Come dimostrano Kahneman e Tversky con il framing effect, il decisore sarà “conservatore” in contesti di certezza ed “avventurista” in quelli di incertezza e perdita. Questa è un’arma in mano alle rappresentanze sociali per indirizzare le scelte degli associati, in quanto in base al formato comunicativo, l’analisi costi-benefici individuale porterà all’azione o all’inazione. Un ultimo aspetto riguarda l’accessibilità al comportamento cooperativo. Per Olson risulta difficoltoso spiegare come si accede alla cooperazione, Tversky e Shapir in questo senso introducono il cosiddetto “effetto disgiunzione”: di fronte a situazioni in cui si deve scegliere se competere o cooperare, nel caso non si conosca quanto ha fatto l’avversario, il giocatore tende a cooperare, in quanto crede la decisione dell’avversario sia stata già presa e che la propria non possa influire sul risultato finale35. 34

A parità di perdita causata dall’azione o dall’inazione, il rammarico sarà

maggiore nel caso dell’agire, ch necessita di maggiori giustificazioni rispetto al non decidere. 35

Questa propensione decisionale ci aiuta a capire alcuni comportamenti

collaborativi come la formazione di associazioni lobbistiche tra imprese rivali.


L’attore sociale di Olson è rappresentato attraverso un modello cognitivamente scarso, in quanto non tiene conto di tutti questi aspetti, quindi avrebbe bisogno di ipotesi ausiliarie di carattere empirico per poter essere applicato alla realtà sociale36.

2.4 La visione biopolitica di Negri e Hardt Toni Negri e Michael Hardt offrono una duplice accezione del temine “comune”, cercando di giustificare la posizione intermedia dei beni comuni. Essi intendono, in primo luogo, “la ricchezza comune del mondo materiale , l’aria, l’acqua, i frutti della terra e tutti i doni della natura,che nei testi classici del pensiero politico del mondo occidentale è sovente caratterizzata come l’eredità di tutta l’umanità da condividere insieme”37. In questo senso, leggiamo fin dalle prime pagine del volume, “il linguaggio, gli affetti e le espressioni umane, sono per la 36

Ad esempio: i soggetti facenti parte di gruppi più piccoli sono più motivati

alla partecipazione, non in relazione al raggiungimento di una maggiore utilità marginale, ma in base alla maggiore vicinanza e trasparenza degli obiettivi, una maggiore accessibilità ai processi decisionali e una più forte identificazione con la leadership sindacale. Tutti fattori marginali nell’analisi olsoniana. 37

HARDT M., NEGRI A., Comune. Oltre il privato e il pubblico, Milano,

Rizzoli 2010.


maggior parte comuni”. C’è però un altro significato che Negri e Hardt attribuiscono al “comune”. Essi infatti dicono: “per comune si deve intendere, con maggior precisione, tutto ciò che si ricava dalla produzione sociale”. La vera e propria rivoluzione nella riflessione di Negri e Hardt sta nell’equiparare questi due significati. Con la prima accezione si designano quei beni che i giuristi definiscono come “liberi”, in quanto non appartengono a nessuno e non sono suscettibili di appropriazione; differente è il discorso relativo ai beni (e naturalmente servizi) prodotti. Ogni produzione infatti presuppone un processo lavorativo e quest’ultimo implica necessariamente “un’appropriazione degli elementi materiali per i bisogni umani”38, infatti ogni processo lavorativo si avvale di norma di beni che non sono suscettibili di appropriazione, come l’aria o il linguaggio. Vi è però una profonda differenza: i beni che sono comuni in quanto “liberi” non sono producibili mediante il lavoro, i beni producibili mediante lavoro sono invece oggetto di appropriazione e possono essere comuni solo se la forma sociale consustanziale a questi ultimi li rende “ non rivali” e “non esclusivi”. Avendo evocato Marx, si può dunque sostenere, a differenza di quanto affermano gli economisti neoclassici circa i beni supposti pubblici “per natura”, che anche ciò che non è naturalmente pubblico, può diventarlo.

38 MARX K., Il Capitale. Critica dell’economia politica, libro I, Editori Riuniti, Roma 1989, p. 218


Alla fine del IV capitolo del Libro I del Capitale Marx enuncia l’ essenza del capitalismo: lo sfruttamento, ritraendo l’orizzonte della seconda rivoluzione industriale. Ci spinge ad entrare nella sede nascosta della produzione per farci osservare da vicino il modo in cui si produce plusvalore, con il consumo della forza lavoro acquistata sul mercato. Negri e Hardt ci fanno entrare nel laboratorio della post-modernità in crisi per osservare le dinamiche, oggi non più nascoste, dell’appropriazione del comune da parte del capitale. La tesi principale di Negri e Hardt è che oggi il mutamento di forma dell’intero ciclo della produzione non proviene tanto dall’appropriazione di forza lavoro e mezzi materiali, bensì dalla predazione del comune. La crisi consiste nella modalità di appropriazione del comune, che provoca blocchi, distorsioni, disparità feroci, ma anche resistenze e insubordinazione, per il fatto che alla misura del valore si è sostituita la dismisura inerente a ciò che viene appropriato: sapere, linguaggi, codici, affetti. Il capitale non è più da tempo produttivo, non investe nei mezzi di produzione, ma tende a catturare profitto all’esterno, dalle risorse comuni, naturali e non. Non si tratta, ed è questo il punto nevralgico della loro riflessione, di un passaggio meccanico dal plusvalore estorto nel processo di produzione a quello estratto nell’intero tempo di vita, bensì di un plus-lavoro non misurabile perché si tratta delle facoltà umane intellettive, delle abilità acquisite, delle conoscenze e della cooperazione in cui si esprime l’intera vita. Essi si soffermano quindi sul concetto di comune non tanto come insieme dei beni “non consumptibiles” ,per ricordare una


definizione adoperata da Hannah Arendt, bensì come facoltà e potenza della cooperazione e del linguaggio. Il limite della teoria di Negri e Hardt consiste in una mera definizione dei concetti in termini descrittivi, non illustrando entro quali nuovi rapporti di produzione39 bisognerebbe concepire l’allocazione del processo lavorativo e dei suoi prodotti al fine di spingerci “oltre il pubblico e il privato”. Le riforme sollecitate implicherebbero però la nazionalizzazione di buona parte dell’apparato produttivo, in effetti si dovrebbe piegare le dotazioni industriali già esistenti a logiche di funzionamento non capitalistiche, oppure di organizzare la produzione per l’esportazione in modo da ottenere i necessari trasferimenti di tecnologia dall’estero. Nell’una come nell’altra ipotesi non saremmo “oltre il privato e il pubblico”, ma saldamente all’interno dell’uno e dell’altro: del mercato o dello Stato. Non c’è una terza via, l’economia nel suo insieme può essere mista, ma ogni singola attività deve essere l’una o l’altra cosa

39 I rapporti di produzione concernono sia gli agenti della produzione che i mezzi materiali ad essa occorrenti.


CAPITOLO TERZO DA HARDIN A OSTROM: DALLA TRAGEDIA ALLA GESTIONE DEI BENI COMUNI

Uno dei primi a porre la questione di quella che egli stesso definì la “tragedia dei beni comuni”, fu nel 1968 Garrett Hardin. Il dibattito sui beni comuni non nasce con Hardin, tuttavia l’articolo del 1968 “The Tragedy of the commons”, pubblicato sulla prestigiosa rivista Science, costituisce il punto di partenza del dibattito contemporaneo sull’argomento. Egli esordisce nella sua analisi con l’affermazione che nella gestione dei fenomeni collettivi esistono delle tragedie, una parola che nel suo senso originario indica quelle situazioni nelle quali non esiste una soluzione ottima, perché ogni scelta comporta dei costi alti: non c’è dunque nella tragedia una scelta ottima che sia ottima per tutti e da tutte le prospettive da cui la guardiamo.

3.1 Hardin: quando i beni diventano scarsi e le persone sono libere In “The Tragedy of the common”, Hardin descrive un modello che costituisce una metafora della pressione data dalla crescita incontrollata della popolazione sulle


risorse terrestri, presentandolo quale “tragedia della libertà in una proprietà comune”40. La posizione di Hardin è, in sintesi, che gli utilizzatori di una risorsa comune sono intrappolati in un dilemma tra interesse individuale e utilità collettiva, dilemma da cui è possibile uscire solo con l’intervento di un’autorità esterna, di norma lo Stato. Nel caso della popolazione, dell’ambiente e dei beni collettivi o comuni, la situazione è spesso quella di una tensione drammatica tra la libertà degli individui e la distruzione delle risorse stesse. Se un bene non appartiene a nessuno ma è liberamente accessibile, vi è una naturale tendenza a sovrasfruttarlo, addirittura a sprecarlo41. Infatti 40

In economia per tragedia dei beni comuni o collettivi si intende una

situazione in cui diversi individui utilizzano una stessa risorsa per interessi privati e nella quale i diritti di proprietà non sono chiaramente definite ed assicurati in modo da garantire che chi sostiene I costi dell’uso della risorsa ne tragga pienamente I corrispondenti benefici. 41

Per applicare il pensiero di Hardin a beni quali l’atmosfera, il clima, gli

oceani, manca sia un possibile proprietario privato, sia un soggetto statale in grado di affermare e difendere la proprietà pubblica. Il diritto internazionale, in questa prospettiva, altro non è che un sistema di governance applicato a un bene comune e non vi è soluzione alternativa alla cooperazione per raggiungere un qualsiasi risultato. È importantissima anche in quei casi in cui un principio di proprietà pubblica è in astratto possibile e nei fatti esistenti, ma la sua attuazione effettiva si scontra da un lato, con l’enormità dei costi amministrativi (in Italia ci sono centinaia di migliaia di pozzi privati che bisognerebbe monitorare per applicare la norma), dall’altro con la difficoltà


l’individuo che si appropria del bene comune, deteriorandolo, gode per intero del beneficio, mentre sostiene solo una piccola parte del costo, in quanto questo verrà socializzato. Il risultato inevitabile sarà il saccheggio del bene fino al suo esaurimento; nello stesso tempo nessuno è incentivato a darsi da fare per migliorare, per reintegrare il bene, poiché sosterrebbe un costo a fronte di un beneficio di cui non potrebbe appropriarsi che in parte. Noto è l’esempio che Hardin riporta nel suo paper relativo al pascolo comune e libero, dove ogni cittadino porta a pascolare le proprie mucche. La scelta che massimizza la libertà e l’interesse individuale, è quella di aumentare di una unità di bestiame al pascolo, mentre la diminuzione dell’erba (poiché il danno si ripartisce su tutti gli altri contadini) è minima, quindi il beneficio individuale è maggiore del costo individuale. Da qui l’incentivo individuale ad aumentare sempre più i capi di bestiame al pascolo, fino ad arrivare alla distruzione del pascolo stesso, se non accade qualcosa che limiti la libertà individuale. Dallo sfruttamento del pascolo collettivo ogni attore ricava dei vantaggi per i suoi animali, mentre i costi che è costretto a pagare per lo sfruttamento eccessivo della risorsa sono dilazionati con gli altri allevatori. Ogni allevatore, considerato come “essere razionale”, cercherà di massimizzare il proprio profitto: il vantaggio personale porterà ogni singolo allevatore ad aumentare il numero dei propri animali al pascolo, portando all’esaurimento la politica di vietare comportamenti che sono prassi consolidate percepite come diritti.


risorsa. La tragedia è questa42. Ogni uomo è prigioniero di un sistema che lo obbliga ad accrescere senza limiti il numero dei suoi animali, in un mondo che è limitato: «La rovina è la destinazione verso cui tutti gli uomini corrono, ciascuno perseguendo il proprio interesse, in una società che crede nella libertà delle risorse comuni»43. La tragedia di cui parlava Hardin è dovuta al fatto che quando certe risorse costano poco, o addirittura sono di libero accesso”, si tende a sovrastrutturale e, alla fine, a distruggerle. L’unico modo per evitare la tragedia dei commons è, in effetti, privatizzarli. Si può però anche cadere nell’eccesso opposto: quello della tragedia degli anti-commons44, ovvero bloccare artificialmente l’accesso a un bene e quindi sotto-sfruttarlo. La tragedia dei beni comuni è la banale conseguenza della ferrea legge della domanda e 42

Esempio di tragedia dei beni comuni può essere la pesca in acque

internazionali, dove il bene comune (il pescato), è messo a disposizione di tutti I pescatori, I quli però seguendo I propri interessi personali, senza incorrere nella possibilità di essere monitorati o senza un chiaro diritto di proprietà che venga fatto rispettare (moral hazard), sfruttano eccessivamente la risorsa in modo da causare una situazione diversa dall’ottimo sociale. 43 44

Hardin G. (1968), op. cit., p. 1244. Non necessariamente la proprietà privata è un buon metodo, storicamente si

sono avuti esempi in cui il bene è stato sottoutilizzato e risultati palesemente inefficienti (si parla in questo caso della “Tragedia degli Anticommons”), ad es. nelle ex Repubbliche socialiste ed inoltre: lo sguardo corto del mercato non tiene minimamente in conto i cd. valori di non uso dei non fruitori, né i diritti delle generazioni future.


dell’offerta. Se il prezzo di un bene tende a zero, la domanda tenderà all’infinito. Poiché tutte le risorse sono scarse nel breve termine, le risorse ad accesso libero tendono ad essere sovra sfruttate. Per evitarlo si potrebbe privatizzare e creare un mercato: creare un mercato e mettere la risorsa in mani private significa far emergere un sistema dei prezzi che, si suppone, dovrebbe equilibrare domanda e offerta. Cioè ci aspettiamo che i prezzi di mercato del bene in questione sia sufficientemente alto da limitare la domanda a un livello sostenibile. La seconda strada, che è quella suggerita da Hardin nel suo saggio, è la regolazione dell’accesso ai commons45. Da questa teoria emerge l’incapacità da parte di un gruppo o di una comunità a darsi delle regole per fronteggiare o sottrarsi alla “tragedia delle risorse comuni”, vale a dire al loro esaurimento, mentre solo le regole imposte dall’esterno possono garantire la corretta amministrazione delle risorse46. Nello specifico, l’autore sostiene che solo un controllo esterno, dello Stato o di un 45

Per risolvere la maggior parte delle tragedie dei beni comuni, basterebbe

definire chiaramente dei diritti di proprietà. 46

Hardin G. (1968), op. cit. Hardin non fu il primo a indicare i beni comuni

come una tragedia. Già Aristotele aveva scritto «ciò che è comune alla massima quantità di individui riceve la minima cura. Ognuno pensa principalmente a se stesso, e quasi per nulla all’interesse comune» (Politica, libro II, capo 3). Medesima conclusione deriva dalla parabola di Hobbes, in cui l’uomo allo stato di natura cerca solo il proprio tornaconto, finendo così per lottare con gli altri uomini.


proprietario privato, può evitare la tragedia della risorsa collettiva. Un elemento chiave è quindi l’emergere dell’individuo e delle sue libertà. Nelle società tradizionali (normalmente piccole) c’era essenzialmente uno strumento: la gerarchia, che consentiva a qualcuno, normalmente sulla base di una legittimazione sacrale, di scegliere per tutti. In questo contesto gerarchico, antico, ma presente ancora oggi in molte comunità, la tragedia del commons semplicemente non si pone, poiché non c’è un contrasto tra libertà individuale e bene comune, perché non esistono libertà individuali, in queste società il bene del re coincide con il bene del popolo. Quindi la tragedia dei commons per emergere ha bisogno dell’esistenza e della libertà degli individui. Per questo essa è tipicamente un problema moderno. Per il fatto di essere rappresentata come metafora della sovrappopolazione, la tragedia dei beni comuni di Hardin è stata frequentemente utilizzata dagli studiosi per descrivere problemi molto diversi tra loro, diventando un fondamentale punto di riferimento concettuale per sviluppare altri modelli utili a sostenere risoluzioni a conflitti sull’uso delle risorse naturali che propongono un intervento pubblico piuttosto che la privatizzazione. Tra questi ricordiamo il gioco del dilemma del prigioniero (prisoner’s dilemma o PD), spesso utilizzato per rappresentare il modello di Hardin. Come spesso succede, applicare il concetto di base a un oggetto semplice consente di mettere a fuoco concetti e teorie di portata più generale. Per applicare il pensiero di Hardin a beni quali


l’atmosfera, il clima, gli oceani, manca sia un possibile proprietario privato, sia un soggetto statale in grado di affermare e difendere la proprietà pubblica. Il diritto internazionale, in questa prospettiva, altro non è che un sistema di governance applicato a un bene comune e non vi è soluzione alternativa alla cooperazione per raggiungere un qualsiasi risultato. È importantissima anche in quei casi in cui un principio di proprietà pubblica è in astratto possibile e nei fatti esistenti, ma la sua attuazione effettiva si scontra da un lato, con l’enormità dei costi amministrativi (in Italia ci sono centinaia di migliaia di pozzi privati che bisognerebbe monitorare per applicare la norma), dall’altro con la difficoltà politica di vietare comportamenti che sono prassi consolidate percepite come diritti.

3.2 Le soluzioni classiche alla tragedia dei commons 3.2.1 La teoria dei giochi: il dilemma del prigioniero La scienza sociale, soprattutto quella economica, ha proposto in questi ultimi decenni alcune soluzioni alla tragedia dei commons. Innanzitutto, ha tradotto il problema dei commons nel linguaggio della teoria dei giochi, mostrando che la tragedia di Hardin è in realtà un semplice “Dilemma del prigioniero”: esiste cioè una strategia razionale per l’individuo, ma che non è ottima collettivamente. Nel DP viene considerato il presupposto


che la produzione, da parte di un individuo, del bene pubblico, risulta non conveniente. Quindi consideriamo una società formata da due individui: la mossa “non contribuisce” risulterà una strategia dominante e l’intersezione delle scelte individualmente razionali (non contribuisce, non contribuisce) dà luogo ad una situazione di equilibrio (equilibrio di Nash) ma che non è Paretoefficiente, dato che entrambi potrebbero stare meglio in un’altra situazione. Il dilemma del prigioniero fornisce un valido spunto per confrontare i due concetti di equilibrio di Nash e ottimo di Pareto. La prima formulazione del teorema di Nash, che costituisce la nozione di equilibrio più famosa della teoria dei giochi per quel che riguarda i giochi non cooperativi, appare in un brevissimo articolo del 1949 dove John Nash spiega la sua idea: sotto certe condizioni esiste sempre una situazione di equilibrio che si ottiene quando ciascun individuo che partecipa ad un dato gioco sceglie la sua mossa strategica in modo da massimizzare la sua funzione di retribuzione, sotto la congettura che il comportamento dei rivali non varierà a motivo della sua scelta (vuol dire che anche conoscendo la mossa dell’avversario, il giocatore non farebbe una mossa diversa da quella che ha deciso). Tutti i giocatori possono dunque operare una scelta dalla quale tutti traggono un vantaggio (o limitare lo svantaggio al minimo). Il contributo più importante dato da John Nash alla teoria dei giochi è la dimostrazione dell’esistenza di questo equilibrio. In particolare egli ha dimostrato che ogni gioco finito che ammetta strategie miste, ammette almeno un equilibrio di Nash, dove per gioco finito si intende un


sottoinsieme di strategie a ciascuna delle quali l’agente associa una data probabilità e che sceglierà secondo quest’ultima. Supponiamo per semplicità che tutti i giocatori abbiano a disposizione una sola strategia dominante (come accade nel dilemma del prigioniero): tutti i giocatori giocheranno questa strategia; tale coniazione di strategie rappresenta l’unico equilibrio di Nash del gioco: il singolo agente, cambiando strategia, può solo peggiorare il proprio risultato. È inoltre opportuno fare una breve riflessione sul significato profondo del concetto di equilibrio di Nash. Si è visto infatti come esso rappresenti una situazione nella quale ciascun agente razionale ha interesse a cambiare strategia e come sia il frutto della scelta, da parte di tutti i giocatori, della propria strategia dominante: l’equilibrio di Nash rappresenta quindi la situazione nella quale il gruppo si viene a trovare se ogni componente del gruppo fa ciò che è meglio per sé, cioè massimizzare il proprio profitto a prescindere dalle scelte degli avversari. Tuttavia non è detto che l’equilibrio di Nash sia la soluzione migliore per tutti. L’aspetto più interessante del dilemma del prigioniero è il seguente: tutte le combinazioni di strategie, ad eccezione dell’equilibrio di Nash, sono ottimi


paretiani47. Infatti, presa una qualunque combinazione, non è possibile trovarne un’altra che comporti per almeno uno dei due giocatori un aumento del benessere senza che diminuisca l’utilità dell’altro giocatore. Il dilemma del prigioniero mette in luce il concetto cardine dell’economia: l’ottimo di Pareto è razionale dal punto di vista collettivo, ma non lo è affatto dal punto di vista individuale. Il confronto tra equilibrio di Nash e ottimo Paretiano smentisce quindi quanto sostenuto da Adam Smith, ritenuto fino a prima della formulazione della “teoria dell’equilibrio, il “padre dell’economia moderna”. Egli infatti riteneva che se ogni componente di un gruppo persegue il proprio interesse personale, non può che accrescere la ricchezza complessiva del gruppo. Oggi invece sappiamo che se ogni componente del gruppo fa ciò che è meglio per sé, il risultato cui si giunge è un 47

L’ottimo paretiano è un concetto di grande importanza: l’obiettivo del

mercato è quello di giungere sempre ad un ottimo di Pareto, cioè ad una situazione nella quale, indipendentemente dall’effettiva allocazione delle risorse, non sia possibile trovare un’ altra allocazione che porti ad un incremento della ricchezza di alcuni senza sottrarre ricchezza ad altri. La ragione dell’importanza dell’ottimo di Pareto è che se esiste una soluzione che comporti l’incremento del guadagno di qualcuno, senza che nessuno subisca delle perdite, vuol dire che esistono delle risorse che non sono state allocate e che quindi verrebbero disperse. Infatti l’ulteriore arricchimento di qualcuno passa necessariamente per l’impoverimento di qualcun altro. (ARTONI R., op. cit., appendici A e B).


equilibrio di Nash, ma non necessariamente un ottimo di Pareto. Nella variante di Hardin, il gioco prevede due giocatori ai quali è chiesto di prendere una decisone rispetto all’uso di un pascolo comune. L’esito del gioco dipende da due condizioni: la prima è data dalla possibilità per entrambi i giocatori di avvalersi di una strategia dominante, cioè più vantaggiosa e non vincolata alla scelta dell’altro, rappresentata dalla non cooperazione; la seconda è che nessun giocatore ha un incentivo a cambiare strategia che sia indipendente dalla scelta dell’altro. Nella casistica del PD applicata al modello di Hardin i due giocatori, considerati individui razionali, optano entrambi per la strategia dominante, dimostrando così la loro incapacità a collaborare per una finalità comune48. In particolare si afferma che sulla base dell’apprendimento dalle tragedie passate, i prigionieri hanno l’interesse personale e l’incentivo a “uscire dalla prigione” e cooperare senza bisogno di enforcement legale o esterno. Questa soluzione non sembra particolarmente 48

Strettamente legato all’idea di una incapacità degli individui a concorrere

insieme per raggiungere un bene comune, è il pensiero sviluppato da Mancur Olson nella Logica dell’azione collettiva: Olson M. (1983), op. cit. Douglas M. (1994), op. cit., sottolineano come in realtà l’autore non neghi in assoluto l’azione collettiva, lasciando aperta la possibilità che questa possa essere attuata da un gruppo di dimensioni medie o soggetto ad una coercizione o ad altro tipo di pressione tale da far collaborare i suoi membri per un interesse comune.


utile per capire la storia di come le comunità reali risolvono le tragedie dei commons. Come sviluppo di questa visione di gestione individualistica e autointeressata c’è la proposta di privatizzare il bene collettivo suddividendolo in tante frazioni private, scelta da non demonizzare o da criticare come anti-sociale. Il punto cruciale però è che molti beni comuni cruciali (dall’ozono all’acqua) non sono divisibili e quindi occorre trovare soluzioni collettive. Questa traduzione ha migliorato la sintassi del problema, ma non ha aiutato la semantica. Innanzitutto, come aveva già messo in luce Olson nel 1965 con il suo libro “La logica dell’azione collettiva”, perché la tragedia dei commons si verifichi, occorre che le persone coinvolte siano abbastanza, un numero sufficiente a non cogliere immediatamente che la tragedia pubblica è anche privata: in altre parole, se i pastori fossero solo due, ognuno vedrebbe immediatamente che il suo uso eccessivo del pascolo lo sta distruggendo, e il problema da pubblico (di tutti, cioè di nessuno) diventerebbe privato. Nel Dilemma del prigioniero, invece, la numerosità dei giocatori non è una dimensione rilevante del problema e anche con sole due persone il dilemma emerge. Inoltre se descriviamo la tragedia dei commons come un Dilemma del prigioniero (con tanti giocatori), la prima soluzione della tragedia che salta in mente è la ripetizione del gioco. Vediamo subito che questa “soluzione” in realtà è un’ulteriore prova che la struttura logica del Dilemma non è adatta per comprendere la tragedia dei commons. In quest’ultimo


caso, la natura del “gioco” è già dinamica, ma non è rappresentabile dalla struttura della teoria dei giochi.

3.2.2 Il contratto sociale e l’etica individuale Le altre due soluzioni classiche sono il contratto sociale e l’etica individuale. L’unica soluzione offerta da Hardin al dilemma è, per ammissione dello stesso autore, di stampo neohobbesiano: un’autorità esterna che utilizzi «strumenti coercitivi» in modo tale da costringere gli attori a comportamenti in grado di innalzare il beneficio collettivo. Nonostante alcune cautele che si traducono nell’auspicio di una coercizione democratica, in altri termini, di forme di restrizione della libertà da parte di un’autorità esterna che ottenga per lo meno il consenso della maggioranza dei partecipanti, la proposta di Hardin rimanda all’incapacità sostanziale degli attori di risolvere autonomamente i propri problemi di gestione della risorsa comune e la necessità di una sorta di Leviatano in grado di liberarli dalle miserie del loro «stato di natura». Punta tutto sullo Stato e sulla creazione di un patto artificiale (Leviatano). Il “Leviatano” di Thomas Hobbes (15851679) è considerato l’atto costitutivo dello Stato moderno, la cui autorità è delimitata dalla quota di libertà che i cittadini sono disposti a delegargli privandosene. Essi sono soggetti razionali consapevoli di dover autolimitare la propria libertà per riuscire a coordinarsi tra di loro e


uscire dalla tragedia. Per Hobbes infatti, la libertà è un diritto del cittadino, non un dovere dello Stato, che proprio per questo è un leviatano, cioè un mostro, anche se necessario, il “dio mortale al quale noi dobbiamo la nostra pace e la nostra difesa”. Lo Stato è dunque il prezzo da pagare per superare la guerra permanente tra gli uomini. “A causa del prevalere degli interessi egoistici e competitivi, afferma Hobbes, le terre comuni non possono essere gestite dalle comunità, ma conquistate con la lotta”. Hobbes era pertanto intrinsecamente ed esplicitamente contrario ai beni comuni, come tutti i filosofi di quell’epoca. In un recente articolo, A. Sen49, l’economista più influente oggi in tema di politiche ambientali e di diritti umani, ha sottolineato che nel tema dei global commons, come l’acqua, la soluzione hobbesiana dello Stato che sanziona i trasgressori, semplicemente non è praticabile perché non esiste e non è così ovvio se convenga crearla50. Ciò non significa dire che i capi di governo non debbano far di tutto per arrivare ad un patto sociale mondiale con sanzioni, ma non sembra la soluzione più semplice. Inoltre gli utilizzatori dei beni comuni globali, sono miliardi di persone indipendenti le une dalle altre, dove ciascuno massimizza i propri obiettivi: coordinare e limitare tutta questa gente è 49

SEN A., Sviluppo sostenibile e responsabilità, Il Mulino, Bologna 4/2010,

pp. 554-566. 50

Quale autorità oggi sarebbe in grado di imporre sanzioni agli US sull’uso

del CO2 e di renderle esecutive?


impresa ardua. Eppure urge un patto sociale mondiale, sarebbe un patto diverso da quello hobbesiano, tendenzialmente illiberale, dovrebbe essere un patto della fraternità. La seconda, punta sull’etica individuale, dove il soggetto interiorizza la norma ed è più felice seguendo la condotta morale. Dal punto di vista tecnico, è come se i soggetti cambiassero le loro preferenze nel tempo fino ad includere nella propria funzione obiettivo anche il bene pubblico: il bene da pubblico diventa privato, grazie a ricompense e sanzioni interiori, che fanno preferire il comportamento etico a quello non etico.

3.3 La critica ai tre modelli dell’economia dominante Che cosa manca in questa storia di possibili soluzioni? La società civile o la comunità, che è una realtà che non possiamo definire né Stato, né mercato. Per apportare un vento di innovazione si deve sempre partire da uno studio approfondito del passato. La Ostrom lo sa e nel suo testo “Governing the Commons” cita e critica le tre teorie utilizzate dalla economia e dalla scienza politica classica per analizzare e risolvere il problema dei beni comuni. L’economia dominante, compresa l’economia ambientale, affronta il tema sulla base di tre modelli paradigmatici fondamentali e complementari: la “Tragedy of the commons”, formulata nel 1965 da Garrett Hardin; “Il dilemma del prigioniero”, concettualizzato come un


gioco non cooperativo in cui tutti i partecipanti hanno completa informazione; l’approccio di Ronald Coase sui diritti di proprietà51. Hardin dimostra come, di fronte ad un pascolo aperto a tutti, ogni pastore segue razionalmente una logica del profitto individuale che, aggregata collettivamente, conduce tragicamente all’esaurimento della risorsa comune. Il dilemma del prigioniero rafforza le premesse di razionalità individuale dei comportamenti non cooperativi: di fronte alla scelta di tradire o cooperare, in assenza di comunicazione, il prigioniero razionale non può che tradire, mentre collettivamente sarebbe meglio cooperare. Le possibili soluzioni prospettate da Hardin per la gestione (sostenibile, si direbbe oggi) del pascolo, sono due: o interviene lo Stato o si privatizza. Coase dimostrando l’efficienza della soluzione di mercato mediante definizione di diritti di proprietà privata ed in assenza di costi di transazione, fa pendere la bilancia a favore della privatizzazione. Ostrom analizza e contesta alla radice tale impianto, evidenziandone le falle metodologiche e dimostrandone deboli le conclusioni. Uno dei suoi meriti principali, 51

Ronald Harry Coase (Willesden, 29 dicembre 1910) è un economista

inglese, vincitore del premio Nobel per l'economia nel 1991, «per la scoperta e la spiegazione dell'importanza che i costi di transazione e i diritti di proprietà

hanno

nella

struttura

istituzionale

dell'economia».

e

nel

funzionamento


sicuramente alla base del riconoscimento del Nobel, è che la sua critica è mossa all’interno del paradigma dominante, utilizzandone strumenti e metodi in maniera rigorosa, per giungere a risultati opposti. La prima critica al modello di Hardin è che, in realtà, ciò che lui definisce “commons” non sono risorse comuni, bensì risorse in libero accesso. Non è una differenza di poco conto: nella realtà i commons sono spazi e risorse naturali collettive, appropriate e gestite da un gruppo definito, secondo modalità e norme definite, che in generale, storicamente e geograficamente, sono la regola, mentre il libero accesso rappresenta l’eccezione. Il lavoro della Ostrom prende le mosse dagli scritti di uno di quei precursori-anticipatori, troppo eterodossi per essere apprezzati nell’epoca in cui scrivevano, il tedesco Sigfried von Ciriacy-Wantrup52, che negli anni Cinquanta osservava che vi sono nel mondo molti esempi di proprietà comuni che sfuggono al destino preconizzato da Hardin, come ad esempio le foreste ed i pascoli alpini. Distingueva appunto le “common pool resources” (res communis omnium) dai “free goods” (res nullius): nel primo caso, pur in assenza di un’entità che possa vantare diritti di proprietà esclusivi, a fare la differenza è l’esistenza di una comunità, l’appartenenza alla quale impone agli individui certi diritti di sfruttamento del bene comune, ma anche determinati doveri di provvedere alla sua gestione, manutenzione e riproduzione, sanzionati dalla comunità stessa attraverso l’inclusione di chi ne rispetta le regole e l’esclusione di 52

Biologo fuggito dalla Germania nazista e naturalizzato americano.


chi non le rispetta. In conclusione la tragedia di Hardin sarebbe una tragedia del libero accesso: se in assenza di regole le previsioni tragiche del modello sono corrette, la “proprietà comune” rappresenta in realtà una delle possibili risposte alla tragedia, le soluzioni della quale non si limitano a Stato e/o mercato. Esiste una terza via, le cui possibili forme concrete sono molteplici e diverse, ma che gli studi empirici in tutto il mondo, evidenziando l’esistenza di istituzioni collettive spesso millenari che gestiscono con sorprendente efficienza e sostenibilità sistemi e risorse ambientali estremamente complessi, ci impongono di analizzare e comprendere a fondo. In tale prospettiva, durante gli ultimi tre decenni, la Ostrom dimostra il ruolo fondamentale della diversità istituzionale per rafforzare la resilenza dei sistemi socio-ambientali per la sostenibilità, sviluppando ed ispirando non solo una molteplicità di studi empirici sui sistemi locali di gestione delle risorse comuni, ma anche studi sperimentali sul comportamento umano. Il modello del dilemma del prigioniero è seriamente criticato per le ipotesi di gioco a turno unico ed assenza di comunicazione, su cui fonda le sue previsioni. La realtà non è avulsa dalla storia, dai processi di apprendimento fondati sugli errori e gli attori possono comunicare tra loro. Introducendo progressivamente, nel dilemma del prigioniero applicato alla gestione di risorse comuni, giochi a turni ripetuti e comunicazione, le soluzioni si allontanano parecchio dalle previsioni tragiche iniziali, tendendo a risultati intermedi rispetto all’ottimo teorico.


Nella realtà, gli attori sono inoltre in grado di definire regole e sanzioni per la loro infrazione. Ciò dimostra che esiste una terza via alternativa, dalla grande diversità istituzionale interna, alle soluzioni inizialmente prospettate: Stato o mercato. Ciò obbligherebbe i tradizionali versanti politici contrapposti, fautori dell’una o dell’altra soluzione, le cui controversie possono essere sintetizzate attorno al modello di Coase sull’esistenza e/o sull’entità dei costi di transazione per ogni caso specifico (ridicendosi a preferire la privatizzazione se il mercato consente minori costi di transazione, o la nazionalizzazione nel caso inverso), a confrontarsi con un universo di alternative possibili a quella che, in entrambi i casi, costituirebbe un’espropriazione dei commons, considerando modelli di gestione dal basso, fondati su nuove ed antiche forme di empowerment53 delle comunità di utenti di risorse collettive. Partendo da queste premesse, il premio Nobel Elinor Ostrom prospetta una terza via: la gestione civica del bene attraverso istituzioni di autogoverno. Si approda così a un approccio nuovo in cui si afferma la capacità degli individui di districarsi tra i vari tipi di dilemma in modo diverso a seconda delle 53

Il termine empowerment, coniato dal movimento femminista e dagli studi

di genere, indica la capacità di un soggetto di contare, perché ha acquisito la consapevolezza della sua identità e forza, ottenendone il riconoscimento da parte degli altri soggetti. (RICOVERI G., Beni comuni vs merci, Jaca Book, Milano 2010, p. 104).


circostanze di contorno e delle caratteristiche sia interne che esterne al gruppo.

3.3.1 L’approccio di Ronald Coase sui diritti di proprietà Il "teorema" di Coase, frutto degli studi di Ronald H. Coase che lo pubblicò nel 1960 nell'articolo The Problem of Social Cost che gli valse il Premio Nobel per l'economia nel 1991, è un tentativo di dimostrare come attraverso il mercato si possa giungere ad un'efficienza, intesa come somma netta del benessere sociale superiore rispetto a quella che si può ottenere con l'intervento dello stato o di altre regolamentazioni. Nel 1937 Coase scrive un saggio destinato a una lunga fortuna e a far nascere l'approccio neo-istituzionalista alla teoria dell'impresa, cui ha contributo anche Oliver E. Williamson54. Il punto di partenza dell’analisi coasiana è semplice: se realizzare transazioni di mercato non comportasse alcun costo, ognuno potrebbe lavorare per conto suo, scambiare beni e servizi che produce ed essere completamente ‘padrone di se stesso’. Ma se, d’altra parte, esistono imprese di enormi dimensioni, ciò deve dipendere dal fatto che "internalizzare" le relazioni fra gli individui all'interno delle imprese deve presentare dei vantaggi rispetto al loro 54

Oliver Williamson, vincitore del Premio Nobel per l’Economia con Elinor

Ostrom nel 2009. Per un approfondimento si rimanda al paragrafo 4.4.1.


esclusivo coordinamento sul mercato. La risposta di Coase è la seguente: “all’esterno dell’impresa i movimenti dei prezzi dirigono la produzione che viene coordinata da una serie di scambi sul mercato. All’interno dell’impresa, queste transazioni di mercato sono eliminate e al posto della complicata struttura di mercato con transazioni di scambio viene posto l’imprenditore/coordinatore che dirige la produzione. Coase propone una teoria dell’impresa basata sul confronto tra costo d’uso del mercato e costo d’uso dell’impresa per il governo di una determinata transazione. Le imprese esistono dunque perché riescono a realizzare alcune transazioni ad un costo minore di quello associato alla contrattazione di mercato. Risparmiando questi costi e affidando la direzione gerarchica delle risorse all'imprenditore, l'organizzazione di impresa si caratterizza per una maggiore efficienza rispetto al mercato. Nel 1960 Coase estende la precedente analisi basata sui costi di transazione, al caso più generale in cui l'uso dei diritti di proprietà sul mercato comporta dei costi di transazione. Se i diritti fossero ben definiti e non vi fossero costi di transazione, il meccanismo di mercato farebbe sì che i diritti di proprietà finirebbero nelle mani dei soggetti che li valutano di più (Teorema di Coase). Si raggiungerebbe cosi l'allocazione efficiente delle risorse, indipendentemente dall'allocazione iniziale dei diritti proprietari. Quando tuttavia i costi di transazione sono significativi, l'allocazione iniziale dei diritti e il loro uso influenzano l'allocazione finale e non è detto che il


mercato permetta l'allocazione efficiente delle risorse. In presenza di costi di transazione, la definizione e la concentrazione dei diritti proprietari dipende dai costi di transazione. Al fine di promuovere l'uso e l'allocazione efficiente delle risorse occorre comparare le istituzioni (scambio di mercato, intervento pubblico) che permettono di conseguire la migliore allocazione possibile, dati i vincoli esistenti. Ciò significa che in presenza di conflitti sull'uso di diritti proprietari, l'intervento pubblico (ad esempio attraverso la tassazione pigouviana55) è desiderabile solo se comporta un'allocazione più efficiente dello scambio di mercato. Tra i motivi tecnici di critica all'enunciazione di Coase, vi sono: - l'assunzione di un rapporto lineare tra i costi e i benefici, - l'impraticabilità dell'applicazione quando sono coinvolti più di due soggetti, - l'impossibilità di eliminare in qualunque caso i costi di transazione. L'obiezione di maggior importanza risiede però nell'osservazione che in presenza di impatti negativi o positivi nei confronti di altri agenti economici 55

La tassa di Pigou o tassa pigouviana, dal nome dell’economista inglese che

per primo ne propose l’applicazione, permette di correggere per via autoritativa il prezzo privato, il governo potrebbe cioè imporre una tassa sull’inquinamento all’impresa inquinante, commisurata alla quantità di inquinamento da essa prodotta. (ARTONI R., op. cit., p. 399).


(esternalità), tali soggetti non sono "scoraggiati" o "incoraggiati" ad intervenire nel mercato perché il soggetto la cui attività produce gli effetti esterni non riceve alcun compenso dal loro intervento. Non esistono, cioè, prezzi di mercato capaci di regolare le esternalità. La questione viene affrontata dall’ imposta Pigouviana. Dal punto di vista etico e politico, il teorema fa molto discutere perché in pratica sostiene che l'intervento dello stato per trovare una soluzione efficiente da un punto di vista sociale alle esternalità (come ad esempio l'inquinamento) sarà sempre fallimentare e che il mercato lasciato libero sia da solo in grado di risolvere questi problemi semplicemente contrattando l'esternalità come un bene qualsiasi secondo la legge della domanda e dell'offerta, purché i diritti di proprietà siano ben definiti e quindi sia possibile creare un normalissimo mercato delle esternalità.


CAPITOLO QUARTO LA TERZA VIA DI ELINOR OSTROM

Sui beni comuni si scontrano due logiche inconciliabili: la condivisione e il mercato. La prima è volta all’equa distribuzione dei benefici e alla loro massima durata nel tempo; il secondo all’intensificazione dello sforzo produttivo e alla concentrazione dei poteri di sfruttamento. Una gestione corretta dei beni comuni richiede quindi un cambiamento dei paradigmi economici dominanti e un mutamento di mentalità56. Si tratta di trovare, attraverso la gestione condivisa dei beni comuni, la capacità della comunità di cooperare in armonia. Il modo forse più giusto di tradurre commons è “comunanze”, perché tiene insieme beni, regole d’uso, comunità di riferimento. Qui si apre il campo sconfinato della politica, della ricerca e della sperimentazione di forme e modi della cooperazione sociale, 56

“Non è dal potere che verranno le soluzioni. Perché non si possono

risolvere i problemi con gli stessi schemi di pensiero con cui sono stati creati. Un nuovo paradigma storico si sta delineando. È basato sulla cooperazione anziché sulla competizione, sulla condivisione anziché sull’appropriazione individualistica. Il nuovo paradigma si sta configurando come un nuovo patto tra gli esseri umani che però include necessariamente anche un nuovo patto con la terra, con la natura e con la vita”. (MAZZI E., Le radici vitali di una società fondata sui beni comuni, da Il Manifesto del 3 Febbraio 2011).


dell’autorganizzazione e del governo partecipato e responsabile, della diffusione del potere per favorire l’inclusione di tutti. Insomma, un’ iniziativa politica che immagina un sistema di governo territorializzato delle risorse collettive. La Ostrom ha messo in discussione l’idea classica che vede la proprietà pubblica mal gestita, con la conseguente ricerca di soluzioni di mercato o quanto meno di autorità pubbliche in grado di garantirne l’amministrazione. I suoi studi si oppongono al bieco conservatorismo che non vede altre soluzioni alla presunta “Tragedia dei commons”, se non passare le risorse comuni da “bene collettivo” a “bene pubblico”, con regole e sanzioni; oppure privatizzarli e affidarli quindi alle logiche di mercato. “No- dice la Ostrom- c’è una terza via: gli utenti dei commons si possono associare e questi meccanismi consensuali possono dare risultati superiori alle attese. Le applicazioni di questo disegno sono tante, da quei commons che sono gli oceani a rischio di esaurimento delle risorse ittiche a quel grande commons che è il nostro pianeta, minacciato dall’effetto serra”57.

4.1 La gestione civica del bene 57

GALIMBERTI F., Tra pubblico e privato. Sfida dei commons in cerca di

terza via. SCOMMESSA - I meccanismi consensuali di autoregolamentazione tra i fruitori di un bene possono dare risultati superiori alle attese, in Il Sole 24 ore del 13 Ottobre 2009.


Per diverse ragioni il premio Nobel alla Ostrom è straordinario: perché è la prima volta che viene assegnato ad una donna, ma anche perché è una politologa e riceve un riconoscimento riservato di solito a economisti di formazione matematica. Si è voluto, insomma, dare un segno nel momento in cui, sotto la spinta della crisi economica più grave mai generata dal capitalismo dopo quella del ’29, le istituzioni e la società sono oggetto di grandi cambiamenti. Il libro in cui la studiosa tira le fila di un lungo percorso di ricerca è “Governing the commons”, un vero e proprio classico dell’economia delle scelte collettive. Nell’opera, a partire da studi empirici condotti su gestioni auto-organizzate di risorse collettive che coinvolgono le popolazioni locali (alcune zone di pesca della Turchia, le istituzioni di irrigazione della Spagna centrale (huerta), le regole sullo sfruttamento di pascoli e boschi in Svizzera le risorse di caccia degli Indiani d’America, la condivisione delle acque sotterranee in Nepal), la Ostrom analizza come possa esistere una terza via tra la gestione pubblica e la privatizzazione del mercato, mettendo in discussione l’idea che esista un’unica via nella risoluzione dei problemi posti dai beni comuni, sia essa l’ipotesi statalista di Hardin o la suddivisione e la privatizzazione della risorsa, idea di matrice essenzialmente economica. Emerge che l’autoorganizzazione nella gestione delle risorse collettive, naturali oppure no, può portare benefici maggiori in termini di risparmio, rispetto alle organizzazioni centralizzate, che, per giungere allo stesso livello di conoscenza, dovrebbero attuare programmi di studio


molto dispendiosi. In esso viene rilevato che, tanto la gestione autoritaria-centralizzata, quanto la sua privatizzazione, benché utilizzabili in determinate situazioni, non costituiscono la soluzione né sono prive esse stesse di problemi rilevanti. In Governing the Commons, partendo dallo studio di casi empirici, nei quali viene mostrato come gli individui reali non siano irrimediabilmente condannati a rimanere imprigionati nei problemi di azione collettiva legati allo sfruttamento in comune di una risorsa, è posta in discussione soprattutto l’idea che esistano dei modelli applicabili universalmente. La Ostrom studia le interazioni tra i cittadini e cerca di dimostrare che non sempre i beni pubblici sono gestiti in modo inappropriato o inefficiente. A sostegno della propria teoria adduce diversi case studies. Si tratta di modelli di governo e gestione dei beni collettivi che si sono dimostrati alternativamente vincenti e, quindi, capaci di evitare la “tragedia dei beni comuni” o, al contrario, fallimentari. Dall’analisi di questi casi si cerca di apprendere nuovi possibili metodi di risoluzione del problema, dai quali partire nel fine ultimo di formulare, anche con l’ausilio di analisi ulteriori, una nuova e migliore teoria dell’azione collettiva. La teoria della Ostrom denota un respiro innovativo e lo si capisce fin da subito. In particolare, dal confronto che l’autrice stessa istituisce tra la propria teoria e quella di Keplero58 in 58

La limitazione delle forme geometriche a forme perfette (quadrato, cerchio,

triangolo), ha osteggiato gli sviluppi del’astronomia fino al momento in cui


astronomia. La scuola classica, con riferimento al problema dei commons, è stata, negli anni, troppo pessimista in merito alla capacità della collettività di autoorganizzarsi e poco attenta alla rispondenza tra teoria e verifica empirica. Proprio partendo da questo assunto, la Ostrom adotta un approccio di tipo empirista e analizza casi diversi di autogoverno dei beni comuni nel tentativo di identificare i fattori di successo o di insuccesso di queste particolari azioni collettive. Lo studio viene peraltro portato avanti utilizzando un metodo particolare: quello dei biologi. Si considerano così organismi semplificati, su scala ridotta, al fine di studiare i processi al loro interno. In questo senso, non si prendono in considerazione situazioni in cui sia potenzialmente e genericamente utilizzabile la qualificazione di proprietà collettiva, ma si concentra su casi di risorse collettive ben individuate sul territorio e tali da coinvolgere una popolazione che varia dai 5,000 ai 15,000 soggetti, strettamente dipendenti dai ritorni economici dei CPRs. Uno studio rigoroso a tale scala ha maggiori probabilità di risolvere le complessità che si pongono all’analisi, andare oltre la superficie e identificare le analogie e i processi di base. I casi a cui è stato applicato, sono stati caratterizzati dal fatto che le risorse collettive sono di lunga durata e che, nel tempo, hanno presentato trasformazioni istituzionali senza del tutto risolvere il problema della Keplero ha rotto i confini dell’astronomia classica, affermando che le orbite di Marte sono ellittiche.


ulteriore permanenza delle risorse medesime. Devono inoltre essere casi ai quali siano applicabili il carattere della sottraibilità delle risorse da parte dei singoli commoners nel momento in cui si appropriano di unità delle risorse. Questione cruciale è l’organizzazione dell’autogoverno, cioè la messa a punto delle istituzioni che consentono tale autogoverno. Già Mancur Olson aveva scritto che: “se un certo numero di individui ha un interesse comune o collettivo (…), un’azione individuale non organizzata o non riuscirà affatto a favorire tale interesse comune o non riuscirà a favorirlo adeguatamente”59. 4.1.1 La comunità ieri e oggi: un concetto controverso La comunità è il soggetto collettivo di autogoverno dei beni comuni, che ha assunto nomi e connotazioni diverse nei diversi luoghi e ne diversi periodi storici. La comunità è l’esatto contrario del mercato, nel senso che nella comunità non vale la dimensione astratta delle relazioni mercantili mediate dalle merci, ma la dimensione concreta delle relazioni interpersonali, che rispondono al bisogno di comunicazione e di socialità insita nel’uomo e 59

RISTUCCIA S. (Presidente del Consiglio Italiano per le Scienze Sociali), L’importanza di una riflessione sui commons. A proposito del Premio Nobel a Elinor Ostrom, in Contributi Bancaria del Dicembre 2009, pag. 25.


si realizzano sul mercato non capitalistico dove esistono anche la reciprocità e la gratuità. Resta comunque un concetto controverso, anzi si può dire che non goda di buona reputazione nella cultura dominante del Nord e del Sud, meccanicistica e fortemente condizionata dai valori e dagli ideali della modernizzazione. In questo quadro, la comunità è diventata il simbolo di tutto ciò che è premoderno, un residuo arcaico che impedisce il dispiegarsi di rapporti liberi, senza i condizionamenti derivanti da tutto quel che è sedimentato nel passato. A causa di questi pregiudizi, la cultura contemporanea ha fatto passare una visione unilaterale della comunità, priva di tensioni e di conflitti, basata sui legami di sangue, ignorando altre accezioni più realistiche e positive del termine, che mettono l’accento sul radicamento delle comunità nel territorio, sulla loro capacità di uso sostenibile delle risorse naturali e sulla loro volontà di aprirsi al mondo, forti della loro identità e in grado di vincere le loro tentazioni egoistiche e corporative60. Nella crisi attuale del capitalismo, la comunità può rappresentare sia un presidio sul territorio (per la gestione sostenibile delle risorse locali, come la difesa idrogeologica e la regimentazione dei corsi d’acqua, la difesa degli spazi pubblici), sia uno strumento di partecipazione democratica della popolazione nelle scelte che la riguardano. La comunità moderna non deve essere intesa come un’articolazione amministrativa dello Stato centrale, di cui vuole correggere il centralismo burocratico 60

RICOVERI G., Beni comuni vs merci, Jaca Book, Milano 2010, p. 47.


e la delegittimazione, ma come strumento della democrazia orizzontale, che restituisce significato alla sovranità dello Stato e alla stessa democrazia. Nella globalizzazione delle multinazionali, la democrazia delegata non basta più e deve essere integrata da forme nuove di democrazia diretta. 4.2 Governare i beni collettivi Secondo Ostrom manca una specificazione della teoria delle azioni collettive, cioè quelle azioni mediante le quali un gruppo si autorganizza per godere del frutto del suo stesso lavoro. Il lavoro di Ostrom parte da qui, dallo studio delle problematiche delle azioni collettive a cui si dedica a partire dai primi anni sessanta, cominciando con lo studio delle istituzioni preposte alla gestione di una serie di falde acquifere della California meridionale e Settentrionale61. Nel 1985, la partecipazione al Comitato per la Gestione delle Risorse Comuni della National Accademy of Science offrì ad Ostrom la possibilità di ampliare la base dei dati empirici utili alla comprensione del funzionamento delle istituzioni collettive. Alla conclusione delle ricerche che hanno avuto per oggetto i casi di governo dei commons che sono stati di riferimento per lo studio della materia, sono emerse le notevoli fragilità delle istituzioni di governo. Su 15 casi esaminati, 61

OSTROM E. (2009), op. cit., pag. 4.


8 sono da iscrivere nella parte degli insuccessi o delle fragilità accentuate e 7 nella parte dei successi. I casi presentati nel libro sono stai scelti in quanto hanno fornito chiare informazioni sui processi impliciti all’autorganizzazione e all’autogoverno, rispondendo alle questioni legate all’amministrazione di risorse collettive di lunga durata, alla trasformazione delle loro strutture istituzionali, o al mancato superamento di problemi legati alla gestione delle risorse collettive permanenti62. Stabilito che le risorse di uso collettivo si configurano come sistemi di produzione di risorse, naturali o artificiali, Ostrom specifica che per cogliere i meccanismi che stanno alla base dei loro processi di governo e utilizzazione si deve distinguere tra quello che è il sistema di produzione di risorse, definito come stock di capitale, e il flusso di unità 62

I casi di studio presentati in Ostrom E. (2009), op. cit., appartengono ad

aree geografiche molto diverse e distanti tra loro. Brevemente, Ostrom prende in considerazione i pascoli e i boschi del villaggio di Törbel in Svizzera (pp. 97-103), le terre comuni dei villaggi di Hirano, Nagaike e Ymanoka in Giappone (pp. 103-107), e istituzioni di irrigazione (huerta) di Valencia, Murcia, Orihuela e Alicante in Spagna (pp. 107-124), le comunità di irrigazione zanjera nelle Filippine (pp. 124-132). La descrizione di queste istituzioni, definite come modelli durevoli, è affiancata dalla presentazione di altri casi caratterizzati dalla fragilità istituzionale: due zone di pesca in Turchia, i bacini delle acque sotterrane della California, una zona di pesca e un progetto di sviluppo dell’irrigazione nello Sri Lanka, le zone di pesca costiera nella Nuova Scozia (pp. 215-259).


di risorse prodotte dal sistema stesso. Esemplificando, se i sistemi di produzione di risorse collettive sono le zone di pesca o i pascoli, nel primo caso le unità di risorsa sono le tonnellate di pesci pescati, nel secondo il foraggio consumato dagli animali al pascolo. Ostrom rinomina il processo di prelievo delle unità «appropriazione» e gli individui che prelevano «appropriatori63», così con un unico termine si può riferirsi agli utenti di tutti i tipi di sistemi di risorse collettive, siano essi pescatori, irrigatori, pastori, o altri soggetti. Altro aspetto riguarda l’uso delle risorse da parte degli appropriatori: in alcuni casi essi consumano direttamente le unità prelevate (autoconsumo), in altri le unità di risorse rappresentano degli input per la produzione di altri beni (ad es. l’acqua impiegata per irrigare i campi), o ancora le unità prelevate vengono trasferite direttamente dagli appropriatori ad altri utenti (il pesce pescato può essere interamente venduto). Se l’appropriatore è chi prende ed usa la risorsa collettiva, chi ne struttura il sistema di utilizzo è definito «fornitore» e chi costruisce, rimette in funzione o assicura la sostenibilità nel lungo periodo del sistema è chiamato

63

Il termine è utilizzato, all’interno della teoria dei commons, per designare

tutti coloro che prelevano delle unità di risorse collettive, indipendentemente dal fatto che essi abbiano un diritto legale per farlo (Ostrom E., (2009), op. cit., p. 53 e 88, nota 2).


«produttore»64. Un sistema di risorse collettive può dipendere contemporaneamente dall’azione di più fornitori o produttori , identificabili sia in persone fisiche che in altri soggetti come le imprese, oppure i fornitori e i produttori possono coincidere, mentre il prelievo dell’unità di risorsa può avvenire per mano di più appropriatori contemporaneamente o sequenzialmente. Ciò nonostante, le unità di risorsa non sono soggette ad uso o ad appropriazione congiunti (l’acqua usata per irrigare i campi di un agricoltore, ad esempio, non può essere usata da altri), mente il sistema di risorse è soggetto ad uso congiunto, nel senso che tutti gli appropriatori che fanno capo a quel sistema possono beneficiare dei miglioramenti che a quel sistema vengono apportati, anche se essi abbiano contribuito o meno alla loro realizzazione. Questa caratteristica avvicina le risorse comuni ai beni pubblici, in quanto le difficoltà di esclusione degli appropriatori sono spesso costose. Il processo di normazione e regolazione dell’uso delle risorse si avvicina invece alla teoria dei beni privati, soprattutto quando si tratta di risorse scarse in cui un 64

Per spiegare meglio il concetto, Ostrom E. (2009), op. cit., p. 54, porta

l’esempio di un sistema articolato in questo modo: un governo nazionale può istituire un sistema di irrigazione finanziandone la progettazione e la realizzazione e poi affidarne la gestione, la cura e la manutenzione agli agricoltori locali. In questo caso il governo è il produttore principale, ma i contadini a cui è affidata la manutenzione del sistema diventano a loro volta produttori e fornitori, oltre che appropriatori.


prelievo eccessivo di unità di risorsa può portare alla crisi del sistema che non sarà più in grado di riprodursi. Senza contare che senza un metodo equo, strutturato ed efficiente della divisone delle unità di risorsa gli appropriatori locali non avranno sufficienti motivazioni a partecipare alla mantenimento del sistema di produzione della risorsa65. Il principale problema che si presenta agli appropriatori è, quindi, quello di organizzarsi, vale a dire raggiungere l’accordo sulle regole relative al prelievo delle unità di risorsa e sul tipo di contributo che ogni appropriatore deve dare ai fini di mantenere il sistema, oltre che elaborare metodi di monitoraggio e sanzionamento per il controllo degli eventuali trasgressori. Il processo di costruzione istituzionale non è facile data l’incertezza rispetto alla natura dei problemi che gli appropriatori si trovano ad affrontare ,difficoltà che derivano dalla natura stessa dei sistemi di risorse collettive, e non può essere raggiunto in tempi brevi. Gli appropriatori devono in genere imparare attraverso prove ed errori: inizialmente le azioni possono essere intraprese senza conoscerne gli effetti, poi nel tempo l’acquisizione di maggiori conoscenze sia dell’ambiente che del comportamento dei diversi attori porta all’individuazione di soluzioni migliori. Il processo organizzativo può produrre una organizzazione, cioè l’insieme di individui che formano e fanno funzionare un’impresa. La definizione di una organizzazione comporta il riordino 65

Ostrom E. (2009), op. cit., pp. 54-55.


delle attività, che significa l’introduzione di decisioni sequenziali, condizionate e ripetute sistematicamente nel tempo, mentre prima prevalevano le azioni simultanee, incondizionate e con frequenza indeterminata66. L’ipotesi da cui Ostrom parte per analizzare l’analisi dei diversi sistemi di risorse collettive è che tutti gli appropriatori si trovino a dover affrontare una serie di problemi da risolvere, problemi che si possono dividere in due grandi categorie: i problemi di appropriazione e i problemi di fornitura. I primi riguardano gli effetti che i metodi di ripartizione della risorsa hanno sul profitto da essa derivato e la possibilità di concedere o limitare l’accesso spaziale o temporale alla risorsa; i secondi si legano ai processi di organizzazione del sistema e alla sua conservazione nel tempo, da cui discendono anche i vantaggi per gli appropriatori. Lo studio dei sistemi di risorse collettive deve tener conto di questa complessità di rapporti, basandosi su più livelli di analisi: un livello che considera gli incentivi che influenzano l’azione dei singoli individui, un livello che analizza le caratteristiche in grado di favorire o meno l’azione collettiva, e un terzo livello incentrato sulle istituzioni.

66

Ostrom E. (2009), op. cit., pag. 65.


4.2.1 L’ institutional analysing and development framework La ricerca avviata da Ostrom e dai suoi collaboratori ha portato alla definizione di un quadro concettuale coerente utile all’analisi empirica dei sistemi di risorse collettive, denominato Institutional Analysing and Development framework (IAD framework67), che ha dotato di un linguaggio comune i ricercatori provenienti da diverse discipline impegnati nello studio dei commons e che ha permesso di organizzare database specifici per alcune tipologie di risorse collettive (sistemi di irrigazione, aree di pesca, foreste), utilizzati poi anche nelle analisi comparative delle diverse istituzioni. L’IAD framework analizza le componenti principali che formano un dato sistema collettivo. Esso si presenta come una mappa concettuale a livelli multipli (multitier conceptual map). L’IAD suddivide l’analisi in tre componenti principali. Al centro viene posta l’arena di azione (action arena), mente a monte vengono individuati i fattori su essa influenti e a valle il prodotto dell’interazione degli attori al suo interno. L’arena d’azione è costituita dagli attori che in essa agiscono e dallo spazio sociale, il luogo di azione (action situation), in cui si sviluppano le loro relazioni. L’IAD individua quindi i fattori che influiscono su di essa, li analizza e valuta poi gli effetti 67

HESS C., OSTROM E. (a cura di), op. cit., cap. 3, pp. 45-82.


dell’interazione tra questi e gli attori al suo interno. Sull’arena di azione funzionano contemporaneamente tre insiemi di fattori: 1. i fattori fisici, che formano il contesto ambientale (naturale o artificiale) in cui gli attori si muovono e rispetto al quale le loro azioni acquistano un significato concreto; essi interagiscono con il numero degli utilizzatori e con la loro capacità di consumo della risorsa determinando le caratteristiche dello sfruttamento; 2. i fattori socio-economici, che comprendono sia gli attributi dei singoli utilizzatori che i caratteri socioculturali della comunità di riferimento; l’analisi riguarda sia gli aspetti più specificatamente economici (il grado di dipendenza degli utilizzatori dalla risorsa), che caratteri individuali e culturali (l’esistenza di valori condivisi, la comprensione comune del problema, la fiducia reciproca ecc.); 3. i fattori istituzionali, ovvero l’insieme di regole per l’uso collettivo di una data risorsa. L’analisi di diversi sistemi attraverso il metodo dell’IAD framework ha permesso ad Ostrom di comparare i risultati ottenuti ed arrivare alla definizione di un insieme di principi costitutivi (design principles) alla base di sistemi di risorse collettive molto diversi tra loro. Questi principi non delineano regole precise, che possono variare di caso in caso a seconda dei fattori locali che caratterizzano il sistema, piuttosto descrivono le condizioni di progetto alla base della struttura istituzionale nella sua generalità. La comparazione di numerosi casi ha permesso inoltre di osservare come, laddove i principi


vengano rispettati, gli attori di un sistema di risorse collettive sino in grado di trovare da soli la soluzione al dilemma, arrivando alla definizione di regole condivise per la gestione sostenibile della risorsa. Ciò detto, si sottolinea che questi principi non sono condizione necessaria e sufficiente per definire un sistema di successo. Fattori di altra natura possono infatti intervenire in istituzioni fragili, favorendone il successo, o viceversa decretare la fine di sistemi meglio progettati. La sfida che la ricerca sui commons si pone sia dal punto di vista teorico che quello empirico riguarda l’approfondimento e l’analisi dei problemi che gli individui devono risolvere e dei fattori che li agevolano o gli ostacolano in questo processo. Per questo motivo la Ostrom enfatizza l’importanza della democrazia partecipativa, della società civile organizzata ed auto-organizzata.

4.3 I principi progettuali: cosa rende l’autogoverno un successo A partire dall’esame di una vasta serie di casi concreti di ogni parte del mondo (Svizzera, Giappone, Spagna, Stati Uniti, Turchia, Sri Lanka, Canada e Filippine), la Ostrom formula una serie di veri e propri “principi” da rispettare nell’uso delle risorse collettive, per garantirne la conservazione e, nello stesso tempo, un’utilizzazione vantaggiosa a beneficio della comunità. Quelli che la studiosa americana definisce i “principi progettuali rintracciabili in istituzioni da lungo tempo


responsabili di risorse collettive” e che ritiene “un elemento o una condizione essenziale che aiuti a spiegare il successo di queste istituzioni nel preservare le risorse collettive e nell’ottenere da parte degli appropriatori il rispetto delle regole adottate, generazione dopo generazione”. Si sviluppano una serie di congetture razionali su come sia possibile che alcuni gruppi di individui siano in grado di organizzarsi perfettamente, e per un tempo ragionevolmente lungo, in forme di autogoverno mentre altri non siano in grado di farlo. Si cerca a questo punto di definire le caratteristiche delle istituzioni che hanno avuto successo e di indicare quali sono gli incentivi che fanno sì che i partecipanti continuino ad impiegare tempo ed energia nell’intento di governare e gestire il loro patrimonio comune. Comparando le situazioni di successo e quelle di insuccesso, si prova poi ad identificare i fattori, interni ed esterni, che possono impedire l’esprimersi delle capacità degli individui di autogovernarsi. Ne viene fuori che è possibile identificare le similitudini che hanno permesso alla forma organizzativa dell’autogestione di funzionare. La prima di queste consiste nella presenza di un ambiente esterno instabile e complesso. A quest’incertezza si contrappone, però, una stabilità nel tempo delle popolazioni ivi abitanti: si tratta di individui che hanno condiviso il passato e che si sentono accomunati da un unico destino, sicché il loro tasso di sconto68 nei confronti del futuro risulta essere 68

Per tasso di sconto si intende il diverso valore che gli individui

attribuiscono ai benefici che essi possono ottenere nell’immediato futuro


particolarmente basso. In simili circostanze, norme di buon comportamento si sono formate ed evolute all’interno delle società, facendo sì che gli individui siano in grado di vivere, in stretta interdipendenza gli uni dagli altri, senza che ciò comporti l’insorgere di conflitti. In più, il convivere per generazioni ha permesso il formarsi di una buona reputazione e di relazioni di fiducia tra i diversi partecipanti al vivere sociale. Un’altra caratteristica che sembra accomunare i casi di successo dell’azione collettiva è la presenza di gruppi abbastanza omogenei, in cui non vi sono elementi - quali asset, abilità, cultura, etnia – che possano dividere in maniera significativa gli interessi degli individui appartenenti al gruppo stesso. Ancora, in tutti questi casi, il sistema della risorsa risulta sostenibile nel tempo e le istituzioni avere la caratteristica, di evolvere nel tempo, in concomitanza con i cambiamenti dell’ambiente esterno e sempre in accordo con le regole collettive e costituzionali della società. In tutti gli esempi riportati, infatti, le cosiddette regole operative sono specificatamente definite e capaci di tener conto dei peculiari attributi dell’ambiente fisico, culturale, rispetto a quelli che si presenteranno solo negli anni a venire. In tal senso, si “scontano” i benefici che si proiettano su un orizzonte temporale di lungo periodo. Detto tasso varia a seconda dei casi. Ad esempio, esso risulterà maggiore qualora gli individui ritengano che i benefici futuri saranno goduti dai loro figli o inferiore qualora i sacrifici imposti alle generazioni presenti, a vantaggio di quelle future, mettano a repentaglio la sopravvivenza delle prime.


economico e politico di riferimento. Nonostante la dovuta diversità delle regole, è comunque possibile definire dei criteri o principi che caratterizzano istituzioni di CPRs “robuste”. Elinor Ostrom, in particolare, ne individua sette, più un ottavo che vale in casi più complessi ed estesi. Detti principi sono: 1. La chiara definizione dei confini. Gli individui e le famiglie, che hanno il diritto di prelevare determinate unità della risorsa comune, debbono essere chiaramente identificati e lo stesso CPR deve essere esplicitamente definito. Questo serve a far sì che coloro che contribuiscono alla gestione del bene comune abbiano la certezza che i loro sforzi non saranno vanificati dall’azione di outsiders né saranno permessi comportamenti di free-ride. 2. La congruenza tra le regole di appropiation e provision, da una parte, e le condizioni locali, dall’altra. Le regole, sia di approvvigionamento che di fornitura del bene comune, debbono essere specifiche a seconda dell’ambiente che disciplinano. Per questo motivo, è necessario stabilire normative diverse per sistemi diversi (è il caso degli huertas spagnoli)69. 69

I territori non hanno tutti la stessa dotazione di risorse naturali e alcune di

queste, come la Foresta amazzonica, sono ecosistemi di valenza mondiale che non possono essere gestiti su scala locale, allora il problema diventa quello del coordinamento tra le comunità locali, che non dovrebbe essere demandato ad autorità esterne, ma realizzato a tavoli di trattativa dove le comunità locali


3. La presenza di un accordo in merito alle regole collettive. Queste ultime sono qui intese come quelle norme che definiscono le modalità con le quali vengono messe in essere le politiche di gestione del bene comune. Perché l’autogoverno funzioni, è necessario che la maggior parte degli individui, su cui si esprimono le regole operative, abbiano la possibilità di modificare dette norme, anche allo scopo di adeguarle alle specificità di contesto e ai cambiamenti sistemici che intervengono nello stesso. Il fatto che le regole siano giuste non assicura, comunque, che queste saranno sempre rispettate. Bisogna, quindi, dare esecuzione all’accordo attraverso un'opera di eforcement e investire in attività di monitoraggio e sanzione. Ciò ci riconduce ai due principi successivi. 4. Il monitoraggio. Debbono essere implementati controlli e sistemi di audit. In più, i membri della collettività debbono essere responsabili (accountable)70 sia nei confronti dei controllori che dell’intera comunità.

siedono insieme ai rappresentanti dello Stato e del Mercato, avendo eguale potere decisionale. 70

Il concetto di accountability ha ricoperto particolare importanza negli

ultimi anni, nel contesto della Pubblica Amministrazione. Potendolo identificare con il termine “rendicontazione”, rappresenta la necessità per i soggetti operanti all’interno della PA, di adottare un comportamento tale da poter generare valore per la collettività di riferimento, di misurare e rendere


5. La presenza di un sistema di sanzioni graduate. Deve essere altamente probabile la punizione, seppur graduata, per chi violi le regole operative. Va qui sottolineato che - come si evince dall’analisi empirica istituzioni robuste presentano spesso un sistema di monitoraggio e sanzione che non viene esternalizzato dalla società ma che resta, al contrario, nelle mani degli stessi partecipanti. Sorprendentemente, inoltre, le sanzioni iniziali risultano abbastanza basse. Si può parlare forse di quello che Margaret Levi71, nel 1988, definiva una quasivoluntary compliance, nel senso che il rispetto della regola avviene quasi senza coercizione, bensì attraverso il cosiddetto contingent behavior. Un altro elemento importante è che il costo del monitoraggio deve essere basso, onde evitare – come analizzato ad esempio da Jon

conoscibile tale valore e di rendere conto alla collettività delle proprie azioni e risultati prodotti. 71

Margaret Levi (1947) è una scienziata politica e autrice americana, nota per

il suo lavoro in economia politica, politica del lavoro, e in teoria democratica, in particolare sulle origini e gli effetti di governo affidabile.


Elster 72- che il costo della punizione sia maggiore per chi punisce anziché per chi è punito. Detto costo si è rivelato particolarmente basso in molti dei casi di successo analizzati, in cui talvolta (irrigatori in Spagna, villaggi di pescatori in Giappone) si è arrivati persino ad un monitoring by-product; quest’ultimo da intendersi come un sistema di monitoraggio per così dire automatico, nel senso che deriva dalle stesse modalità di utilizzo del bene. Un’ulteriore caratteristica da sottolineare è che solitamente il membro della società che effettua attività di monitoraggio ne riceve un’approvazione sociale e talvolta ottiene anche dei benefici privati. D’altra parte, colui che ha infranto la regola ne perde in status e prestigio. In conclusione, una volta che i membri della collettività si siano impegnati in un contingent self-commitment, allora questi saranno motivati a monitorare essi stessi il comportamento degli altri membri (mutuo monitoraggio, peer review). 72

Jon Elster (Oslo, 22 febbraio 1940) è un filosofo e sociologo norvegese.

Massimo esponente della teoria dei controlimiti secondo la quale gli individui razionalmente e volontariamente cercano di limitare il loro ventaglio di possibilità di scelta in modo rendere più semplici scelte future o non cadere in tentazioni che al momento della limitazione paiono dannose. Nel pensiero di Elster il concetto di individualità si trova in stretto rapporto con quello di libertà. L'aspirazione alla libertà dell'uomo si interrompe nel luogo della reciprocità delle relazioni. Se la libertà è dell'individuo, questi è inserito in un sistema di relazioni e di scambi che richiede la compatibilità con la libertà degli altri.


6. La definizione di un chiaro e poco costoso meccanismo di risoluzione delle controversie. Gli appropriatori e i loro incaricati hanno rapido accesso ad ambiti dove è possibile a basso costo, risolvere i conflitti tra gli appropriatori o tra gli appropriatori e gli incaricati. 7. Il riconoscimento del diritto di auto-organizzarsi. I diritti degli appropriatori di predisporre le proprie istituzioni non sono contestabili da autorità governative esterne. 8. La presenza di nested enterprises. Coloro che si appropriano o che utilizzano la risorsa comune, i fornitori, i controllori, l’esecutivo, l’organo di risoluzione delle controversie e colui che esercita la governance debbono essere tutti organizzati attraverso strati multipli di imprese o enti organizzati su più livelli.

4.4 L’esproprio dei beni comuni tra governance e monetizzazione Nella motivazione dell’Accademia Svedese delle Scienze si sottolinea che il Premio Nobel per l’Economia del 2009 è stato conferito a Elinor Ostrom e a Oliver Williamson73 per i loro importanti contributi riguardanti 73

Oliver Williamson, nato a Superior (Wisconsin) nel 1932, è professore

emerito di Economia all’Università di Berkeley. E’ stato tra i fondatori dell’International Society for New Institutional Economics, che ha presieduto


l’analisi dell’economic governance con riferimento in particolare, per quanto riguarda Elinor Ostrom, alla gestione dei beni comuni e, per ciò che concerne Oliver Williamson, ai confini dell’impresa riguardanti la proprietà e la gestione dei vari stadi della produzione e della distribuzione, ossia il livello di integrazione verticale74. 4.4.1 Williamson

La

governance

ottimale

definita

da

Oliver Williamson è il creatore della cosiddetta Economia Neo-Istituzionalista, secondo cui l’impresa è il modello economico dominante perché facilita la gestione dei conflitti. L’analisi di Williamson fornisce elementi per comprendere le scelte fondamentali di un’organizzazione umana: quando il potere decisionale dovrebbe essere centralizzato e quando invece le decisioni dovrebbero negli anni 1998-2001, ed è stato anche presidente dell’American Law and Economics Association (1997-1998). 74

Williamson, sulla scia di Ronald Coase (Premio Nobel 1991) si è posto il

problema del disegno istituzionale delle transazioni. Il mercato è una "democrazia", ma l'azienda che opera sul mercato è una gerarchia. Una transazione può avvenire dentro o fuori l'azienda («fabbrica dentro» o «compera fuori»). Quando conviene una cosa e quando conviene l'altra? Il problema è stato posto da Coase, ma Williamson ha fornito una teoria verificabile (e verificata) che descrive le condizioni perché si dia l'uno o l'altro esito.


essere prese attraverso accordi volontari tra agenti indipendenti. In altre parole, la teoria dei costi di transazione di Williamson, analizza gli elementi alla base della scelta tra produrre all’interno dell’impresa, intesa come organizzazione centralizzata e gerarchica, o ricorrere al mercato, inteso come struttura decentrata su cui gli individui hanno autonomia decisionale. Williamson ha formulato una teoria tesa a comprendere qual è la forma di governance migliore in presenza di costi di transazione75. Nelle situazioni in cui è difficile specificare tutte le circostanze nei contratti e in cui i potenziali contraenti devono effettuare degli investimenti specifici alla relazione instaurata con la controparte, le imprese hanno interesse a integrarsi evitando così di ricorre al mercato. Le imprese esistono per risolvere i conflitti di interesse che possono sorgere tra i vari agenti che concorrono alla produzione di un bene finale. Nel conferire il premio Nobel, l’Accademia delle Scienze 75

I costi di transazione sono connessi all’attività di scambio di beni e servizi

effettuata sul mercato e sono costituiti principalmente dai costi di informazione, di contrattazione, di stipula del contratto e delle attività necessarie per imporre il rispetto delle condizioni pattuite. Il concetto di costo di transazione era stato originariamente introdotto nel 1937 da Ronald Coase che aveva messo in luce come le imprese tendono a svilupparsi verticalmente, ossia a produrre all’interno gli input (materie prime, componenti da assemblare, semilavorati) di cui esse hanno bisogno anziché ricorre al mercato, per ridurre i costi di transazione e per evitare i costi di ricontrattazione nel caso in cui le circostanze mutino in maniera inaspettata.


svedese ha sottolineato due aspetti fondamentali della teoria dei costi di transazione elaborata da Williamson: aver formulato il concetto di costo di transazione in maniera tale da consentire una verifica empirica della teoria formulata da Williamson relativamente ai livelli di integrazione verticale delle imprese e aver offerto un’analisi approfondita delle forme di governance più appropriata riguardanti l’alternativa tra centralizzazione e mercato. La teoria dell’integrazione verticale di Williamson si basa due assunzioni comportamentali riguardanti la razionalità limitata degli agenti e la possibilità di comportamento opportunistico. All’interno della teoria di Williamson, tre fattori chiave possono indurre a trasferire una transazione dal mercato (nonintegrazione) all’interno di un’impresa (integrazione): il livello di incertezza, la frequenza delle transazioni e la presenza di investimenti specifici che per la loro stessa natura perdono valore al di fuori della transazione. L’incertezza può essere interna, dovuta all’opportunismo della controparte (incertezza comportamentale), o può riguardare l’ambiente esterno (incertezza ambientale). La frequenza riguarda il numero di transazione effettuate, in altre parole, se esse sono occasionali o se invece i contraenti sono legati da un rapporto continuo di scambio. Infine, il terzo fattore riguarda la presenza o meno di risorse specifiche alla relazione ossia di investimenti durevoli che sono affrontati nell’ambito di una particolare transazione e che sono scarsamente reimpiegabili al di fuori della relazione di scambio nel caso che questa stessa si interrompesse. Quanto più pesano questi tre fattori


(incertezza, frequenza e specificità delle risorse), tanto maggiori possono risultare i costi di transazione e, quindi, tanto maggiore è l’incentivo alla integrazione verticale. Misurando il peso di questi fattori mediate indici appropriati, è possibile spiegare il livello d’integrazione verticale delle imprese appartenenti ai vari settori di attività. Ciò che accomuna Ostrom e Williamson è il tema della governance vista come una regolazione amministrativa intermedia tra la gestione statale e l’operare del mercato: Ostrom concentra l’analisi sulla gestione dei beni comuni, mentre Williamson affronta il tema dell’impresa come una risposta ai fallimenti del mercato dovuti all’incompletezza contrattuale. Entrambi sono inoltre particolarmente attenti alle possibilità di verifica empirica delle loro teorie. In secondo luogo ambedue questi studiosi condividono l’idea che l’organizzazione svolge un ruolo importante nel determinare l’efficienza e l’equità. Di conseguenza, differenze negli assetti organizzativi finiscono con il determinare performance molto diverse. In terzo luogo, essi rifiutano l’ipotesi che l’agente economico sia perfettamente razionale e invece assumono che le persone possano avere informazioni e conoscenze non complete e che, in molti casi, siano quindi caratterizzate da comportamenti limitatamente razionali (bounded


rationality76). Da ultimo, l’applicazione delle teorie di questi due autori allo studio delle diverse forme di collaborazione tra imprese potrebbe aprire in futuro interessanti prospettive di ricerca. Infatti le forme ibride tra mercato e imprese – come le relazioni di fornitura di lungo periodo, le alleanze strategiche, il franchising, le reti di imprese, i consorzi, i marchi comuni - sono per lo più finalizzate alla gestione di beni comuni, come un marchio, un semilavorato, un know-how, e hanno come obiettivo la riduzione dei costi di transazione. Per quanto riguarda infine il legame tra le teorie di questi due studiosi e le vicende economiche recenti, va notato che una riflessione sul tema dei fallimenti del mercato e dell’efficacia delle attività di regolamentazione si è imposta in questi ultimi anni di crisi economica globale innescata dalla situazione d’insolvenza di numerose importanti istituzioni creditizie statunitensi. Molti osservatori hanno considerato la crisi economica, che ha investito tutti i paesi industrializzati, come un fallimento dei mercati in presenza di una governance delle transazioni insufficiente e inefficace. La necessità di analizzare i meccanismi di governance è espressa chiaramente nelle motivazioni espresse dall’Accademia Reale Svedese delle Scienze in occasione dell’attribuzione del premio Nobel a Elinor Ostrom e Oliver Williamson: 76

“Razionalità limitata”: è l’idea che nel processo decisionale la razionalità

degli individui è limitata dalle informazioni che hanno, dalle limitazioni cognitive delle loro menti e dalla quantità finita di tempo che hanno a prendere le decisioni.


tradizionalmente, la teoria economica è stata largamente una teoria dei mercati o, più precisamente, dei prezzi di mercato. Tuttavia, vi sono almeno due ragioni perché la scienza economica vada oltre la teoria dei prezzi. I mercati non funzionano bene a meno che i contratti appropriati possano esser stipulati e fatti rispettare. Di conseguenza, abbiamo bisogno di comprendere le istituzioni che aiutano i mercati a operare. Secondo l’Accademia delle Scienze, “la ricerca riguardante l’economic governance cerca di comprendere la natura delle istituzioni che hanno l’obiettivo principale di facilitare la produzione e lo scambio”. Proprio nella sua “Nobel Prize Lecture” Williamson sostiene la necessità di abbandonare la separazione “vecchia e ideologica” tra i meccanismi automatici di mercato e i meccanismi intenzionali che caratterizzano il funzionamento delle organizzazioni, e di trattare invece i mercati e le gerarchie secondo lo specifico ruolo che ambedue devono svolgere per garantire il buon funzionamento del sistema economico”. I mercati, le imprese e le organizzazioni spontanee che sorgono per gestire beni comuni non sono in antitesi, ma hanno bisogno gli uni delle altre per funzionare efficientemente. L’efficienza delle organizzazioni formali e informali dipende dalle modalità di funzionamento dei mercati, d’altra parte, per evitare i fenomeni connessi all’informazione asimmetrica e all’opportunismo, i mercati hanno bisogno delle organizzazioni che ne facilitino e regolino il funzionamento.


4.4.2 Governance vs. Governo e gratuità vs. monetizzazione Al centro del dibattito teorico e politico sui beni comuni vi sono, o vi dovrebbero essere, due “questioni di frontiera”: la tendenza impostasi negli ultimi quindici anni consistente nel parlare di governance anziché di «governo» dei beni comuni e l’adozione, quasi generale da parte dei dirigenti occidentali, del principio di monetizzazione dei beni comuni al posto del principio di gratuità77. L’uso del concetto di governance risale alla seconda metà degli anni ’70, allorché l’economia occidentale si trovava alle prese con la ricostruzione del sistema finanziario andato in frantumi nel periodo 19717378. Gli operatori finanziari, in primis gli istituti di credito e le società di notazione (rating), si ritrovarono a confrontarsi col problema della determinazione dei nuovi criteri in base ai quali valutare le opportunità d’investimento e soprattutto le operazioni di

77

CACCIARI P. (a cura di ), La società dei beni comuni, Carta/Ediesse,

Roma 2010. 78

Il sistema nato nel 1945 era fallito: fine della convertibilità del dollaro in

oro e dei tassi di cambio fissi, fine dei controlli sui movimenti esplosione

del

mercato

delle

divise,

liberalizzazione

deregolamentazione e privatizzazione del settore.

di capitale,

dei

mercati,


vendita/acquisto di pacchetti azionari (le famose OPA79, fusioni di imprese, prese di partecipazione...). In effetti, la crisi finanziaria provocò dei grossi processi di ristrutturazione delle banche e delle assicurazioni a livello locale, nazionale ed internazionale. La soluzione, per i gruppi dominanti, fu trovata nel principio «to increase the shareholder’s value». Un’operazione finanziaria era giudicata buona in funzione del suo contributo alla ottimizzazione della crescita di ricchezza per gli azionisti. Si cominciò quindi a sostenere che i processi di ristrutturazione e di sviluppo del nuovo sistema finanziario procedevano in un buon contesto di governance ai vari livelli settoriali e territoriali, nella misura in cui il risultato globale era l’ottimizzazione del valore del capitale azionario. Dalla valutazione delle 79

OPA (Offerta Pubblica di Acquisto), in inglese tender offer: ogni offerta,

invito a offrire o messaggio promozionale finalizzato all’acquisto di prodotti finanziari. Secondo il Regolamento CONSOB 11971/99, si considera pubblica un'OPA o OPS se rivolta ad un numero di soggetti superiore alle 100 unità e se riguarda un valore complessivo dei titoli oggetto di offerta pari a 2.500.000,00 euro. Nell'ordinamento italiano le OPA sono attualmente disciplinate dagli artt. 102-112 del Testo Unico della Finanza (T.U.F.) contenuto nel D.Lgs. 58/98, nonché dalle norme di attuazione in materia di emittenti contenute nel regolamento della Consob. La disciplina si divide in una parte generale, in cui sono contenute le norme di generale applicazione, e una parte speciale, che disciplina le singole tipologie di OPA previste.


operazioni finanziarie, il criterio in esame fu rapidamente applicato alla valutazione della gestione generale di qualsiasi impresa e poi esteso alla gestione di un settore industriale od economico, servizi pubblici compresi. Così, verso la fine degli anni ’80, il principio «to increase the shareholder’s value» fu utilizzato, in concomitanza con il principio di competitività, per valutare ogni scelta economica, ivi comprese le scelte economiche e sociali di un governo, per finire nel corso degli anni ’90 col valutare l’intera società (onde la valenza generale del concetto di governance acquisita negli ultimi anni). A partire dal momento in cui i dirigenti hanno deciso che il valore di una cosa, di un’impresa, di una strategia di sviluppo, dipende dal suo contributo alla creazione di valore per il capitale e per i suoi detentori, è logico che essi siano passati da un uso del principio limitato alla gestione di operazioni finanziarie a quello applicato alla gestione di un’impresa, poi alla gestione dell’economia in generale. Il che spiega anche la relativa facilità con la quale gli stessi responsabili politici, hanno aderito alla liberalizzazione delle istituzioni e dei servizi finanziari (inclusa la gestione dei fondi pensione e fondi malattia) e poi dell’insieme dei servizi pubblici detti locali, così come alla loro deregolamentazione e privatizzazione. Questi passaggi sono stati resi possibili proprio per l’egemonia ideologica e culturale assunta dal concetto di governance nella teoria e nella pratica dello Stato e della società, come testimonia, già negli anni ’94-95, la comunicazione della Commissione europea, allora presieduta dal socialdemocratico-socialista francese Jacques Delors, sul


tema della governance, nella quale la Commissione si schierava a favore dell’adozione del principio di governance. Fra le ragioni invocate, vi era quello della complessità crescente delle società che, nell’avviso della Commissione, implicava l’abbandono dello Stato quale luogo naturale e principale dei processi politici ed il loro allargamento a tutti i possibili «centri» di decisione politica una volta definiti gli stakeholders80. Dall’altro lato, il postulato della mondializzazione che implicava per la democrazia lo spostamento della decisione politica dagli stati nazionali alla governance, vuoi internazionale vuoi mondiale. Fondandosi sui due postulati, la governance è stata definita come il nuovo sistema di organizzazione delle decisioni politiche a livello nazionale, internazionale e mondiale basata sull’incontro tra tutti i portatori d’interesse rappresentativi delle varie componenti della società quali gli Stati, le imprese, i sindacati, i cittadini, le collettività locali. Secondo questa visione, la decisione politica è il risultato di accordi e di partenariato tra i vari stakeholders in un contesto di libertà, di autoregolazione e di responsabilità «sociale». Il motore del nuovo sistema di organizzazione politica sta nell’ottimizzazione dell’utilità particolare di ogni stakeholder tenendo in considerazione il rapporto costobenefici81 ai prezzi di mercato. Un’equazione non fissata 80

Con il termine stakeholders si individuano i soggetti portatori di interessi.

81

E’ un metodo di valutazione che consente di coniugare l’aspetto gestionale

con quello sociale, esso ha anche delle varianti come l’analisi costi-efficacia e l’analisi costi-utilità. Questi metodi , rispetto a quelli economico-finanziari


in maniera generale e per tutti, ma flessibile, variabile a seconda dei luoghi, degli stakeholders in azione, dei tempi, dei settori. In questo contesto, non v’è più spazio né funzione per i beni comuni pubblici. In breve, il governo dell’impresa è stato assunto a modello da seguire per il governo dello Stato e della comunità mondiale. Ciò ha portato alla destatalizzazione del potere politico e della politica (lo Stato è ridotto ad uno fra i vari portatori d’interesse, il che fa saltare qualsiasi legittimità generale alla rappresentanza politica espressa dai parlamenti) e alla privatizzazione del potere politico e alla sua contrattualizzazione «commerciale» tra soggetti portatori d’interessi particolari. In conclusione, la governance rappresenta un esproprio legalizzato dei beni comuni che porterà alla mercificazione dei beni comuni e alla loro privatizzazione. utilizzati dalle imprese, consentono di considerare non solo l’aspetto economico, ma anche i costi ed i benefici che si producono per la collettività nel suo complesso. L’analisi costi-benefici è una metodologia che consente di verificare la validità di un progetto attraverso un’analisi empirica tesa a ponderare i vantaggi e gli svantaggi, valutando se l’allocazione delle risorse è efficiente e se una sua modifica genera un aumento del benessere sociale. La stessa analisi può essere affrontata da due prospettive: come strumento normativo di supporto a coloro che sono incaricati di procedere alla valutazione economica di varie forme di spesa pubblica e come metodo per ottimizzare il beneficio sociale. (MELE R., Economia e gestione delle imprese di pubblici servizi tra regolamentazione e mercato, Cedam, Padova 2003, pag. 478 e ss.).


Unitamente al processo di governance, si è affermato il principio cosiddetto della «verità del prezzo» (di mercato). Fino a non molto tempo fa, il valore dei beni «naturali» indisponibili al mercato (le foreste primarie, la pioggia, le spiagge del mare...),così come i servizi nonmercantili (quali l’educazione, la protezione civile, la salute, la difesa militare, le fognature, i musei...) era un valore di utilità sociale. I costi sostenuti dalla collettività per la loro preservazione, produzione, manutenzione ed uso erano presi in carico dalla stessa collettività attraverso la spesa pubblica, finanziata dalla fiscalità generale e specifica. In alcuni casi, la collettività chiedeva ai singoli cittadini o a gruppi di cittadini il versamento di un contributo82 alla copertura dei costi chiamato tariffa, canone, «biglietto» (tariffa dei francobolli, biglietto dell’autobus o dei treni, canone per il raccordo alla rete elettrica, al gas urbano, alla radio...). Il principio di gratuità dei beni comuni non implica assenza di costi, ma comporta che questi siano presi in carico dalla collettività nel caso di servizi particolarmente costosi (es: difesa militare). La grande conquista sociale sta proprio nel principio della gratuità dell’accesso e dell’uso dei beni essenziali ed insostituibili per la vita grazie alla copertura comune dei loro costi secondo di principi di giustizia, solidarietà e responsabilità83. Il principio di gratuità, in 82

Il contributo non aveva la finalità di coprire i costi, questi restavano

principalmente assicurati dalle finanze pubbliche. 83

Petrella R., I beni comuni. Tra governo e governance, gratuità e

monetizzazione, in La società dei beni comuni, Carta/Ediesse, Roma 2010.


effetti, è strettamente legato a quelli di responsabilità e di partecipazione. Quel che ha reso e rende tuttora il principio di gratuità inaccettabile ai detentori di capitale, quindi ai gruppi dominanti sul piano economico e sociale, è per l’appunto, il fatto che essi debbano condividere una parte della loro ricchezza «prodotta» per “pagare – gridano – l’accesso all’acqua, alla salute, all’educazione... degli altri, di quelli che non vogliono lavorare, degli immigrati, degli illegali”84. La monetizzazione dei servizi un tempo pubblici in funzione dell’obiettivo della «verità dei prezzi» si fonda sull’applicazione della teoria dei costi. Il caso della monetizzazione dell’acqua e dei servizi idrici costituisce un esempio illuminante di una serie di mistificazioni legate alla teoria dei costi. È tempo quindi di abbandonare la monetizzazione dei beni comuni pubblici e di reinventare sistemi basati sul principio di gratuità partendo da forme organizzate a livello locale, alcune già sperimentate fino al livello mondiale.

84

CACCIARI P. (a cura di ), La società dei beni comuni, Carta/Ediesse,

Roma 2010.


CAPITOLO QUINTO LE PUBLIC UTILITIES: LO SVILUPPO DEL SETTORE E I PRINICPALI FOCUS TEMATICI

La privatizzazione del patrimonio pubblico è al centro di un aspro conflitto politico in tutto il Mondo, in quanto rappresenta la nuova frontiera del profitto delle multinazionali, specie in una fase di crisi come quella attuale. Beni comuni, beni pubblici, infrastrutture e servizi pubblici di welfare (sanità, scuola, formazione..) sono un patrimonio consolidato di beni e di esperienze, una ricchezza collettiva che potrebbe giovare alle grandi multinazionali e alla finanza. Il caso più consolidato è quello dell’industria manifatturiera, che è ormai parte integrante della finanza. Ciò spiega perché una crisi, apparentemente finanziaria come quella attuale, si sia subito trasformata in crisi verticale dell’occupazione in generale, e di quella industriale, in particolare. Il nesso tra questi due elementi, non sta tanto nella spiegazione che viene normalmente addotta, secondo cui le Banche, colpite o minacciate dalla crisi, hanno ridotto il credito alle imprese, che sono così state costrette a ridurre il livello di attività e i posti di lavoro. Il nesso vero sta nella trasformazione della natura dell’impresa, che la finanza ha posto all’industria da quando, alcune decine di anni fa, gli investitori istituzionali (fondi comuni, fondi pensione e


assicurazioni), si sono impadroniti di oltre il 50% del capitale delle società quotate in Borsa. Ciò ha loro permesso di imporre all’industria una nuova concezione dell’impresa, coerente con i fini speculativi che le sono propri: l’impresa non è più un’organizzazione di parti indipendenti, sia in senso economico, che sociale, che tocca gli interessi di una pluralità di soggetti: azionisti, dipendenti, fornitori, verso i quali sa di essere responsabile. È diventata invece, un insieme di attività (cose materiali che si producono, ma anche assets finanziari), connesse temporaneamente tra di loro. Ciascuna componente dell’impresa è costantemente monitorata per verificarne il rendimento finanziario, che deve risultare uguale o superiore a quello dei suoi concorrenti sul mercato globale, pena la ristrutturazione, vendita o chiusura, con effetti comunque negativi sull’occupazione. I costi della disoccupazione così creata, vengono addossati allo Stato: la solita socializzazione delle perdite e privatizzazione dei guadagni. L’ingresso delle multinazionali nella gestione e distribuzione dell’acqua, è relativamente recente. La Banca Mondiale ha cominciato ad interessarsi alla mercificazione dell’acqua agli inizi degli anni Novanta e da allora ha favorito l’ingresso delle multinazionali nel settore. La tesi della Banca Mondiale, e di tutti i fautori della privatizzazione, è che purificare, trattare e distribuire l’acqua richiede forti investimenti, ragion per cui l’acqua andrebbe considerata alla stregua di una qualsiasi merce. La privatizzazione dell’acqua ha assunto forme nuove molto invasive negli ultimi anni, tra cui la costruzione


delle grandi dighe85, soprattutto nel Sud del Mondo e l’ingresso delle multinazionali nella gestione e distribuzione dell’acqua. L’acqua ha avuto la forza di portare alla ribalta la crisi dei beni comuni e la considerazione che diritto, risparmio, partecipazione sono assolutamente incompatibili con ogni forma di privatizzazione e di statalizzazione86. Le problematiche concernono anche quei beni immateriali, la cui messa in comune, teoricamente, non creerebbe alcuna rivalità e quindi rischi di conflitti. Anche in questi casi la logica del Mercato lavora per creare scarsità. Gli apparati produttivi industriali hanno bisogno di innovazioni tecnologiche se vogliono allargare i mercati e mantenere costantemente alto il differenziale competitivo. Per riuscirci devono assicurarsi la ricerca, impedire la circolazione dei saperi (con l’ingabbiamento di internet), contingentare le applicazioni innovative (stringendo la morsa dei brevetti). 85

La costruzione delle grandi dighe nel Sud del mondo, è stata

particolarmente intensa a partire dal secondo dopoguerra ad opera della Banca Mondiale che, in accordo con i governi locali, ne sosteneva l’utilità per produrre l’energia necessaria all’irrigazione agricola e allo sviluppo industriale. In realtà, le grandi dighe pongono seri rischi in materia di sicurezza e hanno costi ambientali e sociali devastanti, sia sul territorio e sull’ambiente, sia sulle comunità rurali espropriate e trasformate in rifugiati ambientali, emarginati dalle decisioni politiche. L’energia elettrica prodotta con le dighe è infatti destinata alle grandi imprese agricole e industriali, non all’agricoltura contadina di villaggio. 86

CACCIARI P. (a cura di ), op. cit., pp. 152-153.


Se bene comune è non solo la natura nella sua totalità e nella sua integrità, ma anche il diritto di ognuno a fruirne per quanto necessario, ne discende l’esigenza di servizi che lo consentano: come la disponibilità di nutrimento igienicamente sicuro, di aria pulita, di un clima più o meno rispondente ai cicli stagionali, e pertanto di una politica che tenda ad assicurare, per quanto possibile, tutto ciò. Ed è così che al concetto stesso di bene comune, non può non appartenere la difesa del paesaggio, nella sua duplice valenza di natura e cultura, ma anche la certezza di libero accesso al sapere di ogni tipo e livello, e per questa via il recupero e il rilancio del concetto di cittadinanza partecipata, vale a dire la messa in opera di una democrazia più ampia possibile.

5.1 La regolamentazione del settore e la concezione oggettiva di servizio pubblico (Art. 90 del Trattato CE) I servizi pubblici rappresentano una categoria aperta, poiché è soggetta, nel tempo, ad ampliarsi o a restringersi in conformità della diversa interpretazione che gli organi preposti alla guida dello Stato possono dare agli interessi ed alle esigenze della collettività87. Essi non sono individuabili sulla base di definiti caratteri, ma derivano da un esplicito riconoscimento della pubblica amministrazione, che costituisce il frutto di un processo 87

Con il termine servizio pubblico virtuale, si fa riferimento ad un servizio un

tempo regolamentato e che oggi non lo è più.


sociale e politico. Ciò significa che, quando una determinata attività assume in un momento storico, per la collettività, un valore sociale, può rientrare fra i compiti dello Stato assicurarne l’effettuazione e garantirne il godimento a tutti i cittadini ad esso interessati, eliminando ogni possibile speculazione che possa inficiarne il godimento. Quindi vi è un binomio riconoscimentoregolamentazione. Si potrebbe dare una definizione di servizi pubblici, individuandoli come quei beni o servizi, materiali o immateriali, che la pubblica amministrazione riconosce di pubblica utilità ed in quanto tali ne assicura la produzione, distribuzione ed erogazione, in modo tale da garantire a tutti i cittadini ed alle utenze interessate un uso libero e privo di qualsiasi restrizione e discriminazione economica, spaziale e temporale. La Comunità Europea afferma che tutte le attività devono essere erogate attraverso la libera concorrenza e che vi deve essere la limitazione delle condizioni di monopolio alle sole attività non economiche e a quelle che il mercato non è in grado di servire. Inoltre individua due sub-comparti nel settore dei servizi di pubblica utilità, distinguendolo in: attività di interesse economico generale, opportunamente regolamentate nelle condizioni di accesso, gestione e di concorrenza dagli Stati della


Comunità Europea, e attività di base88 e di servizio universale89, per le quali sono previsti e consentiti interventi della P.A., quanto a finanziamenti e modalità organizzative (imprese pubbliche) e quanto a forme di mercato (monopolio). In base all’art. 90 del Trattato CE, la gestione dei servizi di interesse economico generale, deve essere assicurata da imprese la cui natura giuridica è indifferente (pubblica o privata), che operano in modo indipendente sul mercato ed in regime di concorrenza. Una deroga è prevista solo quando la missione dello svolgimento di tali attività può essere compromessa se affidata alle regole del mercato (servizi universali e di rete), mentre lo esclude nei casi in cui la restrizione della concorrenza non favorisca assolutamente il raggiungimento della missione di servizio di interesse economico generale.

88

I servizi di base sono costituiti dai sistemi di rete e di infrastrutture

necessari per la produzione di alcuni servizi (economici) di interesse generale, su cui viene garantito il libero accesso e a condizioni egualitarie a tutti gli operatori interessati, dietro il pagamento di un canone per l’uso della rete. 89

I servizi universali sono costituiti dall’insieme delle prestazioni che sono

rese disponibili a tutti, secondo i principi di uguaglianza, continuità, libero accesso ed a condizioni di prezzo accessibile, la cui gestione comporta oneri ed obblighi non sopportabili da imprese con finalità lucrative, per cui è richiesto l’intervento dello Stato.


A partire dal 1850, il settore delle public utilities ha subito delle profonde modificazioni. Le imprese di servizi pubblici hanno attraversato quattro stadi temporali. Il primo (1850-1900), definito della nascita e primo sviluppo, ha visto la nascita di alcuni servizi (elettrici, trasporti urbani, illuminazione pubblica, telefonici), operanti su scala comunale ad iniziativa anche di imprese private, che in Italia erano rappresenta teda investitori esteri90, sulla base di concessioni rilasciate dalle amministrazioni comunali. Il secondo (1900-1945), rappresenta il periodo della regolamentazione pubblica ed è caratterizzato dallo sviluppo del settore e della contestuale domanda. Si assiste inoltre ai primi tentativi di definire una normativa finalizzata all’esercizio del controllo pubblico su scala nazionale e locale.91 Il terzo stadio (1945-1985/90), si assimila al periodo della pubblicizzazione del settore. Lo sviluppo del 90

In Italia non si era ancora sviluppato il concetto di imprenditorialità e

mancava un mercato azionario sviluppato. 91

Un tipico esempio è dato dal processo di pubblicizzazione delle ferrovie

dello Stato (1905). I servizi pubblici a livello locale sono stati fino a poco tempo fa normati dalla Legge Giolitti del 1903 ed è rimasta in vigore fino all’emanazione della Legge 142 del ’90, con la quale lo Stato ha assunto il ruolo di Stato regolatore.


modello del Welfare State (Stato del benessere)92, comportò un progressivo aumento dell’intervento dello Stato nel settore economico e un corrispondente aumento della domanda di servizi pubblici. Lo Stato assunse il ruolo di imprenditore sempre più impegnato nella produzione di servizi ritenuti di pubblico interesse e utilità.

92

Lo Stato del benessere è connotato dalla fine della Seconda Guerra

Mondiale. L’Italia aveva un apparato industriale inesistente, maggiori esigenze e di conseguenza si avvertiva la necessità di dover sviluppare un maggiore grado di benessere, accrescendo l’offerta di servizi di pubblica utilità, sia per accrescere il benessere dei cittadini che per la ricchezza del Paese. Il servizio pubblico doveva essere l’elemento propensore per riportare l’Italia a nuove e migliori condizioni economiche, sociali e politiche.


Il quarto stadio (dal 1985/90 ad oggi), è il periodo della deregolamentazione93, sviluppo della concorrenza94 e privatizzazione95. L’avvio dei suddetti processi nel settore dei servizi pubblici, comportò lo sviluppo dell’efficienza, produttività ed efficacia nelle aziende di servizi pubblici e all’adeguamento alla logica dell’Unione Europea di introduzione della libera concorrenza nelle 93

Il concetto di deregolamentazione si è affermato con la caduta del concetto

di monopolio come una forma di mercato che consentisse la gestione dei servizi pubblici.

La pubblica amministrazione modifica sostanzialmente

l’approccio e la filosofia di trattamento del comparto di pubblica utilità e pertanto delle relative modalità di coordinamento, controllo e gestione delle attività attuando una netta separazione tra le tre fondamentali funzioni: regolamentazione, gestione e controllo. 94

È prevista per tutte le attività economiche. Essa è la condizione di mercato

imposta dall’art. 90 del Trattato con eccezione delle attività di servizio universale (legati a tutti in modo indiscriminato in termini di continuità, libero accesso e prezzi accessibili, la cui gestione comporta oneri ed obblighi non sopportabili da imprese con finalità lucrative, per cui è richiesto l’intervento dello Stato) e quelle di rete (i cosiddetti servizi di base, necessari per la produzione di alcuni servizi, su cui viene garantito il libero accesso ed a condizioni egualitarie a tutti gli operatori interessati, dietro il pagamento di un canone per l’uso della rete). 95

Con la privatizzazione, la pubblica amministrazione trasferisce a soggetti

privato la proprietà e l’esercizio di imprese pubbliche o di rami di attività di queste operanti nel settore dei servizi pubblici. La scelta della privatizzazione si basa sul principio secondo il quale la gestione privata è più efficiente di una gestione a proprietà pubblica.


attività economiche96. Si sviluppa così il modello di Stato definibile della qualità della vita o dei servizi, le cui finalità sono scindibili in due distinte sottofasi: - lo Stato dei servizi, nel quale diventa centrale l’efficienza dell’amministrazione pubblica nel produrre servizi in quantità e qualità corrispondente alle attese dei cittadini, delle famiglie, delle imprese (orientamento al servizio al cliente) - lo Stato regolatore, nel quale è invece centrale l’aspetto di ridimensionamento dell’intervento pubblico, per cui l’amministrazione è sempre meno coinvolta nei processi di produzione tecnica, dovendo concentrare la propria attenzione sul governo dei comportamenti economici di altri soggetti. Il passaggio dalla regolamentazione alla deregolamentazione è stato giustificato dalla Teoria dell’interesse pubblico, in base alla quale l’intervento pubblico risultava essere necessario ogni qualvolta si verificava o si paventava un fallimento di mercato, tale da determinare un’iniqua e inefficiente destinazione delle 96

Il Welfare State aveva dato vita all’erogazione di una molteplicità di servizi

e l’attenzione risultava di conseguenza volta alla quantità e non alla qualità. Il reddito disponibile della collettività era però accresciuto ed anche le loto esigenze, per tanto richiedevano servizi differenziati e di una maggiore qualità.


risorse e l’insoddisfazione dei consumatori. Fino ad allora il monopolio era considerato la forma di mercato che consentiva la migliore offerta di servizi pubblici, le cui ragione economiche erano ravvisate nel raggiungimento di economie di scala (nonché di economie di integrazione verticale); superiori capacità di ricerca e di innovazione, nonché di attuazione e utilizzazione dei capitali; superiore capacità tecnica ed organizzativa nella gestione delle attività correnti; la possibilità di governare le esternalità che molti servizi pubblici producono. Con la deregolamentazione, la Pubblica Amministrazione modifica sostanzialmente l’approccio e la filosofia di trattamento del comparto di pubblica utilità e pertanto delle relative modalità di coordinamento, controllo e gestione delle attività, attuando una netta separazione tra le fondamentali funzioni: regolamentazione, gestione e controllo.

5.2 La guerra dell’acqua: un po’ di storia La situazione maggiormente critica attualmente è rappresentata dall’acqua, bene comune per eccellenza, assolutamente indispensabile alla vita. I processi di privatizzazione che hanno coinvolto le reti idriche nei fatti compromettono la status di bene comune: dove gli acquedotti sono stati privatizzati, la logica del profitto ha provocato consistenti aumenti delle tariffe, un peggioramento della qualità dell’acqua, l’esclusione dei morosi e delle fasce sociali più deboli. Ciò che rischia di


restare compromesso è il profilo common: con l’affidamento della gestione del servizio idrico a soggetti privati o a società a capitale misto pubblico-privato, verrebbero compromessi i caratteri fondamentali che riguardano l’accessibilità pubblica, l’utilizzo sostenibile e la tutela dal saccheggio. Senza contare l’esauribilità della risorsa idrica, che Emilio Molinari definisce “una geografia degli esclusi e dei conquistatori, una geografia dei proprietari e dei morti”97, perché troppo spesso si dimentica l’importanza del diritto all’acqua come corollario del diritto alla vita. Occorre infatti una premessa culturale: ricordare, cioè, che in tante regioni del “Mondo più povero”, l’acqua non è mai stato un bene libero (non rivale), ma un bene scarso, costoso, strategico. La novità di questi ultimi anni è la generalizzazione del problema, dalle zone aride e molti altri Paesi del Mondo, dove l’acqua nei millenni passati, non era mai stato un bene collettivo (scarso e rivale), ma un classico bene pubblico puro. Oggi, per ragioni varie, ma legate tutte al modello di sviluppo capitalistico, l’acqua è un bene comune globale. Inoltre, nei Paesi più poveri, l’accesso all’acqua, è divenuto motivo di conflitti. Le cosiddette “guerre dell’acqua”, sono state spesso dovute ad un processo di colonizzazione che i Paesi ricchi hanno attuato nei Paesi più poveri, dove la maggior parte degli acquedotti è in mano a società europee e americane98. Nel 97

BELOTTI F., op. cit.

98

Emblematiche sono state le giornate di Aprile del 2000, quando tutta la

città di Cochabamba è scesa nelle strade per manifestare contro la decisione


Mondo, i movimenti sociali sono sempre più i protagonisti delle lotte in difesa di un’agricoltura legata ad un nuovo rapporto con la terra e per la democrazia delle risorse idriche. In Italia, associazioni, gruppi e comitati locali, già dal 2005 sono attive nei territori, decine di vertenze aperte dai cittadini, lavoratori ed anche amministratori locali, che sono portatrici di un’esigenza comune e condivisa, cioè la necessità di una svolta radicale rispetto alle politiche liberiste che hanno fatto dell’acqua una merce e del mercato il punto di riferimento per la sua gestione, provocando dappertutto degrado e spreco della risorsa, peggioramento della qualità del servizio, aumento delle tariffe, riduzione degli investimenti, diseconomie della gestione99. Sotto il profilo giuridico, la storia parte da lontano e più precisamente da quando, sotto il governo Giolitti, venne approvata la legge nazionale per la di una multinazionale statunitense, Bechtel, di privatizzare le risorse idriche del Paese, che costrinsero il governo a revocare la legislazione sulla privatizzazione. 99

Nascono così vari coordinamenti, come il Forum italiano dei movimenti per

l’acqua, e varie campagne, tra cui “Imbrocchiamola”, della rivista Altreconomia, per diffondere l’uso dell’acqua del rubinetto. Intanto la Bolivia e l’Ecuador hanno approvato una nuova Carta costituzionale, che estende i diritti sociali all’acqua, al cibo, all’energia, all’istruzione, alla salute e difende la natura e le risorse che sono alla base di quei diritti.


municipalizzazione degli acquedotti, nel 1903. Novantuno anni dopo, a fronte delle gravi inefficienze del sistema, la legge Galli (n. 36 del 5 gennaio 1994), vera madre della legge Ronchi, ha ristrutturato il modello di gestione della risorsa idrica, tenendo fermo l’impianto pubblicistico, ma aprendo anche al privato. È stato anzitutto sancito il principio del full recovery cost, la cui ratio legislativa è la seguente: la tariffa deve garantire un’adeguata remunerazione del capitale investito e pertanto ognuno paga in bolletta il 7% di quanto il gestore ha investito. Inoltre, di fronte all’eccessiva frammentazione dei gestori, la legge Galli (ora assorbita dal Decreto Legislativo n. 152 del 5 aprile 2006) ha attribuito ai Comuni e alle Province, organizzati in Autorità d’ambito territoriale ottimale (Ato), il compito di riorganizzare i servizi di acquedotto, fognatura e depurazione in un servizio idrico integrato (SII). In particolare, la legge Galli ha introdotto il concetto di ciclo integrato dell’acqua e quindi la necessità di un unico gestore per l’intero ciclo e ha a tal fine individuato gli Ato in corrispondenza, almeno in linea teorica, dei bacini idrografici (in realtà sono stati ricalcati i confini amministrativi). Altro punto cardine del sistema Galli concerne più specificatamente l’apertura alla privatizzazione dell’acqua attraverso il c.d. “affidamento”: in altre parole, si stabilisce che per ogni Ato deve essere scelto un unico soggetto gestore cui affidare le chiavi dell’acquedotto per un lasso di tempo non superiore a 30 anni e che l’assemblea dell’Ato, composta dai sindaci (o da loro rappresentanti) di tutti i comuni riuniti in un solo ambito, decide le modalità dell’affidamento. Questo può


essere di tipo diretto, a favore di una società per azioni a totale capitale pubblico (e in tale caso prende il nome di “affidamento in house”), oppure può fondarsi su una gara aperta a concorrenti europei al fine di scegliere un partner privato da affiancare al vecchio gestore pubblico. Si trattava della prima vera apertura ai privati, che improvvisamente diventavano i soggetti più agevolati nella gestione dell’acqua. Non potendo più ricorrere alle casse statali, l’ente gestore doveva investire, con la certezza che l’esborso iniziale sarebbe rientrato, con gli interessi, attraverso le bollette. Il problema dei Comuni era appunto il reperimento dei fondi necessari per gli investimenti iniziali; soldi che invece non mancavano ai soggetti privati. Così sempre più enti pubblici dalle casse prosciugate si sono visti costretti a cedere la gestione dei servizi ai privati, o a trasformare le società di gestione in s.p.a. miste pubblico-privato (per la giurisdizione


comunque enti di diritto privato)100. Successivamente, nel 2000, è arrivato il Tuel, il Testo Unico Enti locali (D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267), che ha previsto tre modalità di affidamento per la gestione del servizio idrico: alle Spa private scelte con gara; alle Spa miste pubblico-private e infine alle Spa pubbliche tramite affidamento diretto. Ancora, con la finanziaria per il 2002 (l. 448 del 2001), il Governo Berlusconi ha previsto l’obbligo di affidamento 100

Ma allora perché, ci si chiede, laddove i privati sono entrati nella gestione

dell’acqua gli investimenti non sono aumentati,e in molti casi sono persino diminuiti? Perché il principio del full recovery cost non funziona. Lo ha ammesso la stessa Federutility, spiegando nel suo ‘blue book’ che gli acquedotti italiani sono talmente disastrati che si renderebbero necessari investimenti di oltre 55 miliardi di euro. Una tale cifra, anche spalmata sulle bollette in 20 anni, renderebbe inaccessibile l’acqua ad una buona fetta della popolazione. Dunque, la strategia dei privati è stata la stessa che i fautori delle privatizzazioni rimproverano al settore pubblico: nessun investimento. Tanto, si sa, che il servizio sia buono o scadente nessuno può rinunciare a consumare acqua. Nessun investimento a fronte di una gestione privata finalizzata al profitto e non a garantire un servizio alla cittadinanza. In questo non c’è grande differenza fra una società di gestione privata e una s.p.a. mista a maggioranza pubblica. Entrambe devono, per legge, garantire il massimo dei

profitti

ai

loro

azionisti

e

sono

enti

di

diritto

privato.

(DEGL’INNOCENTI A., Acqua pubblica, dopo i referendum un nuovo inizio, da il Cambiamento dal virtuale al reale, 14 Giugno 2011).


tramite gara dei “servizi a rilevanza industriale” e l’apertura alla concorrenza di diversi settori tra cui quello idrico. Sei anni dopo è intervenuto il decreto legislativo n. 152 del 2006, che ha ribadito le tre modalità di gestione fissate dal Tuel, mentre con la legge Bersani del 2006 (l’art. 13 della legge 4 agosto 2006, n. 248), nell’intento di tutelare la concorrenza, si è disposto che le società strumentali delle amministrazioni pubbliche locali o regionali operino esclusivamente con gli enti costituenti ed affidanti e non svolgano prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara. In particolare, la legge Bersani ha chiarito che soggetti esclusi dall’ambito di applicazione della norma sono le società costituite o partecipate da amministrazioni pubbliche locali o regionali che forniscono servizi pubblici locali. Con la legge finanziaria per il 2008 (art. 3 commi 27-29 della L. 24 dicembre 2007, n. 244), la Legge Bersani non solo viene confermata per le amministrazioni regionali e locali, ma anche estesa sul piano soggettivo a tutte le amministrazioni dello Stato, ivi incluse quelle che direttamente o indirettamente gestiscono servizi pubblici locali. Tuttavia sul piano oggettivo, il divieto per le amministrazioni pubbliche di assumere nuove partecipazioni o mantenere quelle possedute, conosce un’importante novità che riguarda la c.d. eccezione “funzionale”: in altre parole, il rispetto dei fini istituzionali propri dell’ente pubblico costituisce il primo limite alla costituzione o partecipazione a società per la produzione di beni o servizi; quindi l’amministrazione pubblica può assumere o mantenere la partecipazione in


una società che produce un bene o servizio strettamente necessario ai fini istituzionali della stessa amministrazione. Infine, con il Governo Berlusconi dell’attuale legislatura, la storia normativa del bene acqua si dirige velocemente verso la privatizzazione. Nel 2008, con la c.d. manovra estiva, varata con il decreto legge n. 112 del 25 giugno 2008 (legge di conversione 6 agosto 2008, n. 133), si è stabilito che le modalità ordinarie sono quelle dell’affidamento ai privati tramite gara e che, solo in via derogatoria, l’affidamento può essere fatto senza gara e verso società a totale capitale pubblico, le c.d. in house. La riforma del servizio idrico che, di fatto, privatizza definitivamente la gestione dell’acqua, è stata introdotta con il via libera definitivo dell’Aula della Camera al decreto legge Ronchi sugli obblighi comunitari che ne disciplina la gestione in una norma ad hoc. La legge Ronchi (l. 20 novembre 2009, n. 166) ha infatti ancor meglio realizzato l’obiettivo privatizzatore: come fu per il caso del decreto legge n. 112 del 2008, sempre con la motivazione di dover emanare disposizioni urgenti per l’attuazione degli obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, manda in soffitta tutte le gestioni in house entro il 31 dicembre 2011 a meno che entro questa data la società che gestisce il servizio non sia per il 40% affidata a privati. La norma, in particolare, prevede due modalità per la gestione dell’acqua in via ordinaria ed un’altra in via straordinaria. Si stabilisce così che la gestione del servizio idrico debba essere affidata ad un soggetto privato scelto tramite gara ad evidenza pubblica oppure ad


una società mista (pubblico/privato) nella quale il privato sia stato scelto con gara. Oppure, ed é il caso straordinario, la gestione del servizio idrico può essere affidata (“in casi eccezionali”) in via diretta, vale a dire senza gara, ad una società privata o pubblica. In tal caso, però, si deve trattare di una società in house, ossia una società su cui l’ente locale esercita un controllo molto stretto e si noti che ciò è possibile solo in situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato. Quindi la logica che sta dietro tale provvedimento pare essere quella secondo cui, poiché il privato si muove solo se intravede un profitto, nei territori definiti peculiari, dove l’acqua non è profittevole, l’affidamento può essere dato anche a società interamente pubbliche: in sostanza, il Governo è costretto a imporre la privatizzazione dei soggetti gestori poiché gli Ato dal 1994 ad oggi hanno scelto nella maggioranza dei casi gestioni pubbliche. In definitiva, non pare azzardato sostenere che il decreto Ronchi esprime una scelta politica, rafforzando due dei tre vigenti modelli: il regime privatistico tout court ed il regime misto (pubblico-privato). Al contrario, il modello dell’affidamento diretto in house viene posto come deroga ed eccezione. Si tratta di una scelta politica che più che incidere sul regime della concorrenza incide sugli assetti proprietari (pacchetti azionari e infrastrutture). È bene inoltre interrogarsi sul come si è proceduto ad una tale riforma del settore idrico: sia l’articolo 23-bis del decreto


legge n. 112 del 2008, sia la legge Ronchi giustificano la messa a gara dei servizi pubblici locali di rilevanza economica con l’applicazione della disciplina comunitaria. Ma l’obbligo di esternalizzazione dei servizi pubblici locali previsto dalla legge italiana non trova fondamento né nei Trattati, né in altra fonte del diritto comunitario: gli Stati membri sono liberi di decidere se fornire direttamente i servizi pubblici (e quindi se consentire alle autonomie locali di fare altrettanto) oppure se affidarli al settore privato. Tale concetto viene ribadito con chiarezza dal protocollo sui servizi di interesse generale del recente Trattato di Lisbona e dall’art. 14 (ex art. 16 TCE) del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea. Il diritto comunitario della concorrenza non si occupa espressamente dei servizi pubblici locali: l’unica preoccupazione del diritto comunitario è che, una volta deciso di affidare un servizio all’impresa privata, questo affidamento debba avvenire nel rispetto del principio di concorrenza e senza discriminare le imprese in base alla loro nazionalità. Di fatto, al fine di recidere le basi culturali e tecnico-gestionali della privatizzazione dei servizi pubblici essenziali, attraverso il decreto Ronchi, la società civile ha deciso di tentare lo strumento referendario. Il 12 e 13 giugno si è tornati alle urne per esprimere un voto per quattro quesiti referendari, alcuni sei quali volti all’abrogazione dell’art. 23-bis della decreto legge n. 112 del 2008 relativo alla privatizzazione dei servizi pubblici di rilevanza ed al ripristino degli Ato, con la finalità di


creare i presupposti, in attesa di una legge nazionale, per reintrodurre nell’ordinamento giuridico italiano l’affidamento della gestione dell’acqua ad un soggetto di diritto pubblico. Dunque oltre al nucleare e al legittimo impedimento, si è votato anche per due quesiti, cosiddetti “sull’acqua pubblica”, che puntano all’abrogazione di alcune norme contenute nel decreto Ronchi del 2009. Entrambi i quesiti in questione sono stati promossi dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua, a differenza degli altri due promossi dall’Italia dei Valori e da alcune associazioni ambientaliste. La natura dell’ente promotore ha contribuito, direttamente e indirettamente, a creare confusione nella campagna di comunicazione dei quesiti sull’acqua. Il primo quesito, denominato Modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, ha proposto di abrogare l’art. 23-bis della Legge n.133/2008 e successive modifiche, relativo alla privatizzazione dei servizi pubblici di rilevanza economica. In pratica si è voluto cancellare la norma che affida, previa gara d’appalto, la gestione dei servizi pubblici locali (acqua, rifiuti, trasporti) a società private o a società miste dove i privati detengano almeno il 40% del capitale. Le società miste quotate in Borsa, inoltre, per non perdere il diritto alla gestione della risorsa pubblica, devono portare la quota di capitale pubblico al 40% entro giugno 2013, e al 30% entro dicembre 2015.


Il secondo quesito, denominato Determinazione della tariffa del servizio idrico integrato in base all’adeguata remunerazione del capitale investito, ha proposto di abrogare l’art. 154 del Decreto Legislativo n. 152/2006 limitatamente a quella parte del comma 1 che dispone che la tariffa per il servizio idrico è determinata tenendo conto dell’«adeguatezza della remunerazione del capitale investito». In parole semplici, l’abrogazione eviterebbe che i gestori di servizio idrico ricevano il 7% del capitale investito come remunerazione adeguata allo sforzo economico fatto. Alla luce dei due quesiti risulta evidente che l’ormai famoso slogan utilizzato “sì all’acqua pubblica”, soprattutto perché non tutti e due i quesiti si riferiscono esclusivamente all’acqua: il primo, infatti, coinvolge tutti i servizi pubblici locali, comprendendo non solo il servizio idrico, ma anche lo smaltimento dei rifiuti e i trasporti pubblici. Con la vittoria dei si i cambiamenti risiedono nelle modalità della gara d’appalto. Oggi, i comuni che vogliono mantenere la gestione pubblica dei servizi possono farlo in due casi: se riescono a dimostrare che è inutile indire la gara per motivi economici, sociali o ambientali del territorio di appartenenza (ottenendo in tal caso la delega prevista dal comma 3 dell’art. 23-bis L. n.133/2008); se l’azienda pubblica partecipa alla gara e la vince. I comuni possono affidare direttamente la gestione pubblica ad un soggetto dell’amministrazione stessa (la cosiddetta gestione “in house”) senza dover indire una


gara d’appalto101. Infine, il capitolo più importante, quello delle tariffe e dei costi di bolletta. Con la vittoria dei si i gestori, siano essi pubblici o privati, non ricevono più il 7% del capitale investito, che di solito viene ammortizzato sulle bollette dei cittadini, ma hanno comunque diritto alla «copertura integrale dei costi di investimento». I costi di gestione dovranno comunque essere pagati, o attraverso le tariffe o attraverso la fiscalità. Che siano società private o pubbliche, la storia degli ultimi anni vede gestioni virtuose e fallimentari in entrambi i casi, in numero sostanzialmente uguale secondo i dati degli economisti Boitani e Massarutto. Chi gestirà l’acqua dopo il referendum è chiamato a farlo in maniera consapevole e responsabile, cercando di arginare la vergognosa dispersione idrica nazionale.

5.3 L’acqua patrimonio pubblico e la sfida della gestione efficace delle risorse idriche Il 12 e 13 giugno scorso, con il voto referendario, gli italiani hanno chiaramente stabilito che l’acqua deve 101

Questo meccanismo, fa notare Giorgio Santilli de Il Sole 24 Ore, potrebbe

favorire una politica clientelare che in passato ha portato a casi eclatanti come la “Parentopoli” capitolina.


essere considerata un bene comune. Il raggiungimento del quorum e, ancor più, la schiacciante vittoria del “sì” nei due quesiti specifici, non hanno fatto altro che confermare come il problema di una corretta ed efficace gestione delle risorse idriche, non soltanto beni da utilizzare, ma innanzitutto patrimonio da tutelare, sia molto sentito nel nostro Paese. Ma quale strada bisogna seguire oggi per una gestione virtuosa di questo bene primario, considerando da un lato la scarsità di risorse e dall’altro la necessità di fronteggiare gli impatti di potenziali cambiamenti climatici? E come fare a garantire a tutti, e non soltanto sulla carta, il diritto all’acqua, considerato un’estensione del diritto alla vita così come affermato dalla Dichiarazione universale dei Diritti umani? Si tratta di trarre le conseguenze concrete di quella valanga di si e procedere verso un nuovo modello di gestione del servizio: pubblico, trasparente e partecipato. Che non vuol dire affatto ritornare ad una gestione pubblica burocratica e inefficiente; la proposta alternativa è quella di un modello completamente nuovo di pubblico trasparente e partecipato, i cui buoni esempi in Europa da Parigi a Siviglia indicano tutti i vantaggi sociali, economici e ambientali. Il nodo è in sostanza come finanziare il servizio idrico, come offrire un servizio migliore, come tutelare un bene finito e essenziale. La gestione pubblica del servizio idrico non è solo un fatto tecnico o economico, ma si lega strettamente alla sovranità popolare e alla democrazia.


Alla luce dell'evento referendario, quale sarà il futuro della gestione dell'acqua in Italia? Le norme, abrogate attraverso il Referendum, prevedevano la liberalizzazione del mercato dell'acqua, ovvero l'apertura ai privati. Secondo i promotori dei Referendum, nei diciassette anni di gestione secondo questi principi, si è arrivati ad eccessive speculazioni sui prezzi e alla necessità delle Pubbliche Amministrazioni di cedere un bene così prezioso ai privati per fare fronte ai bisogni economici. Al contrario, chi si è astenuto o ha votato no ai Referendum, ha sostenuto che le liberalizzazioni, se correttamente gestite, potevano essere una grande opportunità per la libera concorrenza. Il risultato più immediato del Referendum è la gestione pubblica dell'acqua: ora l'acqua sarà gestita da aziende pubbliche, senza la possibilità di procedere a gare per l'ingresso di soggetti privati. Il secondo quesito, quello che aveva come oggetto la cancellazione della remunerazione del capitale investito, nella pratica ci porta a non dover pagare nella bolletta la distribuzione, depurazione e la realizzazione delle infrastrutture fognarie. Nell'immediato le tariffe dell'acqua resteranno invariate, ma allo scadere dei contratti è possibile un aumento nelle bollette dei cittadini e le privatizzazioni esistenti rimarranno tali. L'impatto sulle tariffe nell'immediato non è ovviamente visibile, perché si dovrà attendere l'introduzione di un provvedimento legislativo che faccia fronte all'attuale vacuum lege, che si è creato con l'abolizione di una parte di un articolo di legge molto rilevante ai fini della tariffazione. Il nuovo regime sarà, presumibilmente, un


regime non fisso, ovvero di remunerazione dell'investimento non fisso al 7% come è stato fin’ora, ma ragionevolmente dovrà comunque riflettere i costi del debito e del capitale proprio di remunerazione del capitale delle aziende che effettuano gli investimenti. Ci sono molte opzioni di come questo possa avvenire, una di queste è il ritorno alla fiscalità generale, ovvero tutti i cittadini pagheranno una porzione di tassa in più per finanziare le aziende, le quali recupereranno questo investimento tramite dei Tax credit, ovvero un credito fiscale, ma è molto presto per azzardare un'ipotesi alternativa, considerato che ad oggi non c'è una pronuncia né da parte del governo, né del Co.N.Vi.R.I.102, che è l'entità più vicina a quella che potrebbe essere la nuova agenzia di riferimento del settore. Uno strumento finanziario proposto dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua che non aumenta il debito pubblico, è rappresentato dal prestito irredimibile, una sorta di buoni 102

Commissione Nazionale di vigilanza sulle risorse idriche. Tra i compiti

fondamentali affidati al Co.N.Vi.R.I., vi è quello di garantire l’osservanza di principi della legge di riforma dei servizi idrici, con particolare riferimento all’efficienza,

efficacia

ed

economicità

del

servizio,

alla

regole

determinazione e al regolare adeguamento delle tariffe, nonché alla tutela degli interessi degli utenti.

Alla Commissione è attribuito il potere di

proporre azione innanzi agli Organi giurisdizionali competenti, contro gli atti posti in essere in violazione della normativa vigente in materia di servizio idrico integrato, nonché di esercitare l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori e di risarcimento dei danni a tutela dei diritti dell’utente.


di stato a interesse perpetuo senza restituzione del capitale. La concentrazione della campagna referendaria sulla privatizzazione dell'acqua ha determinato un'insufficiente attenzione sulle conseguenze dell'abrogazione della disposizione normativa. Il referendum ha, infatti, determinato anche l'interruzione del processo di privatizzazione, faticosamente avviato, cercando un adeguamento al sistema europeo, relativo alla gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza economica (gestione dei rifiuti, dell'illuminazione, trasporti pubblici locali). La materia ora deve ispirarsi ai principi generali derivanti dal Trattato Ue e dalla giurisprudenza che a questi fa riferimento. È prevedibile però un tentativo di un “ritorno al passato”: un utilizzo non ponderato delle società pubbliche e degli affidamenti cosiddetti in house. Occorre fare una distinzione tra gli affidamenti già in essere e i nuovi affidamenti. In merito ai primi, essendo venuto meno l'obbligo di dismissione delle partecipazioni sociali possedute dagli enti pubblici, gli affidamenti in essere continueranno a sussistere in capo agli attuali affidatari fino a naturale scadenza. Il risultato referendario ha fatto venir meno i rigidi e vincolanti criteri attraverso i quali la scelta del modello gestorio doveva essere effettuata, lasciando all'ente affidante la libertà di scelta. I nuovi affidamenti quindi potranno essere effettuati secondo le diverse opzioni gestionali che consentono all'ente pubblico locale una scelta tra l'autoproduzione, anche mediante società pubbliche, e il coinvolgimento del


privato attraverso una esternalizzazione totale o mediante una società a capitale pubblico-privato.

5.4 La vittoria referendaria rafforza la tesi della “terza via” L'esito dei referendum sull'acqua mette i Comuni di fronte al rischio investimenti; per questa ragione 'il governo deve colmare la vacatio normativa venutasi a creare, sia sul fronte della presenza dei privati nelle ex municipalizzate sia sul fronte degli investimenti e della remunerazione'103. I Comuni non possono chiedere garanzie per gli investimenti e farsi carico rispetto ai privati, i quali, non avendo più la remunerazione, non fanno investimenti, intascando però gli utili prodotti dalle società miste pubblico-private. Inoltre i sindaci non sono obbligati a riacquistare la percentuale detenuta dai privati nelle società per la gestione dei servizi idrici. Quindi si rischia il blocco degli interventi di manutenzione e del completamento delle reti idriche e fognarie. Sono trascorsi dei mesi dalla straordinaria vittoria referendaria sull'acqua e l'apparato politico istituzionale sembra essersi dimenticato la portata storica dell'evento. Così come con scarsa attenzione fu rilevato il record di 103

E’ quanto chiede il sindaco di Perugia Wladimiro Boccali, che sollecita

l'esecutivo ad individuare nuovi strumenti per realizzare gli investimenti nel settore.


raccolta firme - 1,4 milioni - ottenuto lo scorso anno dai movimenti per l'acqua nel più totale silenzio, oggi l'insieme dei poteri forti economici e politici sembra accomunato da un unico obiettivo : negare, rimuovere, depotenziare. Quasi nessuno sembra essersi accorto che, con i due sì della maggioranza assoluta del popolo italiano, si sia di fatto sancita, per la prima volta dopo decenni, la sconfitta con voto democratico e popolare delle politiche liberiste nel loro complesso e si sia affermata una fortissima istanza di democrazia diretta e di nuova partecipazione sociale. Il risultato di tutto questo scenario è sotto gli occhi di tutti : grandi manovre dei poteri forti finanziari per addivenire, in tempi rapidi, ad una nuova normativa che ristabilisca l'indiscutibile primato del mercato e altrettante manovre del mondo politico istituzionale che continua a considerare i referendum non una deliberazione costituzionale del popolo sovrano, quanto una semplice espressione da interpretare, sintetizzare e modulare. Grande è il disordine, ma alcuni punti fermi sono inequivocabili: il primo quesito referendario ha abrogato il decreto Ronchi e dunque, da ora, è vigente la dottrina comunitaria che contempla tutte le forme di gestione, compresa, dopo vent'anni di tabù, la gestione attraverso enti di diritto pubblico; il secondo quesito ha abrogato «l'adeguata remunerazione del capitale investito», ovvero la possibilità di fare profitti sulla gestione dell'acqua, da cui si deduce che l'unica tra le gestioni possibili sia esattamente quella attraverso enti di diritto pubblico.


L’esperienza applicativa di molti anni ha dimostrato che, in diversi casi, gli Enti locali cedono alla tentazione di ricavare consensi politici, oltre che utili economici, dalla gestione del servizio. Se è vero che le spa aggravano il problema del clientelismo, in quanto enti di diritto privato assumono per chiamata diretta, quindi paradossalmente la parentopoli può essere accelerata, questo non significa che di per sé il pubblico funzioni. Infatti andrebbe riformato un altro modello di pubblico attraverso la partecipazione diretta dei cittadini alla gestione dell’intero ciclo dell’acqua. Significa che su ogni territorio vanno sperimentati modelli in cui i quartieri, i cittadini, i lavoratori del servizio vengono coinvolti. Ci sono sperimentazioni, fatte per esempio a Parigi, nel cui comitato di gestione dell’azienda pubblica che gestisce l’acqua, c’è il consiglio di sorveglianza dei lavoratori, eletti direttamente dai lavoratori, che dà parere su ogni passaggio. Questi sono eletti a rotazione e hanno un mandato diretto da parte della assemblee di quartiere. Ovviamente tutto è perfettibile e non esiste la formula che salva da ogni conseguenza negativa, ma è un grande terreno di sperimentazione stante che i modelli precedenti hanno dimostrato di non funzionare. Molti sostengono che la forma societaria sia indispensabile per avere una gestione manageriale del servizio, per assicurare l’efficienza economica e l’elevato tasso di specializzazione e tecnicità. La gestione del servizio idrico è una gestione industriale, ma non significa che debba


essere gestito tramite una Spa104, quindi può essere erogato con un ente di diritto pubblico, per esempio l’azienda speciale e l’azienda speciale consortile, che ha tutte le caratteristiche dell’industrialità della gestione, pur rispondendo direttamente agli enti locali.

5.5 La conoscenza: un nuovo bene comune Un riferimento fondamentale nel campo dei beni comuni, è quello alla “conoscenza”, alla necessità di considerarla come commons, come bene disponibile per tutti, al pari dell’acqua o dell’aria, con la differenza fondamentale che la fruizione da parte di un soggetto non ne limita l’utilizzo da parte di un altro. Oggi questa è raggiungibile in modo capillare attraverso lo strumento della rete Internet, che non può essere limitato nel suo accesso solo a chi è disposto o a chi è in condizione di pagare. Idem si dica per l’informazione e l’istruzione, 104

La società per azioni è un ente di diritto privato che da codice civile ha un

unico scopo: quello di produrre dividendi per gli azionisti. Questo comporta una tensione economicistica del servizio che da quel momento viene considerato unicamente con l’obiettivo della produzione di dividendi. Questo significa che diventa impossibile qualsiasi politica di risparmio della risorsa idrica perché è esattamente dal massimo di vendita dell’acqua che si ricavano gli utili. Ciò non comporta una riorganizzazione del servizio finalizzata alla funzionalità, ma al risparmio del costo del lavoro, quindi si aumentare le tariffe.

tenderà ad


intese come fonti di conoscenza. Le pendenti riforme in materia di tutela della riservatezza, che nei fatti mirano solo ad imbavagliare la libertà di stampa, e in materia di riqualificazione dei luoghi d’istruzione, che sviliscono la struttura di scuole ed atenei, infatti, rappresentano il tentativo di “erosione continua dei fondamenti di un’organizzazione social democratica”105. Il sapere libero e diffuso garantisce pluralismo, indi democrazia. Luigi Einaudi diceva “conoscere per deliberare”. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, riconosceva come diritto fondamentale quello di “cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee”. Alla luce di queste riflessioni, pertanto, nasce l’esigenza di pensare ad una gestione del common svincolata dal modello antropologico dell’homo economicus dedito solo all’accumulo di profitto. Si devono sottoporre a revisione critica principi e categorie del passato, alla luce delle trasformazioni scientifiche e tecnologiche, valorizzando il dettato costituzionale, lì dove stabilisce che la legge determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti della proprietà privata “allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti” (art. 42), e prospetta quella che Rodotà definisce “una sorta di terza via tra proprietà pubblica e privata” (art. 43). Il successo in molti ambienti accademici del lavoro analitico sui commons, ha fatto naturalmente crescere il numero degli studiosi. Tanto più che è aumentata la ricerca di soluzioni per la salvaguardia delle grandi risorse naturali planetarie. 105

BELOTTI F., op. cit.


Traendo lezioni dalla logica e dal metodo seguiti dalla Ostrom, il passaggio di scala cambia molte cose, riportando al centro dell’arena soggetti come gli Stati Nazionali ed il richiamo al diritto globale. Un metodo di analisi potrebbe essere ricavato direttamente dalle ricerche sui commons locali. Inoltre lo sviluppo della Rete e del suo ormai incontrastato dominio fra i mezzi di comunicazione, ha fatto sì che si imponessero molte ipotesi di nuovi beni collettivi. Le risorse non sarebbero in questo caso naturali, ma virtuali e immateriali. Si può così parlare di “conoscenza come bene comune”, come recita il titolo dell’ultimo libro a cura di Elinor Ostrom e Charlotte Hess. Nella grande disputa sull’accesso ai contenuti della Rete, se pienamente aperti o soggetti a regole restrittive di “recinzione”, l’idea dei commons va naturalmente a favore dell’accesso libero. È difficile immaginare che i problemi di governo della Rete e delle sue innumerevoli utilizzazioni, possano essere ricomprese facilmente entro il sistema delle nozioni e dei metodi relativi ai beni collettivi. Proprio nel libro citato, Ostrom e Hess pongono molta attenzione a indicare criteri metodologici per l’identificazione di commons anche entro la Rete. I paradigmi cosiddetti Iad106 (Institutional Analysis and 106

Rappresenta uno strumento analitico utilizzabile per indagare qualsiasi

vasto ambito nel quale gli umani interagiscono ripetutamente, in base a regole e norme che ne guidano la scelta di strategie e comportamenti. Il framework può essere utilizzato per analizzare situazioni statiche generate da regole esistenti e relative ad un mondo fisico immutabile e alla relativa comunità,


Development framework), servono a delimitare il campo ed evitare che il discorso sui commons degeneri in retorica. Le due autrici basano il loro lavoro sull’idea che la tragedia citata da Hardin, non sia affatto inevitabile, e che il successo della gestione collettiva dei beni comuni, dipenda da una corretta progettazione istituzionale della risorsa e da adeguate norme sociali. “Progettare le istituzioni in modo da incrementare la produzione e l’uso di ogni genere di beni comuni, naturali o creati dall’uomo, è una sfida. La progettazione efficace richiede comportamenti di azione collettiva e autogoverno, fiducia e reciprocità, e la creazione e/o lo sviluppo continuo di regole appropriate. Abbiamo imparato che il buon governo dei beni comuni richiede una comunità attiva e regole in evoluzione che siano ben comprese e applicate107”. Il libro accoglie e approfondisce l’estensione del concetto di bene comune al mondo dell’informazione digitale: bene comune possono dunque essere un open archive, una rivista elettronica, la conoscenza in generale. Viceversa, un rischio come quello del free riding, può essere rappresentato, ad esempio, da chi utilizza la rete solo per scaricare materiale, senza arricchire la risorsa collettiva caricando a proprio rischio dei file. È inevitabile connettere il problema a quello della così come per analizzare situazioni dinamiche in cui gli individui sviluppano nuove norme e nuove regole. 107

HESS C., OSTROM E. (a cura di), op. cit.,p. 48.


gestione della proprietà intellettuale, specie considerando le caratteristiche proprie della conoscenza considerata come bene economico: “i beni comuni della scienza, della comunità accademica e della cultura sono in primo luogo di natura sociale e ‘informazionale’. Tendono a coinvolgere beni non rivali, che molte persone possono usare e condividere senza per questo deteriorare la risorsa108”.Quindi anche la conoscenza sociale, frutto di un lungo processo di competizione e di cooperazione sviluppatosi nel corso dei millenni della storia umana, rappresenta un bene comune che è necessario tutelare e preservare. Nella nostra epoca tale esigenza si fa più pressante dato che la conoscenza basata sulle tecnologie digitali e informatiche è in linea di principio accessibile a tutti, ma, al contempo, è sottoposta a meccanismi di limitazione e riduzione delle possibilità di circolazione (si pensi al digital divide, alle password a pagamento o all’user id). Oggi attraverso Internet la conoscenza è potenzialmente disponibile per tutti con un solo click, ma proprio nel momento della sua apparente maggiore accessibilità, il sapere è soggetto a norme sempre più restrittive sulla proprietà intellettuale, che limitano l’accesso alle risorse on-line. Queste nuove forme di ipermoderne enclosures, mettono a rischio il carattere di bene comune della conoscenza. E proprio di fronte a tale pericolo, bisogna ribadire che il sapere deve essere una risorsa condivisa, il propellente stesso per le moderne 108

HESS C., OSTROM E. (a cura di), op. cit., p. 39.


società che legano la loro prosperità e il loro sviluppo alla ricerca, alla formazione e alla massima diffusione sociale di saperi creativi e innovativi. Per realizzare questo grande obiettivo democratico, è necessario ripensare la proprietà intellettuale e il copyright, ma anche il ruolo delle biblioteche, delle istituzioni formative e delle forme di creazione e condivisione digitale dei saperi, così come il modo in cui i nuovi contenuti digitali possono essere conservati e resi disponibili attraverso il Web. E’ nel disegno di legge delega al Governo per la novellazione del capo II del titolo I del libro III del Codice civile, elaborato dalla Commissione Rodotà, che per la prima volta viene adottata, in ambito giuridico, la definizione di bene culturale come bene comune. A differenza dei beni comuni naturali, dell’importanza dei cultural commons manca una diffusa consapevolezza; essi non sono avvertiti come elementi senza i quali non si può vivere, non sono considerati da tutti necessari. Accanto ai beni comuni culturali tangibili esiste un altro sottoinsieme, i beni comuni digitali. Le dinamiche di Internet in particolare stanno rivoluzionato il modo stesso di produrre e di fruire cultura verso un’accezione sempre più comunitaria in cui il senso di condivisione è diventato pervasivo. Quali sfide pongono i cultural commons? La grande varietà di ciò che troviamo dentro tale concetto non permette risposte univoche, ma senza dubbio ripropone una serie di temi ricorrenti. Il primo riguarda la governance di questi sistemi, la cui progettazione efficace richiede “comportamenti di azione collettiva e autogoverno,


fiducia e reciprocità, e la creazione e/o lo sviluppo continuo di regole appropriate”109. La corretta gestione dei diritti di proprietà intellettuale rappresenta in quest’ottica un nodo centrale: nel momento in cui la produzione culturale viene intesa in una logica di condivisione, si rende infatti necessario ripensare al castello teorico e normativo costruito negli anni, da una lato per la sua protezione, dall’altro per la sua “recinzione” e sfruttamento economico. Il secondo, strettamente connesso al primo, riguarda le problematiche relative alla preservazione e al delicato equilibrio della rigenerazione nel tempo della risorsa condivisa. In questa direzione vale per i cultural commons quanto viene affermato per i beni comuni della conoscenza, e cioè l’esistenza del cosiddetto fenomeno della “cornucopia dei beni comuni”, in cui il valore aumenta man mano che aumentano i membri della comunità sociale. Dunque i beni virtuali sono una parte essenziale dei beni comuni, ed hanno un proprio pregio specifico nell’essere risorsa chiave per trattare le tragedie dei commons che si vanno accumulando nella nostra epoca. Tra essi spicca un bene virtuale: la sussidiarietà, essa rientra nella classe dei beni normativi. La sussidiarietà come common è sancita in Costituzione all’art. 118 ultimo comma, laddove si afferma che i soggetti pubblici devono “favorire le autonome iniziative dei cittadini per lo svolgimento di attività di interesse generale”, concretamente quelle attività di interesse generale consistono nella produzione, cura e sviluppo dei 109

HESS C., OSTROM E. (a cura di), op. cit.


beni comuni. Le pratiche di sussidiarietĂ sono, infatti, in grado di attivare una serie di beni comuni virtuali (conoscenze, motivazioni, persuasioni, capitale sociale) che resterebbero altrimenti allo stato latente nella situazione di asimmetria tra amministrazione e cittadino.

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CONCLUSIONI In un recente articolo, A. Sen110, ha sottolineato che nel tema dei global commons, come l’acqua, “il problema importante è dato dal fatto che i Paesi industrializzati utilizzano una quota sproporzionatamente maggiore di ciò che definiscono i beni collettivi globali, ovvero il patrimonio di aria, acqua e altre risorse naturali di cui noi tutti, collettivamente, possiamo fruire”111. È evidente come la soluzione hobbesiana dello Stato che sanziona i trasgressori non è praticabile (quale autorità oggi sarebbe capace di imporre sanzioni agli US sull’uso del CO2)? Ciò non significa che i capi di governo non debbano far di tutto per arrivare ad un patto sociale mondiale con sanzioni, ma non sembra essere la soluzione più semplice. Inoltre gli utilizzatori dei beni comuni globali sono miliardi di persone indipendenti le une dalle altre, dove ciascuno massimizza i propri obiettivi: coordinarle e limitarle è impresa ardua, se non impossibile. Bisognerebbe costituire un nuovo patto sociale mondiale tra cittadini uguali e liberi che si auto-limitino nell’uso delle risorse comuni. Sarebbe un patto diverso da quello hobbesiano (tendenzialmente illiberale) o quello fatto dai 110

Economista politico tra i più influenti in tema di politiche ambientali e di

diritti umani. 111

SEN A., Sviluppo sostenibile e responsabilità, Il Mulino, Bologna 2010,

pp. 554-566, cit. da p.565.


“capi” (di governo, di famiglia, di clan), dovrebbe essere un patto della fraternità, dopo l’uguaglianza e la libertà: queste ultime sono state la grande conquista della modernità, hanno creato la democrazia, i diritti, ma si stanno, da sole, rivelando incapaci di gestire i beni comuni dai quali dipenderà molto, forse quasi tutto, del presente e del futuro. Fraternità è sinonimo di legame tra le persone, e senza legami, senza riconoscere che siamo legati perché insistiamo sulle stesse risorse comuni, non si esce dalla tragedia dei commons. E l’acqua? L’economia e la sua cultura ha sviluppato il principio di libertà (e in un certo senso anche quello di uguaglianza), un principio che ha funzionato bene con i beni privati e con pochi beni pubblici (non collettivi) offerti dallo Stato (difesa, istruzione pubblica, sanità…). La metodica della mano invisibile ha funzionato semplicemente: se ciascuno fa il proprio interesse, automaticamente fa anche il bene comune. Ma se introduciamo nel discorso il tema dei beni comuni, non basta più la “mano invisibile”, cioè interessi privati e pubbliche virtù, occorre invece un’economia dei beni collettivi. In concreto, se vogliamo che l’acqua sia gestita non solo dallo Stato, ma anche dalla società civile, occorre che la società civile esprima imprese efficienti, ma che non abbiano come scopo il profitto (l’impresa che massimizza il profitto non può gestire i beni comuni, perché produce la tragedia dei commons). Le imprese che si occupano di beni comuni devono essere imprese civili, ancorate ad una visione di comunione (commons) e fraternità (legame), cioè imprese che sono efficienti (non sprecano), ma che non hanno come obiettivo il profitto,


sono partecipate dalla società civile, hanno una governance multistakeholders (compresi rappresentanti delle famiglie giovani, che danno voce agli uomini di domani e rappresentanti della gratuità, come poeti, artisti..) e per legge non distribuiscono profitti, se non per scopi sociali e di comunione. Abbiamo avuto modo di vedere come il tema dei beni comuni si presenti quanto mai trasversale toccando tematiche giuridiche, filosofiche, politiche ed economiche. “Comune” è un modo globale di guardare e di elevare la cooperazione al massimo grado. In questo che è stato definito il Secolo del Mercato, dobbiamo ricordarci che già Adam Smith si chiedeva se il capitalismo potesse essere creatore di regole morali e di capitale sociale. La risposta che mi sento di dare è affermativa, ma solo se il Mercato riuscirà a porre al centro un nuovo concetto di “Pubblico”, un Pubblico non statuale ed introdurre a livello normativo quello che è stato definito come l’opposto della Proprietà: in definitiva la produzione di valori universali attraverso i beni comuni, può essere lo strumento per correggere lo sguardo corto del Mercato e stimolare l’investimento “morale”.


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