Archeo n. 349, Marzo 2014

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2014

l’apollo di gaza

carnac

carestia in egitto

etruschi ad acquarossa

speciale il mistero dei culti orientali

Mens. Anno XXX numero 3 (349) Marzo 2014 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 8,70; Spagna € 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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e le tentazioni

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mitra

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i giganti della preistoria

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€ 5,90

l’abitato di acquarossa al museo di viterbo

www.archeo.it



editoriale

mitra e i «se» della storia

Era la mattina del 10 febbraio 1934 quando il postino suonò al portone del palazzo di Corso Italia 19, a Roma, per consegnare un telegramma al professor Franz Cumont, grande archeologo e studioso dei culti mitraici. Il messaggio, inviato da Clark Hopkins e Michael Rostovtzeff, proveniva da Aleppo, in Siria, e recitava: «Mithrée peint découvert près votre tente. Venez» («Scoperto mitreo dipinto vicino alla vostra tenda. Venite»). La tenda era quella della missione di scavo a Dura Europos, il sito indagato da Cumont negli anni Venti e dove, nel 1932, Hopkins aveva scoperto i resti della celebre sinagoga dipinta (ora al Museo di Damasco). Cumont partí subito per la Siria, nella speranza di poter finalmente disporre della prova archeologica di quanto andava teorizzando da anni: che il culto di Mitra fosse, a tutti gli effetti, una religione di antichissime origini orientali. Ma, giunto a Dura, la delusione non si fece attendere. Come ricorda Richard Gordon, lo studioso del mitraismo al quale dobbiamo il racconto dell’episodio appena citato, Cumont si rese subito conto che il santuario era stato realizzato intorno alla metà del II secolo d.C., da militari palmireni, verosimilmente sotto influenza romana. In un’epoca, dunque, che in nessuna maniera poteva collimare con l’ipotesi dello studioso. Della «grande illusione» che ha informato l’opera di Franz Cumont, tuttora considerato il padre degli studi sui cosiddetti «culti orientali», parliamo nello speciale di questo numero. La sua illusione non scalfisce, però, una verità incontestabile: quella dell’enorme fortuna riscontrata dal culto di Mitra in tutto il mondo romano. A questo proposito è rimasta celebre l’affermazione del filosofo e orientalista Ernest Renan, del 1882, secondo il quale «se il cristianesimo fosse stato fermato alla sua nascita da qualche malattia mortale, il mondo sarebbe diventato mitraico». Gli fa eco, 130 anni dopo, l’antichista Alexander Demand. Per lo studioso il cristianesimo fu in grado di imporsi alla concorrenza delle religioni misteriche (tra cui il mitraismo) «non ultimo perché la nuova religione poteva far conto sull’appoggio dell’autorità statale». E, se l’affermazione del cristianesimo non si fosse verificata in questo modo, nessuno degli altri culti «orientali» avrebbe avuto la forza di farsi strada da solo. Sempre secondo Demand, i numeri per riuscirvi li avrebbe avuti, semmai e qualche secolo piú tardi, solo un altro credo, quello… dell’Islam. La storia, però, e tanto meno quella delle religioni, non si fa con i «se». Andreas M. Steiner

Disegno ricostruttivo della celebrazione del rito nell’aula di culto del mitreo di Vulci, in uso tra il III e il IV sec. d.C.


Sommario Editoriale

Mitra e i «se» della storia

3

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dalla stampa internazionale

di Andreas M. Steiner

Siria: requiem per un patrimonio unico al mondo? 22

Attualità

i luoghi della leggenda

la notizia del mese

Carnac. La danza dei giganti

Recuperato a Gaza da un pescatore, uno splendido Apollo bronzeo ha fatto perdere le sue tracce. Torneremo presto a poterlo ammirare? 6

di Massimo Vidale

di Paolo Leonini

di Sergio Pernigotti

notiziario

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antico egitto

«Sette anni di carestia...»

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scoperte Molte e importanti le novità emerse dalle piú recenti ricerche nell’area del Palatino, a Roma 9 parola d’archeologo Riaperta al pubblico la via Alessandrina nel cuore dell’area dei Fori Imperiali di Roma 10 mostre Gli Etruschi di Orvieto al Museo Archeologico di Venafro e il vino dei faraoni 14

28 In copertina rilievo con tauroctonia, dal mitreo sotto la chiesa di S.Stefano Rotondo, a Roma. Fine del III sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano.

Anno XXX, n. 3 (349) - marzo 2014 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Marialuisa Rossignoli Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 21768.507 Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Witold Hensel, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe.

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Giancarlo

Ligabue, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Luciano Calenda è presidente del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesca Cenerini è professore di storia romana all’Università di Bologna. Manfred Clauss è è professore emerito di Storia antica alla Johann Wolfgang Goethe-Universität di Francoforte. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Andrea De Pascale è conservatore del Museo Archeologico del Finale (IISL) e membro del Centro Studi Sotterranei di Genova. Valentina Di Napoli è archeologa. Paola Di Silvio è archeologa. Susanne Erbelding è archeologa e curatrice della sezione di archeologia romana del Badisches Landesmuseum di Karlsruhe. Cristina Ferrari è archeologa e giornalista. Christoph Hausmann è archeologo. Katarina Horst dirige il Dipartimento Scienze e Collezioni del Badisches Landesmuseum di Karlsruhe. Paolo Leonini è storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Luna Michelangeli è archeologa. Sergio Pernigotti è professore emerito di egittologia all’Università di Bologna. Giorgio Rossignoli è dottore in scienze politiche. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso Sapienza Università di Roma. Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Illustrazioni e immagini: Cortesia Ufficio stampa mostra L’impero degli dèi. Culti e religioni nell’impero romano: copertina e pp. 64-69, 71, 73, 74, 74/75 (basso), 78-80, 85-87 – Studio Inklink, Firenze: p. 3 – Reuters: pp. 6-7 – Cortesia Israel Antiquities Authority: p. 8 – Cortesia Sapienza Università di Roma: p. 9 – Cortesia dell’autore: pp. 10 (alto), 88/89, 91-95, 96, 104-105, 110-111 – Doc red.: pp. 10 (basso), 11, 12 33, 90 (alto e centro), 100, 108 – Cortesia Ufficio stampa: p. 14 – Google Earth: © 2014 Digital Globe: p. 22; © 2013 Basarsoft/Digital Globe: p. 23 (Google e il logo Google sono marchi registrati di Google Inc. e sono utilizzati per gentile concessione) – Cortesia Ministero Ellenico per la Cultura e lo Sport: pp. 24-25 – Shutterstock: pp. 28/29, 36/37, 38-40 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 30, 37 (alto), 42, 43, 46, 83; Leemage: p. 41; Electa/Arnaldo Vescovo, su concessione MiBACT: p. 82 – Corbis Images: Bernard Annebicque/Sygma: p. 31 (alto); Gianni Dagli Orti: p. 50; Stapleton


speciale

Roma e il mistero dei «culti orientali» 64 di Susanne Erbelding, Katharina Horst e Manfred Clauss

52 musei

scavare il medioevo

di Paolo Leonini

di Andrea Augenti

etruria dei misteri

l’ordine rovesciato delle cose

Le radici del presente 52

Acquarossa, la città dei tre colori

88

di Paola Di Silvio

Nella casa del poeta 104

La pianificazione? Comincia dal basso 106

Rubriche

di Andrea De Pascale

il mestiere dell’archeologo

Le scelte di Matidia 108

Quella storia dei «paesi fantasma»...

divi e donne

di Francesca Cenerini

di Daniele Manacorda

l’altra faccia della medaglia

antichi ieri e oggi

di Francesca Ceci

I giorni di Marte di Romolo A. Staccioli

96

Sole d’Oriente 100

libri

Collection: p. 101 – Jacques Descloitres, MODIS Rapid Response Team, NASA/GSFC: pp. 31 (basso), 48/49 – Getty Images: Max Homand: p. 32 – Archivi Alinari, Firenze: RMN-Grand Palais/Ministère de la Culture/Médiathèque du Patrimoine: pp. 34, 35 (alto); RMN-Grand Palais/Inrap/Hervé Paitier: p. 35 (basso) – DeA Picture Library: pp. 45, 72; G. Dagli Orti: pp. 44 (basso), 75, 76, 102; M. Seemuller: 44/45; S. Vannini: pp. 50/51, 77; A. Dagli Orti: p. 84 – Andrea Jemolo: p. 47 (alto) – Stefano Mammini: pp. 52/53, 54 (basso), 54/55, 55, 56-63 – Cortesia Ufficio stampa Assicurazioni Generali: Massimo Crivellari: p. 54 (alto) – Bridgeman Art Library: pp. 70/71 (basso), 81, 103 – Angélique Colté: disegni alle pp. 97, 98 – Archivio Egeria Centro Ricerche Sotterranee, Roma/Carlo Germani: p. 106 (sinistra) – Gianluca IoriIrsa: p. 106 (destra) – Mauro Traverso: p. 107 (alto) – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 39, 70/71, 76/77, 80/81, 90 (basso). Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

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la notizia del mese Paolo Leonini

il tesoro (scomparso?) del pescatore un magnifico apollo in bronzo del v secolo a.C. viene messo in vendita on line nello scorso agosto. il maldestro tentativo è stato fermato, ma dell’opera, sequestrata dalle autorità palestinesi, si sono perse le tracce

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i può ben definire «miracolosa» la pesca di Joudat Ghrab, che, nello scorso agosto, aveva riportato a terra, a Gaza, niente meno che una statua in bronzo raffigurante Apollo, databile tra il II e il V secolo a.C. Gli archeologi non hanno finora potuto esaminare direttamente la scultura, nota solo attraverso alcune foto comparse su eBay in un fallito tentativo di vendita,

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prima di essere sottoposta a sequestro dalle autorità. Jean-Michel de Tarragon, della Scuola Francese di Studi Biblici e Archeologici di Gerusalemme, ha avanzato dubbi sulle circostanze del ritrovamento: «Dubito che la statua sia stata recuperata in mare: è molto pulita e credo perciò che sia stata trovata sulla

terraferma e in ambiente asciutto». E ha aggiunto che non c’è traccia dei tipici segni di usura superficiale e delle incrostazioni marine che sono la norma per oggetti recuperati dall’acqua. Ghrab ha invece raccontato di aver trovato l’Apollo durante una battuta di pesca su un fondale poco profondo e di averlo tirato in secco con l’aiuto dei suoi familiari. Ha quindi portato a casa la


scultura, sperando di poterne ricavare un qualche guadagno, pur non avendo la minima idea della sua importanza. Pensando che si trattasse di un materiale prezioso, ne ha staccato un dito e lo ha portato a un orefice perché lo esaminasse. Nel frattempo, a sua insaputa, uno dei suoi fratelli ne ha staccato un’altro per fare altre verifiche, e purtroppo quest’ultimo è stato fuso.

le ultime tracce Qualche tempo piú tardi, come già detto, la statua è comparsa su eBay, messa in vendita al prezzo di 500 000 dollari, una cifra ben al di sotto del suo reale valore. L’annuncio (che specificava come l’acquirente avrebbe dovuto recarsi a ritirare l’oggetto a Gaza) ha attirato l’attenzione delle autorità di Hamas: è stato immediatamente ordinato il sequestro della statua ed è stata avviata un’indagine per identificare il responsabile della messa in vendita. Da allora della statua non si hanno piú notizie. Il Ministero per le Antichità assicura che è al sicuro e che, non appena l’indagine sarà conclusa, dalle autorità di polizia, essa verrà sottoposta a restauro e quindi messa in condizione di essere

anche esposta in musei internazionali. Come sottolinea Tarragon, sarebbe di estrema importanza scoprire il sito del ritrovamento; una statua del genere non era un oggetto comune e doveva essere collocata in un palazzo o in un santuario. Nel luogo in cui si trovava l’Apollo potrebbero esserci ancora molti altri manufatti in attesa di essere recuperati. L’area di Gaza ha una lunga storia: dominata a fasi alterne da Egizi, Filistei, Romani, Bizantini e crociati, accolse personaggi importanti come Alessandro Magno e l’imperatore Adriano. Se la scultura si confermasse essere un originale del V secolo a.C., saremmo di fronte a un’opera di enorme valore. A oggi, infatti, esiste al mondo solo un altro esemplare di Apollo in bronzo databile a quel periodo ed è quello del Pireo (datato al 520 a.C.), rinvenuto nel porto di Atene nel 1959 e conservato nel Museo Archeologico del Pireo. C’è da sperare che le autorità palestinesi mettano il reperto a disposizione degli archeologi perché possa essere studiato e restaurato.

Sulle due pagine, da sinistra: Joudat Ghrab, il pescatore di Gaza a cui si deve il ritrovamento di una magnifica statua in bronzo di Apollo e due immagini dell’opera.

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n otiz iari o SCoperte Israele

la chiesa dei mosaici

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e vestigia di una straordinaria chiesa bizantina risalente a 1500 anni fa sono state rinvenute in Israele, nei pressi del Moshav Aluma, nella pianura a est di Ascalona, sull’antica via per Gerusalemme, nel corso di un intervento di archeologia preventiva. Si tratta di un monumento davvero spettacolare: come ha dichiarato Daniel Varga, che dirige lo scavo per conto dell’Israel Antiquities Authority, la basilica «è lunga 22 m e larga 12. L’edificio è formato da un’aula centrale fiancheggiata da due navate, divise da pilastri di marmo. Nella parte frontale della costruzione si trovano un cortile aperto (l’atrium) lastricato con mosaico bianco e una cisterna. Da questa corte si diparte un’aula rettangolare (il nartece) anch’essa decorata a mosaico con motivi geometrici colorati; al centro, opposta all’entrata dell’aula principale, corre un’iscrizione dedicatoria in greco contenente i nomi di Maria e Gesú, e quello del benefattore che finanziò la realizzazione dei mosaici». La decorazione è molto ricca: sul pavimento della navata principale si vedono quaranta medaglioni incorniciati da girali di vite, che

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raffigurano zebre, leopardi, tartarughe, uccelli e altri animali e anche motivi geometrici. C’è anche una dedica in greco a due personalità della chiesa locale, di nome Demetrio e Ercole. Le navate laterali presentano anch’esse mosaici con motivi vegetali e geometrici e simboli cristiani. Le indagini hanno anche portato alla scoperta di un laboratorio ceramico dedicato alla produzione di vasellame, che ha restituito numerosi reperti tra cui anfore, recipienti per cucinare, crateri, scodelle e lampade a olio. Questa produzione indica una fiorente cultura locale, testimoniata anche dal ritrovamento di numerosi recipienti in vetro tipici del periodo bizantino. La chiesa faceva parte di un importante insediamento nell’area, sviluppatosi sulla strada maestra

In alto e in basso: Moshav Aluma (Israele). Immagini della basilica bizantina recentemente scoperta. che collegava la costa con Gerusalemme. Durante gli scavi sono state rinvenute tracce di altre comunità nell’area, ma l’assenza di altre chiese fa ipotizzare che questa assolvesse al culto anche per gli insediamenti circostanti. Il ritrovamento di numerosi torchi da vino e vasellame ha fornito indizi circa l’economia locale, basata sulla produzione ed esportazione di vino in tutto il Mediterraneo. Le autorità israeliane hanno deciso di reinterrare il sito a fini di conservazione, mentre i mosaici pavimentali saranno staccati ed esposti nel locale museo archeologico. Paolo Leonini


SCAVI Roma

dipingere «alla greca»

I

l Palatino, il colle identificato dalla tradizione come il luogo di fondazione del primo nucleo urbano di Roma, continua a offrire dati di grande interesse sulla storia della città. Lungo le sue pendici nord-orientali opera il cantiere della Sapienza Università di Roma, diretto da Clementina Panella, che da piú di un ventennio coordina le ricerche. L’area indagata si estende dalla Valle del Colosseo fino all’arco di Tito, tra le fondamenta della Vigna Barberini e la via Sacra. Durante l’ultima campagna di scavo, nell’area sacra in cui sono state identificate le Curiae Veteres, si è avuto un ritrovamento di eccezionale valore. Strati del IV secolo a.C., che obliteravano livelli piú antichi, hanno restituito un orlo di bacino (labrum) di grandi dimensioni e molti altri frammenti ceramici (dolii). Si ipotizza che gli oggetti avessero una funzione di culto, poiché vennero deposti in maniera ordinata. Fin da subito è stata intuita l’importanza del bacino, il cui diametro supera il

In alto: il frammento di un grande bacino (labrum) con il ritratto di un giovane. 470-460 a.C. In basso: Roma, pendici nordorientali del Palatino. L’«area IV» dello scavo della Sapienza Università di Roma. metro, che, sulla parete interna, reca il ritratto di un giovane di profilo dalla capigliatura scura e dal busto scoperto, attribuito in prima analisi a un atleta. L’altissimo livello esecutivo dell’immagine suggerisce una datazione compresa tra il 470 e il 460 a.C. A oggi, non sono noti a Roma manufatti simili databili al V secolo a.C. e realizzati in uno stile

pittorico dalle forti connotazioni greche; è perciò probabile che l’artista provenisse dall’Etruria, o dall’Italia meridionale, dove forte era l’influsso della cultura ellenica. Nell’«Area IV», detta anche delle «terme di Elagabalo», in una zona ai limiti dello scavo prossima all’arco di Tito, gli archeologi hanno inoltre potuto accertare che, nel corso del IV secolo d.C., una grande aula fu adattata a sala da banchetto riadattandone le precedenti strutture di età severiana. Riservato a gruppi sociali abbienti (ambasciatori, esponenti di corte, ordini sacerdotali, ecc.), come spiega Lucia Saguí, responsabile di questo settore delle ricerche, tale spazio fu dotato di un allestimento scenico costituito da un portico e da una grande vasca che generava fluenti giochi d’acqua. Singolare e poco chiara rimane, invece, la funzione di un pozzo sotterraneo contenente un grande recipiente forato che si ricollega all’aula attraverso alcune scale. Potrebbe trattarsi di una struttura legata a pratiche ludiche, oppure essere una neviera per il raffreddamento delle bevande o, ancora, un raccoglitore di oggetti. Luna Michelangeli

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parola d’archeologo Flavia Marimpietri

a passeggio tra i fori imperiali dopo una lunga chiusura, riapre la via alessandrina che rimette a disposizione del pubblico il suo affaccio incomparabile su un’area al centro di roma. un intervento che però, come spiega roberto meneghini, dev’essere il primo passo di un’operazione di ben piú ampia portata

È

stato riaperto al pubblico il percorso pedonale lungo la via Alessandrina, nel centro storico di Roma, con la sua vista mozzafiato sui Fori Imperiali e sui Mercati di Traiano: è tornato cosí al godimento di Romani e turisti un affaccio unico al mondo. Ce ne parla Roberto Meneghini, archeologo responsabile dei Fori Imperiali per la Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali. «Si tratta dell’area archeologica monumentale piú importante al

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mondo: il complesso dei Fori Imperiali è un unicum nell’architettura antica per grandezza e splendore», esordisce Menghini: «La via Alessandrina è l’unica testimonianza rimasta del quartiere omonimo, realizzato nella seconda metà del Cinquecento dal cardinale Michele Bonelli, nipote di Papa Pio V Ghislieri, originario di Alessandria, e demolito negli anni Trenta da Mussolini». Ma perché la via Alessandrina, col suo spettacolare affaccio sull’area

archeologica dei Fori Imperiali, è stata chiusa al pubblico per tutti questi anni? «Per problemi di sicurezza e di ordine pubblico, a causa dei continui scippi e borseggi che si sono verificati nel tempo a danno dei turisti, in alcuni casi vere e proprie aggressioni, da parte di nomadi principalmente. Nel 2007 il Comune ha deciso di chiuderla, poiché non riusciva ad arginare il problema. Ora che l’area è stata riaperta, grazie a un accordo con


A sinistra: il Foro di Traiano visto dal passaggio pedonale che collega l’area dei Fori con il rione Monti. Nella pagina accanto, in alto: Roberto Meneghini. Nella pagina accanto, in basso: la via Alessandrina nella nuova sistemazione.

l’Associazione Carabinieri in Congedo, abbiamo ottenuto un presidio fisso che controlla la zona dalla mattina alla sera e che, devo dire, sta dando buoni risultati: i furti non si sono piú verificati». Grazie ai nuovi pannelli esplicativi montati lungo il percorso pedonale, i visitatori potranno conoscere e comprendere meglio un’area archeologica per natura complessa e molto stratificata… «Abbiamo installato dodici pannelli didattici per illustrare i diversi settori dei Fori Imperiali visibili dalla strada e la storia della via Alessandrina: sei all’interno della strada e sei all’esterno, verso la chiesa della Madonna di Loreto e largo Corrado Ricci. Ma questo corredo di pannelli è solo un anticipo di quanto verrà fatto su tutta l’area nell’arco di un paio di mesi, grazie ai fondi di Roma Capitale erogati alcuni anni fa per lo scavo di via Alessandrina, poi dirottati sui restauri delle aree piú degradate dei Fori. Nelle prossime settimane tutta l’area archeologica verrà corredata da pannelli esplicativi, in totale 40, posizionati sulle balaustre di recinzione dello scavo». La sistemazione del percorso pedonale di via Alessandrina, peraltro, è un’operazione realizzata con poche risorse, non è vero? «Sí, praticamente a costo zero: i

denari per i pannelli, circa 5mila euro, erano già disponibili, mentre per gli arredi urbani, come balaustre e panchine, sono stati spesi circa 20mila euro». I visitatori sono contenti? «Molto. È un punto di aggregazione turistica notevole. È stato riaperto anche il passetto che collega i Fori con la salita del Grillo, ovvero con la Suburra e il rione Monti, che ripropone il tracciato dell’antica via di Campo Carleo. Una delle riflessioni da fare è se mantenere la via Alessandrina come affaccio, oppure scavarla per unificare le aree archeologiche di via dei Fori Imperiali. Il problema va risolto a

livello urbanistico e non è detto che la via in futuro non venga scavata, come aveva previsto il Comune qualche anno fa». Quali sono i prossimi progetti previsti per valorizzare l’area archeologica dei Fori imperiali? «Abbiamo in progetto il restauro della sala marmorea della Forma Urbis, con un intervento che prevede anche lo scavo di un tunnel di collegamento tra le due parti scavate ai lati della chiesa dei SS. Cosma e Damiano nel Foro della Pace, che oggi è frazionato in varie aree di scavo irraggiungibili tra loro». E quali sarebbero, a suo avviso, gli

parla l’assessore alla cultura

Un segnale preciso

«L’apertura di via Alessandrina segna l’avvio di un grande progetto, ben piú lungimirante, e rientra nell’obiettivo della pedonalizzazione dei Fori Imperiali», ci tiene a precisare Flavia Barca, assessore alla Cultura del Comune di Roma, che ha fortemente voluto e promosso la riapertura di via Alessandrina. «Il primo passo è stato restituire a Roma, ai Romani, ai suoi visitatori una strada che è un vero palcoscenico sull’area archeologica piú famosa del mondo. Vogliamo dare un segnale preciso: il patrimonio archeologico deve essere percepito sempre di piú come un bene di tutti, un bene collettivo». E quali saranno i passi successivi? «Proseguiremo con la messa in sicurezza e riqualificazione di tutta l’area già scavata, per renderla fruibile e visitabile al pubblico. Nel contempo, compatibilmente con i vincoli di bilancio e il supporto di finanziamenti privati, lanceremo un progetto innovativo di valorizzazione del sito attraverso l’uso di tecnologie digitali e tecniche sperimentali: pannelli didattici interattivi, effetti audiovisivi e strumenti di comunicazione dedicati. Visitare un sito archeologico di Roma capitale dovrà diventare un’esperienza educativa, sensoriale, ludica, di intrattenimento».

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In alto: uno dei pannelli esplicativi installati lungo la via Alessandrina. In basso: il passaggio pedonale che collega l’area dei Fori al retrostante rione Monti, l’antica Subura.

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interventi necessari per rendere comprensibile al pubblico questa complessa, ma preziosa area archeologica, restituendole il decoro che si merita? «Le idee non mancano. Si potrebbero fare pannelli interattivi, totem e punti informativi… quello che manca sono soldi, progetti e personale. Vorrei vedere un consistente finanziamento, dato anche da una legge speciale, da investire nel restauro delle strutture archeologiche, che ai Fori Imperiali hanno gli stessi problemi di Pompei». Quanti soldi sarebbero necessari per il restauro dei Fori Imperiali? «Dieci milioni di euro, solo per cominciare. La situazione piú problematica è il degrado di alcune strutture archeologiche che, esposte agli agenti atmosferici da ormai 15 anni, si stanno sbriciolando. Se non ci saranno finanziamenti adeguati, il rischio è che crolli tutto, con danni ben peggiori di quelli registrati a Pompei». Che cosa si sta sbriciolando, per esempio? «La preparazione della

pavimentazione del Foro di Traiano, quasi un ettaro di area scavata esposta alla pioggia e al vento. Solo per un consolidamento immediato di quest’area ci vorrebbe un milione di euro. Poi c’è il bellissimo pavimento marmoreo della sala della Forma Urbis, nel Templum Pacis, che è in condizioni deplorevoli. Per non parlare della Basilica Ulpia, che da 202 anni sta all’aperto (venne scavata nel 1812 e da allora non è stata mai coperta): se non si interviene con un restauro è destinata a sfarinarsi completamente». Quale sarebbe, a suo avviso, l’intervento piú urgente? «Per prima cosa avvierei il restauro di tutti i sottofondi pavimentali, che versano in condizioni critiche. Le pavimentazioni in marmo del Foro di Augusto e del Foro di Cesare sono state già restaurate, in un paio di anni interverremo nel Foro della Pace. Inoltre, si dovrebbe intervenire per velocizzare le gare di appalto, che sono la nostra “morte”: per far partire un lavoro ci vogliono almeno cinque anni. La burocrazia ci sta strangolando».



n otiz iario

molise

mostre Piemonte

Etruschi e Sanniti

antiche vendemmie nella terra del nilo

Dopo aver tenuto banco a Roma, Orvieto e Bolsena (vedi «Archeo» n. 339, maggio 2013; disponibile anche on line su archeo.it), la storia della città-stato di Velzna (Orvieto) torna alla ribalta a Venafro. Dopo la conquista romana del 264 a.C., l’abitato fu trasferito dai vincitori su un’altura presso il lago di Bolsena dove, dopo un avvio difficoltoso, tornò a prosperare, conservando inizialmente il proprio nome e poi trasformandolo, con la piena affermazione della lingua latina, in Volsinii. Lungo il percorso espositivo, accanto a reperti provenienti dal distretto territoriale volsiniese, figurano oggetti recuperati nell’area del Sannio che testimoniano i contatti tra le due popolazioni dell’Italia preromana. L’antica Venafro era infatti la porta di accesso dell’Etruria campana verso i territori controllati dai Sanniti. Questi ultimi poi, alla fine degli anni Venti del V secolo a.C., riuscirono a conquistare, prima di essere a loro volta sconfitti dai Romani, l’intera Campania. Uno dei motivi della scelta di allestire la mostra a Venafro va ricercato nel legame particolare che ha unito Velzna al mondo sannita. L’esposizione può inoltre essere l’occasione per visitare un museo che restituisce al meglio l’importanza di Venafro in epoca sannita e romana. Giuseppe M. Della Fina

Dove e quando «Gli Etruschi del lago. Da Orvieto e Bolsena un percorso nella storia» Venafro, Museo archeologico fino al 30 aprile Orario ma-sa, 9,00-19,00; do e festivi, 14,30-19,30; lu chiuso Info tel. e fax 0865 900742 14 a r c h e o

L’

esposizione che si apre nella chiesa di S. Domenico ad Alba (Cuneo) mette in risalto, tramite il tema del vino, il forte legame tra l’antica cultura egizia – a partire dal 2686 a.C – e quella della nostra Penisola. Inoltre, due sezioni speciali permettono di entrare maggiormente in contatto con il mondo egizio. Una è dedicata alla mummia di Epoca Tarda (dal 650 a.C. al 332 a.C.) e al suo sarcofago, conservati al Museo Civico di Merano e studiate dall’équipe multidisciplinare Mummy Project, le cui ricerche sono documentate da pannelli fotografici in 3D. L’altra è la ricostruzione in scala reale della tomba TT290 di Irynefer della necropoli del villaggio degli operai, che costruirono le tombe della valle dei Re e delle Regine, Deir el Medina. Nel percorso espositivo l’antichità e la storia passano attraverso il vino e legano l’Italia e Alba all’Egitto. La mostra approfondisce il tema del vino nei suoi diversi aspetti e significati: la coltivazione delle viti, la vendemmia, la messa in anfora, la vinificazione, l’invecchiamento e la successiva commercializzazione. Il tema viene sviluppato anche in ambito religioso con i suoi significati simbolici e le divinità a esso legate e in ambito funerario con le piú rilevanti scoperte archeologiche che hanno restituito importanti reperti, quali la Tomba

Tebe, necropoli di Sheikh Abd el-Qurna, Tomba di Nakht. Pittura murale con un cumulo di offerte tra cui si vedono anche grappoli d’uva. XVIII dinastia, 1425 a.C. circa. di Nakht (TT52) della necropoli tebana di Sheikh Abd el-Qurna. L’esposizione si completa con la vita quotidiana, l’agricoltura, l’alimentazione, il tema sociale, la fiducia nella vita eterna in un aldilà simile al mondo reale dove il defunto conduce una vita piena e ha bisogno anche di alimentarsi. Il percorso è illustrato da circa 50 reperti tra questi vi sono vasellame in terracotta e Anfore, risalenti al VI-VII secolo d.C. e al I-III secolo d.C., impermeabilizzate all’interno per contenere il vino. Il soggetto delle anfore è inoltre rappresentato nella Stele di Senbi (Medio Regno, XII dinastia) che riproduce i doni destinati ai defunti. (red.)

Dove e quando «Il vino nell’Antico Egitto. Il passato nel bicchiere» Alba, chiesa di S. Domenico fino al 19 maggio (dal 22 marzo) Orario mar-ve, 14,30-18,30 (mattina e lu su prenotazione); sa, 10,00-22,00; do, 10,00-19,00 Info tel. 017 335833; e-mail: info@ ambientecultura.it, mummyproject@libero.it; mummyproject.wix.com/eventi



n otiz iario

archeofilatelia

Luciano Calenda

a proposito di... «archeoletteratura» L’articolo su Mika Waltari pubblicato nel mese scorso (vedi «Archeo» n. 348, febbraio 2014) è lo spunto per caratterizzare in modo originale questa puntata della nostra rubrica; infatti, non si parla di resti archeologici, né di scoperte particolari, ma del connubio tra archeologia e letteratura o, forse è meglio, tra archeologia e «fantaletteratura». Lo scrittore finlandese non è oggi molto 1 conosciuto dal pubblico italiano, ma siamo certi che negli anni Cinquanta molti abbiano visto il famoso film tratto da un suo celebre romanzo, Sinuhe l’egiziano (1), e interpretato da Edmund 2 Purdom, Jean Collins, Victor Mature e Peter Ustinov. Waltari, invece, è molto famoso in patria anche per una serie di gialli il cui «eroe» è il commissario Palmun Erehdys, una sorta di Maigret finlandese, tanto che è stato ricordato nel 2008 per il centenario della sua 3 nascita in un foglietto finlandese in cui appare insieme alla 4 locandina di uno dei film ispirati al commissario (2). Ma qui Waltari ci interessa perché di recente è stato ripubblicato in Italia il suo secondo romanzo «storico», Turms l’etrusco, ambientato tra il VI e i V secolo a.C., e a proposito del quale Giuseppe M. Della Fina ha colto l’occasione per ricordare come molti altri scrittori del 5 Novecento e degli inizi del XXI secolo si siano interessati agli 6 Etruschi. Proviamo allora a fare altrettanto e a documentare filatelicamente alcune delle vicende storiche raccontate da Waltari con un po’ di fantasia e accadute durante la vita di Turms (simboleggiato da un bronzetto di guerriero, 3), nonché alcuni dei luoghi da lui toccati 7 nel suo peregrinare lungo le terre del Mediterraneo, cosí come 8 menzionati nell’articolo citato. Tra gli accadimenti storici ricordiamo la nascita della repubblica a Roma (509 a.C.) attraverso un francobollo italiano che ricorda l’istituzione dei tribuni della plebe, una delle prime riforme di stampo repubblicano; sono raffigurati i due tribuni forse piú famosi, Tiberio e 9 10 Gaio Gracco, anche se vissuti in epoca successiva (4). Poi sono citate le vittorie dei Greci contro i Persiani a Maratona (5) e a Salamina (6) e contro i Cartaginesi a Imera (oggi Termini Imerese, vicino a Cefalú, 7). Infine la sconfitta della flotta etrusca nel Tirreno, nelle acque antistanti Cuma, nei pressi di Procida (8) e a Pozzuoli 12 (9), nella zona dei Campi Flegrei. Ancora, alcuni dei molti luoghi che, in varie parti di 11 Grecia e Italia, Waltari fa visitare a Turms: Delfi (10), Cerveteri (11), Tarquinia (12) e Orvieto (13). Per concludere, la vicenda personale di Turms. Questi, dopo essere passato attraverso tante 13 storie e visto tanti luoghi, scopre di essere il figlio di Lars Porsenna, il condottiero piú celebre della storia etrusca, qui raffigurato in un dipinto (concepito da Pieter Paul Rubens, ma in parte realizzato dal giovane Van Dyck), mentre, sul trono, assiste alla prova di valore di Muzio Scevola (14). IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

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Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17126 - Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it www.cift.it

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calendario

Italia roma La Sardegna dei 10.000 Nuraghi

Alba Il passato nel bicchiere

Il Vino nell’Antico Egitto Chiesa di S. Domenico fino al 19.05.14 (dal 21.03.14)

Simboli e miti dal Passato Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia fino al 16.03.14

Bolzano Frozen stories

La memoria ritrovata

Reperti e storie dai ghiacciai alpini Museo Archeologico dell’Alto Adige fino al 22.02.15

Tesori recuperati dall’Arma dei Carabinieri Palazzo del Quirinale fino al 16.03.14

Cortona Seduzione Etrusca

La Cina Arcaica (3500 a.C.-221 a.C.)

Dai segreti di Holkham Hall alle meraviglie del British Museum Palazzo Casali fino al 31.07.14 (dal 21.03.14)

Palazzo Venezia fino al 20.03.14

Apoteosi. Da uomini a Dei

Il Mausoleo di Adriano Castel Sant’Angelo fino al 27.04.04

Evan Gorga. Il collezionista

Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps fino al 04.05.14 (prorogata)

Mostri

Creature fantastiche della paura e del mito Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo fino all’01.06.14

La biblioteca infinita I luoghi del sapere nel mondo antico Colosseo fino al 05.10.14

Qui sopra: urna con il mito di Enomao, dall’ipogeo dei Cacni.

Cinerario in bronzo, da Cortona. Fine del VII sec. a.C.

firenze Cortona, l’alba dei principi Museo Archeologico Nazionale fino al 31.07.14

milano Da Gerusalemme a Milano

Imperatori, filosofi e dèi alle origini del cristianesimo Civico Museo Archeologico fino al 20.06.14

montesarchio Rosso Immaginario Il racconto dei vasi di Caudium Museo Archeologico del Sannio Caudino fino al 30.09.14

roma Spinario

Qui sopra: testa di dio orientale (Mitra o Attis). II-III sec. d.C.

Storia e fortuna Giunto in Campidoglio nel 1471 con la donazione dei bronzi lateranensi al Popolo Romano da parte di Sisto IV, lo Spinario – quasi unanimemente considerato un’opera eclettica che unisce un corpo concepito su un prototipo ellenistico con una testa di stile severo – è uno dei massimi capolavori della scultura antica, che ha conosciuto una fortuna ininterrotta. La rassegna che gli viene ora dedicata presenta 45 opere e offre una panoramica il piú completa possibile del tema «Spinario» e del suo successo, riunendo le repliche e rivisitazioni antiche, nonché opere di età moderna e contemporanea. Sono cosí presentati bronzetti, disegni e quadri ispirati allo Spinario, a tracciare la linea del successo ottenuto nel tempo. Sono 7 le copie e varianti del corpo attraverso cui è noto il tipo del giovane che si toglie la spina dal piede, oltre a due frammenti delle mani, uno dei quali forse non antico.

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Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Francia parigi Io, Augusto, imperatore di Roma Grand Palais fino al 13.07.14 (dal 19.03.14)

Monza Amore e Psiche.

La favola dell’anima Villa Reale fino al 04.05.14

Ravenna L’incanto dell’affresco

Capolavori strappati da Pompei a Giotto, da Correggio a Tiepolo Museo d’Arte della città di Ravenna fino al 15.04.14

Treviso Magie dell’India

Dal tempio alla corte, capolavori dell’arte indiana Casa dei Carraresi fino al 31.05.14

Venafro Gli Etruschi del lago

Da Orvieto a Bolsena un percorso nella storia Museo Archeologico Nazionale fino al 30.04.14

vulci I Predatori dell’Arte a Vulci e il Patrimonio ritrovato Museo Archeologico Nazionale fino al 31.05.14 Qui sopra: antefissa etrusca in terracotta policroma con Menade e Sileno.

In alto: Eros dormiente. Qui sotto: affresco da Pompei.

saint-romain-en-gal - vienne Gli Irochesi del San Lorenzo, popolo del mais Musée romain fino al 15.04.14

Germania karlsruhe L’impero degli dèi

Iside-Mitra-Cristo. Culti e religioni nell’impero romano Badisches Landesmuseum fino al 18.05.14 Qui sotto: due pezzi degli scacchi Lewis, dall’omonima isola Monaco scozzese. Manifattura Pompei. Vivere sul vulcano normanna, fine Kunsthalle der Hypo-Kulturstiftung del XII sec. fino al 23.03.14

Gran Bretagna Londra Oltre l’Eldorado

Il potere e l’oro nell’antica Colombia The British Museum fino al 23.03.14

I Vichinghi

Vita e leggenda The British Museum fino al 22.06.14

Paesi Bassi leida Petra

Meraviglia del deserto Rijksmuseum van Oudheden fino al 23.03.14

Dove e quando Musei Capitolini fino al 24 maggio 2014 Orario ma-do, 9,00-20,00; lu chiuso Info tel. 06 06 08; museicapitolini.org, museiincomune roma.it

Spagna Madrid La Villa dei Papiri Casa del Lector fino al 23.04.14

USA New York L’ago di Cleopatra

The Metropolitan Museum of Art fino all’08.06.14

Qui sopra: rilievo in calcare raffigurante un’aquila, dalla porta del Temenos di Petra. a r c h e o 21


l’archeologia nella stampa internazionale Andreas M. Steiner

P

ubblichiamo, senza dover aggiungere alcun commento, ampi stralci da una delle piú dirette testimonianze tra quelle che abbiamo potuto leggere in questi mesi, relative al disastro civile e culturale che si sta consumando in Siria. L’articolo di Patrick Cockburn, inviato per il Vicino Oriente del quotidiano britannico The Independent, è apparso lo scorso 11 febbraio.

LA DISTRUZIONE DEGLI IDOLI In Siria, fondamentalisti islamici hanno cominciato a distruggere tesori archeologici come mosaici bizantini, sculture e statue grecoromane perché la raffigurazione di esseri umani è contraria alla loro religione. La distruzione sistematica dei monumenti antichi si sta configurando come il peggior attacco alle vestigia del passato da quando i talebani, nel 2001, fecero saltare con la dinamite le gigantesche statue dei Buddha di Bamiyan, spinti dagli stessi motivi ideologici. A metà del gennaio scorso, lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Isis), un movimento simile ad al-Qaida che controlla ampia parte della Siria nord-orientale, ha fatto saltare in aria, distruggendolo, un mosaico bizantino del VI secolo nelle vicinanze della città di Raqqa, sull’Eufrate. Il responsabile delle antichità della provincia di Raqqa (che ha chiesto di rimanere anonimo) è fuggito a Damasco; all’Independent ha dichiarato che

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«il fatto è accaduto 12/15 giorni fa. Un uomo d’affari era arrivato a Raqqa dalla Turchia per acquistare il mosaico. La circostanza li ha allertati (i rappresentanti di Isis) circa l’esistenza del mosaico, sono venuti e lo hanno fatto saltare». Altri siti sono stati distrutti dai fondamentalisti islamici , tra cui i rilievi della necropoli romana di Shash Hamdan, nella provincia di Aleppo… Il professor Maamoun Abdulkarim, Direttore Generale delle Antichità e dei Musei del Ministero della Cultura a Damasco, afferma che l’estremismo iconoclasta degli islamisti sta mettendo a rischio ampia parte del patrimonio archeologico del Paese. L’esperto in storia romana e paleocristiana della Siria è «sicuro che se la crisi

perdura in Siria, assisteremo alla distruzione di tutte le opere paleocristiane che recano l’immagine della Croce, dei mosaici con raffigurazioni mitologiche, di migliaia di statue greche e romane». Il reportage di Cockburn ricorda che la Siria ha custodito, fino a ieri, un patrimonio archeologico e monumentale tra i piú ricchi e importanti del mondo, che va dalla Grande Moschea omayyade di Damasco alla città dell’età del Bronzo di Ebla (dove una missione archeologica italiana scoprí l’archivio con oltre 20 000 tavolette cuneiformi, n.d.r.), alla città di Dura Europos, sull’alto Eufrate, chiamata «la Pompei del deserto siriano». Non lontano da lí, piú verso la frontiera con l’Iraq, giacciono le


Siria. Le devastazione operate dagli scavi clandestini nel sito dell’antica Apamea (al centro si riconosce la celebre via Colonnata), documentate dal confronto tra due immagini storiche di Google Earth™ (nella pagina accanto: luglio 2011; a destra: aprile 2012). Dati mappa: Google, © 2014 DigitalGlobe.

rovine di Mari, con il suo straordinario palazzo databile al III millennio a.C. La maggior parte dei piú famosi siti archeologici siriani sono oggi sotto il controllo dell’opposizione islamista. Ricorda il professor Abdulkarim che non ci sono solo i fondamentalisti dell’Isis, ma anche «quelli di Jabhat al-Nusra, un gruppo affiliato ad al-Qaida e altre formazioni molto simili». I monumenti archeologici sono stati letteralmente presi di mira sin dagli inizi della guerra civile: ricordiamo le distruzioni nella grande Moschea omayyde di Aleppo e di ampia parte del suo straordinario suq medievale. Anche la città vecchia di Homs è stata duramente colpita, mentre il Kraq dei Cavalieri, la celeberrima fortezza crociata, è stata fatta oggetto di bombardamenti da parte dell’aviazione governativa. La chiesa di San Simeone, invece, è stata trasformata in campo di addestramento per le truppe ribelli. Il danno piú grave e irreversibile, inferto al patrimonio siriano, risulta però dall’esplosione degli scavi clandestini cui sono sottoposti i grandi siti archeologici del Paese. Secondo il professor Abdulkarim «organizzazioni criminali con base in Turchia, Iraq e Libano stanno assoldando centinaia di scavatori clandestini locali per setacciare i siti archeologici». Le aree attualmente piú colpite sono le cosiddette città morte nella provincia di Idlib (Siria settentrionale), il sito di Mari, quello di Dura Europos, dove le distruzioni avvengono mediante l’impiego di macchinari pesanti. Secondo fonti locali, l’80% della superficie del sito è stata distrutta dagli interventi. Il professor Abdulkarim lamenta gli scarsi aiuti internazionali indirizzati alla prevenzione dei danni: «le distruzioni continuano a ritmo crescente. Presto le vestigia del passato che sono sopravvissute per 5000 anni saranno ridotte in polvere».

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corrispondenza da Atene Valentina Di Napoli

un richiamo senza tempo con una ricca mostra e numerosi appuntamenti, La Grecia tiene banco a Bruxelles: un rilancio della propria immagine che passa, naturalmente, anche attraverso i tesori del passato

I

l semestre di presidenza ellenica al Consiglio Europeo è un’occasione unica per dare maggiore visibilità a questo Paese e al suo patrimonio culturale: la Grecia non poteve certo lasciarsi sfuggire l’occasione e ha dunque presentato al Palais des Beaux-Arts di Bruxelles la mostra «Nautilus. Navigating Greece». Oggetto dell’esposizione è la relazione stretta tra i Greci e il Mediterraneo nel corso dei secoli. Attraverso il mare, filo conduttore della rassegna, si trattano temi tra cui la natura, la cultura, l’identità, l’avventura e forme di mobilità come l’immigrazione, il viaggio, i commerci. Sono in esposizione un centinaio manufatti antichi, tra cui sculture in marmo e opere in bronzo, ceramica, oreficerie che provengono da piú di 30 musei greci e che, in molti casi, viaggiano per la prima volta al di fuori dei confini nazionali. Dal punto di vista cronologico, i reperti coprono il lungo periodo

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Qui accanto: rhyton (vaso rituale) in terracotta policroma, dal Palazzo di Festo. 1500-1450 a.C. Iraklikon, Museo Archeologico. In basso: statuetta bronzea raffigurante un giovane che cavalca un delfino. 480 a.C. Atene, Museo dell’Acropoli.

che va dalla fioritura dell’arte cicladica (III millennio a.C.) fino all’età ellenistica, passando per il periodo minoico, il miceneo, l’età arcaica e quella classica. Agli oggetti antichi si aggiungono 23 opere d’arte contemporanea di artisti greci, tra cui fotografie, dipinti e installazioni video.

guidati dal nautilo Il nautilo, una parola che in greco antico designava i marinai e oggi indica un piccolo mollusco dalla conchiglia a spirale, in questa mostra guida il visitatore attraverso molti secoli della storia greca. E se è vero che la Grecia, con le sue molteplici isole e le migliaia di chilometri di splendide coste, richiama subito alla mente il mare, non poteva esserci simbolo piú adatto per l’evento. Il percorso espositivo si articola in sette unità tematiche. Il viaggio comincia dalla


Qui accanto: maschera teatrale in marmo pentelico, da Atene, area a sud della Stoà di Attalo. 350-300 a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale. A destra: l’affresco del pescatore. 1600-1500 a.C. Thera, Museo Archeologico. In basso: coppa monoansata in oro, da Peristeria (Messenia). 1550-1500 a.C. Chora (Pylia), Museo Archeologico.

Genesi, con un’istallazione che rappresenta un utero, origine della vita, ad accogliere il pubblico. La seconda sala, che tratta l’ecologia e l’interazione tra uomo e ambiente, ospita opere di arte cicladica. Dopo l’unità Rotte marittime, che immerge il visitatore nell’epoca minoica e micenea e lo porta a riflettere sulla mobilità di popoli, prodotti e idee attraverso il mare, si passa alla sala incentrata sul periodo arcaico, rappresentata dal mito dell’Odissea e dalla volontà di esplorare i mari per trovare un mondo nuovo. Il tema dell’egemonia è illustrato da Atene, centro che seppe concentrare ricchezza e potere, e dalle opere che questa polis produsse in età classica, mentre la sala Ecumene è dedicata alla Macedonia e ad Alessandro Magno. Infine, opere di tutti i periodi storici sono riunite nella sezione conclusiva che illustra la religione, i riti e le mitologie del mare, anche attraverso opere moderne che mescolano iscrizioni antiche e bizantine con credenze moderne: per esempio, l’uso dei marinai di Siro di scrivere sulle

rocce dell’isola prima di partire per un viaggio per mare, nella speranza di avere fortuna nella loro impresa.

l’arte al tempo della crisi «Nautilus» è affiancata da numerose iniziative collaterali, tra cui concerti di musica classica e moderna di artisti greci, proiezioni di film del nuovo cinema greco, spettacoli di danza, e due ulteriori esposizioni, una delle quali

consacrata all’arte greca in tempo di crisi. Si spera che tali eventi possano rilanciare in Europa un Paese che attraversa una crisi profonda, con ripercussioni tra le quali si deve registrare anche una – ingiustificata – diffidenza dei turisti a visitarlo: l’auspicio è che iniziative come queste restituiscano credibilità alla Grecia e permettano il rilancio del turismo, con effetti positivi anche sulla conoscenza del patrimonio culturale. Un patrimonio che continua ad affascinare e tanto ha ancora da insegnare.

Dove e quando «Nautilus. Navigating Greece» Bruxelles, Palais des Beaux-Arts Orario ma-do, 10,00-18,00 (gio, 10,00-21,00); lu chiuso Info bozar.be

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Carnac (Bretagna, Francia). Uno degli allineamenti di megaliti innalzati tra il IV e il III millennio a.C. Con circa 3000 massi (ma si calcola che in origine fossero almeno 10 000), il sito è il piú grande e importante complesso monumentale di tale genere al mondo.

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CARNAC

la danza dei GIGANTI Se ne contano ancora diverse migliaia: poderosi e muti, i megaliti della bretagna sono una delle piú spettacolari testimonianze della preistoria europea. Ma chi decise di innalzarli? e quali furono le ragioni di una simile «semina»? di Massimo Vidale e Andreas M. Steiner

L

a donna togata che innalza una bilancia a due piatti, che in tanti anni di cronache giudiziarie è divenuta familiare agli occhi degli Italiani come immagine (o aspirazione?) di imparzialità, può invece segnare l’inizio di un racconto completamente diverso: una affollata storia di Titani. La donna con la bilancia rappresenta infatti Temi, figlia di Urano, il cielo, e di Gea, la terra; il suo nome significherebbe «L’irremovibile», e una sua figlia, Astrea, in alcuni miti greci divenne diretta personificazione della Giustizia. Oltre ad Astrea, Temi generò le Stagioni, le Ore, le Moire (dette anche Parche), nelle cui dita scorrevano i fili dei destini umani; ma anche Prometeo, il «previdente», e i suoi fratelli Epimeteo (letteralmente, «colui che ci pensa dopo», il maldestro) e Atlante. Mentre Temi era diventata sposa di Zeus, rinsaldando i difficili legami tra la prima e la seconda generazione delle divinità greche, Prometeo discendeva da altri lombi soprannaturali. Ciò spiega, probabilmente, la sua inimicizia con Zeus, il suo ruolo di eroe tecnico, e con esso quello di amico a r c h e o 29


carnac • i luoghi della leggenda

e protettore del genere umano. Quando Zeus, furioso per il furto del fuoco, decise di punire non solo il Titano, ma anche, col diluvio, l’umanità intera, Prometeo avvisò suo figlio Decaulione e la moglie Pirra, allora in età avanzata e senza figli; diede loro le istruzioni necessarie alla costruzione di un’arca. L’umanità intera affogava, e la nave era sospinta nelle acque del caos.

le «ossa» della madre terra Infine, lo scafo approdò alla cima isolata del monte Parnaso, sede dell’oracolo di Delfi. Qui, narrano alcune storie, i due superstiti ritrovarono l’antenata Temi; l’oracolo ingiunse loro di andare avanti, ma di gettarsi alle spalle le ossa della madre. Rosi dal dubbio, i due passarono la notte a interrogarsi sulle parole di Temi, sino a capire che le «ossa» erano quelle di Gea, la madre terra e quindi semplici pietre. Al mattino, iniziarono il nuovo cammino del mondo, gettando dietro di sé un sasso dopo l’altro: da quelli di Decaulione nascevano uomini, da quelli di Pirra donne. Guardando le impressionanti immagini dei campi di massi di Carnac, in Bretagna (Francia), uno dei piú grandiosi siti del megalitismo nordeuropeo, è difficile dimenticare miti come questo, e tutte le storie della mitologia e del folklore in cui gli uomini nascono dalle pietre, ed esseri viventi si trasformano in roccia. Con quasi 3000 massi megalitici in opera – se non

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quel che resta di carnac Nel sito di Carnac sono compresi vari complessi megalitici, con allineamenti (i piú importanti sono Ménec, Kermario e Kerleskan) e tumuli monumentali, il piú grande dei quali è quello di Saint-Michel. Nonostante le distruzioni subite, l’insieme di queste testimonianze fa del sito bretone il piú vasto complesso megalitico a oggi noto.

A destra: gli allineamenti di Ménec, composti da 11 file di massi lunghe 1165 m e larghe 100 m, che convergono sui resti di due circoli o cromlech. In basso: i megaliti di Carnac in una incisione ottocentesca. Nella pagina accanto, in basso: la posizione di Carnac indicata su una foto satellitare della Francia.

l ’ allineamento di ménec


consideriamo le piramidi egiziane di Giza come colossali manufatti megalitici – Carnac è il piú grande complesso monumentale di questo tipo al mondo. La sua costruzione si data tra il IV e il III millennio a.C. I massi di roccia locale variano in dimensioni da circa 1 a 4 m di altezza; uno di essi, il «Gigante di Manio» tocca i 6,5 m. Gli archeologi hanno calcolato che le sistemazioni originarie dovevano comprenderne non meno di 10 000. carnac

Oceano Atlantico

le prime esplorazioni Quando James Miln (1819-1881), l’antiquario scozzese al quale si devono, intorno al 1860, i primi studi e scavi scientifici di Carnac, stilò le prime descrizioni analitiche, solo 700 massi megalitici resistevano in piedi nella collocazione originaria. Le altre pietre erano state scalzate dall’erosione, oppure da lavori agricoli o, piú semplicemente, dalla costruzione di strade e dalle bonifiche dei campi. Molti massi, infatti, erano stati a r c h e o 31


carnac • i luoghi della leggenda

messi in opera su basi strette appuntite, in equilibrio endemicamente instabile (cosa che giustifica l’impressione di «pietre danzanti» ricevuta da molti visitatori): l’esatto contrario, per intenderci, di come li avrebbe fissati al suolo (o sulla carta) l’Obelix dei fumetti, il Gallo bretone infaticabile costruttore e solitario trasportatore di menhir. Sono forse le fotografie, piú che le descrizioni, a rendere giustizia alla grandiosità di queste opere preistoriche. Il complesso di Carnac comprende gli allineamenti di Ménec, 11 file di massi lunghe 1165 m e larghe 100 m, convergenti sui resti di due circoli o cromlech; gli allineamenti di Kermario, 1029 massi in 10 colonne, lunghe 1300 m e terminanti in un altro circolo megalitico; quelli di Kerleskan, che formano 13 linee lunghe 800 m.Vi sono diversi tumuli monumentali che coprono camere interne a cui si accede con passaggi a galleria; il piú vasto è quello funerario di Saint-Michel, che misura alla base 125 x 60 m, con una volumetria totale di 35 000 m cubi di terra. Scavato a piú riprese a partire dal XIX secolo, sigillava una serie di sepolture d’élite, contenenti ceramiche e gioielli oggi custoditi al Museo di Carnac. Il complesso megalitico contiene anche dozzine di dolmen, cromlech, e recinti quadrangolari. Recentemente si è scoperto che un altro complesso, chiamato Le Moulin, formato da cinque allineamenti paralleli visibili all’interno della cittadina di Saint-PierreQuiberon, a sud di Carnac, raggiunge la vicina spiaggia di Kerbougnec; indagini sottomarine indicano che gli allineamenti megalitici continuano sotto il

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mare per centinaia di metri, a formare un’enorme struttura comparabile a quelle di Carnac. Il monumento è stato sommerso dall’innalzamento del livello marino nel corso degli ultimi 6000 anni.

un enigma irrisolto Da secoli teorie e speculazioni sull’origine e sulle antiche funzioni di queste enigmatiche costruzioni si succedono e si affastellano le une sulle altre. Alcuni studiosi del passato speculavano che non si sarebbe trattato di costruzioni umane, ma dei risultati di enormi catastrofi naturali preistoriche (come terremoti e alluvioni). Ma se erano opera umana, quale popolo le aveva create? Dato che sotto i menhir non vi erano sepolture, il loro significato non sembrava, e ancora oggi non sembra, principalmente funerario. Si trattava di monumenti politici, oppure religiosi, costruiti in occasione di particolari festività? Oppure della testimonianza di arcaici culti astronomici dei quali abbiamo perduto memoria? L’associazione popolare dei megaliti ai culti dei druidi (la casta sacerdotale del mondo celtico preromano) risale alla fine del Settecento, cosí come l’idea che gli allineamenti dei massi riflettano orientamenti e mappe stellari. Questa impressione era peraltro facilmente suffragata dal fatto che gran parte delle costruzioni di Carnac sono costruite lungo un asse est-ovest. Piú immaginifica e a suo modo ingegnosa (ma falsa) è l’interpretazione dello studioso francese Pierre Méreaux, secondo il quale i dolmen di Carnac e di altri siti sarebbero colossali sismografi costruiti nella regione piú sismica della Francia in una fase in cui i terreni,


perchÉ è importante Nella pagina accanto: ancora un allineamento di menhir. Si può notare come molti massi siano innalzati in assetto instabile, con le strette estremità appuntite rivolte verso il basso, una particolarità che ha portato molti visitatori a vederli come «pietre danzanti». A destra: una sala del Museo di Preistoria di Carnac, intitolato allo studioso scozzese James Miln e al suo assistente Zacharie le Rouzic.

I complessi megalitici di Carnac, contemporanei alla costruzione del piú celebre cerchio di Stonehenge, con piú di 3000 blocchi sinora censiti e messi in carta dagli archeologi, formano il piú grande insieme megalitico del mondo. Si stima che in origine i monumenti comprendessero non meno di 10 000 blocchi monumentali arrangiati in vario modo (pietre isolate, file e recinti sacri). Parte dei monumenti oggi risulta sommersa dalle acque del mare.

algrado il pesante impatto dell’agricoltura e dell’erosione, i megaliti di Carnac M sono stati protetti con cura già a partire dal XIX secolo; la loro conservazione oggi appare ancora straordinaria.

L’esatto significato degli enormi sforzi fatti dai coltivatori del Neolitico e dell’età del Rame per erigerne i massi rappresenta ancora una sfida per l’interpetazione archeologica.

il sito nel mito

La grandiosità dei megaliti di Carnac ha ispirato da sempre un vasto patrimonio di narrazioni religiose e folkloriche e persino importanti opere letterarie. Come è avvenuto per il circolo di Stonehenge, intorno ai megaliti sono cresciute leggende secondo le quali le grandi pietre sarebbero riferibili ai culti preromani degli antichi druidi, a prodigiosi racconti sui secoli della cristianizzazione e al ciclo arturiano. Dai culti popolari cristiani traspare un substrato ideologico chiaramente legato alle manifestazioni religiose che si diffusero nel tardo Neolitico e nel corso dell’età del Rame (III millennio a.C.).

carnac nei musei del mondo Il Museo di Preistoria di Carnac, intitolato a James Miln e al suo assistente Zacharie le Rouzic, custodisce i manufatti scoperti e recuperati nell’area dei megaliti, riferibili soprattutto all’età neolitica. Il Museo custodisce inoltre, sui due piani espositivi in cui si articola, circa 7000 reperti preistorici, provenienti da piú di 100 siti diversi: una dotazione che ne fa una delle piú ricche collezioni di preistoria dell’intera Francia.

informazioni per la visita

I l Museo di Carnac è aperto tutto l’anno, tranne che nel periodo compreso tra i mesi di dicembre e febbraio e in occasione di poche festività. La chiusura settimanale è di martedí (info: museedecarnac.com). Per la visita ai monumenti megalitici, occorre tenere presente che, come a Stonehenge, l’accesso ai monumenti principali è stato ristretto con recinzioni, allo scopo di evitare il danneggiamento delle pietre e favorire la crescita del manto erboso. Tuttavia alcune visite guidate conducono i turisti a diretto contatto con i blocchi megalitici. a r c h e o 33


carnac • i luoghi della leggenda

DUE SECOLI DI PROTEZIONE E RICERCHE Nel 1836, di Carnac si era interessato lo scrittore, storico e archeologo Prosper Mérimée (1803-1870), come ispettore generale per le antichità francesi, al quale erano particolarmente cari i luoghi strani e leggendari. La metà del XIX secolo vide l’opera a Carnac di James Miln, che diede inizio a scavi e rilievi; intorno al 1875 a Miln si associò come assistente e apprendista archeologo il giovane Zacharie le Rouzic (1864-1939). Alla morte di Miln (1881) le sue relazioni di scavo e collezioni rimasero a Carnac e formarono il nucleo del Museo archeologico che oggi porta il nome dei due ricercatori. Nel 1889, lo Stato francese intervení con efficacia, comprando buona parte dei terreni che ospitavano i megaliti e inserendone i gruppi principali negli inventari dei monumenti protetti.

intrisi dell’acqua dei ghiacciai in ritiro, erano ancora piú instabili di oggi. Gli allineamenti di menhir, dal canto loro, seguirebbero accuratamente antiche linee di faglia, sempre allo scopo di segnalarne la minima attività sismica. Questa funzione spiegherebbe la costruzione di molti menhir in assetto instabile, con la punta rivolta in basso.

un omaggio per ospiti illustri? In quanto agli archeologi, le spiegazioni attuali non sono dissimili a quelle avanzate per la celeberrima Stonehenge: senza escludere possibili connotazioni astronomiche, legate soprattutto a specifiche posizioni astrali in corrispondenza di momenti cruciali 34 a r c h e o

dei cicli stagionali, si pensa a grandi opere costruite nel corso di grandi feste pubbliche. Con una logica simile a quella che avrebbe ispirato, millenni piú tardi, la costruzione dei megaliti nelle isole del Pacifico, diversi clan o segmenti tribali sarebbero intervenuti a celebrare funerali o matrimoni di alcuni gruppi dominanti; e in queste occasioni centinaia di persone, in cambio di cibo e intrattenimento, avrebbero partecipato all’erezione dei monumenti che celebravano la grandeur degli ospiti. Le teorie odierne hanno il pregio della razionalità e appaiono interamente possibili; ma forse tolgono alle grandi pietre un po’ del loro fascino. Per recuperarlo appie(segue a p. 38)


Se Carnac si è in buona parte salvata, ciò è dovuto in larga misura all’importanza degli studi di preistoria nelle ideologie positivistiche dei decenni a cavallo tra i secoli XIX e XX, quelli del trionfo dell’evoluzionismo. Gli sviluppi economici e agricoli del secondo dopoguerra misero nuovamente a rischio i monumenti. Mentre parte dei massi e dei dolmen cadde in abbandono o fu danneggiata per nuove costruzioni, molti massi venivano rimessi in piedi, spesso rudemente con bulldozer, fino a che il Ministère de la Culture et de la Communication, nel 1991, non creò una apposita Mission Carnac, con l’esplicito scopo di proteggere definitivamente e valorizzare l’enorme patrimonio archeologico della zona e di riprendere le ricerche archeologiche con metodologie piú aggiornate. Sulle due pagine, in alto: cavatori di pietra demoliscono un dolmen e il menhir noto come «Géant de Manio». Entrambe le foto furono scattate dall’archeologo Zacharie le Rouzic tra il 1900 e il 1910, per documentare lo stato dei siti archeologici bretoni. Charenton-le-Pont, Médiathèque de l’architecture et du patrimoine. A destra: lo scavo di un focolare neolitico durante le indagini condotte a Carnac nel 2009.

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carnac • i luoghi della leggenda

«Qui termina il mondo antico: ecco la sua punta piú avanzata, il suo estremo limite; alle vostre spalle c’è tutta l’Europa e tutta l’Asia; di fronte a voi c’è il mare, il mare sconfinato»

flaubert e il viaggio in bretagna Con la pubblicazione, nel 1845, dell’Educazione Sentimentale, Gustave Flaubert (1821-1880) aveva abbandonato gli studi universitari e aveva deciso di dedicarsi interamente alla letteratura. Tra il maggio e l’agosto del 1847, lo scrittore partí con l’amico Maxime du Camp (1822-1894) per un viaggio in Bretagna. Du Camp era uno dei primi reporter del mondo moderno: partecipò, tra l’altro, come inviato di guerra alla spedizione garibaldina dei Mille, nel 1860. Del viaggio in terra bretone ci è rimasta testimonianza in Viaggio in Bretagna. Per i campi e lungo i greti, curiosamente scritto a due mani, a capitoli alterni. Il diario venne pubblicato solo dopo la morte di Flaubert, nel 1885. Facile immaginare il viaggio dei due giovani intellettuali, le lunghe camminate tra campi assolati, nel vento del mare, giacche in mano e camicie sudate annerite dalla polvere, soste in osterie, vino e discussioni accalorate sul grande enigma preistorico. Per il «naturalista» Flaubert, radicalmente avverso alle sirene del Romanticismo, l’occasione era ghiotta: farsi beffe di popolani creduloni, archeologi fantasiosi ed eruditi con la testa piena di fole. Tuttavia, a leggere tra le righe, non vi sono dubbi che lo scrittore, suo malgrado, fu profondamente affascinato da ciò che vedeva. Il commento finale, nel passo che segue, sembra davvero il brusco risveglio da un sogno ammaliante: «Ben presto scorgemmo nella campagna file di pietre nere, allineate a intervalli regolari su undici colonne parallele che diminuivano in altezza man mano che si allontanavano dal mare; le piú alte sono di venti piedi circa e le piú piccole non sono che semplici blocchi adagiati a terra (...). C’è gente che ha passato la vita a cercare a cosa servissero. Io non chiederei di meglio che di averle potute vedere quando erano meno nere e i licheni non erano ancora cresciuti. La notte, quando la luna rotolava fra le nuvole (...) le sacerdotesse che si aggiravano dovevano essere molto belle con il loro falcetto d’oro, le ghirlande di verbena e le vesti bianche a strascico, arrossate di sangue umano. Lunghe come ombre, camminavano senza toccare terra, con i capelli sparsi, pallide (...). Dopo aver ascoltato le opinioni di tanti sapientoni, se mi chiedessero qual è la mia ipotesi sulle pietre di Carnac (...) io esprimerei un’opinione inconfutabile, irresistibile: sono semplicemente delle grosse pietre».

«Il fascino della storia, come quello del mare, risiede in ciò che cancella: l’onda che sopraggiunge fa sparire dalla sabbia la traccia della precedente»

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«La mia prima impressione è quella di un grande balletto di giganti» (Gustave Flaubert, 1847)

In alto: i menhir di Carnac in una incisione della fine dell’Ottocento. In basso, sulle due pagine: ancora una veduta di uno degli allineamenti.

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carnac • i luoghi della leggenda

no, l’archeologia può però rivolgersi al filo, tenue ma brillante, delle antiche tradizioni. I monumenti preistorici di Carnac sono popolarmente collegati, in una complicata stratigrafia di pensieri e associazioni, al culto di san Cornelio: una figura curiosa, in quanto non precisamente identificato nei santi e nel papa omonimo ufficialmente riconosciuti dalla storiografia e dal culto cattolici. Uno di essi era un centurione romano di fede cristiana che viveva a Cesarea di Palestina, membro della coorte Italica. Negli Atti degli Apostoli si narra di come Cornelio fosse stato visitato da un angelo che gli disse di chiamare l’Apostolo Simon, il futuro San Pietro. Questi accettò l’invito di Cornelio, e, giunto a Cesarea, si mise a predicare il Vangelo, quando si manifestò lo Spirito Santo. I presenti iniziarono a lodare Dio in tutte le lingue del mondo. Ciò significava che alla nuova fede potevano convertirsi tutti, e non solamente chi già osservava la legge mosaica.

i romani «pietrificati» Se il tema della religione ufficiale, quindi, associa Cornelio al tema di una conversione universale – quasi a sottolineare la necessità di un radicale allontanamento dalle antiche credenze pagane – le leggende locali hanno toni ben diversi. Cornelio sarebbe stato spinto dalle persecuzioni di Treboniano Gallo (250 d.C. circa) fino all’estremo limite delle terre di Francia, dove giunse su un carro trainato da una coppia di buoi. Quando incontrò alcuni contadini che stavano seminando del grano, promise loro che per l’indomani i loro poveri campi sarebbero stati pronti per un abbondante raccolto. Quando le truppe romane che inseguivano Cornelio giunsero sul luogo, il miracolo si era compiuto. I contadini, estasiati, erano intenti al raccolto, e il santo, che si era nascosto nei pressi, pietrificò d’un colpo le

un fenomeno universale Prima delle eccezionali scoperte di Göbekli Tepe, presso Urfa, in Turchia (vedi «Archeo» n. 279, maggio 2008; anche on line su archeo.it) il continente europeo e il Mediterraneo si contendevano la «primogenitura» dell’architettura megalitica della preistoria, fiorita tra il 4500 e il 2000 a.C. Dolmen o «tombe a portale» megalitiche si trovano sulle coste atlantiche dal Portogallo alla Galizia, ma anche in Irlanda, nelle isole Orkney, nel Galles, in Bretagna, Danimarca, Olanda, Polonia, e nell’entroterra dell’odierna Germania. Nel Mediterraneo, i dolmen ricorrono in Sardegna, nelle isole Baleari, in Sicilia, sulle coste meridionali della Penisola italiana. Il fondamentale modulo trilitico dei dolmen (due pietre come stipiti, una terza lastra o blocco come architrave) viene riprodotto, quasi all’infinito, in molteplici varianti, come nelle tombe a galleria o a corridoio, ugualmente comuni nelle coste nord-atlantiche, nelle isole Britanniche e in Germania. Anche il celeberrimo circolo megalitico di Stonehenge altro non è (per quanto ne sappiamo, e in parte della sua complessa storia) che una elaborazione dello stesso elementare principio architettonico, sviluppato per secoli sul tema dei cerchi concentrici. Nelle regioni scandinave, i circoli megalitici continuarono a essere costruiti anche in ere ben successive. Piú antica di almeno mezzo millennio, e certamente piú complessa, è l’architettura dei templi preistorici di Malta, dove monumentali triliti di blocchi ben squadrati danno accesso a insiemi consecutivi di ambienti di culto a pianta circolare. Il filo che collega questi enigmatici monumenti è sottile e discontinuo, e sembra variamente attraversare popolazioni, culture, religioni e fasi storiche profondamente diverse.

spagna i resti del dolmen di San Martin, nella provincia de La Rioja, molto ricca di testimonianze di questo tipo. Verosimilmente coperta da un tumulo, la struttura ospitava oltre 20 sepolture.

irlanda il dolmen di Schull, nella

contea di Cork, una sepoltura megalitica di epoca neolitica, che in origine era forse ricoperta da un tumulo.

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Oslo

Maes Howe

Mar Baltico

Goteborg

Mare del Nord

Tustrup Mosca

Newgrange Meath Avebury

Berlino

Havelte

Londra

Stonehenge

Kiev

Cracovia

Parigi

Oceano Atlantico

Zurigo

Carnac

Odessa Torino

Milano

Filitosa Sollacaro

Cangas de Onis

Barcellona

Lubiana Bucarest

Mar Nero Roma

Bisceglie

Arzachena

Istanbul

GĂśbekli Tepe

Izmir

Alcalar

Los Millares

Algeri

Ankara

Tunisi

Tarxien

Casablanca

Mar Mediterraneo

Platanos La Canea

Tripoli Alessandria Cairo

Malta

inghilterra il complesso megalitico di

Stonehenge, comprendente un terrapieno circolare con fossato e circoli di pietra. Fu edificato in piĂş fasi, a partire dal IV mill. a.C. per circa 2000 anni.

Il tempio di Mnajdra, uno dei 7 santuari megalitici maltesi. Il complesso si compone di tre edifici affiancati e raccolti attorno a un ampio ingresso a forma di esedra, con un vano di fondo centrale a cui si addossano due o piĂş ambienti. IV-III mill. a.C.

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carnac • i luoghi della leggenda A sinistra e in basso: sepoltura neolitica a galleria, posta a coronamento dell’allineamento di Kermario a Carnac, vista dall’esterno e dall’interno. Nella pagina accanto: Antichità galliche che si trovano a Locmaziaquev (sic), Crach, Quiberon e Carnac, parrocchie del vescovado di Vanne, tavola realizzata per l’opera Description historique, topographique et naturelle de la Bretagne dello storico e naturalista francese Christophe-Paul de Robien, pubblicata intorno al 1756.

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GLOSSARIO MEGALITICO Menhir dal bretone men hir («lunga pietra»), il termine indica un masso monolitico di forma allungata, conficcato verticalmente nel terreno, isolato oppure in allineamenti. Dolmen neologismo coniato probabilmente tre secoli fa dalle parole bretoni daol e men («tavola» e «pietra»); indica una costruzione trilitica con due elementi verticali laterali che ne sorreggono uno orizzontale, o costruzioni piú complesse che

elaborano lo stesso principio. I dolmen sono solitamente camere sepolcrali databili tra il IV e il III millennio a.C., in origine coperte da tumuli di pietrisco e terra. Molti dolmen, in particolare quelli coperti in antico da tumuli, avevano accessi «a galleria», ossia corridoi coperti fatti con lastre piatte erette con tecnica trilitica. Cromlech parola adattata dai termini gallesi crom («curvata») e llech («lastra, pietra piatta»), spesso usata per indicare

circoli megalitici formati da menhir o lastre conficcate nel terreno. Henge neologismo derivato dal celebre monumento di Stonehenge, che indica una costruzione circolare ad argine in terra, che può o meno racchiudere un circolo di pietre (o cromlech).

Allineamento fila di menhir o di lastre litiche infisse nel terreno; spesso, come a Carnac; piú allineamenti formano campi di file parallele o convergenti. Corridoio e strade percorsi variamente segnati sul terreno, associati a piú vasti complessi megalitici.

schiere dei suoi inseguitori. Le file dei menhir di Carnac altro non sarebbero che incolpevoli soldati di Roma mutati in roccia, e schierati per l’eternità sulle rive dell’Atlantico (narrazioni piú «grezze» parlano semplicemente di soldati romani tramutati in massi dal solito Merlino).

la benedizione dei buoi Ma il potente (e rancoroso) Cornelio è celebrato anche come patrono degli animali con le corna, soprattutto delle mandrie bovine. Si tratta di una tradizione attestata sin dal Medioevo, ma che certamente affonda le radici proprio in quel substrato pagano che forse la tradizione religiosa ufficiale cerca di velare. Antiche feste del bestiame forse furono tramutate in celebrazioni cristiane. Intorno alla metà di settembre, ogni anno, in Bretagna si celebra il Giorno dell’Espiazione, seguito da una Festa dei Tabernacoli. I fedeli si riuniscono in processione, i peccatori si confessano e fanno benedire i buoi alla fontana di S. Cornelio, il quale ne favorirà la vendita, garantendo buoni affari. Come non cogliere in queste immagini leggendarie antichissimi sfondi religiosi? Ci troviamo di fronte a grandi pietre legate alla morte di uomini armati, proprio come nelle stele «eroiche» della fine del Neolitico e della prima età del Rame (3000 a.C. circa). Antichissima potrebbe essere anche l’idea che gli armati in schiera proteggano, quasi come antenati soprannaturali, la fertilità dei campi di grano, come quella delle mandrie bovine, le due fonti di ricchezza e di prestigio delle prime aristocrazie europee.

nella prossima puntata

troia un mito immortale a r c h e o 41


antico egitto • le carestie

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«sette anni di carestia...» di Sergio Pernigotti

l’egitto fu sempre quel paese felice, guidato da un sovrano vittorioso e beneficato da eterna fertilità, come voleva la «propaganda di stato» faraonica? vediamo, allora, il testo (dalle inquietanti assonanze bibliche) inciso su una misteriosa stele rinvenuta su un’isola del nilo

A

ccostare il termine «carestia» alla vasta area geografica che si designa come Egitto e alle vicende politiche, economiche e sociali che nei millenni l’hanno caratterizzata, può sembrare un paradosso. Ma lo è meno per l’età moderna, a causa del formidabile aumento della popolazione (attualmente stimata in circa 80 milioni di abitanti), che ha costretto i suoi governanti a opere grandiose (verrebbe da dire... «faraoniche») come le due dighe di Assuan. Opere che, con il lago Nasser, hanno trasformato il paesaggio di una parte importante del continente africano al di là della prima cateratta, provocando uno «scambio» per certi aspetti terribile: la maggiore produzione di energia elettrica e il piú efficace controllo dell’irrigazione hanno causato la perdita di monumenti e di altre preziose testimonianze, come per esempio quelle della cultura materiale della civiltà nubiana e, in parte, di quella stessa egiziana (basti pensare ai templi sommersi di Abu Simbel). Ciononostante, la carestia è sempre die-

Nella pagina accanto: Kom Ombo, tempio di Haroeris e Sobek. Rilievo con il dio del Nilo Hapi, dal ventre opulento e seni penduli, simbolo di fertilità. II sec. a.C.

A destra: statuetta lignea raffigurante un uomo emaciato con una scodella. XI-XII dinastia, 2064-1797 a.C. Berlino, Museo Egizio.


antico egitto • le carestie

tro l’angolo e costringe l’Egitto a importazioni massicce di cereali per raggiungere un livello di sopravvivenza accettabile, costantemente minacciato dalle ricorrenti crisi internazionali della regione, nodo cruciale nello scacchiere politico del Vicino Oriente.

terra nera, terra rossa L’Egitto antico, la cui struttura fisica, fino alla costruzione delle due grandi dighe, non era molto diversa da quella attuale, era afflitto da carestie fin dalla preistoria piú remota, anche se non si trattava di eventi frequenti, perché il rapporto fra il fiume e il deserto, e cioè tra la terra coltivata o coltivabile e quella irrimediabilmente arida, era relativamente stabile. Non a caso, del resto, gli Egiziani consideravano la terra coltivata come (il vero) Egitto e il deserto come una sorta di non-Egitto. Il termine egiziano che designava il Paese era Kemet, che letteralmente significa «(la terra) nera», cioè coltivata, mentre il

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In alto: Tebe, necropoli di Sheikh Abd el-Qurna. Particolare di una pittura murale con scena di lavoro agricolo nella tomba di Nakht, sacerdote di Amon e scriba durante la XVIII dinastia (1543-1292 a.C.). In basso: una donna porta cibo ai lavoratori nei campi, particolare di un affresco dalla tomba di Unsu, a Tebe. XVIII dinastia, 1543-1292 a.C. Parigi, Museo del Louvre.


a.C., faceva parte, come satrapia, dell’impero persiano (circostanza che indusse Erodoto a recarvisi nel momento in cui si decise a scrivere la storia delle guerre persiane). Tra le descrizioni che Erodoto ci ha lasciato dell’agricoltura egiziana è molto nota quella in cui scrive che «è chiaro anche a chi non l’ha sentito dire prima, ma l’ha visto, per chiunque almeno abbia senno, che la parte dell’Egitto in cui i Greci giungono per mare è terra acquisita e dono del fiume» (II, 5; traduzione di Augusto Fraschetti). Basandosi su questa frase, molti ripetono che per Erodoto l’Egitto è un dono del Nilo: è evidente, invece, che lo storico intende altro, e cioè che la terra del Delta è frutto di un continuo accrescimento dovuto ai detriti portati dal fiume, come in ogni delta fluviale. Dire che l’Egitto non esisterebbe se la parte nordIn questa pagina: falcetto cerimoniale orientale del continente africano in legno di Amunemhat, «lavoratore dei non fosse attraversata dal fiume e una parte non fosse bagnata dall’icampi di Amon». XVIII dinastia, nondazione è una banalità che non 1543-1292 a.C. New York, appartiene a Erodoto. Brooklyn Museum.

colti sufficienti a nutrire la popolazione, che, tuttavia, dipendevano pur sempre dalla regolarità dell’inondazione: se questa era abbondante, il raccolto permetteva di sfamare la popolazione e di fare dell’Egitto un Paese ricco agli occhi di quanti abitavano le aree geografiche vicine e molto invidiato per la «facilità» con cui gli Egiziani potevano coltivare la loro terra e coglierne i frutti. Nel secondo libro delle Storie, interamente dedicato all’Antico Egitto, Erodoto ci ha lasciato una testimonianza preziosa e, per certi aspetti, anche divertente di tale atteggiamento degli stranieri verso i quali la natura era stata molto meno benevola. Lo storico greco è un testimone autorevole, che visitò l’Egitto intorno al 450 a.C. insieme a guide egiziane degne di fede,

deserto era chiamato desheret, «(la terra) rossa», cioè coperta dalla sterile sabbia: e la parola aveva come determinativo lo stesso segno che si trovava alla fine dei vocaboli usati per i Paesi stranieri, il nonEgitto, appunto, ma anche il luogo o il contesto in cui si collocava il regno dei morti. La relativa stabilità del rapporto tra il fiume e la terra coltivata era accresciuta e in qualche modo garantita dall’uomo, che assicurava la costruzione e il mantenimento nel tempo di lavori anche imponenti, come ricaviamo da vari indizi, e delle opere di irrigazione che davano la possibilità di portare con regolarità l’acqua ai campi piú vicini al fiume, ma anche di strappare terre al deserto e ampliare cosí le superfici coltivabili. Ciò garantiva, anno dopo anno, rac-

ma, soprattutto, in compagnia dei Greci che ormai da tanti anni vivevano nel Paese: essi non solo lo accompagnavano nella sua visita, ma gli davano informazioni di prima mano, per le quali, naturalmente, non occorrevano interpreti con il conseguente pericolo di fraintendimenti. Ma, soprattutto, Erodoto guardava le cose con i suoi occhi e cercava di comprendere un Egitto che gli si presentava praticamente intatto: i monumenti erano ancora al loro posto e gli Egiziani si comportavano nella vita quotidiana come avevano fatto per millenni. I Greci abitavano stabilmente nel Paese dai tempi di Psammetico I (664-610 a.C.), quando vi erano giunti come soldati o mercanti. Ma erano pochi e non avevano alcuna influenza sul governo, tanto piú che l’Egitto, dal 525

misurare le piene Molti sono gli indizi della regolarità delle inondazioni, che, tuttavia, non va presa troppo alla lettera: le costruzioni che chiamiamo «nilometri» e che servivano a misurare l’altezza della piena, ci dicono infatti che questa oscillava da un anno all’altro. La sua regolarità era pertanto un dato relativo, con variazioni anche considerevoli, essenzialmente determinate dalle acque che, dall’altopiano etiopico, defluivano nel fiume. Nell’Egitto Antico (come in quello moderno) la pioggia era praticamente sconosciuta: molto raramente si scatenavano temporali furiosi, che riempivano di acque torrentizie le valli laterali che dalle montagne (in realtà basse colline) conducevano verso l’alveo del fiume. Si trattava, però, di fenomeni isolati, sui quali non si poteva fare affidamento e che certo erano di scarsa utilità per gli agricoltori. Gli Egiziani consideravano la pioggia come un dono che gli dèi elara r c h e o 45


antico egitto • le carestie

givano agli stranieri che non possedevano il Nilo. La pioggia, insomma, era ritenuta una sorta di «Nilo celeste», concetto mirabilmente espresso da un inno al dio Aton probabilmente composto dal faraone Amenofi IV/Akhenaton: «Tutti i lontani paesi stranieri, tu crei ciò di cui vivono, perché hai posto un Nilo nel cielo che discende per loro e che fa onde su monti come il mare, per bagnare i loro campi nelle loro contrade. Come sono eccellenti i tuoi consigli, o signore dell’Eternità! Il Nilo nel cielo è per i popoli stranieri, e per gli animali di ogni deserto che camminano sui loro piedi: mentre il Nilo (vero) viene dall’aldilà per l’Egitto» (traduzione di E. Bresciani). Si può quindi affermare che il legame degli Egiziani con l’acqua che il

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loro fiume offriva con abbondanza era profondo. I discendenti di coloro che per primi popolarono la valle del Nilo conservavano nella memoria l’esperienza dei loro lontani antenati: e questa parlava di un fiume selvaggio dalle acque limacciose, che nel suo corso trascinava tutto ciò che incontrava e le cui rive erano inabitabili. Toccava all’uomo domare questa forza della natura e trasformarla in una benedizione degli dèi.

il caos primordiale Ciò spiega perché tutti i racconti egiziani sulla creazione del mondo abbiano inizio con la descrizione del caos costituito dalle acque primordiali e con l’apparizione su di esse di un’isola sulla quale, per opera di divinità diverse da luogo a luogo, era destinata a nascere la vita. In questo senso, e solo in questo senso, possiamo recuperare nel suo

significato piú corretto l’espressione di Erodoto circa il «dono del Nilo»: non era ciò che lo storico voleva dire, ma esprime alla perfezione ciò che gli Egiziani pensavano! Tuttavia, come abbiamo già detto, per quanto molto regolare se confrontata con quanto accadeva al regime delle acque di altri Paesi, la piena del Nilo non era affatto immune da oscillazioni. Poco sappiamo sul loro carattere occasionale o ciclico, ma sappiamo che talvolta il livello del fiume era troppo basso e le acque non erano sufficienti per bagnare i campi. Anche il ricco Egitto poteva dunque trovarsi alle prese con problemi gravi, primo fra tutti un raccolto dei cereali scarso e perciò insufficiente ad assicurare il sostentamento della popolazione. Per completare il quadro, occorre inoltre considerare due fattori molto importanti: l’eventuale scarsità


del raccolto non poteva essere compensata da importazioni di cereali, di fatto inesistenti; l’Egitto, inoltre, era un Paese densamente abitato, che necessitava di raccolti molto abbondanti, e anche lievi oscillazioni nella piena del fiume potevano dunque costituire un serio problema.

una natura benigna In realtà, la ricchezza dell’Egitto, che costituiva un «miraggio» agli occhi degli altri popoli, dipendeva dal concorrere di due fattori: quello naturale, rappresentato dalla grande quantità d’acqua, con inondazioni che rendevano fertili terre altrimenti incoltivabili; e quello umano, consistente nell’opera dei contadini, che lavoravano i campi, scavavano i canali per l’irrigazione, e costruivano dighe, grandi e piccole, per conservare e ridistribuire le acque in In alto: isola di Elefantina, Assuan. Un nilometro, sruttura impiegata per misurare il livello del Nilo. A sinistra: pittura murale con uomini e animali che trasportano canestri di grano a un granaio, da Gebelein, tomba di Iti, cancelliere e comandante del re. Primo Periodo Intermedio, 2195-2064 a.C. Torino, Museo Egizio.

eccedenza. Il «miracolo egiziano» dipendeva insomma da uno stretto rapporto tra la natura e l’intervento dell’uomo. Ciò richiedeva una disciplina del lavoro molto rigorosa, altrimenti l’Egitto avrebbe rischiato di tornare al tempo in cui i suoi primi abitanti vedevano scorrere dall’alto delle colline le acque fangose del Nilo primordiale. L’insieme di questi fattori, fisici e umani, spiega inoltre molto delle strutture sociali e politiche dello Stato egiziano: era infatti indispensabile che l’intero percorso del fiume e le strutture agricole venissero disciplinate in maniera tale da evitare cedimenti che avrebbero potuto procurare danni irreparabili per tutta la lunghezza della valle (circa 1200 km). Il potere assoluto del sovrano deve essere letto in questa

ottica: un dio governava sull’Egitto e assicurava la sua consonanza con l’ordine dell’universo (quello che in egiziano si chiamava maat).

mutamenti climatici Tutto ciò non escludeva affatto che il sistema potesse entrare in crisi. E crisi voleva dire carestia, che, per quanto ne sappiamo, poteva verificarsi soprattutto, se non esclusivamente, per due ordini di ragioni. In primo luogo vanno messe in conto le oscillazioni climatiche, per quanto fossero rare: l’esistenza dei nilometri dimostra che il fiume andava comunque tenuto sotto controllo per effettuare interventi atti a tenere costante il livello delle acque; e possono esservi stati momenti in cui la mancanza d’acqua avrebbe acquisito dimensioni preoccupanti se non catastrofiche. Piú d’uno studioso ritiene che la crisi che ha posto fine all’Antico Regno sia stata prodotta da un cambiamento climatico molto grave: l’Egitto avrebbe allora assunto l’aspetto che tuttora presenta, passando da un clima in cui le piogge non erano poi cosí rare a uno assai piú secco. Ciò avrebbe provocato a r c h e o 47


antico egitto • le carestie

cosí parlò erodoto Ecco alcuni brani delle Storie nei quali Erodoto descrive il rapporto degli Egiziani con l’agricoltura (riferendosi soprattutto a quanti vivevano nell’area del Delta fino a Menfi). Un rapporto a cui lo storico guarda con l’occhio dello straniero che sa bene quanto sia difficile coltivare la terra quasi ovunque nel proprio Paese (si pensi per esempio alle brulle colline dell’Attica): «Infatti, quando [gli Egiziani] appresero che tutta la terra dei Greci è bagnata dalla pioggia ma non irrigata da fiumi come la loro, dissero che i Greci, delusi un giorno in una grande speranza, avrebbero malamente patito la fame. Queste parole significano che, se il dio per loro non volesse far piovere ma causare siccità, i Greci sarebbero in preda alla fame: poiché, a parte quella che viene da Zeus, non hanno nessun altro modo di procurarsi acqua. Gli Egiziani dunque dicevano cosí dei Greci, e dicevano bene. Ora, però, dirò qual è la situazione per gli Egiziani stessi. Come ho detto anche prima, se la regione al di sotto di Menfi (poiché è questa a crescere) dovesse aumentare in altezza proporzionalmente a come ha fatto nel tempo trascorso, gli Egiziani che vivono qui che cosa altro faranno se non soffrire la fame, dal momento che la loro terra non sarà bagnata dalla pioggia e il fiume non potrà straripare nei campi. Adesso, certo, traggono frutti dalla terra senza la minima fatica, a paragone di tutti gli altri uomini e del resto degli Egiziani: non debbono far fatica squarciando i solchi con l’aratro, zappando o compiendo nessun altro lavoro di quelli su cui gli altri uomini si affaticano per le messi; quando il fiume, che sale da solo, irriga per loro i campi e quindi, dopo averli irrigati, si trae indietro, ciascuno allora semina il proprio campo e vi spinge dentro maiali; dopo aver fatto calpestare il seme dai maiali, da quel momento aspetta la mietitura; poi, quando i maiali hanno battuto il grano, se lo porta via» (II, 13-14; traduzione di Augusto Fraschetti).

saqqara

[Gli Egiziani] traggono frutti dalla terra senza la minima fatica, a paragone di tutti gli altri uomini

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Foto satellitare dell’Egitto con il corso del Nilo: il verde brillante che lo accompagna è la prova evidente del benefico effetto delle sue acque sulla fertilità dei terreni. Sono indicate le località di Saqqara e Sehel, dalle quali provengono due delle rare attestazioni di antiche carestie.

sehel


una crisi economica e sociale tale da sovvertire l’ordine costituito e far salire al potere gruppi sociali profondamente diversi da quelli precedenti, portatori di concezioni religiose e funerarie prima ignote o relegate in centri provinciali, investendo anche l’ideologia relativa alla regalità. Il riferimento, in sostanza, è all’Egitto del Primo Periodo Intermedio (2195-2064 a.C.), che innescò il «miracolo» del Medio Regno (2064-1797 a.C.), a partire dai grandi sovrani della XII dinastia (1994-1797 a.C.).

pane, acqua e abiti Non è da escludere, invece, che la carestia fosse la conseguenza di una crisi politica: il venir meno del potere del sovrano in uno Stato cosí fortemente accentrato come quello egiziano comportava la perdita del controllo del complesso sistema idrico e solo la restaurazione delle strutture di governo poteva spezzare quello che appare, e forse era, una sorta di circolo vizioso. Le prove del verificarsi di una situazione simile sono sporadiche. Possiamo tuttavia segnalare una frase ricorrente nelle autobiografie di molti personaggi di spicco dell’antico Egitto, con la quale essi si vantano di avere «dato pane all’affamato, acqua all’assetato, vesti all’ignudo»: espressioni che presuppongono evidentemente uno stato di indigenza in chi viene beneficato, ma che potrebbero derivare anche da situazioni individuali che nulla hanno a che vedere con una carestia. Non a torto, alcuni studiosi sostengono che non si tratta della raffigurazione di una vera carestia che ha colpito gli Egiziani: benché manchino iscrizioni che ci permettano di identificarli, deve trattarsi di popoli stanziati oltre i confini egiziani, probabilmente di tribú del deserto: ciò non toglie, tuttavia, che gli Egiziani conoscessero le conseguenze funeste della fame. In uno Stato basato sul delicato equilibrio del regime delle acque, l’ordine poteva infine essere turbato da eventi militari, in partico-

lare da possibili invasioni di popolazioni straniere: per quanto a oggi noto, esse ci furono, e con esiti devastanti, ma ben poco sappiamo sui danni che dovettero provocare. Accanto a invasioni vere e proprie, come per esempio quella degli Hyksos, molto piú frequenti dovettero essere i continui incidenti di frontiera e gli sconfinamenti, a oriente come a occidente, di tribú attirate verso l’Egitto dall’abbondanza d’acqua e dalla sua meravigliosa agricoltura. Un problema ricorrente, perché è sicuro che le popolazioni beduine, che vivevano essenzialmente di pastorizia, erano soggette a terribili carestie (assai piú frequenti di quelle egiziane), ed erano perciò attratte dalla Valle del Nilo. La scarsità delle fonti relative al fenomeno delle carestie dipende anche dalla volontà «politica» di non offuscare l’immagine di un Paese felice, abitato da «un popolo di santi guidato da un sovrano sempre vittorioso», come ebbe a dire il grande egittologo francese François Daumas (1915-1984).Vi è, tuttavia, un’eccezione significativa: si tratta della lunga epigrafe incisa su una roccia dell’isola di Sehel, 3 km circa a sud di Assuan.

la stele di sehel È un’isola pittoresca, poco piú grande di Elefantina e in genere trascurata dagli itinerari turistici tradizionali: le numerose rocce che emergono dal suolo conservano una quantità considerevole di iscrizioni lasciate da funzionari egiziani che si recavano nella zona per ragioni d’ufficio. Assuan, e soprattutto Elefantina, erano del resto località molto importanti, perché lí finiva l’Egitto e aveva inizio la Nubia; e ciò spiega la presenza dei funzionari. Tra le iscrizioni, spicca quella nota come «Stele della carestia». Nella versione che ci è giunta, la stele può essere ascritta all’età tolemaica e si può datarla all’anno 187 a.C., quando sul trono d’Egitto sedeva Tolomeo V Epifane (205-180 a.C.). a r c h e o 49


antico egitto • le carestie

immagini crude e inaspettate Rare sono le raffigurazioni riferibili a un Egitto devastato dalla fame e dalla sete. Una delle poche si trova a Saqqara, lungo il corridoio monumentale che conduce alla piramide del re Unas (V dinastia, 2378-2350 a.C.). Qui si conservano rilievi impressionanti che mostrano persone colpite da una terribile carestia (foto in basso): immagini non diverse da quelle che anche oggi possiamo vedere in certi Paesi africani colpiti dalla siccità. Sorprende che in un monumento regale della massima ufficialità compaiano scene che sembrano contraddire l’immagine di un Egitto prospero e felice, l’unico che un sovrano potesse ammettere e l’unico possibile nei termini della propaganda ufficiale.

Nel lungo testo si racconta che durante il regno del re Djoser (III dinastia, 2680-2660 a.C.), l’Egitto era tormentato da una terribile carestia che durava ormai da sette anni, (la stessa durata, dunque, di quella del racconto biblico di Giuseppe e dei suoi fratelli, Genesi 41) e che era causata dal fatto che le piene del Nilo si erano rivelate insufficienti. Il sovrano chiama allora il suo fedele funzionario Imhotep – l’architetto a cui si deve la piramide a «gradoni» di Saqqara –, per chiedergli da dove nasca il Nilo e a quale dio si debbano fare offerte per placarne l’ira manifestatasi attraverso la carestia. Imho50 a r c h e o


tep risponde che il Nilo nasce presso l’isola di Elefantina e il dio è quello locale, Khnum; il racconto continua con la narrazione di un sogno in cui il dio appare al sovrano e gli promette che in futuro le piene saranno regolari. La gratitudine del sovrano si manifesta con un decreto che stabilisce come una parte considerevole della Valle del Nilo, da Elefantina verso sud, divenga dominio del dio e del suo sacerdozio.

con il cuore in pena Il testo (che è un palese falso storico) presenta numerosi problemi stor ici e religiosi. Uno degli aspetti piú interessanti consiste

nella descrizione della carestia e dei suoi effetti, che si finge pronunciata dal sovrano: «Il mio cuore era in grande pena perché il Nilo non era venuto a tempo per un periodo di sette anni. Il grano era poco, i vegetali erano secchi, tutta la roba da mangiare era scarsa, ognuno era privo di risorse. Si arrivava a non poter piú camminare; il bimbo piangeva, il giovane era indebolito: i vecchi avevano il cuore abbattuto, stavano con le gambe piegate, seduti per terra, le mani strette al corpo. Anche i cortigiani erano in stato di bisogno, i templi erano chiusi, i santuari sotto la polvere. Tutto quello che

La «Stele della Carestia», sull’isola di Sehel, presso Assuan. L’iscrizione, probabilmente databile al 187 a.C. (durante il regno di Tolomeo V Epifane), racconta di una terribile carestia al tempo del faraone Djoser (III dinastia), durata sette anni.

esiste era nell’afflizione» (traduzione di Edda Bresciani). Solo l’intervento di Imhotep poteva porre rimedio a questo stato di desolazione e consentire che l’Egitto potesse riprendere la sua vita prospera e felice, assicurata dall’acqua che il fiume da molti millenni donava al Paese per volontà degli dèi e grazie al lavoro degli uomini. a r c h e o 51


musei • roma

la sede romana delle assicurazioni generali ha voluto trasformare in museo una parte dei suoi uffici. È nato cosí un allestimento di grande valore didattico (e di notevole impatto scientifico), dedicato al racconto della città antica, ma anche alla rievocazione di una stagione importante della sua storia moderna

LE RADICI DEL PRESENTE 52 a r c h e o


dove e quando

Roma, Museo Radici del Presente. La postazione multimediale che, attraverso la narrazione di un genius loci, descrive la vita quotidiana in una domus dell’età imperiale.

Museo Radici del Presente Roma, via dei Fornari 11 Info le visite, gratuite, sono prenotabili contattando la segreteria organizzativa; Numero verde: 800 360 622 (attivo lu-me-ve, 9,00-13,00; ma-gio, 14,00-18,00) e-mail: info@radicidelpresente.it; radicidelpresente.it

D

isegnata dall’architetto Giuseppe Sacconi (1854-1905) come una sorta di gemello del suo quattrocentesco «dirimpettaio», Palazzo Venezia, la monumentale sede romana delle Assicurazioni Generali è un elemento ormai familiare nel panorama capitolino. Dal 2011, il secondo piano dell’edificio ospita uno dei piú interessanti e innovativi allestimenti museali realizzati negli ultimi anni: Radici del Presente, un museo archeologico didattico voluto dalle stesse Assicurazioni Generali per consentire la fruizione del materiale archeologico recuperato in occasione della costruzione del palazzo. Ma se questa, per il momento, è l’ultima tappa di una storia ormai ultracentenaria, sarà bene cominciare dall’inizio.

Verso la fine dell’Ottocento, fu l’allora direttore delle Assicurazioni Generali, Marco Besso, a volere che la compagnia si dotasse di una sede nella capitale del Regno, e, per realizzare il progetto, nel 1902 colse l’occasione dei lavori di riprogettazione dell’area adiacente piazza Venezia.

la grande trasformazione Vari piani regolatori di Roma Capitale stilati nella seconda metà del XIX secolo avevano già previsto la risistemazione dell’area nei pressi del Foro di Traiano, con la demolizione degli edifici esistenti. In questo clima di fermento edilizio fu anche varato un grande progetto per l’edificazione del monumento a Vittorio Emanuele II. Per seguirne la realizzazione fu istituita un’apposita

Commissione Reale, che affidò la direzione dei lavori al già ricordato Giuseppe Sacconi. Nel 1898 la commissione approvò il suo progetto per il monumento e per la sistemazione delle aree circostanti, che venivano ripensate in funzione di quest’ultimo. L’area antistante sarebbe stata liberata del Palazzetto Venezia, demolito e ricostruito in linea con la facciata del palazzo Venezia. Gli edifici dirimpetto al palazzo di Venezia, sul lato opposto della piazza, ovvero Palazzo Torlonia, Palazzo Merenghi e alcune proprietà del pio sodalizio dei Fornari, sarebbero state demolite anch’esse, conformemente ai progetti dei precedenti piani regolatori. Nel 1900 la famiglia Torlonia si impegnava quindi con il Ministero dei Lavori Pubblici a demolire le aree di sua proprietà

IN UN MUSEO di Paolo Leonini, con un reportage fotografico di Stefano Mammini

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musei • roma

e quelle contigue (che le sarebbero state consegnate dallo Stato a conclusione delle procedure di esproprio) e a costruirvi, entro quattro anni, un palazzo appropriato al prestigio dell’area. La complessità dell’impresa indusse i Torlonia a cedere l’affare a una società immobiliare, e fu quindi stipulato un contratto di vendita con una tra le maggiori nel settore, la Società Generale Immobiliare.

il progetto finale In un primo momento il progetto del palazzo fu curato dalla Società Immobiliare, e dovette ricevere l’approvazione della Commissione Reale e di Sacconi stesso. Ma il processo fu tutt’altro che immediato, dato che, dal primo progetto del 1900, il palazzo assunse le sue sembianze definitive solo dopo che ne furono proposte, e rifiutate, altre due differenti versioni. Il quarto progetto fu presentato dopo consultazioni piú dirette tra la Società e lo stesso Sacconi, che permisero di comprendere meglio i pareri di questi in merito e di giungere infine all’approvazione di un progetto finale nel 1902. La nuova versione prevedeva la creazione di una massa architettonica simmetrica, per volume e decorazione, al Palazzo Venezia, in modo da formare due quinte scenografiche per l’antistante monumento a Vittorio Emanuele II. È questo il momento in cui, alla 54 a r c h e o

In alto: il palazzo che ospita la sede romana delle Assicurazioni Generali, in piazza Venezia. Progettato dall’architetto Giuseppe Sacconi come pendant dell’antistante Palazzo Venezia, fu inaugurato nel 1906. Dal 2011, al secondo piano, è allestito il Museo Radici del Presente. A destra, sulle due pagine: la prima sala del museo (A, vedi box a p. 58), nella quale sono esposti reperti rinvenuti nel corso degli scavi condotti durante la costruzione dell’edificio. I materiali sono disposti su una pianta in scala 1:100 dell’insula romana di cui furono individuati i resti.

L’assetto originario

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A sinistra: l’assetto urbanistico dell’area di piazza Venezia prima degli interventi compiuti agli inizi del Novecento: si notino la posizione originaria di Palazzetto Venezia (1), poi demolito e spostato, e gli edifici (2) rimpiazzati dal palazzo delle Assicurazioni Generali. A destra: la situazione attuale, con il nuovo palazzo (1) e il monumento a Vittorio Emanuele II (2).

La nuova piazza, il monumento e il palazzo 2 1

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musei • roma

fine del 1902, le Assicurazioni Generali decidono di entrare nell’affare, e, nel novembre dello stesso anno, stipulano due contratti con la Società Generale Immobiliare, da cui comprano il terreno in fase di costruzione e a cui danno mandato di seguire i lavori, riservandosi la facoltà di intervenire con modifiche ai progetti. La fase di progettazione continua anche durante i lavori, e determina una fitta corrispondenza tra le parti coinvolte. I dettagli decorativi dei prospetti ad esempio, come il grande portale, il balcone e il maestoso leone che campeggiano al centro della facciata, vengono seguiti direttamente dalle Assicurazioni Generali assieme all’architetto Sacconi (al quale compete la responsabilità artistica dell’opera) e approvati dalla Commissione Reale nel 1905.

si aprono i cantieri I lavori nell’area in cui sorge il palazzo iniziarono quindi nel 1902 con la demolizione degli edifici esistenti, a cui seguí l’apertura di un profondo scasso per gettare le nuove fondamenta, che si concluse due anni dopo. In questa fase vennero alla luce i reperti oggi esposti nel museo. Per documentare l’avanzamento dei lavori, soprattutto dal 1903 al 1904, vennero scattate numerose fotografie, anch’esse esposte nel museo, insieme a disegni progettuali e stralci di corrispondenza. Il palazzo venne infine inaugurato nel dicembre del 1906, in occasione del 75° anniversario delle Assicurazioni Generali. Le operazioni di scasso condotte in un area di cosí grande importanza archeologica non potevano che portare alla luce una grande quantità di materiale antico. Fu quindi eseguita un’indagine archeologica, in occasione della quale l’archeologo Giuseppe Gatti, tra il 1902 e il 1904, si occupò di documentare le strutture riportate alla luce e di catalogare i reperti scavati. Questi diventarono proprietà delle Assicurazioni Generali e andarono a costituire un patrimonio prezioso, che la 56 a r c h e o

In alto: Sala A. Ritratto femminile in marmo bianco. 160-180 d.C. La superficie del volto appare scalpellata e preparata per un intervento di rilavorazione, probabilmente mai eseguito. In basso: Sala A. Reperti collocati sulla pianta in scala 1:100 dell’insula scoperta durante i lavori di costruzione del palazzo.


piú adatti perché questo lodevole impegno non rimanesse «solo» una meta per gli appassionati e i cultori della materia, ma potesse coinvolgere i piú giovani. Realizzato con l’Associazione Trivio Quadrivio, il progetto Radici del Presente si avvale della collaborazione di uno staff di archeologi dell’Università di Napoli «Federico II» e dell’Associazione Italiana Dirigenti Scolastici e, nell’anno scolastico 2012-2013, ha visto la partecipazione di oltre 2000 studenti, provenienti da tutta Italia. Le varie fasi hanno compreso attività preparatorie svolte in classe con l’insegnante supportato da un archeologo, poi la visita di un sito archeologico sul territorio nazionale, durante la quale gli studenti hanno scattato fotografie dei particolari che piú li hanno colpiti, e, successivamente, in classe, una fase di discus-

ta, che può utilizzare durante la visita per raccogliere i fogli con le descrizioni delle singole sale e dei reperti collegati, a disposizione sugli espositori. Il foglio stanza si rivela efficace e particolarmente adatto al pubblico dalla capitale giovane, perché immediato nella dell’impero consultazione e, allo stesso tempo, I reperti recuperati risalivano per la consente al visitatore di approfonmaggior parte al periodo della Rodire autonomamente argomenti ma imperiale (I-III secolo d.C.), con specifici, rivelando ulteriori dettaalcuni esemplari del IV-V secolo gli. Inoltre, al termine della visita, il d.C. Le strutture riportate alla luce si raccoglitore con le schede viene rivelarono riferibili a un’insula del II portato a casa dal visitatore e può secolo d.C., un’ipotesi rafforzata essere utilizzato per attività di riepiproprio dalla natura degli oggetti logo a scuola con i propri insegnanrinvenuti, che formano un insieme ti, e l’esperienza didattica può cosí molto eterogeneo: lastre marmoree proseguire anche dopo la conclucon iscrizioni, busti, anfore e vasellasione della visita. me, urne, capitelli, colonne, framCome già detto, il sito internet (ramenti marmorei con decorazioni, dicidelpresente.it) riveste un ruolo iscrizioni funerarie o celebrative. chiave in quest’esperienza didattica. Questi materiali sono oggi esposti Concepito come una vera e propria nel museo, nel quale sono confluite estensione del museo, anche altre due importanti propone una mappa interaccolte di proprietà di Asrattiva per esplorare le vasicurazioni Generali: la Il museo è l’elemento rie sale, per ciascuna delle collezione Merolli-FATA centrale di un piú ampio quali è possibile scaricare e la collezione di Palazzo catalogo dei reperti con Poli (coerenti per tipologia progetto didattico, rivolto ilillustrazioni e descrizioni. e datazione dei pezzi), che Per una precisa scelta di contribuiscono in modo innanzitutto ai giovani allestimento le opere non significativo al fine didattisono corredate da etico dell’allestimento, illustrando aspetti importanti della cul- sione e di caricamento delle foto sul chette per le didascalie, i reperti tura e della civiltà romana. Il museo sito internet (radicidelpresente.it). sono identificati solo con un piccoannovera complessivamente 300 re- A conclusione del programma è lo numero a fianco, mentre è lasciaperti romani, nonché un rilievo gre- stata proposta la visita didattica del ta al visitatore la possibilità di incuMuseo Radici del Presente, come riosirsi riguardo all’identità di ciaco del IV secolo a.C. Assicurazioni Generali ha scelto di ulteriore occasione per riflettere scun oggetto, ponendosi domande investire su questo rilevante patri- sull’esperienza del passato come e cercando risposte attraverso gli monio culturale «dormiente», vivi- origine dell’oggi. Oltre alle attività apparati didattici a disposizione, coficandolo. In questo senso, è signifi- legate al progetto didattico e rivolte me i fogli stanza o i pannelli illucativo che, oltre a provvedere al fi- alle scuole, il museo è comunque strativi alle pareti. nanziamento, la Società abbia scelto aperto a tutti, previa prenotazione La volontà è quella di suscitare dodi mettersi «in gioco» direttamente, della visita. Il progetto prosegue mande, evitando di fornire intercollocando il museo nella propria ora nell’anno scolastico in corso, pretazioni «prefabbricate» per gli con oltre 2000 studenti. oggetti in mostra al momento della sede di rappresentanza. visita, mentre tutte le descrizioni e Il Museo Radici del Presente allestito nel palazzo di piazza Venezia è Il percorso espositivo le informazioni tecniche si possono peraltro l’elemento centrale dell’o- Anche il percorso espositivo del ritrovare sulle schede di catalogo monimo e piú ampio progetto di- museo è stato curato dall’associa- reperibili sul sito internet. Per facidattico. Un piano che non solo ha zione Trivio Quadrivio e uno degli litare un rapporto piú diretto con previsto la creazione di spazi espo- strumenti didattici che piú lo con- l’osservatore, i reperti sono collocasitivi adeguati per le collezioni di notano sono i «fogli stanza». All’ini- ti su piani ribassati e sono assenti proprietà della Società, ma, fin dal zio della visita guidata ciascun par- barriere di protezione come teche principio, ha individuato i mezzi tecipante riceve una cartellina vuo- o ringhiere. Compagnia ha sempre percepito e custodito come tale nella propria sede di rappresentanza, e che oggi è al centro del progetto Radici del Presente.

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musei • roma

Sala A. le scoperte Il concetto originario del museo era quello di raccogliere il patrimonio della Società e valorizzarne i reperti: la prima sala riflette in pieno questo obiettivo. L’allestimento è pensato per facilitare nel modo piú efficace l’interpretazione dei reperti in mostra ed è costruito intorno ai materiali e al concetto delle loro origini. La grande isola al centro espone i ritrovamenti emersi dallo scavo per la costruzione delle fondamenta del palazzo. Una pianta in scala 1:100 del tracciato dell’insula romana che originariamente sorgeva nell’area, collega immediatamente i reperti che vi sono appoggiati sopra con la loro provenienza originaria. Per completare la ricostruzione e dare un’idea immediata dell’ubicazione dei luoghi, una struttura rettangolare sospesa al soffitto ricalca il perimetro della pianta sottostante e, sulle quattro fasce esterne, riporta un disegno del profilo degli edifici che hanno occupato l’area in epoche posteriori. Sulla parete opposta a quella d’ingresso alla sala, un pannello illustra graficamente la stratificazione delle modifiche intervenute sull’area, in cui, accompagnati dalla datazione, compaiono un profilo stilizzato degli edifici che esistevano e il loro legame con oggetti della collezione presenti nella sala. Alla base del grafico, si trova il livello dell’insula, parte di un complesso abitativo datato alla fine del I secolo d.C.

il corridoio. la storia del sito

Usciti dalla prima sala, ci si avvia per un lungo corridoio, che percorreremo piú volte nel corso della nostra visita. La forma allungata dello spazio è stata sapientemente sfruttata nell’allestimento e utilizzata per rievocare la storia delle vicende costruttive del palazzo. Le pareti si prestano allo sviluppo lineare della cronologia e, percorrendo il corridoio, si ha l’impressione di compiere un vero e proprio viaggio nel tempo. In questo ambiente sono esposte le riproduzioni delle numerose foto d’archivio scattate agli inizi del Novecento, i progetti architettonici per

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Sala B. la domus Il tema dell’abitare è al centro della seconda sala, e qui la domus patrizia è presa a modello dell’abitare romano ed esplorata nella struttura e nel dettaglio dei suoi ambienti, da quelli di rappresentanza, come l’atrium o il tablinum, a quelli piú privati, come i cubicula o i triclinia. Ogni ambiente è illustrato da un reperto significativo. Gli archeologi si sono chiesti come mai una tipologia abitativa tradizionalmente legata ai ceti meno abbienti, come l’insula, si trovasse in un’area cosí centrale e prestigiosa, adiacente ai fori, dove ci si sarebbe invece aspettati una piú consona domus. La risposta è che queste particolari insulae erano, in realtà, abitate da illustri personaggi pubblici, che non potevano tuttavia permettersi di acquistare una sistemazione in pieno centro e pertanto affittavano un appartamento in uno di questi complessi.

la realizzazione dell’edificio e gli stralci di corrispondenza tra le varie parti coinvolte nella realizzazione dell’opera. Su una delle due pareti sono ordinate cronologicamente le ristampe di piante ottocentesche dell’area di piazza Venezia, e altre, risalendo indietro nel tempo fino a cartografie medievali, come quella trecentesca, di Roma, di Fra’ Paolino da Venezia o la pianta di Roma scolpita su lastra di marmo, la Forma Urbis severiana. Tutto il materiale è consultabile anche sul sito internet, dove si può ripercorrere la cronologia attraverso un’efficace navigazione a scorrimento orizzontale. a r c h e o 59


musei • roma

Sala C. Il viridarium, ovvero il giardino La terza sala è dedicata al tema del giardino, illustrato da reperti provenienti dagli scavi per la costruzione del palazzo, come un frammento di pilastrino con motivi vegetali, e da altri pezzi coerenti al tema provenienti dalle altre due collezioni confluite nel museo, come l’erma con testa di divinità barbata (collezione di Palazzo Poli) o la colonnina istoriata con motivi vegetali (collezione Merolli-FATA).

A destra: rilievo votivo in marmo bianco con la raffigurazione di una ninfa delle acque e di un personaggio maschile. Collezione Palazzo Poli, IV sec. a.C.

Sala D. la pratica del riuso

La sala D, al termine del corridoio principale, presenta il tema del riuso nel mondo romano, e tra i reperti significativi qui troviamo due tabulae lusoriae, e un busto dell’imperatore Gallieno. Le tabulae avevano la funzione di superfici per il gioco e sono state rinvenute reimpiegate come lastra di pavimentazione, mentre la testa dell’imperatore non è pertinente al busto, che l’ipotesi di attribuzione identifica in un busto di Nerone, colpito dalla damnatio memoriae.

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Un tabula lusoria associata alla ricostruzione grafica (in alto) del suo utilizzo originario.

Nella pagina accanto, a sinistra: erma in marmo bianco raffigurante una divinità maschile, Eracle o Dioniso. Databile al I sec. d.C., l’opera rielabora modelli della scultura greca del VI sec. a.C. Collezione Palazzo Poli.


Piccolo altare in marmo bianco con iscrizione di dedica al dio Silvano da parte di un centurione della VII coorte pretoria, Lucius Appius Verecundus. Collezione MerolliFATA, I-II sec. d.C.

Sala E. vita pubblica e religiosa La sala E è dedicata al tema del foro, degli edifici pubblici e allo spazio degli dèi. L’ampio ambiente può accogliere anche gruppi numerosi, che possono esservi riuniti per un momento di riepilogo. Oltre ai reperti e alle ricostruzioni di edifici, l’allestimento comprende una grande struttura di legno dotata di una postazione multimediale. Di fronte, una piccola gradinata permette di sedersi come in una cavea teatrale, per guardare un video sul tema degli spazi dedicati alle divinità. Una voce narrante inizia a raccontare, lo schermo si anima come una lanterna magica, con sagome che accompagnano le parole. Immaginiamo di ascoltare la voce di un genius loci (il brano è tratto dal prologo dell’Aulularia di Plauto), che racconta la storia della sua dimora, il segreto di un tesoro affidato alla sua custodia, la sciagura dei padroni di casa che gli mancano di rispetto e la sua predilezione per la giovane padroncina che invece non dimentica mai di offrirgli sacrifici e libagioni. Al termine del video, l’accompagnatore della visita estrae da un cassetto i pezzi scomposti di un puzzle tridimensionale che riproduce una domus e invita gli spettatori a ricomporlo. Ogni elemento è marcato con il nome dell’ambiente che rappresenta, permettendo cosí una facile identificazione e quindi un collegamento molteplice sia con il percorso compiuto nel museo che con il video appena visto, e stimolando una riflessione sui vari ambienti esaminati durante la visita. Frammento di lastra in marmo bianco con mascherone. Collezione Palazzo Poli. Probabilmente III sec. d.C. Il reperto, facente parte di un fregio decorativo, è associato alla ricostruzione grafica della sua possibile collocazione originaria.

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musei • roma

Sala F. la storia scolpita La sala F è dedicata al tema del rilievo storico. Colpiscono subito la presenza di una grande finestra attraverso la quale si intravede uno scorcio della sommità della Colonna Traiana, e un banco addossato alla parete, sovrastato da un pannello illustrativo che spiega il rilievo della colonna (vedi foto e box in basso, sulle due pagine). Nella sala sono esposti alcuni reperti provenienti dalle collezioni coerenti con il tema della rappresentazione storica, come, per esempio, una testa di soldato romano proveniente da un altorilievo (I secolo d.C.).

Sale G-m. che cos’è il «passato»?

Frammento di rilievo in marmo bianco sul quale è verosimilmente scolpita la fuga di Enea da Troia in fiamme, in compagnia del figlio Ascanio e del padre Anchise. Collezione Palazzo Poli, I sec. a.C.

Dalla sala G il percorso museale si addentra sempre di piú nel «passato» e nel significato che questo tema ha nel mondo romano. Le sale dalla G a alla M, infatti, espongono reperti connessi con il tema della sepoltura in un percorso che attraversa i riti nell’antica Roma (sala G), l’identità funeraria nel mondo romano (sala H), il tema del passato come memoria del futuro (sala I), e termina con una preziosa raccolta di sarcofagi (sala L) e di epigrafi funerarie (sala M). La sala I rappresenta, nel percorso di visita generale, una pausa di riflessione su particolari simboli dell’antichità, greca e romana. Alle pareti si trovano pannelli illustrativi realizzati con la consulenza di Carlo Sini (filosofo e

A tu per tu con la Colonna Traiana L’apparato didattico della sala F coniuga alta tecnologia ed eccellente usabilità. Un monitor integrato nel piano orizzontale del banco (foto a destra) mostra un’inquadratura della Colonna Traiana (situata a poche decine di metri dal museo), ripresa in tempo reale da una videocamera (foto a sinistra) installata alla finestra e motorizzata. Con una manopola, muovendo la videocamera, è cosí possibile esplorare la parte del rilievo della Colonna visibile dalla finestra.


Dedica sepolcrale posta dai liberti per il loro patrono Tito Flavio Encolpio. Collezione Palazzo Poli, I-II sec. d.C.

docente universitario), che forniscono spunti per approfondire il significato della sepoltura nell’antichità come un punto di contatto tra passato e futuro. Il contenuto dei pannelli, formati da testo e illustrazioni, è concepito come un sistema «navigabile» e fluido che mette in relazione diversi nuclei informativi. Tra i temi principali troviamo «la scrittura», «la dualità» e «la maschera», che articolano la riflessione a partire dall’osservazione di particolari testimonianze archeologiche. Nel caso della scrittura, per esempio, troviamo l’iscrizione della celebre statua della kore Phrasíkleia, nel caso della maschera, la scena raffigurante il Sileno dalla Villa dei Misteri di Pompei.

Il pannello illustrativo offre una riproduzione disegnata di ogni scena visibile, corredata da una descrizione che spiega l’azione rappresentata e aiuta a isolare nella composizione generale i personaggi che vi prendono parte. Accanto al monitor vi sono anche sei pulsanti, corrispondenti ad altrettante scene. Premendone uno, si attiva la riproduzione di un brano audio che descrive la scena (impiegando anche effetti sonori ambientali) e la contestualizza nella sequenza degli eventi.

Nella grande sala L, che ospita una ricca collezione di urne, frammenti di sarcofagi e una molteplicità di lapidi con epigrafi, l’allestimento ha tenuto conto dell’eterogeneità dei reperti ed ha concepito una disposizione per tipologia: abbiamo quindi una divisione per classe sociale, in cui sono raggruppate le epigrafi per la sepoltura degli schiavi, per i bambini, per i liberi cittadini, ed anche per gli stranieri immigrati a Roma. Una suggestiva proiezione luminosa ricrea sulla parete la struttura ad archi della tipica sepoltura «a colombario», e contestualizza le epigrafi affisse come iscrizioni riferite al defunto i cui resti erano conservati nella nicchia soprastante.


speciale • culti orientali

Roma e il mistero dei

culti orientali di Susanne Erbelding, con un saggio di Manfred Clauss e un contributo di Katarina Horst; a cura di Christoph Haussmann e Andreas M. Steiner

64 a r c h e o


Nel 1906, lo studioso belga Franz Cumont pubblicò la sua monumentale ricerca sulle «religioni orientali», dedicata a riti e divinità «importate» a Roma dalle province asiatiche dell’Impero. Ma furono davvero «stranieri» Cibele, Iside e Mitra? E come si configurava il loro rapporto con la nascente religione cristiana? Ecco cosa rivelano le piú recenti indagini storiche e archeologiche… La figura di Mitra che uccide il toro, particolare del rilievo con tauroctonia, dal mitreo sotto la chiesa di S. Stefano Rotondo, a Roma. Fine del III sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano. Il rilievo si distingue per il particolare stato di conservazione della coloritura e della doratura (vedi anche a p. 78).

E

rano gli dèi i veri padroni dell’impero romano? E quale posizione occupavano, nella vita pubblica – politica e sociale – e in quella privata, il culto e la religione? Se diamo ascolto allo storico romano Sallustio (86-35 a.C.) apprendiamo che, presso «i piú religiosi di tutti i mortali» («religiosissimi mortales», De coniuratione Caltilinae, 12, 3), la pia venerazione degli dèi (il «cultus pius deorum», come scrive Cicerone nel De natura deorum 1, 117) e la coscienziosa ottemperanza alle regole rituali preposte al mantenimento della pax deorum – del buon rapporto tra uomini e dèi –, la religio, insomma, era onnipresente. In ogni situazione esistenziale, in ogni occasione o decisione da prendere, si cercava la comunicazione con gli dèi: per indagare la loro volontà, perorare la loro benevolenza e tributare loro onore e ringraziamento. Non sorprende cosí che, con l’espansione di Roma a potenza mondiale e il conseguente intensificarsi dei contatti culturali con altri popoli, venne a crearsi, anche sul piano dei rapporti con la religio, un nuovo e ricchissimo quadro di riferimento, caratterizzato dalla contemporanea presenza di divinità, di culti, di messaggi e convinzioni tra le piú diverse. Nel corso del tempo e da un luogo all’altro, la religio divenne lo specchio dei mutamenti culturali e sociali, dei cambiamenti delle strutture politiche, delle stesse preferenze individuali. Il politeismo di Roma appare come un conglomerato di elementi tra i piú diversi, che non solo coesistono, ma interferiscono e interagiscono tra di loro. Per secoli, la vita religiosa di Roma e le tradizioni cui si ispira, si plasmano lungo un percorso evolutivo che conosce infinite trasformazioni e nuove creazioni.

una religione piú umana? Di questo «pluralismo» religioso fanno parte i cosiddetti «culti orientali», da un decennio al centro di indagini e ricerche che ne stanno tracciando un’immagine nuova e diversa. Per quasi un secolo, infatti, la loro interpretazione era rimasta legata ai presupposti teorici dello storico delle religioni belga Franz Cumont (18861947) il quale, nella sua epocale opera Le religions orientales dans le paganisme romain (Le religioni orientali nel paganesimo romano 1906), descrisse i culti di Mitra, di Iside e Serapide e della Mater Magna/ Cibele come religioni salvifiche a carattere misterico, importate dall’«Oriente» dell’impero, dalla Persia, dall’Egitto, dall’Asia Minore e dalla Siria. Per Cumont, questi culti avrebbero segnato il passaggio evolutivo dal paganesimo politeista al monoteismo cristiano, rappresentando una sorta di «teologia» della redenzione, promotrice di una moralità superiore, in grado di offrire ai propri adepti risposte piú adeguate alle loro necessità psichiche e spirituaa r c h e o 65


speciale • culti orientali

ALL’INSEGNA DEL SEGRETO. I CULTI MISTERICI NELL’ANTICHITà Sin dal VII-VI secolo a.C. si diffusero, nel mondo greco (e, in seguito, in quello romano), i misteri, pratiche religiose incentrate sull’iniziazione rituale (myesis in greco, initiatio in latino) che trasformava i pretendenti seguaci in «misti», ai quali era imposto il voto di massima segretezza. Tra i principali culti misterici dell’antichità figurano quelli eleusini (da Eleusi, in Grecia) dedicati a Demetra, la dea delle messi, e a sua figlia Persefone, e quello tributato a Dioniso-Bacco, dio del vino e dell’estasi. Un sottogruppo di quest’ultimo era rappresentato dagli Orfici, i seguaci del mitico cantore Orfeo. Per quanto è dato di sapere, durante le cerimonie religiose, similmente a quanto in seguito accadrà nei cosiddetti «culti orientali», i sacerdoti procedevano alla rivelazione di segreti divini o, addirittura, mettevano in scena il manifestarsi della divinità stessa.

li di quanto non lo facesse il paganesimo romano, improntato a un rapporto prosaico, quasi commerciale, di do ut des, tra il singolo e la divinità. Sempre secondo la teoria di Cumont, le religioni orientali avevano svolto una duplice funzione: da una parte avrebbero inaugurato il processo di disgregazione che portò al tramonto del politeismo romano, dall’altra avrebbero aperto la via a un nuovo, avveniristico credo religioso, quello del monoteismo cristiano.

cumont rivisitato Oggi, per quanto l’opera dello studioso belga rappresenti ancora una pietra miliare negli studi delle religioni antiche, la sua teoria è considerata ormai obsoleta e ne sono stati evidenziati i condizionamenti dettati dal contesto sociopolitico e dallo sfondo scientifico-teorico da cui aveva preso forma (vedi box qui sotto). Seppur discussa e criticata, rimane ancora in uso, però – forse per mancanza di un’alternativa adeguata –, l’espressione «culti orientali». Le piú recenti ricerche partono dal presupposto che i diversi culti in oggetto non appartengano a un insieme omogeneo, bensí debbano essere esaminati come fenomeni singoli e indipendenti: le indagini si concentrano sulla questione relativa all’effettiva – o fittizia – origine orientale delle singole divinità e del loro culto, sui meccanismi e sulle tappe della loro distribuzione, sui processi di trasformazione e acculturazione cui furono sottoposti. Da una nuova lettura iconografica e della loro «strategia rappresentativa» emerge, inoltre, che i cosiddetti «culti orientali» conobbero una loro storia formativa ben all’interno stesso della cultura romana, contribuendo forse – secondo un’ipotesi da approfondire – a creare i termini di un’ interessante rapporto dialettico tra «identità romana» ed «estraneità non romana» (reale o fittizia che fosse). Le scoperte archeologiche degli ultimi decenni hanno, poi, gettato nuova luce su riti e pratiche cultuali, nonché sul rapporto che lega i «culti orientali» all’universo ideologico e rituale dei culti misterici greco-romani. Oggi gli studi si prefiggono di rispondere a una serie di domande di carattere sociale e psicoloA sinistra: statuetta in bronzo raffigurante Dioniso/Bacco, da Pompei. I sec d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

66 a r c h e o

MITRA E L’ERRORE DI CUMONT Tra il 1896 e il 1899, l’archeologo e storico delle religioni belga Franz Cumont (1868-1947) pubblicò la sua monumentale opera in due volumi, Textes et Monuments relatifs aux Mystères de Mithra (Testi e monumenti relativi ai misteri di Mitra). Per una singolare coincidenza, proprio mentre stiamo preparando questo speciale, l’Academia Belgica di Roma (alla quale Cumont aveva donato la


gico: quale fu l’ambiente da cui provenivano gli adepti dei culti, in cosa consistette il fascino che esercitarono sulla popolazione, quale fu la loro influenza sulla vita quotidiana delle persone, sulla società e sullo Stato? Un altro, affascinante, aspetto riguarda il rapporto tra i «culti orientali» e il cristianesimo delle origini. Fermo restando che l’ipotesi evolutiva postulata da Cumont (i culti orientali come «motore» del passaggio dal politeismo pagano al monoteismo cristiano) sia, ormai, ritenuta obsoleta, è, tuttavia, impossibile non riconoscere parallelismi comuni ai due ambiti religiosi, dovuti verosimilmente al contesto esistenziale e agli universi di riferimento ideologici dei loro seguaci. Universi di riferimento che, per entrambe le realtà, si manifestano a noi attraverso un diffuso repertorio iconografico, riprodotto su oggetti d’uso quotidiano, Nella pagina accanto, a destra: nei rilievi dei sarcofagi o nelle pitture parietali delle catacombe. la copertina del volume Les Mystères

qualche lontana reminiscenza Tuttavia, da un semplice sguardo alla storia e all’evoluzione del primo cristianesimo, appare evidente come devozione e arte del monoteismo cristiano abbiano dato origine a una tradizione viva che perdura fino ai giorni nostri; mentre dei «culti orientali» permangono pochi e impercettibili «relitti»: come la ricorrenza di alcune festività cristiane, tra cui quella di Ognissanti o la Commemorazione dei defunti (il 1° e il 2 novembre) che, entrambe, coincidono con i giorni di un’antica festività dedicata a Iside; o quella dell’Annunciazione (25 marzo), la cui data corrisponde alla ricorrenza di una festa di primavera in onore della Magna Mater; o, infine, quella del 25 dicembre, che celebrava la nascita di... Mitra, identificato con il Sol Invictus, l’invincibile dio solare! Nelle pagine che seguono presentiamo un’introduzione ai protagonisti dei principali di questi culti e, in conclusione, un saggio dello storico Manfred Clauss. In esso lo studioso analizza il conflitto che, alla fine del IV secolo, vede il piú affascinante dei culti orientali, quello del dio Mitra, soccombere di fronte a un avversario, lui sí, davvero invincibile...

sua biblioteca) ha dato alla stampa, per i tipi dell’Editore Aragno, una nuova edizione critica del volume Les Mystères de Mithra (1900), nel quale il grande studioso belga riuní le conclusioni delle sue ricerche sul mitraismo. Nel 1912, in seguito a un’accesa polemica accademica, Cumont abbandona il natio Belgio e, da quell’anno, sceglie di vivere tra Roma e Parigi. Nel 1922, conduce gli scavi nel grande sito (fino ad

de Mithra di Franz Cumont, appena riedito dall’Academia Belgica di Roma per i tipi dell’editore Aragno. In basso, a sinistra: ex libris di Franz Cumont, con la data del 1918, ispirato all’iconografia del Mitra tauroctono. Qui sotto: Franz Cumont (a sinistra) e Michail Rostovtzeff nel mitreo di Dura Europos (Siria).

allora sconosciuto) di Dura Europos, sulle rive dell’Eufrate, nell’intento di trovarvi le conferme archeologiche alla sua convinzione circa le origini orientali dei culti mitraici. Ma, come abbiamo visto, le sue speranze rimarranno deluse. Come spiega Susanne Erbelding in queste pagine, la ricerca contemporanea ha confutato «l’ipotesi orientale» di Cumont: cosí, se fino agli anni Settanta

del secolo scorso il culto di Mitra poteva ancora vantare una lontana discendenza «iranica», oggi esso è considerato come un fenomeno originato essenzialmente in ambito greco e romano. Rimane il fatto che l’opera di Cumont rappresenti una pietra miliare, imprescindibile per chiunque voglia affrontare il vasto tema della diffusione del culto di Mitra nell’impero romano. A. M. S. a r c h e o 67


speciale • culti orientali

Cibele, la Grande Madre degli dèi

68 a r c h e o

Statua in marmo raffigurante la Magna Mater/Cibele assisa sul trono affiancato da leoni, dall’area sacra della Magna Mater di Ostia antica. Seconda metà del III sec.d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.


I

n Asia Minore, già nel XIII secolo a.C. gli Ittiti adoravano divinità protettrici materne – per esempio «Kubaba», la dea della città siriana di Karkemish – e anche i successivi regni dei Frigi e dei Lidi conoscevano una divinità di nome «matar kubileya» o «Kybebe». A partire dal VII secolo a.C., Kybebe fa il suo ingresso nel mondo ellenico come Cibele, la Megále Meter o «grande madre» di tutti gli dèi. Verso il II secolo a.C. Cibele appare a Roma, dove subisce una essenziale trasformazione, prima che il suo culto si diffonda in tutte le parti dell’impero romano. Lo storico Tito Livio racconta la versione romana dell’arrivo della dea nella capitale: quando, durante la seconda guerra punica (218-201 a.C.), il generale cartaginese Annibale era giunto con il suo esercito fino «alle porte di Roma», l’oracolo dei libri sibillini fece notare ai Romani che «mancava la madre». Il senato inviò subito una legazione al santuario centrale della Magna Mater/Cibele a Pessinunte in Frigia, che da lí tornò con un idolo della Dea Madre, probabilmente un meteorite nero. I Cartaginesi si ritirarono e l’idolo fu collocato in un nuovo santuario sul Palatino. Qui, presso le residenze dei senatori e dei futuri palazzi imperiali, Cibele trovò la sua nuova dimora, quasi fosse la dea nazionale di Roma. La Dea Madre, però, possedeva un carattere ambiguo e imprevedibile: il mito la dipinge come una divinità della natura dai tratti arcai-

ci, proveniente dalla selvaggia Frigia, padrona di crescita e di declino, di vita e di morte, accompagnata dai suoi animali, gli indomabili leoni, e dal tamburello, il suo strumento musicale dal suono sordo ed esotico. Il suo amante, il giovane mortale Attis, a causa della sua infedele passione per una donna, verrà punito con la follia: egli si rescinde i genitali e muore per le ferite riportate. L’arte antica caratterizza il frigio Attis con il tipico copricapo e i lunghi pantaloni, ma anche attraverso il suo atteggiamento «esibizionista» (vedi l’immagine a p. 71), che ne prefigura il tragico destino. A questi eventi mitologici faceva riferimento la festa primaverile ufficiale della Magna Mater, celebrata in molte città romane con sacrifici, processioni e rappresentazioni teatrali del mito di Attis, caratterizzate da riti esotici, tra cui la bizzarra danza rituale dei sacerdoti (i cosiddetti «archigalli», eunuchi che si erano evirati a imitazione di Attis) che si flagellavano fino a sanguinare. Poiché le usanze cultuali dei Romani non contemplavano l’automutilazione e la castrazione umana era di solito proibita, è da presumere che il rito fosse di diretta derivazione da un’antica tradizione frigia.

Rilievo votivo in marmo raffigurante Attis, da Ostia antica. II sec. d.C. Ostia, Museo Ostiense.

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Britannia

speciale

la diffusione del culto della magna mater nell’impero romano

Oceanus Britannicus

Oceanus Atlanticus

Germania inf.

Gallia Belgica

Gallia Lugdunensis Da

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nu

Re

Mare Cantabricum

Germania sup.

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Raetia

Aquitania

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Gallia Narbonensis s Tagu

Hispania Lusitania

Italia

Hispania Tarraconensis

Hispania

Alpes Graiae et Poeninae Alpes Cottiae Alpes Maritimae

Baetica

Roma

Sardinia

Mare Tyrrhenum (Mar Tirreno)

Mare Ibericum Mauretania Tingitana

Mauretania Caesariensis Sicilia Numidia

In basso: Leptis Magna (Libia). I resti del tempio in onore della dea Cibele.

Africa

Presenza accertata di un santuario Supposta presenza di un santuario Rinvenimenti legati al culto Frigia Impero romano Confine dell’impero Confine dell’impero: limes (mura e/o vallo fortificato) Confine dell’impero: singoli castelli lungo il limes Confine dell’impero: fiumi Confine delle province

N 0

70 a r c h e o

400 Km

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Pannonia sup. Dacia Pannonia inf. Pontus Euxinus (Mar Nero) Dalmatia

Moesia sup.

Mare Adriaticum (Mare Adriatico)

Moesia inf. Pontus et Bithynia

Thracia Macedonia

Pessinus Mare Aegaeum (Mar Egeo)

Epirus Mare Ionium (Mar Ionio)

Pergamum

Cappadocia

Asia

Achaia

Galatia

Lycia et Pamphylia

Eufra

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Cilicia Syria

Mare Nostrum (Mar Mediterraneo)

Creta

Iudaea

Cyrene

Arabia lo Ni

Aegyptus

In connessione con il sacrificio del toro, nel quale giocava un ruolo preponderante la castrazione dell’animale, si manifesta, nel IV secolo, un nuovo cambiamento nella concezione del culto e della divinità. A fronte del declino dell’impero, ormai in mano agli imperatori cristiani, l’aristocrazia senatoria pagana propose il ritorno agli antichi valori e alle divinità di Roma. Punto di riferimento di questa opposizione politica, sociale e religiosa divenne la Magna Mater con il suo santuario tardo-antico, il Phrygianum o Vaticanum, situato nel luogo dell’attuale piazza San Pietro, di fronte alla basilica paleocristiana.

In alto: statua in bronzo raffigurante Attis, rinvenuta nella Mosella, presso Treviri. II-III sec. d.C. Treviri, Rheinisches Landesmuseum.

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speciale • culti orientali

Giove Dolicheno, un fulmine dalla Siria

P

atria di Giove Dolicheno e punto di partenza del suo culto era la città di Doliche (oggi Dülük) in Anatolia, al quale il dio deve il suo appellativo. Una volta la città faceva parte del paesaggio culturale nord siriano della Commagene, prima che, nel 72 d.C., entrasse a far parte dell’impero romano. Dal 2001, scavi archeologici sulla montagna Dülük Baba Tepesi, nella provincia di Gaziantep in Turchia, hanno riportato alla luce il santuario considerato il nucleo del culto. Dagli scavi è emerso che la venerazione del dio siriano o ittita del fulmine e della tempesta, Hadad/Teshub, godeva qui di una tradizione secolare. In epoca romana, la divinità subí una reinterpretazione come Giove Dolicheno, dio del cielo e della tempesta. L’arte figurativa ne conserva le evidenti influenze vicino-orientali: raffigurato seduto o in piedi sul dorso di un toro, mentre brandisce nella mano destra una scure e una folgore in quella sinistra, il dio incarna il potere e la forza cosmico-naturale. Nella sua forma romana, Giove Dolicheno appariva in abito militare e corazza, anche se i

Busto in argento di Giove Dolicheno, dal Colle del Piccolo S. Bernardo. II sec. d.C. Aosta, Museo Archeologico Regionale.

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pantaloni lunghi e il copricapo frigio rinviavano alla sua origine orientale. Anche se non ricevette mai gli onori di un culto ufficiale, Giove Dolicheno, riverito come «il migliore e il piú grande», era considerato il protettore dell’imperatore e dell’impero, nonché patrono dei soldati. Molti dei suoi seguaci appartenevano all’esercito, eppure il suo non fu un culto esclusivamente «militare»: Giove Dolicheno era venerato come salvatore e protettore del benessere privato anche da una vasta clientela civile, comprese le donne. A partire del II secolo d.C., nel corso di un rapido processo di «globalizzazione», l’antica divinità poliade siriana venne ben presto trasformata in uno dei quindici piú importanti dèi dell’impero romano. Il fulcro del suo culto è attestato in particolare nelle regioni della Germania, della Pannonia e della Gran Bretagna, soprattutto lungo i confini dell’impero. La città di Roma era, essa stessa, centro «internazionale» del culto.

I reperti archeologici provenienti dai santuari di Giove Dolicheno offrono indicazioni preziose relative alla pratica del culto: in genere si tratta di santuari relativamente piccoli, nei quali la comunità religiosa si riuniva per banchetti rituali. Un’ulteriore caratteristica del culto è la presenza di triangoli cesellati di bronzo, che, verosimilmente, non fungevano solo da offerte votive, ma venivano utilizzati come vessilli durante le processioni. Non è facile stabilire quale fosse la particolare attrattiva esercitata dal culto di Giove Dolicheno presso i Romani: era forse l’aura guerriera e orientale della divinità, cosí strettamente associata all’immagine imperiale? O forse la decadenza del culto è da mettere in relazione con la destabilizzazione dell’impero agli inizi del III secolo e l’avvento dell’anarchia militare. In seguito, il culto sopravvisse ancora in alcune parti (come, per esempio, nella natia Doliche) fino alla seconda metà del IV secolo, prima di cadere in completo oblio. In alto: gli scavi del santuario di Giove Dolicheno a Doliche, presso l’odierna Gaziantep, in Turchia sud-orientale. A sinistra: triangolo votivo in bronzo cesellato, con raffigurazione di Giove Dolicheno in piedi sul toro, da Nida-Heddernheim. 175 d.C. circa. Wiesbaden, Museo.

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speciale • culti orientali

Iside, l’egiziana padrona del destino

A

partire dal III millennio a.C., Iside, sorella e moglie di Osiride, il «divino Faraone» e sovrano degli Inferi, fu venerata come dea primordiale e madre universale dell’Egitto. In epoca tolemaica (33231 a.C.) il culto fece il suo ingresso nel mondo greco, poi, verso la fine del II secolo a.C., si propagò nelle città portuali romane, da dove approdò nell’Urbe. Inizialmente, a Roma il culto di Iside era guardato con sospetto e, in alcuni casi, fu anche vietato. Le vicende che seguirono alla conquista dell’Egitto da parte di Ottaviano, nel 31 a.C., accelerarono, però, la sua accettazione fino a che, nel II secolo d.C., Roma divenne il «sacro centro» della dea. Durante tutta l’età imperiale il culto di Iside si affermò come fenomeno onnipresente e, sebbene plasmato da secoli di elaborazioni in ambito grecoromano, esso seppe conservare la sua connotazione essenzialmente «egiziana». Per i Romani, Iside era una dea universale, onnipotente sovrana del mondo, identificata con la stragrande maggioranza delle altre divinità femminili quali Demetra, Minerva, Venere, For tuna. «Multiforme», «una che è tutte», «con i mille nomi», era padrona del destino e assisteva uomini e donne in tutte le circostanze della vita. Iside godeva di particolare popolarità in quanto «dea delle donne»: lo scrittore satirico Giovenale ricorda il caso di una donna romana che tanto esagerataA sinistra: statua in marmo bianco e nero raffigurante Iside, da Napoli. II sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

In basso, sulle due pagine: modellino ricostruttivo del tempio di Iside a Pompei. Karlsruhe, Badisches Landesmuseum.


mente venerava Iside da recarsi al tempio della dea strisciando sulle ginocchia finché sanguinassero. Già nell’antica mitologia egizia Iside rappresenta la moglie devota che, dopo lunga e faticosa peregrinazione, ritrova suo marito Osiride morto e lo fa resuscitare. La dea è anche la madre premurosa che protegge suo figlio Horus da tutti i mali. Nell’arte è spesso rappresentata come Iside lactans, mentre allatta il piccolo Horus: in questo motivo iconografico, che vanta una tradizione risalente all’Egitto del I millennio a.C., diversi studiosi hanno riconosciuto il modello che ha ispirato la rappresentazione della «Madonna con il bambino». L’iconografia romana caratterizzò anche Iside come divinità «straniera», proveniente dall’Egitto, con la veste annodata sopra il petto che riprende il segno Ankh, il simbolo egiziano della vita, ma anche con il copricapo in stile egiziano, il sistro e un vaso d’acqua. Quest’ultimo rimanda alla potente e benefica «sacra acqua del Nilo», usata nei santuari di Iside In alto: stele funeraria raffigurante un defunto introdotto al cospetto del dio Osiride, affiancato da Iside, da Abido. Fine del I sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre. La scena è sormontata da un disco solare alato.

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Britannia

speciale

la diffusione del culto di iside nell’impero romano

Oceanus Britannicus

Oceanus Atlanticus

Gallia Belgica

Germania inf.

Gallia Lugdunensis Da

no

nu

Re

Mare Cantabricum

Germania sup.

Gallia

bi

Raetia

Noricum

Aquitania

Gallia Narbonensis s Tagu

Hispania Lusitania

Hispania Tarraconensis

Italia Alpes Graiae et Poeninae Alpes Cottiae Alpes Maritimae

Baetica

Roma

Sardinia

Mare Tyrrhenum (Mar Tirreno)

Mare Ibericum Mauretania Tingitana

Mauretania Caesariensis Sicilia Numidia

Africa Presenza accertata di un santuario Supposta presenza di un santuario Rinvenimenti legati al culto Impero romano Confine dell’impero Confine dell’impero: limes (mura e/o vallo fortificato) Confine dell’impero: singoli castelli lungo il limes Confine dell’impero: fiumi Confine delle province

Africa Proconsularis

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A sinistra: statua raffigurante una sacerdotessa addetta al culto di Iside, da Taormina. II sec. a.C. Palermo, Museo Archeologico Regionale «A. Salinas.»

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o

400 Km

durante i riti di purificazione o benedizione della statua di culto. L’aspetto «egiziano» del culto di Iside non si limitava, però, a una semplice «forma egittizzante» esteriore, ma riprendeva una tradizione vera, anche se ellenizzata e romanizzata. Lo dimostrano due riti particolari: la cerimonia mattutina dell’apertura del tempio con il lavaggio e l’alimentazione della statua di culto, e le rappresentazioni teatrali del mito di Osiride, forse allestite durante le celebrazioni misteriche della dea. La cerimonia di iniziazione era, presumibilmente, allestita come un viaggio nell’aldilà, con un incontro della morte e la visione


Pannonia sup. Dacia

In alto: rilievo in marmo bianco raffigurante una festa isiaca, da Ariccia (Roma). I-II sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo.

Pannonia inf. Pontus Euxinus (Mar Nero) Dalmatia

Moesia sup.

Mare Adriaticum (Mare Adriatico)

Moesia inf. Pontus et Bithynia

Thracia Macedonia Mare Aegaeum (Mar Egeo)

Epirus Mare Ionium (Mar Ionio)

Cappadocia

Asia

Achaia

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Pamphylia

Mare Nostrum (Mar Mediterraneo)

Syria

Creta

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Alexandria

lo

mistica della divinità, che all’iniziato assicurava salvezza e redenzione dopo la morte, benessere e felicità durante la vita. «Siate fiduciosi, voi iniziandi, perché Osiride è salvato: anche a voi sarà data salvezza dal tormento!», cosí lo scrittore tardoantico Firmico Materno riferisce la parola d’ordine dei misteri di Iside. A questo proposito, un’eccezionale testimonianza viene offerta dal romanzo Le metamorfosi, o L’asino d’oro dello scrittore Apuleio (125-170 circa): egli descrive come la vera e propria iniziazione fosse preceduta da diversi giorni di preparazione, segnati da meditazioni, preghiere, digiuni e riti depurativi. La

Arabia Ni

Aegyptus

Memphis

cerimonia si concludeva con una specie di «festa di compleanno» attraverso la quale l’aspirante mistico diventava membro effettivo della comunità. Tuttavia, nemmeno Apuleio rivela il segreto ultimo del culto, che ebbe vita piuttosto lunga (ne troviamo tracce in età cristiana, a File, in Egitto, ancora nel VI secolo): «Forse, curioso lettore, – scrive l’autore dell’Asino d’oro – tu sarai in ansia e vorrai sapere che cosa in seguito fu detto e fu fatto e io volentieri te lo direi se mi fosse lecito e tu lo sapresti se ti fosse lecito sentirlo; ma lingua e orecchie peccherebbero entrambe di temeraria curiosità» (Met. XI,23,6). a r c h e o 77


speciale • culti orientali

mitra perde la testa... ma poi la ritrova!

Mitra e l’uccisione del toro

L

e origini di Mitra, la piú amata tra le cosiddette «divinità orientali», sono da ricercare – almeno stando ai Romani – in Persia. Tracce del suo culto sono documentate in tutto l’impero romano, per un periodo che va dal I al III secolo: dalla Scozia all’Egitto, dalla Spagna al mar Nero e alla Siria e, in particolare, nelle province del confine settentrionale. In assenza di testimonianze scritte sui contenuti del culto e in base alla mitologia, le sue rappresentazioni monumentali sono veri e propri «libri illustrati», come suggerisce lo storico Manfred Clauss, «da sfogliare piú con curioso interesse che con la pretesa di poter comprendere». Sui rilievi cultuali il dio è raffigurato secondo un’iconografia standardizzata che lo ritrae nell’atto di uccidere il toro (tauroctonia). Il sacrificio dell’animale, che incarna la fertilità e la forza vitale, è una metafora della trasformazione della vita e della rinascita dalla morte. Mitra, venerato come «Sole invincibile» (Sol Invictus) era preposto al controllo di questo ciclo perpetuo. In alcuni casi, con riferimento all’invocazione di Mitra come «dio creatore» (deo genitori) e «signore del mondo» (cosmocrator), la scena dell’uccisione del toro è interpretata come simbolica creazione del mondo. Di particolare rilievo è la rappresentazione del dio con attributi che lo identificano come «straniero»: i pantaloni lunghi e il berretto frigio indossato da Mitra erano considerati, in ambito greco-romano, costumi tipici degli orientali. 78 a r c h e o

In alto: rilievo con tauroctonia, dal mitreo sotto la chiesa di S.Stefano Rotondo, a Roma. Fine del III sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano. In basso e nella pagina accanto: il grande rilievo mitraico di Tor Cervara (Roma), prima e dopo la reintegrazione del frammento con la testa di Mitra, attualmente esposto in mostra al Museo regionale di Karlsruhe.

Il 15 maggio 1964, durante un sopralluogo a Tor Cervara, nel quadrante nord-est di Roma, presso la via Tiburtina, un impiegato scese nel cratere scavato nel 1943 da una bomba e penetrò nella sottostante caverna. Parti del soffitto erano crollate, ma l’uomo constatò che la cavità era stata intonacata e che la pietra scura delle pareti era lavorata. Pur avvolti dall’oscurità, vide numerosi frammenti di pietra che giacevano tutt’intorno e che risultarono essere i resti di un rilievo. Subito informate, le autorità competenti recuperarono circa 57 frammenti di marmo lunense, dei quali fu tentata la ricomposizione (poi inserita nel resoconto del ritrovamento, pubblicato nel 1965). Il rilievo misura 2,50 m di lunghezza, 1,26 di larghezza e 26 cm di profondità, e rappresenta Mitra nella sua forma canonica, cioè quella del dio che uccide il toro. È affiancato da due portatori di fiaccole, Cautes e Cautopates, e dalle divinità cosmiche del sole e della luna. Si tratta dunque di un manufatto votivo, riferibile a un mitreo sotterraneo. L’opera va annoverata stilisticamente in ambito romano, fra le sculture di alta qualità della metà del II secolo d.C. Risultò particolarmente deplorevole, quindi, che presentasse alcune lacune, fra cui: la testa del toro, quelle di Mitra e della Luna e il volto di Cautopates. Elisa Lissi Caronna, autrice della relazione sul ritrovamento, ipotizzò che l’esplosione della bomba avesse disintegrato i frammenti mancanti, ch’erano quindi da ritenersi


irrecuperabili. Il rilievo fu quindi affidato al Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano (già Museo delle Terme). Dodici anni piú tardi a Jürgen Thimme, conservatore dell’Antikensammlung del Museo Regionale di Karlsruhe, fu proposto l’acquisto di una testa di Mitra, dichiarata come genericamente proveniente da Roma e già da molti anni in possesso di un collezionista bernese. L’acquisto fu effettuato nel 1976. Già prima del trasporto a Karlsruhe era stato eseguito un calco in gesso del reperto, consegnato all’Istituto Archeologico di Berna: quella replica e la lettura dell’articolo di Elisa Caronna destarono l’interesse di Rolf A. Stucky, il quale, dopo una visita ai depositi del Museo alle Terme, fu il primo a supporre che la testa di Karlsruhe appartenesse al rilievo di Tor Cervara. Lo studioso tentò una prima ricomposizione, anche se solo tramite un collage su carta: il risultato fu cosí convincente, che a Karlsruhe si decise di trattare con le autorità italiane la possibilità di una riunione dei frammenti. Com’era prevedibile, la reazione fu positiva, ma all’obiettivo comune di reintegrare il rilievo si frapposero gli ostacoli giuridici che richiedevano un chiarimento circa l’acquisizione e il possesso del pezzo da parte del museo tedesco.

Al momento dell’acquisto del ritratto di Mitra, nel 1976, in Germania non era ancora richiesta alcuna indicazione di provenienza dei manufatti antichi. Né la testa offerta in vendita era ricercata, mentre quella del rilievo di Tor Cervara risultava distrutta dal bombardamento. E se Stucky non avesse notato la relazione tra il frammento e il rilievo, la testa di Mitra sarebbe ancora considerata perduta. Solo nel 2007 la Germania firmò la Convenzione dell’UNESCO in difesa del patrimonio culturale. Venne cosí regolata la restituzione dei beni culturali illegalmente espatriati, stabilendo che di quelli illegalmente importati in Germania dopo il 1992 la restituzione può essere richiesta dai Paesi di provenienza. Ma come regolarsi per il periodo che va dal 1970 al 1992? Il problema era noto, ma non esisteva ancora una normativa, e non esiste quindi una prassi istituzionalizzata da applicare in questi casi. La soluzione va valutata caso per caso. Nel caso della testa di Mitra il Badisches Landesmuseum ha nuovamente preso l’iniziativa per elaborare un procedimento vantaggioso per entrambi le parti. Nell’ambito dei preparativi per la mostra di cui si parla in questo speciale, gli organizzatori si recarono nell’estate del 2012 a

Roma. Avevano con sé la lista degli oggetti da chiedere in prestito, ma anche una foto della testa del Mitra. Durante il colloquio con i responsabili della Soprintendenza fu subito chiaro che entrambe le parti auspicavano la reintegrazione. Ma come realizzare il progetto con vantaggio per entrambe le parti? Una soluzione soddisfacente per entrambe le parti si può trovare solo in una cooperazione a lungo termine fra i musei interessati: il Museo di Karlsruhe può offrire un prestito a lungo termine della testa a partire dal maggio 2014, quando questa sarà trasportata a Roma. Come contropartita, la Soprintendenza potrebbe offrire un prestito di lunga durata, oppure potrebbe garantire un’ampia disponibilità di fronte a richieste di prestiti per mostre future. Nel frattempo i 57 frammenti sono stati portati a Karlsruhe dove i restauratori del Badisches Landesmuseum e del Museo Nazionale Romano hanno ricollocato la testa di Mitra al suo posto. Se poi, in un futuro, la proprietà del reperto dovesse passare dalla Germania all’Italia, – cosa non improbabile – il mondo guadagnerebbe uno dei piú bei rilievi cultuali di epoca romana. E forse si potrà scrivere un altro capitolo della storia, se un solerte «successore» di Stucky dovesse rinvenire le teste ancora mancanti del toro e della Luna. Katarina Horst a r c h e o 79


Britannia

speciale

la diffusione del culto di mitra nell’impero romano Testa in stucco dipinto di Mitra, dal mitreo sotto S. Stefano Rotondo a Roma. Fine del II-inizi del III sec.d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano.

Oceanus Britannicus

Oceanus Atlanticus

Gallia Belgica

Germania inf.

Gallia Lugdunensis Da

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Re

Mare Cantabricum

Germania sup.

Gallia

bi

Raetia

Noricum

Aquitania

Gallia Narbonensis s Tagu

Hispania Lusitania

Italia

Hispania Tarraconensis Alpes Graiae et Poeninae Alpes Cottiae Alpes Maritimae

Baetica

Roma Ostia Sardinia

Mare Tyrrhenum (Mar Tirreno)

Mare Ibericum Mauretania Tingitana

Mauretania Caesariensis Sicilia Numidia

Africa Presenza accertata di un santuario Supposta presenza di un santuario Rinvenimenti legati al culto Impero romano Confine dell’impero Confine dell’impero: limes (mura e/o vallo fortificato) Confine dell’impero: singoli castelli lungo il limes Confine dell’impero: fiumi Confine delle province

Africa Proconsularis

N 0

Alcuni autori romani, infatti, lo descrivono come divinità persiana: eppure, sebbene una divinità di nome Mithra (un dio della giustizia, dei contratti e della lealtà) sia citata nei testi sacri persiani (Avesta) e in quelli indiani (Veda) dalla seconda metà del I millennio a.C., e anche nell’impero achemenide della Persia del V-IV secolo a.C. egli avesse un posto fra le divinità piú importanti, non si può ipotizzare una continuità di culto, né parlare di un processo di importazione dall’Oriente in Occidente. L’iconografia di Mitra in età romana smaschera il culto, piuttosto, come una creazione propria, nata a Roma, artificialmente ammantata da un’immaginaria aura esotica. 80 a r c h e o

o

400 Km

Maggiori e migliori informazioni sono ricavabili dalle ricerche archeologiche che hanno interessato i santuari di Mitra: i mitrei erano, perlopiú, piccoli edifici con un ambiente principale rettangolare, munito in genere di numerose offerte votive dei generi piú vari. Sulla parete centrale posteriore era collocata l’immagine di culto con l’uccisione del toro, mentre lungo le pareti erano poste panchine in muratura, molto simili alle antiche sale di banchetto, i triclinia. Resti di cibo e di interi corredi da tavola rinvenuti in alcuni di questi santuari dimostrando che i banchetti cerimoniali facevano parte integrante del culto. Poiché quello di Mitra è uno dei cosiddetti


Pannonia sup. Dacia

Rilievo con scena di tauroctonia. II sec. d.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

Pannonia inf. Pontus Euxinus (Mar Nero) Dalmatia

Moesia sup.

Mare Adriaticum (Mare Adriatico)

Moesia inf. Pontus et Bithynia

Thracia Macedonia Mare Aegaeum (Mar Egeo)

Epirus Mare Ionium (Mar Ionio)

Cappadocia

Asia

Achaia

Galatia

Lycia et Pamphylia

Eufra

te

Cilicia Syria

Mare Nostrum (Mar Mediterraneo)

Creta

Cyprus

Iudaea

Cyrene

Alexandria

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«culti misterici», i cui membri si sottoponevano ai riti iniziatici nella piú rigida segretezza, i mitrei potrebbero anche essere stati i luoghi in cui si svolsero queste cerimonie; il cui «mistero» fu, però, mantenuto tanto gelosamente da impedire che ne trapelasse anche la minima informazione: «Nessuno può essere iniziato ai misteri di Mitra prima di avere superato una serie di prove per farsi riconoscere sacro e costante» riporta un’enciclopedia bizantina del X secolo. Questa iniziazione consisteva, forse, nell’incontro con la divinità? Vi si inscenava un’uccisione simbolica dell’iniziando, seguita dalla sua «rinascita», secondo una consuetudine in

Arabia Ni

Aegyptus

Memphis

accordo con il sentimento religioso degli antichi? Non ci è dato saperlo. È documentata, all’interno del culto, una gerarchia di sette gradi di iniziazione: ma anche di questa si conosce ben poco, se non che i simboli e gli attributi fanno riferimento ai sette pianeti. I sette gradi costituivano la comunità dei mistici, una confraternita esclusivamente maschile. L’esclusione delle donne – è stato osservato – non favorí la sopravvivenza del culto il quale, dopo il divieto dei culti pagani sancito dall’imperatore Teodosio nel 391/92 e la successiva ostilità dei cristiani, sullo scorcio del IV secolo scomparve per sempre. a r c h e o 81


speciale • culti orientali

Mitra, Cristo e la disputa per il vero pane di Manfred Clauss

I luoghi dedicati al culto di Mitra (i cosiddetti «mitrei») oggi conosciuti sono piú di duecento, un dato riconducibile all’enorme diffusione che questo culto ebbe nella parte occidentale dell’impero romano, ma anche al fatto che i mitrei sono facilmente identificabili grazie alla loro peculiare architettura: un edificio rettangolare con un corridoio centrale che conduce a una parete di fondo, nella quale si apre una nicchia con l’immagine cultuale, il dio Mitra, rappresentato nell’atto di uccidere un toro. Durante questo atto, l’animale subisce una misteriosa metamorfosi: dalla sua coda emergono spighe di grano e dal sangue che fluisce dalla ferita infertagli si generano grappoli d’uva! Dalla morte del toro, dunque, si genera la vita, la sua uccisione diventa garanzia per accedere nell’aldilà. Dalla leggenda mitraica emerge, inoltre, l’importanza che il culto di Mitra attribuiva al pane e al vino (insieme all’acqua gli elementi base dell’alimentazione nell’antichità). L’ambiente principale del mitreo appare come una «sala da pranzo»: sui due lati lunghi del corridoio centrale sono due podi che fungevano da panchine per i membri del culto; alcuni di questi podi conservano ancora la modanatura sulla quale veniva deposto il vasellame da tavola. È palese la somiglianza con il triclinio della tradizione romana, un ambiente con tre letti conviviali disposti intorno a un tavolo centrale. Nei mitrei, il posto d’onore è sempre occupato dall’immagine cultuale del «padrone di casa», lo stesso Mitra. I mitrei appaiono, cosí, come sale da banchetto riservate a una ristretta cerchia di convitati, per i quali il 82 a r c h e o

In alto: Roma. Il mitreo conservato sotto la basilica di S. Clemente. Nella pagina accanto: ricostruzione del rito officiato all’interno di un mitreo.

pasto rituale doveva ricoprire un significato di fondamentale importanza. La piú suggestiva rappresentazione di un tale pasto comunitario è quella raffigurata su un rilievo proveniente dalla città di Konjic (Bosnia ed Erzegovina; vedi a p. 84). L’immagine è racchiusa, su entrambe i lati del rilievo, da due colonne, suggerendo che gli eventi rappresentati si svolgano all’interno di uno spazio chiuso, come, per esempio, una grotta di culto. Al centro della scena si notano due sacerdoti intenti al pasto. Il letto sul quale sono poggiati non è altro che lo stesso toro ucciso, di cui si riconoscono la pelle e la testa. L’animale sopraffatto è il simbolo della vittoria di Mitra che si intende celebrare, una vittoria che sarà foriera di successi anche per i seguaci del dio.

I due principali protagonisti della scena giacciono su un letto conviviale, appoggiati su cuscini, con il braccio sinistro – come è consuetudine durante il pasto – poggiato sul letto, mentre la mano destra è sollevata in gesto di benedizione. I sacerdoti sembrano pronunciare formule sacre destinate alle offerte disposte su un tavolino a tre piedi. Questo tavolino, su cui è convogliata l’attenzione dello spettatore, è rappresentato «dall’alto», contro ogni legge di prospettiva. Su di esso sono disposte alcune piccole pagnotte, incise a croce, affinché possano essere piú facilmente spezzate. Questo pasto terreno riproduce, a livello cultuale, il banchetto che Mitra stesso aveva consumato insieme al dio Sole, prima del loro comune viaggio sul cocchio solare, una scena riprodotta spesso,


A cosa sono dovute le straordinarie rassomiglianze tra il rito del convito mitraico e la celebrazione dell’eucaristia cristiana? Per Tertulliano e altri padri della Chiesa si trattava di un volgare «scimmiottamento» messo in atto dal Diavolo stesso…

soprattutto sui rilievi provenienti dalle province danubiane. Anche le testimonianze provenienti dalle regioni del Reno pongono particolare enfasi sul banchetto, raffigurato nei massimi dettagli: un rilievo da Ladenburg (BadenWürttemberg; vedi a p. 85) rappresenta la panchina sulla quale sono distesi Mitra e il dio Sole, ricoperta dalla pelle del toro; entrambe le divinità tengono un corno potorio nella mano. Sul tavolo, con gambe a forma di zoccoli di toro, si riconoscono un grappolo d’uva e una pagnotta incisa. Su un rilievo proveniente dalla città romana di Nida (l’odierna Heddernheim, distretto di Francoforte sul Meno) sono rappresentati Mitra e Sole, in piedi dietro l’imponente carcassa del toro, abbattuto dal superiore potere del dio e crollato in tutta la sua maestosità. Nella mano destra Mitra regge un recipiente per bere e, con la sinistra, riceve da Sole un grappolo d’uva – quasi in sostituzione del consueto corno potorio. Poiché la carcassa del toro riempie quasi tutto lo spazio della scena, manca il tavolo e, per questo motivo, sono raffigurati due servitori che accorrono ai due lati, recando cesti con piccole pagnotte. La rappresentazione fa parte di una tipologia di rilievi scolpiti su entrambe le facciate e munite di un dispositivo rotante (vedi a p. 86). In questo caso, la cornice dell’immagine rimane fissa, mentre il rilievo stesso ruota grazie a un perno centrale. Grazie a questo espediente, nel corso della celebrazione le due scene essenziali del culto – la tauroctonia (l’uccisione del toro) e il banchetto – potevano essere esibite nel momento opportuno. Quello che,

se si considera solo una delle due immagini, poteva sembrare una mera uccisione, acquista cosí ulteriore significato: morte e pasto rituale, con pane e vino, contribuiscono entrambe alla salvezza dei fedeli del culto. Ma rivolgiamo ora l’attenzione al cristianesimo. Comune a tutti i fedeli del vasto spettro delle comunità cristiane è la fede nella resurrezione di Gesú Cristo, garanzia e speranza dell’esistenza di una vita dopo la morte e della possibilità, per ogni cristiano, di risorgere. Sostiene san Paolo «che se non si dà risurrezione dai morti, neanche Cristo fu risuscitato! Ma se Cristo non fu risuscitato, è vana la nostra predicazione, vana la vostra fede» (1 Corinzi 15:13-14). La speranza dei cristiani è radicata nella successione o, meglio, nell’imitazione di Cristo, e di questa imitazione è parte essenziale la celebrazione dell’eucaristia, in diretto riferimento al convivio di Gesú e i suoi discepoli. Da Paolo in

poi, la ripetizione rituale dell’Ultima Cena rappresenta il modo in cui i cristiani celebrano il ricordo della morte di Gesú. E già in Paolo possiamo rilevare l’alta considerazione che, in questo contesto, l’apostolo riserva al pane e al vino. Fino a quando le dimensioni circoscritte della comunità dei fedeli lo consentivano, questa celebrazione commemorativa avveniva con un vero e proprio pasto, utilizzando spazi in cui trovavano posto diversi triclini. In seguito, al piú tardi partendo dagli inizi del II secolo, i cristiani celebrano il loro pasto rituale di domenica, nello stesso giorno che rivestiva un significato importante anche per i seguaci di Mitra, dio del Sole. La descrizione dettagliata di un tale culto eucaristico ci viene offerta dal padre della Chiesa Giustino di Nablus, il quale, verso la metà del II secolo, visse a lungo in un ambiente

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speciale • culti orientali In basso: calco di un rilievo con la rappresentazione del banchetto mistico dei fedeli di Mitra, da Konjic (Bosnia ed Erzegovina). Roma, Museo della Civiltà Romana. Al centro della scena si notano due sacerdoti intenti alla cerimonia.

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il persiano

Accanto al corvo si riconosce l’adepto con il copricapo che lo identifica come Perses (il Persiano), il quinto grado iniziatico.

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i sacerdoti

il soldato

I due protagonisti principali della scena giacciono su un letto conviviale, appoggiati su cuscini, con il braccio sinistro – come è consuetudine durante il pasto – poggiato sul letto, mentre la mano destra è sollevata in gesto di benedizione.

Sebbene mal conservata, la prima figura a destra può essere identificata con il Miles (il Soldato), il terzo grado iniziatico.

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il corvo

il leone

Il primo dei fedeli indossa la maschera del Corax (il Corvo), il primo dei sette gradi iniziatici del culto.

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Chiude la fila dei partecipanti al banchetto il fedele che indossa la maschera del Leo (il Leone), corrispondente al quarto grado iniziatico.

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A destra: rilievo con raffigurazione di Mitra e Sole durante un pasto rituale, da Ladenburg. Lobdengau, Museo Ladenburg.

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il toro

Il letto dei banchettanti non è altro che lo stesso toro ucciso, di cui si riconoscono la pelle e la testa.

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il pane

Poggiate su un tavolino, si vedono piccole pagnotte, incise a croce, perché possano essere spezzate più facilmente.

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pagano prima di convertirsi al cristianesimo: il capo della comunità, visto come l’imitatore di Gesú durante l’Ultima Cena – e dunque considerato il suo rappresentante –, formula una preghiera di elogio e di ringraziamento sopra il pane e un calice di vino misto ad acqua. Dopodiché, i servitori distribuiscono il pane e il vino ai fedeli. La descrizione sembra evocare una scena raffigurata su un monumento funebre di Roma, che ritrae una defunta che, guidata da un angelo, attraversa la porta celeste per dirigersi verso un banchetto (vedi a p. 86). La descrizione di Giustino può essere ben usata per comprendere anche la già citata rappresentazione del rilievo di Konjic, visto che è egli stesso a esprimere sorpresa per le somiglianze tra l’eucaristia cristiana e il banchetto mitraico: Giustino descriva la cerimonia cristiana non come un semplice pasto in cui si consumano pane e vino ordinari, ma in quanto consacrazione del cibo – nutrimento dei fedeli – che, attraverso la preghiera eucaristica, viene tramutato in carne e sangue di Cristo (come recitano i Vangeli). E il consumo della carne e del sangue a sua volta trasforma i fedeli che, attraverso l’atto eucaristico, acquistano la speranza nella resurrezione.

Dopo aver citato, nella sua opera (Apologie 1,66), le parole di Gesú («Fate questo in memoria di me, questo è il mio corpo» e «questo è il mio sangue»), Giustino spiega come «demoni malvagi» abbiano introdotto una simile pratica anche nei misteri di Mitra. Egli è ben consapevole, dunque, del corrispondente rituale mitraico, dei parallelismi esistenti tra le due celebrazioni, e non solo sul piano delle pratiche rituali, ma, verosimilmente, anche per quanto concerne le formule usate durante la consacrazione. Circa mezzo secolo piú tardi, verso il 200 d.C., il padre della Chiesa Tertulliano – grande conoscitore dei misteri mitraici – affermava che a «scimmiottare» le azioni dei sacramenti divini all’interno del culto di Mitra fosse proprio il Diavolo. Nel convito mitraico, quest’ultimo celebrava una presentazione del pane e inscenava una rappresentazione della resurrezione (De praescriptione haereticorum 40, 3-4). Il rischio di confondere i rispettivi banchetti rituali era, dunque, tutt’altro che scongiurato. Rimane il fatto che nei misteri mitraici, come nei riti iniziatici cristiani, Tertulliano aveva ravvisato l’espressione di una speranza per la vita eterna; nella comune convinzione che il consumo di pane e di vino – cibi metaforici oltre che a r c h e o 85


speciale • culti orientali

alimenti di questo mondo – fosse il viatico per la rinascita, per l’ascesa dell’anima verso la luce immortale. Tertulliano, dunque, stabilisce un rapporto diretto tra il banchetto mitraico, comunione cristiana e l’idea di «resurrezione». Può darsi che egli si riferisca a immagini e suggestioni letterarie, ma non si può escludere che avesse in mente anche delle immagini concrete. Forse il padre della Chiesa alludeva a una sequenza – spesso raffigurata come una successione di tre immagini – al cui centro è una scena di banchetto con Mitra e il dio solare, seguita da quella del viaggio di entrambe le divinità sul cocchio solare. Spesso il carro è rappresentato con un’inclinazione

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verso l’alto, in un moto ascensionale verso il cielo. Cosí come il dio Mitra, una volta completate le sue gesta terrene, ascendeva in cielo, anche l’iniziato al culto poteva sperare che la sua anima, con l’aiuto del dio, un giorno potesse ritornare nel regno della luce solare. Se consideriamo l’importanza che i cristiani attribuivano alla luce come simbolo celeste o di vita eterna (Cristo stesso, del resto, era una divinità solare), possiamo comprendere meglio l’osservazione

di Tertulliano. A prescindere dagli atti (che non conosciamo) svolti durante il culto mitraico, i seguaci di Mitra facevano uso di queste due immagini per «mettere in scena» il rapporto tra eucaristia e resurrezione. Ora, offerte votive di pane e di vino si trovano in quasi tutte le culture antiche e l’idea di un pasto comune, inteso come elemento unificante tra i credenti e tra questi e la divinità, è tratto distintivo di molte religioni. Se però, come nel caso sopra descritto, il banchetto mitraico poteva essere interpretato – dal punto di vista di un osservatore cristiano – come la «caricatura» dei misteri cristiani, è assai verosimile che ciò accadesse perché i due banchetti si svolgevano


Nella pagina accanto, in alto: le due facce del rilievo mitraico girevole di Nida-Heddernheim (Francoforte sul Meno), con raffigurazione della tauroctonia e del pasto rituale con Mitra e Sole. In basso: disegno di una pittura funeraria romana raffigurante un defunta condotta a un convito.

secondo identiche modalità rituali, e forse anche usando le medesime formule di benedizione. È bene ricordare, inoltre, che gli scritti di Giustino e di Tertulliano non erano diretti a un generico pubblico esterno, quanto piuttosto a quei cristiani, forse provenienti dal culto di Mitra, ai quali essi intendevano spiegare il nuovo o – per usare un espressione cara al cristianesimo – il «vero» punto di vista. E, sebbene a proposito delle similitudini appena descritte non si possa in nessun modo parlare di imitazione (dall’una o dall’altra parte), i cristiani vedevano la questione in maniera diversa: convinti di essere gli unici detentori della verità, bollarono le analogie presenti negli altri culti come banali «imitazioni» o, peggio, come volgari «scimmiottamenti». Fino a che i cristiani non poterono disporre di altri mezzi, l’unico modo era quello di mettere in guardia contro il culto di Mitra e i suoi banchetti. Il quadro mutò a partire da Costantino, quando – forti del sostegno imperiale – i cristiani abbandonarono le semplici raccomandazioni per scagliarsi con violenza contro tutte quelle comunità religiose considerate alla stregua di concorrenti. Intorno all’anno 400, il padre della Chiesa san Girolamo (autore della cosiddetta Vulgata latina) scrive una lettera a una donna cristiana, in cui elogia il prefetto di Roma degli anni 376/77 (lettera 107,2): «Non è forse vero che qualche tempo fa uno dei tuoi parenti, della stirpe dei Gracchi, prefetto della città di Roma, ha distrutto, smembrato e bruciato la grotta dedicata al dio Mitra e tutte le immagini prodigiose (...) e che per questo impegno ha preteso il battesimo di Cristo?». Quel prefetto

di Roma aveva messo in atto la distruzione di uno dei numerosi mitrei dell’antica capitale come proprio pegno d’ammissione al cristianesimo. Girolamo loda esplicitamente quell’azione, non riferendo semplicemente della distruzione del santuario mitraico, ma insistendo sui termini «distruggere», «smembrare» e «bruciare», offrendo cosí un ritratto inequivocabile della fanatica intolleranza che all’epoca vigeva tra i cristiani. Gli effetti di quella temperie possono essere illustrati anche grazie agli scavi archeologici. Valga l’esempio del mitreo rinvenuto a StrasburgoKoenigshoffen (Francia): qui, come in centinaia di altri casi simili, nell’area dell’altare si trovava un rilievo di culto, di circa 180 x 230 cm, con la raffigurazione della tauroctonia. Di questo grande rilievo gli scavi hanno recuperato piú di 360 frammenti, una chiara dimostrazione che l’altare era stato deliberatamente distrutto: una demolizione accuratamente pianificata ed eseguita, partendo dal distacco di tutte le parti sporgenti e proseguendo, poi, con la frantumazione in mille pezzi della lastra stessa. Infine, come se non bastasse, i frammenti furono sparpagliati per tutta la superficie del santuario. Con la fine del IV secolo si assiste al tramonto di gran parte dei mitrei e della stessa memoria di Mitra, cancellata assai piú sistematicamente di quanto non fosse accaduto per le vestigia degli altri culti. A quell’epoca, infatti, la disputa intorno al «vero» pane era stata decisa.

L’IMPERO DEGLI DèI. LA MOSTRA Le piú recenti ricerche sul tema dei «culti orientali» sono riassunte e presentate nella grande rassegna allestita al Museo regionale di Karlsruhe (Germania; foto in alto), dal titolo L’impero degli Dèi. Culti e religioni nell’impero romano, curata da Susanne Erbelding (nella foto qui sotto), autrice della prima parte di questo speciale. La mostra è accompagnata da un catalogo (in lingua tedesca) dal quale è tratto il saggio di Manfred Clauss.

dove e quando «L’impero degli Dèi. Culti e religioni nell’impero romano» Karlsruhe, Museo Regionale fino al 18 maggio Orario tutti i giorni, 10,00-18,00; lu chiuso Info landesmuseum.de (info anche in lingua inglese)

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storia • etruria dei misteri

dagli scavi di un importante abitato etrusco dell’alto lazio sono emerse testimonianze spettacolari delle sue architetture pubbliche e private. che oggi possiamo ammirare nelle sale del museo nazionale etrusco allestito nella rocca albornoz di viterbo

di Paola Di Silvio

acquarossa Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

la cittĂ dei tre colori 88 a r c h e o


S

e oggi siamo in grado di ricostruire stralci della vita quotidiana, domestica, privata degli Etruschi, tratteggiare l’aspetto delle loro case e delle loro città, ipotizzare usi e stili di vita, lo dobbiamo anche agli scavi effettuati in alcuni centri dell’Etruria meridionale interna. Qui l’indagine archeologica si è concentrata su abitati anonimi, talvolta nascosti da spesse coltri di

terreno, piuttosto che sulle monumentali e appariscenti necropoli di un popolo dotato di un estro tecnico e artistico innegabile. Per la conoscenza dell’edilizia abitativa e dell’urbanistica etrusca è stata fondamentale la scoperta di quello che, a tutt’oggi, si configura come il principale centro dell’area viterbese, identificato sul colle di san Francesco, pochi chilo-

Tutti i reperti e le ricostruzioni illustrati nell’articolo sono esposti nel Museo Nazionale Etrusco di Viterbo. Sulle due pagine: ricostruzione di un tratto del porticato che si apriva sul fronte dell’edificio C rinvenuto nell’area monumentale dell’abitato etrusco di Acquarossa, con decorazione costituita da terrecotte architettoniche realizzate a matrice e antefisse a testa femminile. 550-525 a.C.

metri a nord del capoluogo della Tuscia. Il nome Acquarossa, con cui viene attualmente indicato, deriva da quello di un suggestivo torrente, il cui alveo presenta una caratteristica colorazione rossastra, dovuta alla cospicua presenza di ossido di ferro. Il riconoscimento di un abitato arcaico sul colle di San Francesco risale all’inizio del Novecento, ma solo a partire dal 1966 furono avviate campagne di scavo regolari, che l’Istituto Svedese di Studi Classici a Roma, in collaborazione con la Soprintendenza per l’Etruria Meridionale, ha concluso nel 1978. Il pianoro occupato dai resti dall’abitato etrusco, si estende per circa 30 ettari, ed è delimitato da profonde gole di incisione, formate dall’azione erosiva dei torrenti Acquarossa e Francalancia. Le piú antiche testimonianze di frequentazione risalgono alla fine dell’VIII secolo a.C. e consistono in un gruppo di fondi di capanna di forma ovale, rinvenuti nella parte meridionale del colle.

scambi e commerci La vera fioritura del centro è invece da collocarsi tra il VII e il VI secolo a.C., quando esso appare aperto ai commerci con le grandi città etrusche costiere, soprattutto Cerveteri, e con l’area falisca, facilmente raggiungibile attraverso il Tevere e i suoi affluenti. I contatti si estesero anche oltre i confini dell’Etruria, come testimoniano le importazioni etrusco-corinzie, perlopiú provenienti da Vulci, e soprattutto le ceramiche importate dall’est della Grecia e le cosiddette coppe «ioniche», che probabilmente arrivavano ad Acquarossa attraverso uno dei maggiori centri etruschi della costa, che le conoscenze attuali non permettono di identificare. La popolazione dell’acropoli, considerando la sua estensione e densità abitativa, doveva raggiungere, nel periodo di massima espansione, i a r c h e o 89


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C

A

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In alto: pianta dell’area monumentale dell’abitato nella quale sono compresi due grandi edifici (A e C), aventi forse una funzione palaziale. Qui sotto: disegno ricostruttivo degli edifici A e C.

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Pisa

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Fiesole Arezzo

Volterra

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le attività domestiche I resti architettonici riportati alla luce consistono per la maggior parte in muri di fondazione, pavimenti di argilla, frammenti di tegole ed elementi decorativi in terracotta, che rappresentano l’elemento piú caratteristico degli scavi di Acquarossa. Il rinvenimento, tra i resti architettonici, di frammenti di ceramica – spesso vasellame da cucina e utensili per la tessitura – prova il carattere domestico degli edifici. Le piante delle numerose case scavate,

In basso: cartina dell’Etruria propria, tra le attuali regioni di Toscana e Lazio, con l’ubicazione del sito di Acquarossa, presso Viterbo.

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Le zone del pianoro sottoposte a saggi di scavo si trovano prevalentemente vicino ai suoi margini, laddove la terra si è andata accumulando dai punti piú alti, fino a un’altezza superiore a quella normalmente raggiungibile dagli aratri moderni.

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7000 abitanti, e la base economica dell’ importante centro era rappresentata dalle risorse del territorio. In primo luogo il vasto e fertile terreno agricolo, che ancora oggi caratterizza il paesaggio, e poi la grande riserva naturale rappresentata dai vicini Monti Cimini, che potevano fornire materiale da costruzione (querce e faggi) e scorte alimentari (noci e castagne). E infine vanno segnalati i giacimenti di metallo, principalmente ferro, che risultano essere stati sfruttati sin dalle prime fasi di vita dell’abitato, come documentano i resti di scorie e i frammenti di crogioli trovati in connessione con le capanne piú antiche, chiara testimonianza di un’attività estrattiva e anche della successiva lavorazione in loco del metallo.

C

Umbri Chiusi

Populonia Vetulonia

Saturnia

Perugia Orvieto

Acquarossa

Vulci Tarquinia

Mar Tirreno

Sabini

Falisci Veio

Cerveteri Roma


databili tra il 650 e il 550 a.C., e per la maggior parte reinterrate dopo la documentazione, non sono sempre sicuramente definibili, pur mostrando una sostanziale omogeneità. Un tipo di casa molto frequente era quella con due stanze in successione e ingresso non assiale, a cui talvolta venivano aggiunti altri ambienti, alcuni dei quali anche scavati nella roccia. Piú edifici si disponevano spesso attorno a un cortile, nel quale si svolgeva gran parte della vita quotidiana, compresa la preparazione dei cibi, mentre le stanze interne servivano per dormire, oppure potevano avere la funzione di magazzini per derrate o di ripostigli per attrezzi agricoli.

un agglomerato spontaneo La distribuzione degli edifici sul pianoro non sembra derivare da una progettazione urbanistica pianificata, quanto piuttosto da un modo di pensare pratico ed economico, e riflette soprattutto la capacità di adattarsi a un determinato contesto. L’immagine che ne deriva è quella di un agglomerato spontaneo e privo di fortificazioni: gli edifici situati sul bordo della rupe costituivano forse già di per sé una

mattoni crudi, canne e rami L’alzato delle case di Acquarossa poteva essere interamente realizzato in pietra, ma le strutture piú comuni dell’elevato erano realizzate in mattoni crudi o in graticcio (parietes craticii o opus craticium), come suggerisce il rinvenimento di pezzi informi di argilla cotta, che generalmente recano le impronte di rami o di canne e che sono tutto ciò che rimane di tali alzati. Infatti, quando un edificio realizzato con questa tecnica subiva un incendio, il fuoco cuoceva parte dell’argilla impiegata come rivestimento, trasformandola, appunto, in terracotta. Le murature a graticcio erano realizzate con una struttura portante, formata da pali verticali infissi nella roccia e collegati superiormente da una trave orizzontale, destinata a sostenere la copertura del tetto, ormai realizzato con tegole (tegulae), coppi (imbrices) e coppi speciali lungo la linea di colmo (kalypteres), il tutto poggiante su un’orditura lignea. Nei pali verticali, a metà circa dell’altezza, erano probabilmente inserite travi orizzontali. Un intreccio di canne o di rami, attorcigliati intorno alle travi orizzontali e fissati ai pali maestri, era destinato a sorreggere il rivestimento costituito da un impasto di argilla e fango, sul quale veniva steso uno strato protettivo di argilla piú fine, che costituiva la superficie del muro, talvolta dipinto. A sinistra: ricostruzione grafica di un muro realizzato con la tecnica a graticcio, attestata nelle case di Acquarossa.

A destra: l’anastilosi (rimontaggio) di un muro del lato corto verso sud del portico dell’edificio C, in opera quadrata. Il muro è stato ricostruito per un’altezza di 4 m. Di fronte si nota la base di una colonna ancora in situ. In basso: capitello in peperino dall’area meridionale del porticato dell’edificio C. VI sec. a.C.

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sorta di rafforzamento del «muro di difesa» naturale, rappresentato dalle ripide scarpate del colle. L’aspetto piú sorprendente evidenziato dagli scavi è stato il ritrovamento di una grande quantità di terrecotte policrome, ritenute in precedenza di uso esclusivo dell’architettura sacra o pubblica, mentre ad Acquarossa erano utilizzate per ornare i tetti delle abitazioni private. Nella prima fase (terzo quarto del VII secolo a.C.) le decorazioni fittili del tetto, pur rivelando rapporti con analoghe soluzioni note nel mondo greco, si differenziano a tal punto nei dettagli decorativi da far presupporre una elaborazione locale autonoma. Si nota una certa esuberanza decorativa, evidente nelle protomi a testa di grifo poste su alcuni coppi, nei motivi zoomorfi, in bianco su fondo rosso, di alcune tegole e lastre di rivestimento di travature lignee, che richiamano una caratteristica classe ceramica di produzione ceretana («red-ware») e i cosiddetti piatti «ad aironi», ceretani e veienti. Agli inizi del VI secolo a.C. compaiono nella decorazione dei tetti al-

cuni elementi innovatori, sicuramente legati a un’influenza proveniente dal mondo greco. Nuovo è l’impiego della sima (modanatura) a decorazione delle tegole di gronda dei lati frontonali (sime rampanti), a cui si possono eventualmente aggiungere le sime laterali. Questi elementi sono decorati con boccioli di loto e palmette inscritte in doppie volute, realizzate in bianco su rosso, mentre sul cavetto presentano un motivo a linguette dipinte. Le lastre di rivestimento hanno una decorazione a doppia guilloche (treccia), di ispirazione greca e anche le antefisse sono decorate con motivi dipinti. Questi elementi fittili dovevano conferire alle abitazioni un aspetto vivace e colorato e alla città un fascino davvero unico.

Gli spazi pubblici La maggior parte degli edifici di Acquarossa sono case comuni, private; tuttavia nella parte settentrionale del pianoro (zona F) è stato individuato un settore con un complesso di costruzioni di carattere piú ufficiale, che potremmo definire pubblico. L’area in questione è ca-

ratterizzata dalla presenza di due edifici principali (A e C), disposti piú o meno ad angolo retto, in modo tale da delimitare al centro uno spazio a cielo aperto. Questo cortile è chiuso a nord dall’edificio A, costituito da ambienti, la cui suddivisione resta difficile da determinare, che si aprono verso sud tramite un porticato. Dietro una fila di blocchi di peperino si notano due fori che servivano per l’inserimento di basi a sostegno di colonne lignee. A est il cortile è delimitato dall’edificio C, piú grande e meglio conservato, anch’esso caratterizzato da un porticato, di cui sono ancora in situ due basi di colonna e tracce dell’esistenza di altre tre. Gli ambienti retrostanti erano tre, e quello centrale, piú ampio, prospettava sul porticato con un ingresso al cui centro era un’altra colonna. Da questa stanza si raggiungevano le altre due laterali, delle stesse dimensioni. In quella piú a sud sono stati trovati blocchi di tufo disposti parallelamente ai muri, probabilmente pertinenti a banchine, che hanno fatto pensare a un triclinio, una sala per banchetti. Il rinvenimento piú significativo è la decorazione fittile dei tetti. Sono stati identificati piú di 2000 frammenti di terrecotte architettoniche realizzate a matrice, in maggioranza recuperati nello stesso strato, rappresentato dal piano di calpestio dell’area scoperta e dal pavimento dei portici antistanti gli edifici. Ciò significa che tutti gli elementi erano in uso nello stesso periodo. In base a considerazioni sopratVasellame in ceramica comune, dipinta e da cucina, proveniente dagli scavi dell’abitato.

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tutto stilistiche le terrecotte sono state datate tra il 550 e il 525 a.C. Tra di esse è presente un solo tipo di antefissa, a testa femminile, mentre esistono quattro diverse tipologie di lastre a rilievo, indicate come A, B, C e D.

l’eroe sul tetto Il tipo A rappresenta Eracle e il toro cretese, circondati da guerrieri e da una scena con biga; il tipo B mostra Eracle e il leone nemeo, un cavaliere, un guerriero e altra scena con biga; il tipo C presenta una scena di banchetto, con convitati sdraiati su due klinai (letti per bachetto), fiancheggiati da un flautista, un suonatore di lira e un servitore; il tipo D, infine, mostra una scena di danza, con una sequenza di figure, alcune in atto di eseguire acrobazie, altre con otri di vino o vasi per bere, altre ancora in atto di suonare il doppio flauto o la lira. Tutte le lastre hanno le stesse dimensioni (60 x 21 cm) e, come le antefisse, erano dipinte in rosso, bianco e nero. Durante gli scavi è stata registrata la posizione di tutti i frammenti, rinvenuti quasi esclusivamente davanti agli edifici, nel cortile. Quantità minori si trovavano nei portici dei due edifici principali, e nelle stanze retrostanti. La conclusione è che solo le facciate erano decorate e rappresentavano un’unità architettonica unica e coerente. Lo studio delle carte di distribuzione dei frammenti, inoltre, prova che quelli delle antefisse a testa femminile avevano un’area di diffusione limitata, mentre quelli delle lastre a rilievo erano distribuiti in uno spazio molto piú vasto. Le antefisse decoravano sicuramente entrambi i portici, posizionate come ultimo coppo del bordo del tetto. Dei quattro tipi di lastre, invece, solo quello con Eracle e il toro è stato assegnato a entrambi i contesti. Nell’edificio C tali lastre erano collocate lungo il margine del tetto, un’ipotesi ricostruttiva

tra funzionalità ed estetica

A destra e qui sotto: ricostruzione grafica e reale del tetto di una casa della seconda metà del VI sec. a.C. (terza fase dell’abitato), in tegole e coppi non decorati. Su una tegola si nota un’apertura circolare chiusa da un coperchio mobile, probabilmente un lucernario utilizzato anche per l’areazione degli ambienti. Qui sotto: ricostruzione reale e grafica di un tetto della fine del VII sec. a.C. (fase piú antica dell’abitato).

A destra: un acroterio, elemento decorativo che veniva collocato al colmo del tetto, ancora collegato al coppo originario. Fine del VII sec. a.C. È decorato a ritaglio con motivi zoomorfi di animali affiancati, colti nell’atto di mordersi la coda.

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storia • etruria dei misteri

le gesta di eracle, il banchetto e la danza...

In alto: ricostruzione del frontone dell’edificio A dell’area monumentale di Acquarossa e, nella vetrina, lastre in terracotta pertinenti alla decorazione dei frontoni degli edifici A e C. In basso, sulle due pagine: i quattro tipi lastre fittili, realizzate a matrice e originariamente policrome (dipinte in bianco, rosso e nero), attestati ad Acquarossa: A. corteo con Eracle e il toro cretese; B. corteo con Eracle e il leone nemeo; C. scena di banchetto; D. scena di danza.

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molto verosimile, soprattutto in considerazione della loro funzione protettiva. Nella decorazione dell’edificio A erano invece in uso tutte e quattro le tipologie di lastre, perciò la sua facciata doveva risultare molto piú complessa.

dallo studio alla ricostruzione È stata proposta una soluzione conosciuta da altri esempi architettonici di ambiente etrusco, vale a dire un frontone con un tetto inserito. Un frontone del genere offre appunto quattro superfici che possono essere rivestite: i due spioventi del tetto principale, il margine del tetto inserito e l’architrave. Si è ipotizzato per le lastre con Eracle e il toro (A) e quelle con l’eroe e il leone nemeo (B) una collocazione sugli spioventi, in modo che le teorie di personaggi convergessero alla sommità del timpano. Al bordo del tetto inserito e all’architrave erano invece riservati i tipi con scena di banchetto (C) e con danzatori e acrobati (D), anche se la posizione reciproca rimane incerta. Questa ipotesi di collocazione delle lastre è stata utilizzata per la ricostruzione in scala reale allestita nel Museo Nazionale Etrusco della Rocca AlA

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bornoz di Viterbo, dove il complesso monumentale è presentato in alzato con materiali originari e parti integrate. Ma quale funzione potevano avere avuto i due edifici? La pianta dell’area è stata confrontata con quella della Regia di Roma e quella del palazzo di Murlo presso Siena. In quest’ultimo caso, però, ben quattro edifici, disposti ad angolo retto, racchiudono lo spazio aperto e l’ambientazione è extraurbana, quindi è difficile istituire uno stretto parallelismo tra le due situazioni. Le terrecotte architettoniche sono spesso associate a un ambito sacro. Pertanto una delle prime ipotesi che si è cercato di verificare è stata quella di un possibile contesto templare. L’interpretazione religiosa potrebbe essere sostenuta dalla presenza di un’iconografia simile su lastre rinvenute in alcuni importanti santuari arcaici, come a Velletri o al tempio della Mater Matuta a Roma. È stato inoltre osservato che la collocazione all’interno dell’area urbana, nei pressi di una delle porte di accesso alla città, è sotto molto aspetti paragonabile alla posizione delle aree sacre in altre città etrusche. Ma nessuno degli edifici ritrovati presenta la pianta di un tempio,

né è stato ritrovato alcun ex voto nell’area. Inoltre la sistemazione delle tre stanze in fila nell’edificio C, di cui quelle laterali accessibili soltanto dalla centrale e la presenza di una possibile sala con triclinio, sembrerebbero indicare un’architettura domestica piú che sacra.

questioni aperte Un’altra chiave di lettura del complesso potrebbe essere quella palaziale. Forse l’esuberante decorazione fittile era pertinente a un edificio civile, di una certa importanza, residenza di dinasti o sede che rivestiva un ruolo essenziale nell’organizzazione politica dell’insediamento. Le processioni e i banchetti possono trovare una ragionevole collocazione anche in un’interpretazione «aristocratica» delle scene. Interessanti discussioni scientifiche sono state condotte in merito al possibile simbolismo politico delle immagini di Eracle, suggerendo che l’introduzione di questo specifico tema potesse configurare un richiamo a un potere di tipo tirannico. L’interpretazione civile non escluderebbe lo svolgimento contestuale di funzioni religiose. È infatti ritenuta plausibile l’esistenza di un culto connesso con il sovrano e i suoi

antenati, e una attività religiosa sembra essere suggerita da una fossa, tagliata nel banco tufaceo, scoperta all’interno del cortile. A oggi, la questione resta aperta. Infine, ancora non si è fatta piena luce sulla fine di questo centro interno dell’Etruria meridionale, di cui gli scavi hanno messo in evidenza l’importanza storica e il valore scientifico. L’ultimo periodo di frequentazione corrisponde alla fine del VI secolo a.C., ma nulla indica un lento declino della città. Al contrario, ambiziose costruzioni, come l’area monumentale della zona F, furono realizzate fino alla fine della sua esistenza. L’ipotesi piú probabile è che l’abitato di Acquarossa sia stato distrutto, e successivamente abbandonato, a seguito di una guerra tra potentati o città rivali. Un epilogo violento, documentato dalle tracce di distruzione e incendio. dove e quando Museo nazionale etrusco-Rocca Albornoz Viterbo, piazza della Rocca 21b Orario ma-do, 8,30-19,30; lu chiuso Info tel. e fax 0761 325929; etruriameridionale.beniculturali.it

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il mestiere dell’archeologo Daniele Manacorda

quella storia dei «paesi fantasma»... UN CASO ESEMPLARE di LIBERA CIRCOLAZIONE DELLa CONOSCENZa: IL MUSEO DEI VILLAGGI ABBANDONATI di sorso

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a SAMI (Società degli Archeologi Medievisti Italiani) ha avuto il merito di istituire un Premio Nazionale, intitolato all’indimenticato Riccardo Francovich (1946-2007), da destinare al miglior museo italiano che abbia per tema il patrimonio archeologico di età medievale. Per il 2013 il riconoscimento è andato a «Biddas», il primo museo dedicato in Italia al fenomeno dello spopolamento. Allestito nel 2011 nel Palazzo Baronale di Sorso (nei pressi di Sassari), «Biddas» (che nella lingua del Logudoro significa «villaggi, paesi») illustra dunque i processi di abbandono dei centri abitati, con un percorso a ritroso nel tempo. La visita prende infatti le mosse dall’età contemporanea, che ha visto lo spopolamento di tante aree interne dell’isola, per giungere a narrare la storia di Geridu, il primo villaggio abbandonato della Sardegna scavato in estensione. «Biddas» è un museo piccolo (177 mq di superficie espositiva) che utilizza un apparato comunicativo moderno ed efficace, arricchito da laboratori (di archeologia ambientale, di restauro) e da isole multimediali attrezzate con giochi digitali ideati principalmente per gli scolari. I piccoli visitatori vengono accompagnati nella loro visita da

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Gianuario, un bambino virtuale abitante di Geridu, quando il villaggio, nel lontano XIV secolo, contava ben 326 fuochi fiscali, pari a circa 1500 abitanti. Ma non è solo per i suoi apparati di comunicazione che la giuria ha ritenuto di doverlo premiare, quanto per l’originalità del tema.

spiegare la storia E se può sembrare strano premiare un museo che illustra una vicenda tutto sommato negativa, com’è appunto quella della morte di un insediamento o di un’intera regione, dobbiamo pur pensare che un museo di storia non può cadere nella trappola della edulcorazione degli avvenimenti: ha semmai il compito di renderli comprensibili. «Biddas» nasce dunque dall’idea che i musei, prima di essere contenitori di oggetti, possano essere luoghi nei quali spiegare la storia, in questo caso quella di un fenomeno che ha avuto un ruolo centrale nelle vicende della Sardegna, almeno a partire dal Basso Medioevo. Perché scompaiono i centri abitati? Quali motivi spingono gli abitanti a lasciare il territorio dove la loro comunità aveva vissuto spesso da moltissime generazioni? Le cause storiche non sono mai uniche e

In alto: una casetta medievale ricostruita all’interno di Biddas, il Museo dei Villaggi abbandonati della Sardegna, a Sorso (SS), nato dallo scavo del borgo medievale abbandonato di Geridu. Nella pagina accanto: ricostruzione dell’abitato di Geridu nel XIV sec. univoche. All’origine degli spopolamenti ci sono, in genere, sia le guerre che le epidemie, l’insicurezza della vita quotidiana e le modifiche climatiche, le catastrofi naturali, le carestie, ma anche – e questo è proprio, anche se non esclusivo, delle età a noi piú vicine – le cause economiche: la mancanza di lavoro, la pressione fiscale, l’assenza di prospettive, la speranza di poter migliorare, migrando altrove, le proprie condizioni di vita. Il Museo vuole essere una sorta di anello di collegamento tra presente e passato, che suggerisce ai visitatori di guardare ai ripetuti fenomeni di spopolamento con la consapevolezza che i drammi che accompagnano il distacco dalle proprie radici e la dispersione delle identità locali sono all’ordine del giorno anche nelle società contemporanee. Il fenomeno dei «paesi fantasma» riguarda ancora tante zone appenniniche della


Penisola italiana, ma anche – per restare in Europa – la Francia meridionale, l’Andalusia, la Grecia, la Penisola balcanica: è un «filo rosso» della storia non solo della Sardegna, ma del Mediterraneo, ieri come oggi. Per raccontare questa storia «Biddas» si avvale dei documenti scritti e delle fonti orali, delle ricerche antropologiche e anche degli scavi archeologici, dal momento che i villaggi medievali abbandonati sono un segmento poco conosciuto, ma certo non meno importante, del piú vasto patrimonio archeologico sardo. È infatti sullo scavo del villaggio di Geridu che il Museo nasce e si fonda; e per questo «Biddas» è un museo archeologico, anche se

sostanzialmente privo di reperti. L’archeologia, insomma, dà materia e concretezza a un grande tema storico che ha coinvolto e coinvolge migliaia di persone che hanno vissuto le traversie dello spopolamento delle aree rurali dell’isola e le ritrova anche attraverso le loro tracce materiali.

un patrimonio da salvare I risultati principali delle ricerche condotte sul terreno sono illustrati in una apposita sala del museo, dove il caso di Geridu permette a «Biddas» di diventare anche un riflettore che punta la sua attenzione sui problemi della tutela del patrimonio archeologico dei

villaggi abbandonati, rendendo chiara l’urgenza di una pianificazione territoriale di salvaguardia e conoscenza di questo grande patrimonio diffuso nelle campagne. Quanti Geridu ci sono in Sardegna, quanti straordinari serbatoi di storia sepolta restano ignoti e sono abbandonati due volte, lasciati al loro destino di progressiva distruzione in seguito alla trasformazione del territorio? Sepolti nelle campagne sarde – ricorda Marco Milanese, direttore del Museo – sono almeno altri 500 villaggi medievali (la stima è per difetto), che presentano livelli di conservazione e interesse molto diversi. È un patrimonio ancora da

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censire e pertanto oggi non protetto, da porre al centro di un progetto regionale di tutela, ricerca e valorizzazione da agganciare alle pianificazioni territoriali, per impedire la progressiva erosione e distruzione dei resti. Nella prima sala del Museo il visitatore entra nella simulazione di una casa sarda della fine dell’Ottocento, colta in stato di abbandono e già di crollo, secondo una situazione frequente in numerosi siti della Sardegna interna. In questo contesto di suggestione sensoriale e anche emozionale, il visitatore, che cammina fra le macerie, è introdotto alla problematica dello spopolamento da grafici, didascalie, parole chiave, suoni. Ogni sala ha infatti anche il suo allestimento

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sonoro, come la registrazione di racconti in lingua sarda sulle attuali difficoltà dell’abitare in alcune zone dell’isola.

lastricati polverosi I pavimenti del Museo simulano i vecchi lastricati polverosi, i piani in terra battuta e in legno, gli interni delle abitazioni abbandonate e anche le superfici dei suoli analizzati attentamente dagli archeologi, alla ricerca delle tracce degli abitati scomparsi. Superfici, simulazioni e suoni illustrano anche i metodi di indagine, dallo studio delle carte d’archivio alla memoria orale, alle procedure piú tipicamente archeologiche. Come dicevamo, «Biddas» si propone come Children’s Museum. Nelle sue stanze i bambini

Ricostruzione di un momento di vita quotidiana nel villaggio di Geridu. usufruiscono di un percorso parallelo a quello degli adulti, non limitato – come spesso accade – a una sala o a uno spazio isolato. Il Museo punta infatti alla condivisione, e anche per questo – in un luogo in cui molti comportamenti sono in genere vietati – qui è permesso toccare, fotografare, manipolare. I visitatori possono anche copiare saggi, articoli e fotografie sulla propria chiavetta USB. Una riflessione si impone: in questo «Biddas» è proprio un museo normale. Tutti gli altri – i musei dei divieti – sono profondamente anormali. E questo è solo apparentemente un altro discorso. Ci torneremo.



antichi ieri e oggi Romolo A. Staccioli

I GIORNI DI MARTE che quello di marzo fosse il mese del dio della guerra lo si intuisce fin dal nome. ma forse non tutti sanno che, nello stesso periodo, accanto alle celebrazioni in suo onore, i romani festeggiavano anche la dea della saggezza

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rimo mese del calendario piú antico attribuito a Romolo, Marzo non poteva non essere dedicato al divino padre del fondatore, Marte. Tanto piú che si credeva che quel dio non presiedesse soltanto alla sfera delle armi e della guerra, ma anche a quella dei campi e del raccolto. Nessuna meraviglia, quindi, che l’anno cominciasse col mese in cui cadeva l’equinozio di primavera, la stagione del risveglio della natura e dell’inizio di un nuovo ciclo di lavori agricoli dopo il letargo invernale. «Giorno di Marte» per eccellenza era il 1° del mese, quando si celebravano numerose cerimonie la piú importante delle quali era eseguita dai sacerdoti Salii. Per l’occasione, questi indossavano un costume di tipo militare con una tunica picta (una veste ornata di pitture), pettorale e cintura di bronzo, un corto mantello bordato di rosso e un elmo di forma conica.

lo scudo sacro Portavano inoltre spade e lance e imbracciavano scudi a forma di otto (ancilia) che costituivano l’elemento principale di tutta la cerimonia. Uno di quegli scudi, infatti, era stato lasciato cadere dal cielo, da Giove, come pegno della potenza di Roma e gli altri erano quelli che il re Numa aveva fatto costruire allo scopo di confondere (e proteggere da eventuali trafugamenti) quello originale. I Salii attraversavano in processione i luoghi piú importanti della città, percuotendo gli scudi

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In alto: il mese di marzo nel mosaico pavimentale con il calendario scoperto a Thysdrus (oggi El Djem, Tunisia). III sec. d.C. Sousse, Museo Archeologico. Nella raffigurazione si riconoscono i Salii che percuotono uno scudo. Nella pagina accanto: ricostruzione ipotetica del costume indossato dai Salii durante la celebrazione del primo del mese di marzo. con le lance e fermandosi frequentemente per intrecciare danze rituali (donde il loro nome derivato dal verbo saltare, cioè danzare, ma battendo fortemente e ritmicamente i piedi a terra, come nel «saltarello») al canto di inni e litanie che, per il loro linguaggio arcaico, divennero presto

incomprensibili ai piú. Tutto si concludeva con un lauto banchetto che si protraeva fino a notte. I Salii ripetevano la stessa processione il giorno 23, in occasione del Tubilustrium, la festa per la purificazione (lustratio) delle trombe (tubae) usate nelle cerimonie sacre.


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Curiosamente, il 1° di marzo era anche il giorno dei Matronalia, la festa delle «madri di famiglia» che vi celebravano l’anniversario della dedica, sull’Esquilino, del tempio di Giunone Lucina, la dea «dispensatrice di luce» e quindi protettrice delle partorienti e, piú generalmente, delle madri. Quel giorno, le donne indossavano i loro abiti piú belli e i gioielli piú ricchi, avendo cura di tenere sciolti i capelli e qualsiasi nodo delle vesti per evitare, simbolicamente, ogni impedimento al libero compiersi del parto. Ricevevano doni e danaro dai loro mariti i quali, per parte loro, offrivano sacrifici e preghiere a Giunone per la salute delle mogli e la felicità del matrimonio.

Due giorni dopo, il 17, veniva la festa in onore di Liber Pater, antica divinità italica della fertilità (poi identificata col Dioniso greco, o Bacco) e alla sua corrispondente femminile Libera. In diversi punti della città, donne anziane, cinto il capo di edera, facevano offerte di focacce col miele su piccoli altari per incarico dei fedeli. Oltre a quello di Marte il mese godeva anche di una sorta di «patronato» della dea Minerva che in quel mese sarebbe nata (uscendo, com’è noto, tutta armata dal cervello di Giove). Messa tuttavia da parte qualsiasi connotazione di carattere militare, durante il «suo» mese la dea era onorata piuttosto come portatrice di saggezza e di buon consiglio e come protettrice delle arti, dei mestieri e di ogni opera dell’ingegno.

ninfa, vecchia o dea? Alla metà del mese, il giorno delle Idi, c’era una festa tipica d’inizio anno: quella dedicata ad Anna Perenna, una divinità il cui nome, collegato al termine annus, aveva dato luogo al verbo perannare, col significato di «passare bene l’anno» appena iniziato. Sulla sua identificazione gli antichi avevano variamente fantasticato e Ovidio ci tramanda in proposito tre diverse versioni. Una la riconosceva in Anna, la sorella di Didone che, fuggita da Cartagine, sarebbe approdata nel Lazio, a Lavinium, dove, benevolmente accolta da Enea, ma osteggiata dalla di lui moglie, Lavinia, avrebbe infine trovato la morte nel fiume Numico del quale sarebbe diventata la ninfa (derivando dallo stesso fiume – amnis perennis – il suo secondo nome). Un’altra versione la identifica con una vecchia di Bovillae, sui Colli Albani, che avrebbe rifornito di focacce la plebe romana ritiratasi sul Monte Sacro nella «secessione» del 494

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cinque giorni di festa a.C. La terza, infine, ne faceva una giovane dea che, per salvare la castità di Minerva dalle brame di Marte, si sarebbe sostituita a essa in un incontro amoroso col dio, ignaro dell’inganno. La festa veniva celebrata in un santuario che sorgeva al primo miglio della via Flaminia e si traduceva in una allegra e licenziosa «scampagnata» popolare sui prati e tra gli alberi di un boschetto sacro, non lontano dalla riva del Tevere. Tra canti, danze e rappresentazioni sceniche, uomini e donne s’abbandonavano ad abbondanti libagioni per poi appartarsi, a coppie, sotto tende o ripari improvvisati di rami e foglie.

Il giorno proprio della festa era il 19 e nei calendari esso veniva indicato col nome di quinquatrus. Ciò, secondo Ovidio, perché le cerimonie duravano cinque giorni, da uno solo com’era all’inizio, dopo che ai riti religiosi erano stati aggiunti ludi scaenici e venatorii, cioè spettacoli teatrali e cacce alle fiere. SecondoVarrone, invece – e piú verosimilmente – perché il giorno 19 era il quinto dopo le Idi (secondo il modo di contare dei Romani che includeva anche il termine di partenza). Quel giorno coincideva col plenilunio e dunque era il quinto giorno «buio» o «nero» (ater), donde quinq(ue)-ater e quinquatrus.


Il 19 marzo si celebrava anche l’anniversario della dedica del tempio costruito in onore di Minerva sull’Aventino. Nel giorno della festa vi convenivano scrittori e poeti per cimentarsi in gare letterarie, insieme ad artisti e artigiani, che presso quel tempio avevano la sede delle rispettive corporazioni. Praticamente tutti coloro che esercitavano un’«arte» qualsiasi. Quel giorno era perciò detto «degli artigiani» (dies artificum) e ogni categoria lo celebrava alla propria maniera. Tutti sospendevano le proprie attività e, assolti gli obblighi religiosi, si dedicavano a ogni genere di passatempi e di giochi. Svetonio riporta il brano di una lettera di Augusto che scriveva a Tiberio: «Abbiamo trascorso abbastanza allegramente le quinquatrie; abbiamo infatti giocato tutto il giorno, facendo surriscaldare il “tavoliere”». A partire dal 310 a.C. poi, era stata introdotta una sorta di festa nella festa, riservata ai tibicines, i suonatori di doppio flauto (lo strumento Nella pagina accanto: busto in marmo di Marte, dio della guerra, a cui era dedicato il mese di marzo, dal tempio di Marte Ultore nel Foro di Augusto a Roma. II sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps. A destra: statua seduta di Minerva, dea della guerra, della saggezza e delle arti, festeggiata anch’essa in marzo, il 19. Età augustea. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo.

che si voleva inventato da Minerva), i quali, vestiti con lunghi abiti femminili e mascherati, per tre giorni di seguito se ne andavano in giro per la città suonando, cantando e ballando, con «ampia licenza», com’era stato loro concesso di fare per indurli a recedere da uno «sciopero»: quello che essi avevano indetto riguardo le loro prestazioni musicali (indispensabili per la regolarità e la validità dei riti religiosi) quando furono esclusi dalle epulae, i banchetti sacri presso il tempio di Giove Capitolino.

carri a tre cavalli Secondo alcune versioni, pare che nel «giorno di Minerva» si ripetessero le corse di cavalli e di carri, dette Equirria, che la tradizione voleva istituite da Romolo in onore del padre Marte. Esse erano perciò celebrate nel Campo Marzio, dove esisteva un antichissimo spazio attrezzato, simile a un circo, detto Trigarium (per via dei carri a tre cavalli che vi correvano) o, in caso di inagibilità di questo, per allagamento causato dalle piene del Tevere, in un luogo del Celio detto Campus Martialis. L’evidente significato guerresco della manifestazione valeva come «recupero» delle prerogative belliche del dio nel mese in cui finiva l’inverno e, col ritorno della primavera, si riapriva la stagione delle campagne militari. Ma, per concludere, ancora con Minerva e il dies artificum, è appena il caso di sottolineare come la Chiesa cristiana abbia stabilito proprio al 19 marzo la festa liturgica di San Giuseppe, falegname, patrono degli artigiani.

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scavare il medioevo Andrea Augenti Disegno ricostruttivo del sito islandese di Reykholt, cosĂ­ come doveva presentarsi tra il XII e il XIV sec.

nella casa del poeta gli scavi nel sito islandese di reykholt documentano una storia lunga e articolata, che ebbe tra i suoi protagonisti il leggendario snorri sturluson Sulle due pagine: foto degli scavi condotti a Reykholt, tra cui un’immagine (nella pagina accanto, a sinistra) del passaggio sotterraneo che conduceva alla piscina di acqua geotermale rinvenuta nel villaggio.

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N

oi abbiamo Dante, e l’Islanda ha Snorri Sturluson: poeta e leader politico, uno dei piú famosi personaggi di quel lontano Paese. Ma l’Islanda vanta anche una buona tradizione di ricerche di archeologia medievale e uno dei piú importanti progetti degli ultimi decenni è stato lo scavo del sito di Reykholt: il villaggio in cui proprio Snorri abitò e fu poi assassinato nel 1241 (era stato coinvolto in una rivolta contro Hakon, il re della Norvegia, e pagò con la vita quella scelta). Un’occasione unica, quindi: uno di quei casi in cui l’archeologia incontra la storia con la «s» maiuscola.

novecento anni di storia Condotte dal Museo Nazionale di Helsinki, le ricerche sono iniziate alla fine degli anni Ottanta del Novecento, hanno avuto termine nel 2002 e sono ora raccontate dalla direttrice del progetto, Gudrún Sveinbjarnardóttir, nel volume Reykholt-Archaeological Investigations at a High Status Farm in Western Iceland. Il risultato piú sorprendente è la scoperta di una lunga serie di costruzioni e ricostruzioni avvenute nello stesso luogo: una sequenza ininterrotta, che si protrae per ben nove secoli. La vicenda inizia

intorno all’anno Mille, quando compare una grande casa (long house) lunga circa 15 m, con pareti in terra e un grande focolare al centro. Con un piccolo sforzo, possiamo già immaginare un gruppo di Vichinghi dentro l’edificio, intorno al fuoco e al riparo dalle intemperie, nelle interminabili serate di quei luoghi in cui il sole non tramonta mai. Poco distante c’è una piccola chiesa, il che dimostra che questo era un luogo di notevole importanza: quello che gli antichi Islandesi chiamavano uno Stadur, un centro direzionale da cui dipendeva il territorio circostante. Ancora piú complessa e articolata è la fase successiva, che si data tra il XII e il XIV secolo: l’epoca in cui Snorri abitò a Reykholt. Ora si contano svariati edifici, tra cui la bottega di un fabbro, una chiesa piú grande della precedente e una fattoria. L’insediamento è molto piú impressionante dal punto di vista monumentale ed è anche circondato da una fortificazione in legno, una palizzata. E la qualità della vita? Davvero alta: le famose acque geotermali dell’Islanda vengono incanalate in condotti, e alimentano una piscina di acqua calda, come nella migliore tradizione dei Paesi nordici, alla quale si accedeva tramite un

passaggio sotterraneo. In piú, in questo periodo la dieta è molto varia: manzo, agnello, maiale e pesce (soprattutto merluzzo); e poi cereali, un elemento classico della dieta medievale. Insomma, si mangiava piuttosto bene a Reykholt. Tra i resti di insetti rinvenuti si contano però molti pidocchi, il che getta qualche ombra sull’igiene personale...

scambi internazionali La vita prosegue anche dopo, tra il XIV e il XVII secolo; al complesso viene aggiunto, tra gli altri edifici, una dispensa, nella quale sono state trovate numerose botti. E che Reykholt continui a essere un luogo di primo piano, un centro del potere, lo dimostrano i reperti, come i resti delle vetrate che evidentemente decoravano le finestre perlomeno di alcuni edifici. Ma lo dimostrano anche i recipienti in ceramica: brocche in maiolica, porcellana, e altri oggetti importati dalla Germania, dalla Scandinavia, dall’Olanda, Francia e Inghilterra. Insomma: tra il XVI e il XIX secolo Reykholt era uno dei terminali piú settentrionali di un’ampia rete di commerci internazionali. La vicenda medievale e moderna del sito termina all’inizio del XX secolo, quando tutto viene rimpiazzato da grandi edifici in cemento: un albergo e una scuola. Il paesaggio cambia volto, il progresso non si può arrestare. Ma gli scavi ci hanno restituito una storia lunga e affascinante, che rende lo spessore del ricco passato di questo luogo.

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l’ordine rovesciato delle cose Andrea De Pascale

LA PIANIFICAZIONE? COMINCIA DAL BASSO

I

n molte città italiane lavorano da alcuni anni équipe interdisciplinari composte da esperti di diversi settori – architetti, geologi, archeologi, topografi – accomunati dall’essere anche speleologi e che si dedicano allo studio delle strutture presenti nel sottosuolo urbano. Una delle prime realtà a operare in tale senso, tuttora assai attiva, fu nel 1987 il Centro Studi Sotterranei di Genova, nato allo scopo di individuare, esplorare e documentare le cavità artificiali del capoluogo ligure, con particolare attenzione a quelle di rilevante valenza storica e architettonica. Tutto ciò in diretta continuazione degli studi sul patrimonio ipogeo naturale, oggetto di ricerche speleologiche da oltre quarant’anni. Tali ricerche, oltre ad acquisire

il patrimonio ipogeo delle città italiane rappresenta uno strumento urbanistico integrativo di grande utilità per la migliore gestione del territorio 106 a r c h e o

In alto: una delle gallerie della «Gora di Scornio», sotterranei aperti al pubblico nel sottosuolo di Pistoia. A sinistra: attività di documentazione nell’insediamento rupestre di San Lorenzo Vecchio (Viterbo). Nella pagina accanto: l’esplorazione nel sottosuolo di Genova di uno dei rivi coperti nel Medioevo.


in libreria

Riscoprire e valorizzare

fondamentali informazioni di carattere storico-archeologico sul patrimonio ipogeo della città, hanno permesso di sviluppare uno studio sistematico, realizzando un archivio organico che non solo ha restituito ai cittadini una testimonianza culturale, ma ha anche permesso di acquisire strumenti urbanistici integrativi.

stratificazioni millenarie Studi di questo tipo, infatti, hanno potenzialità di applicazione in molti campi, dalla pianificazione del territorio a quella ambientale, a una migliore progettazione di infrastrutture tecnologiche, alla valorizzazione turistica, a fini di tutela o di programmazione didattica, oltre che di ricerca scientifica. Ovviamente è necessario un coordinamento con i diversi enti che operano nell’amministrazione della città, dalla municipalità alle soprintendenze, ciascuno per le proprie competenze, cosí come è basilare il coinvolgimento di tutti i soggetti che, per esigenze diverse, possono avere interesse o necessità di operare nel sottosuolo urbano, come le società che si occupano della gestione delle

utenze telefoniche, elettriche, idriche. Un approccio di questo tipo, nelle città italiane – che sono cresciute per secoli se non millenni sempre nello stesso luogo –, sovrapponendosi ai resti di strutture ed edifici piú antichi, porta innumerevoli vantaggi. Permette, per esempio, di integrare i piani urbanistici, per una corretta programmazione delle infrastrutture urbane quali parcheggi sotterranei, gallerie stradali, linee metropolitane, ascensori e passaggi pedonali. Consente, inoltre, il controllo dell’assetto idrogeologico, utile a prevenire allagamenti o infiltrazioni e una migliore pianificazione per la costituzione di riserve d’acqua, magari da destinare al lavaggio delle strade o all’inaffiamento del verde pubblico. Spesso conoscere il sottosuolo di una città facilita la realizzazione di nuove infrastrutture tecnologiche, perché permette il riutilizzo di strutture sotterranee in rapporto alle necessità di sviluppo delle utenze (cablaggio telematico, linee telefoniche, elettriche, ecc.) e la razionalizzazione della rete fognaria, senza dimenticare che consente una migliore e piú efficace tutela poiché la conoscenza

L’importanza delle conoscenza del sottosuolo urbano emerge con forza in un bel volume appena edito dalla Commissione Nazionale Cavità Artificiali della Società Speleologica Italiana, realizzato con l’apporto fondamentale del Gruppo Speleologico Urbinate. Il libro raccoglie gli interventi piú significativi del Corso Nazionale «Cavità Artificiali: dalla riscoperta alla valorizzazione turistica» svolto a Urbino nel dicembre 2011. Spaziando su diversi argomenti, i testi dimostrano come la ricerca e lo studio delle opere ipogee d’interesse storico siano fondamentali per la loro protezione e tutela, cosí come per arricchire l’offerta culturale di molti enti locali interessati a valorizzare il sottosuolo urbano. Il libro propone interessanti riflessioni sul panorama legislativo, su come rendere fruibile e divulgare correttamente il patrimonio ipogeo e si propone anche come strumento didattico per alcuni ordini professionali interessati a conoscere «cosa c’è sotto i nostri piedi» (info: argaliaeditore.com).

del sottosuolo e delle testimonianze storiche in esso custodite è indispensabile per ogni ulteriore intervento di conservazione delle medesime.

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divi e donne Francesca Cenerini

le scelte di Matidia la figura della sorella di sabina ha contorni sfuggenti. tra le poche certezze vi è il suo ruolo decisivo nell’abbellimento della città campana di sessa aurunca

C

ome la sorella, Vibia Sabina (vedi «Archeo» n. 348, febbraio 2014), Matidia Minore è, con ogni probabilità, figlia dell’unico marito della madre Matidia Maggiore, nipote dell’imperatore Traiano e suocera di Adriano. Alcuni studiosi hanno sostenuto che Matidia Minore non si sia mai sposata, perché il nome di suo marito non è mai esplicitato nelle fonti. Ma una simile eventualità, secondo l’uso aristocratico del matrimonio a corte, non è possibile: per ogni donna imparentata con l’imperatore veniva sempre scelto un marito funzionale alle politiche del principe stesso. Matidia Minore deve dunque avere avuto un marito: può essere stato un senatore di rango consolare poi caduto in

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Statua di Matidia Minore come un’Aura, dal teatro di Sessa Aurunca. Prima metà del II sec. d.C. Sessa Aurunca, Museo Civico Archeologico. disgrazia sotto Adriano; oppure essere morto molto giovane e Matidia può aver scelto la vedovanza a vita (univira, donna con un solo marito), come la madre Matidia Maggiore e la nonna materna Marciana, anche in questo caso in ossequio ai valori aristocratici del tempo. In entrambi i casi si spiegherebbe il silenzio delle fonti. Ma è anche possibile che vi siano stati retroscena politici nelle successioni imperiali, a noi sostanzialmente ignoti, che abbiano messo in contrasto le sorelle Sabina e Matidia Minore (forse già all’epoca dell’ascesa al potere di Traiano), oppure lo stesso Adriano e la moglie Sabina. Matidia Minore muore all’inizio degli anni Sessanta del II secolo d.C., quasi ottuagenaria. Faustina Minore, figlia dell’imperatore Antonino Pio e moglie di Marco Aurelio, e le sue figlie rivendicano una parte della cospicua eredità della defunta.

il silenzio delle fonti Le fonti letterarie non ci parlano di Matidia Minore e c’è soltanto un cenno nelle lettere del retore Frontone. Fortunatamente, però, conosciamo parte delle attività di questa principessa antonina dalla ricca documentazione epigrafica. Occorre tuttavia osservare che la stragrande


maggioranza delle iscrizioni che la ricordano risale all’età di Antonino Pio (138-161 d.C.), quando la donna doveva avere fra il 50 e i 75 anni di età, e non a quella di Adriano (117-138 d.C.). Ciò confermerebbe i sospetti di un rapporto non idilliaco fra Matidia (e il marito?) e Adriano, e, viceversa, il suo appoggio per la successione di Antonino Pio. E un sito archeologico individuato di recente presso Monte Porzio Catone (Roma) è stato identificato con la villa in cui Matidia aveva ospitato le figlie piccole di Marco Aurelio e di Faustina Minore. Matidia è la promotrice di numerose attività benefiche, a Vicenza e a Sessa Aurunca, in Campania, dove fa costruire una biblioteca e fa restaurare il teatro con ampio uso di materiali pregiati. Cura inoltre l’approvvigionamento idrico del teatro stesso. Nella summa cavea dell’edificio, vale a dire nella parte piú elevata delle gradinate, trovava posto il sacello dedicato al culto imperiale della dinastia giulio-claudia.

un titolo onorifico Nelle numerose dediche poste dai cittadini di Minturno, Sessa Aurunca e Sinuessa, Matidia è definita «Matidiae Augustae filia, divae Marcianae Augustae neptis, divae Sabinae Augustae soror» («Figlia di Matidia Augusta, nipote della diva Marciana Augusta, sorella della diva Sabina Augusta») e anche matertera (zia materna) dell’imperatore Antonino Pio, appellativo che, sebbene non potesse spettarle di diritto sulla base della normativa romana che regolava l’istituto dell’adozione, le

viene forse conferito a titolo di onore personale. Nel teatro sono stati rinvenuti tre ritratti femminili che, con ogni probabilità, raffigurano la stessa Matidia Minore, la madre Matidia Maggiore e la sorella Sabina, in una sorta di autorappresentazione celebrativa. In particolare, Matidia Minore si fa ritrarre come una divinità convenzionalmente identificata con un’Aura. Anche il restauro del teatro è databile ai primi anni del principato di Antonino Pio. Ed è evidente che Matidia Minore intende rappresentarsi come trait d’union fra la famiglia imperiale di Traiano e di Adriano, i cui esponenti piú autorevoli erano da tempo scomparsi, e quella di Antonino Pio. L’iscrizione monumentale che ricorda la ricostruzione per opera di Matidia Minore del teatro di Sessa Aurunca e di un portico a esso connesso, distrutti da un terremoto, conferma la rappresentazione iconografica: ancora una volta Matidia Minore è figlia della diva Matidia Augusta, nipote della diva Marciana Augusta, sorella della diva Sabina Augusta e zia materna dell’imperatore Antonino Pio, in una linea di discendenza dinastica tutta al femminile. Non va nemmeno escluso che Matidia Minore collabori finanziariamente alle attività edilizie promosse da Antonino Pio in Campania, soprattutto nei porti, in quanto spesso la sua azione viene a supportare gli interventi imperali in materia di grandi opere pubbliche. Plotina, Sabina e Matidia Minore non hanno figli: o si è trattato di

una volontà precisa, vale a dire di un voluto controllo delle nascite per favorire il principio dinastico dell’adozione del migliore, oppure, come ritengo piú plausibile e in linea con i tempi, la mancanza oggettiva di figli viene idealizzata in chiave propagandistica poiché non poneva ostacoli alla scelta del migliore successore al principato.

il migliore al potere Con gli imperatori del II secolo d.C. le donne della casa imperiale piú che mai sono un necessario supporto dinastico alla costruzione del potere e sono funzionali alla sua legittimazione. La cosiddetta «scelta del migliore» non può che essere un mito storiografico, nato in età traianea: l’ultimo imperatore flavio, Domiziano, viene rappresentato come un tiranno depravato che è salito al potere esclusivamente per meriti di nascita e viene contrapposto a Traiano che ha ottenuto l’impero grazie al suo valore. La cosiddetta felicità coniugale era tutto un altro discorso, assolutamente ininfluente sul terreno politico: i documenti ufficiali (iscrizioni, monete, iconografia) insistono sempre sulla concordia tra l’imperatore e la moglie legittima. I pettegolezzi sono riportati dalle fonti letterarie che raccoglievano le tradizioni frutto di una propaganda ostile al potere imperiale. Nel II secolo d.C. la scelta del successore risponde a dei precisi imperativi familiari e politici (e anche economici), e sulla necessità di perpetuare nelle mani di un ristretto numero di parenti il nome e il patrimonio imperiale.

legami imperiali L. Vibio Sabino

Matidia Minore

Matidia maggiore Vibia Sabina

P. Elio Adriano Afro P. Elio Adriano

Domizia Paolina Maggiore E. Domizia Paolina Minore

L. Giulio Urso Serviano

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l’altra faccia della medaglia Francesca Ceci

sole d’oriente nei secoli dell’impero, a roma presero piede e si radicarono molti culti «di importazione». come quello di cui si fece sacerdote elagabalo, principe eccentrico e smodato

R

oma divenne padrona del mondo anche grazie alla capacità di assorbire nel proprio pantheon le divinità delle popolazioni assoggettate, rispettandone la continuità di culto. Un dio in piú contribuiva ad accrescere la potenza dell’Urbe, mantenendo nel contempo la stabilità sociale in genti private della propria libertà. La monetazione provinciale di età imperiale ben rispecchia questa accorta politica di tolleranza religiosa, celebrando le divinità indigene, il cui persistere era sentito come garante dell’identità di un popolo. Alcuni di questi dèi, ritenuti particolarmente potenti,

«traslocarono» a Roma e, anzi, furono considerati fondamentali per risolvere momenti storici delicati, che richiedevano un aiuto divino ad hoc.

un ago sul palatino Si pensi, per esempio, all’arrivo a Roma nel 204 a.C. dell’anatolica Magna Mater Idaea/Cibele direttamente da Pessinunte in Frigia (vedi anche, in questo numero, lo speciale alle pp. 64-87), la cui presenza doveva scongiurare la minaccia delle guerre puniche: custodita prima nel Foro e poi nel suo tempio sul Palatino sotto forma di una pietra nera conica (detta «ago di Cibele», che fa supporre una forma lunga e

stretta) fu quindi annoverata tra i sette pignora imperii (letteralmente, «pegni/garanzie dell’impero») oggetti che garantivano il potere romano. Altra grande dea, nella quale bellicosità e potenza si legano alla fertilità, sessualità e alla bellezza, è la fenicia Astarte, venerata in area semitica, nominata nell’Antico Testamento (Geremia, 44, 18: «regina del cielo»), e il cui culto si diffuse in tutta l’area mediterranea, dall’Egeo alla Sicilia, assimilata nel mondo mesopotamico a Isthar e in quello greco ad Afrodite. Nella mitologia fenicia è figlia del Cielo e della Terra e sorella di El, il Dio. E come la cipriota Afrodite Pafia (vedi «Archeo» nn. 347 e 348, gennaio e febbraio 2014), anch’essa è simboleggiata da una pietra aniconica. Celebre era il tempio di Astarte a Sidone in Fenicia, poi provincia di Siria, riprodotto nell’iconografia Denario di Giulia Domna. 196-211 d.C. Al dritto, il profilo della consorte di Settimio Severo; al verso, la dea Cibele in trono tra i leoni.

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Sulle due pagine, da sinistra: moneta emessa a Sidone, in Fenicia (116-117 d.C.), con testa velata e turrita di Tyche e carro di Astarte con il betilo; tetradramma di Caracalla (211-217 d.C.), battuto anch’esso a Sidone, con busto dell’imperatore e aquila ad ali spiegate su carro di Astarte; aureo di Elagabalo (218-222 d.C.), con busto di Elagabalo e quadriga con la pietra sacra di Emesa con aquila e stella in campo. monetale provinciale. Il simulacro di culto, in questo caso un betilo di forma ovoidale, è raffigurato sulle monete entro un caratteristico carro a due ruote con baldacchino a quattro pilastri, a volte decorato con rami di palma. Il tipo compare con frequenza nella monetazione di Elagabalo (218-222 d.C.) sino a Severo Alessandro (222-235 d.C.), ma già era stato utilizzato da Traiano (98-117 d.C.) e ancora, ma soltanto con il carro senza pietra sacra, da Augusto (27 a.C.-14 d.C.) e Adriano (117-138 d.C.).

Il carro di astarte Con Caracalla (211-217 d.C.), invece, il carro di Astarte, miniaturistico, è sormontato da una aggressiva aquila ad ali spiegate e becco rapace che ben simboleggia la potenza di Roma. La foggia del carro doveva certo rispondere a rituali e apprestamenti cerimoniali in uso a Sidone, che prevedevano il trasporto dell’immagine aniconica di Astarte lungo le vie della città, in un mezzo di trasporto che si ignora fosse trainato da animali, come

probabile, o in altro modo. La città siriana di Emesa tributava un culto particolare al dio Sole, denominato localmente El («dio») Gabal (grosso modo, «che sta su di una montagna»). Nel tempio a lui dedicato era conservata una pietra screziata, che si voleva inviata da Zeus e che contenesse l’abbozzo dell’effigie divina del Sole (Erodiano, Storia romana, 3,5). I sacerdoti di El Gabal provenivano direttamente dalla dinastia regnante locale; con il matrimonio tra Settimio Severo e Giulia Domna, figlia di un gran sacerdote, il culto solare penetrò a Roma. Sommo sacerdote ne fu infatti, per diritto ereditario, Elagabalo (nato Sesto Vario Avito Bassiano e regnante col nome di Marco Aurelio Antonino), della famiglia severa e considerato, per motivi dinastici, figlio putativo di Caracalla. Completamente scollato dalla tradizione imperiale romana, legato invece a quella siriaca nella quale era cresciuto e al sacerdozio sacro di El Gabal, divenuto imperatore a quindici anni, il giovane Elagabalo cercò di imporre a Roma il culto solare

siriano in forma quasi monoteistica. Si diede inoltre a eccessi ed eccentricità che lo portarono all’eliminazione da parte della guardia pretoriana.

l’«eresia» di elagabalo Il culto del Sole è tema ricorrente nella monetazione di Elagabalo, dove il dio è in forma di betilo, cosí come già nella monetazione locale di Caracalla e Giulia Domna e poi in quella dell’usurpatore Uranio Antonino (253-254 d.C.) che stabilí il suo quartier generale a Emesa. L’immagine monetale di regola rappresenta la sacra pietra in un tempio, oppure sormontata da un’aquila o, ancora, trasportata solennemente da una quadriga di cavalli, con aquila e parasoli a protezione. Elagabalo portò la pietra emesina a Roma e la depose in un tempio già presente sul Palatino, l’Elagabalium, insieme ai piú sacri oggetti della religiosità romana. Dopo la sua uccisione, la pietra fu riportata nella madrepatria e il tempio romano fu ridedicato al soppiantato Giove. (3 – continua)

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i libri di archeo

DALL’ITALIA Marco Chioffi, Giuliana Rigamonti

màstabe, stele e iscrizioni rupestri egizie dell’antico regno Libro III/IV Editrice La Mandragora, Imola (BO), 239 pp., ill. col. e tavv. b/n 28,00 euro ISBN 978-88-7586-400-2 editricelamandragora.it

dunque all’epoca in cui si succedettero le dinastie dalla III all’VIII, abbracciando un orizzonte cronologico compreso tra il 2700 e il 2195 circa. Come nei volumi precedenti, le iscrizioni sono presentate in maniera sistematica, offrendo, per ciascuna di esse, il testo originale in geroglifico e la sua traduzione. E, ancora una volta, accanto alle formule di rito, molte e significative sono le indicazioni di carattere politico, sociale, e anche umano, che si possono ricavare dalla lettura, confermando appieno quanto scritto da Allen. Riccardo Olivito

Il foro nell’atrio

Basta scorrere la presentazione di James P. Allen, uno dei piú autorevoli egittologi del nostro tempo, per avere un’idea di quanto apprezzabile sia questa nuova uscita della serie che Marco Chioffi e Giuliana Rigamonti hanno avviato alcuni anni fa sui materiali epigrafici dell’antico Egitto. Come scrive lo studioso statunitense: «I testi ci dicono quale fosse il valore dei resti materiali per gli antichi Egiziani stessi, una testimonianza che possiamo ricavare solo in questo modo». Un concetto semplice, ma di cui si intuisce facilmente l’importanza. Oggetto del volume sono documenti riferibili all’Antico Regno e

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Immagini di architetture, scene di vita e di mercato nel fregio dai Praedia di Iulia Felix (Pompei, II, 4, 3) Edipuglia, Bari, 294 pp., ill. col. e b/n 70,00 euro ISBN 978-88-7228-701-9 edipuglia.it

Sebbene sia solo parzialmente conservato, il fregio dipinto dell’atrium 24 dei Praedia di Giulia Felice di Pompei,

è una testimonianza di valore eccezionale. Prendendo le mosse dalla ricerca compiuta in occasione della tesi di perfezionamento discussa sull’argomento alla Scuola Normale Superiore di Pisa, Riccardo Olivito dà conto dell’importanza dell’opera, ripercorrendone la storia e, soprattutto, analizzandone il contenuto. Le pitture, recuperate in occasione degli scavi avviati nel 1755 da Roque Joachin de Alcubierre, presentano una vivace sequenza di scene, ambientate nel Foro della stessa Pompei e che, verosimilmente, dovevano corrispondere a quello che i proprietari dei Praedia potevano vedere ogni giorno nella piazza della città. Si potrebbe pensare, insomma, a una sorta di album di cartoline, concepito con un fine essenzialmente decorativo. In realtà, almeno nel caso del frammento n. 11 del fregio, il pittore – forse su richiesta del committente – ha voluto fissare un momento particolare, legato alla celebrazione della festa delle nundinae. Un’ipotesi che Olivito argomenta in maniera piú che convincente e che dunque conferisce alla pittura uno spessore inaspettato. Domenico Musti

demokratía Origini di un’idea Editori Laterza, Roma-Bari, 406 pp.

20,00 euro ISBN 978-88-581-0976-2 laterza.it

Studioso tra i piú autorevoli a livello internazionale, Musti torna a cimentarsi con la democrazia, affermando però di non voler offrire al lettore «un manuale di istituzioni della democrazia greca, né una storia compiuta, ricostruita attraverso tutte le sue fasi e i suoi personaggi». Una dichiarazione d’intenti con cui si apre l’introduzione al volume: un’introduzione mai come in questo caso essenziale per entrare in maniera adeguata nello spirito dell’opera. Che quindi si dipana in cinque grandi capitoli nei quali l’autore indaga da par suo le mille sfaccettature di carattere culturale, sociale e politico che segnarono l’avvento della stagione democratica nell’antica Grecia, con particolare riferimento all’età di Pericle, personaggio tradizionalmente identificato con l’«inventore» del governo


del popolo. Un cliché che, come molti altri, Musti analizza e pone in dicussione, contribuendo in questo modo a fare del volume una lettura di straordinario interesse e stimolo. Roberto Giordano

l’enigma perfetto I luoghi del Sator in Italia Edizioni Universitarie Romane, Roma, 194 pp., ill. b/n 20,00 euro ISBN 978-88-6022-210-7 eurom.it

caso con foto, disegni, ipotesi di traduzione e bibliografia. Un lavoro, dunque, esemplare, a riprova di quanto la passione – Giordano non è un addetto ai lavori –, se ben coltivata, possa dare frutti preziosi. E possa anche, in casi come questo, essere di stimolo per ulteriori approfondimenti o per scoprire di persona le località nelle quali leggere quelle righe «misteriose».

dall’estero Andrea Babbi, Uwe Peltz

la tomba del guerriero di tarquinia

Quei quadrati «magici» disseminati un po’ ovunque in Italia sono davvero un enigma «perfetto»? Come spiega l’autore stesso, è forse impossibile trovare una risposta univoca e definitiva, cosí come, a oggi, resta difficile stabilire con certezza le origini di questi curiosi incroci di lettere e le ragioni del loro perdurare nel tempo. In compenso, con grande cura e dovizia di dati, Roberto Giordano offre una panoramica vasta e aggiornata sulle testimonianze piú importanti, corredando le schede di ogni singolo

Identità elitaria, concentrazione del potere e networks dinamici nell’avanzato VIII sec. a.C. Verlag des RömischGermanisches Zentralmuseums, Magonza, 440 pp. + 91 tavv. n.t e 2 tabelle f.t. 95,00 euro ISBN 978-3-88467-207-5 web.rgzm.de/ publikationen.html

Quando Tarquinia ancora si chiamava Corneto ed era compresa nei confini dello Stato Pontificio, il

suo territorio fu scavato a piú riprese, con esiti spesso eccezionali, ai quali, altrettanto spesso, si accompagnò la dispersione dei materiali rinvenuti. È questo, almeno in parte, il caso della Tomba del Guerriero, che fu scoperta e scavata nel 1865. Qualche anno piú tardi, nel 1873, il suo ricco corredo lasciò la Penisola per raggiungere Berlino: se non altro, fu un espatrio «integrale», nel senso che in Germania finirono tutti i reperti, senza ulteriori cessioni. L’intera vicenda e lo studio analitico dei materiali sono ora l’oggetto di questo ponderoso volume, di taglio eminentemente specialistico, scritto a quattro mani e in un alternarsi di lingua italiana e tedesca. Come si intuisce già dal titolo, Babbi e Peltz non hanno limitato la loro opera alla storia delle ricerche e all’analisi dei reperti (comunque ampie e dettagliate), ma hanno inserito la Tomba del Guerriero nel piú ampio contesto della civiltà etrusca, e, in particolare, dell’epoca in cui il sepolcro venne realizzato, cioè l’VIII secolo a.C. Un momento assai significativo dal punto di vista politico e culturale, soprattutto a Tarquinia e nel suo territorio, di cui il sepolcro è un testimone di altissimo pregio. Barry Cunliffe

Britain begins Oxford University Press, Oxford, 554 pp., ill. col

25,00 GBP ISBN 978-0-19-960933-8 oup.com

10 000 anni in 500 pagine: è questo l’ambizioso tentativo attuato da Barry Cunliffe, archeologo con una vasta esperienza sul campo e oggi professore emerito a Oxford. Una scommessa che può dirsi senz’altro riuscita, in quanto il volume, in termini essenziali ma non superficiali, riesce effettivamente a dare conto di tutte le tappe piú importanti della storia britannica, dalla fine delle ere glaciali (12 000 a.C. circa) fino alla vigilia della conquista normanna (sancita dalla battaglia di Hastings del 1066). Il racconto delle diverse fasi storiche si serve in molti casi dei dati offerti dalle ricerche archeologiche piú recenti – ed è questo uno dei motivi di maggior interesse dell’opera – ed è corredato da un ricco apparato grafico e fotografico. Un titolo che si inserisce nella migliore tradizione della manualistica anglosassone. (a cura di Stefano Mammini)

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