Archeo n. 477, Novembre 2024

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CUCCUMELLA

MISSIONE IN ALBANIA

LA PREISTORIA DEL LEGNO

VINCENZO CARDARELLI

SPECIALE VIA DELLA SETA

I SEGRETI DELLA CUCCUMELLA

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LETTERATURA

L’ETRUSCOLOGO INCONSAPEVOLE

SPECIALE

RIVELAZIONI SULLA

VIA DELLA SETA

MISSIONE NELLA VALLE DELLA VJOSA

ALBANIA

www.archeo.it

IN EDICOLA L’ 8 NOVEMBRE 2024

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2024

Mens. Anno XXXIX n. 477 novembre 2024 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ARCHEO 477 NOVEMBRE

VULCI

€ 6,50



EDITORIALE

UNA VOCE NEL DESERTO All’interno di una gola rocciosa del deserto siriano, a 1500 m di altitudine e distante un’ottantina di km a nord-est di Damasco, sorge un antico monastero: Deir Mar Musa al Habashi – letteralmente il Monastero del Santo Mosé l’Abissino (o l’Etiope) – che, secondo una tradizione deve il suo nome a quello di un giovane etiope di nobile ascendenza, vissuto nel VI secolo, il quale si sarebbe qui ritirato a vita ascetica, rifugiandosi in una delle grotte che si aprono sulla falesia. Le fonti attestano l’esistenza di una piccola comunità monastica in questo luogo lontano dal mondo sin dalla fine del VI secolo. Eretto sui resti di due torri d’avvistamento di epoca romana (preposte, forse, a sorvegliare la via carovaniera tra Damasco e Palmira), il monastero raggiunse il suo apice nei secoli XI e XII: gli interni della chiesa vennero piú volte decorati con cicli di affreschi (secondo Ross Burns, autore di una delle piú autorevoli guide archeologiche della Siria, alcune pitture risalirebbero al VII secolo) e l’intero complesso venne ampliato e fortificato. Nel XVII secolo Deir Mar Musa cadde in abbandono. Ma non per sempre: su iniziativa di un gesuita italiano, Paolo Dall’Oglio, a partire dal 1991 il monastero è stato restaurato e accoglie una comunità monastica, maschile e femminile, dedita all’accoglienza e al dialogo interreligioso. I lavori di restauro, fortemente voluti da padre Dall’Oglio, vennero realizzati dall’Istituto Centrale per il Restauro di Roma, in collaborazione con l’allora Direzione Generale delle Antichità e dei Musei di Damasco. Ora, le traversie geopolitiche subite dalle terre del Vicino Oriente negli ultimi decenni ci hanno fatto dimenticare l’esistenza di questo antico monumento di fede, riportando drammaticamente in primo piano la vicenda dell’uomo che lo aveva fatto rinascere. In questa sede ne possiamo solo ricordare le tappe piú salienti: nel 2012 Paolo Dall’Oglio viene espulso dalla Siria a causa del suo pubblico impegno In alto: il padre gesuita italiano Paolo Dall’Oglio. In basso: una veduta del monastero di Deir Mar Musa.

contro le repressioni attuate dal regime di Damasco. Nel mese di luglio del 2013 viene rapito dai miliziani dell’Isis. Le sue tracce si perdono. Alcuni sostengono che sia stato assassinato e il suo corpo gettato in una fossa comune. Sono voci che, però, ancora attendono conferma. Noi qui vogliamo ricordarlo perché tra pochi giorni, il 17 novembre, quest’uomo di invidiabile coraggio, che ha vissuto e operato dando voce ai valori della libertà, della dignità umana e della giustizia, avrebbe compiuto – o forse compierà? – 70 anni. Andreas M. Steiner


SOMMARIO EDITORIALE

Una voce nel deserto

3

di Andreas M. Steiner

Attualità

6

SCAVI Aristocrazie aquileiesi

6

di Giampiero Galasso

28

TUMULO DELLA CUCCUMELLA

Il gigante di Vulci

34

di Alessandro Mandolesi

14

di Dario Daffara

MOSTRE I tesori di Rachu Kakunas 16 A TUTTO CAMPO Vedere l’invisibile 18

64 MOSTRE

Un antico campione di versatilità

10

di Alessandra Randazzo

FRONTE DEL PORTO Ritorna vincitor!

26

di Luciano Calenda

NOTIZIARIO

ALL’OMBRA DEL VULCANO Banchetti sí, ma non per tutti

MOSTRE L’inizio di una nuova vita ARCHEOFILATELIA Un ponte fra i continenti

64

di Cristina Ferrari

ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/16

34

L’etruscologo inconsapevole 76

SCAVI

La lunga vita di una valle

50

di Giuseppe M. Della Fina

di Giampiero Galasso

di Marco Valenti

50 € 6,50

2024

www.archeo.it

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LA BR DE PR ES L L EIS CI EG TO A NO RIA

ARCHEO 477 NOVEMBRE

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76 IN EDICOLA L’ 8 NOVEMBRE 2024

di Daniela Fuganti

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o. it

INCONTRI Quando il Colosseo si tinge di rosa

LETTERATURA

L’ETRUSCOLOGO INCONSAPEVOLE

Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Presidente

Federico Curti

Comitato Scientifico Internazionale Mens. Anno XXXIX n. 477 novembre 2024 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

SPECIALE VIA DELLA SETA

Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

VINCENZO CARDARELLI

Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it

LA PREISTORIA DEL LEGNO

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it

MISSIONE IN ALBANIA

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 – 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

CUCCUMELLA

Anno XL, n. 477 - novembre 2024 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

In copertina statuina in ceramica policroma smaltata raffigurante un cammello del cui carico fa parte anche una pezza di arrotolata. Epoca Tang (618-907). Londra, British Museum.

SPECIALE

RIVELAZIONI SULLA

VIA DELLA SETA VULCI

I SEGRETI DELLA CUCCUMELLA

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ALBANIA

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, Mounir Bouchenaki, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Venceslas Kruta, Henry de Lumley, Javier Nieto

MISSIONE NELLA VALLE DELLA VJOSA

28/10/24 10:35

Comitato Scientifico Italiano

Carla Alfano, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Giulio Paolucci, Sergio Pernigotti, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Jacopo Tabolli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Sue Brunning è curatrice della sezione dell’Alto Medioevo europeo del British Museum. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Dario Daffara è funzionario archeologo del Parco archeologico di Ostia antica. Giuseppe M. Della Fina è vice presidente della Fondazione per il Museo «Claudio Faina» di Orvieto. Cristina Ferrari è archeologa. Luciano Frazzoni è archeologo. Daniela Fuganti è giornalista. Giampiero Galasso è giornalista. Alessandro Mandolesi è archeologo presso Opera Laboratori. Elisabeth R. O’Connell è curatrice della sezione bizantina del British Museum. Alessandra Randazzo è giornalista. Marco Valenti è professore ordinario di archeologia cristiana e medievale all’Università degli Studi di Siena. Luk Yu-ping è curatrice delle collezioni di pitture e stampe cinesi e di materiali dell’Asia Centrale del British Museum.


Rubriche TERRA, ACQUA, FUOCO, VENTO

Le mille vie della maiolica

106

di Luciano Frazzoni

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

Matrimoni eroici 110 di Francesca Ceci

84 SPECIALE

110 LIBRI

Carovane cariche di storia 112

84

di Sue Brunning, Luk Yu-ping e Elisabeth R. O’Connell

Illustrazioni e immagini: Ufficio Stampa British Museum: The Trustees of the British Museum: copertina (e p. 88) e pp. 87 (basso), 92-95, 98-99, 103; ACDF of Uzbekistan, Samarkand State Museum Reserve: pp. 87 (alto), 90/91, 101 (basso); The Bodleian Libraries, University of Oxford: pp. 89, 90; Ashmolean Museum, University of Oxford: p. 100; Bode-Museum, Museum für Byzantinische Kunst, Berlino: Antje Voigt: p. 101 (alto); Asian Civilisations Museum, Tang Shipwreck Collection, Singapore: p. 102 – Doc. red.: pp. 3, 22, 24, 34/35, 37, 76, 78-85, 9697, 104-108 – Cortesia Soprintendenza ABAP per il Friuli Venezia Giulia: pp. 6-9 – Parco archeologico di Pompei: pp. 10-11 – Parco Archeologico di Ostia antica: pp. 14-15 – Cortesia Museo Archeologico Nazionale di Firenze: p. 16 – Università degli Studi di Siena: DSSBCDipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali: pp. 18-19 – Cortesia Ufficio Stampa e Promozione Susan G. Komen Italia: pp. 20-21, 23 – Ufficio Stampa Studio Esseci: p. 26 – Cortesia degli autori: pp. 36 (basso), 38-49, 110-111 – Cortesia Università degli Studi di Bari «Aldo Moro»-Istituto di Archeologia dell’Accademia delle Scienze d’Albania,Tirana: pp. 50/51, 52 (basso), 52/53, 53, 54-61 – Cortesia Archivio del Museo Archeologico della Valle Sabbia/su concessione MIC: pp. 64-65, 66 (basso), 66/67, 68-75 – Mondadori Portfolio: Archivio GBB: p. 77 – Historiska museet/SHM, Stoccolma: Ola Myrin: p. 86 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 36 (alto), 52 (alto), 66, 88/89.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia srl Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Il Servizio Arretrati è a cura di: Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Srl - 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito: https://arretrati. pressdi.it

L’indice di «Archeo» 1985-2023 è disponibile sul sito https://ulissenet.comperio.it/ Registrandosi sulla home page si ottengono le credenziali per la consultazione di prova


n otiz iari o SCAVI Friuli-Venezia Giulia

ARISTOCRAZIE AQUILEIESI

L’

area prospiciente via Gemina ad Aquileia, coincidente con un’insula residenziale situata tra il foro romano e il porto fluviale della città antica, è stata recentemente oggetto di una serie di indagini archeologiche da parte del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Trieste, svolte nell’ambito della concessione di scavo del Ministero della Cultura e in collaborazione con la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del Friuli Venezia Giulia e la Fondazione Aquileia, a cui è conferito questo settore dell’area archeologica. Lo scavo è stato a lungo diretto (2005-2023) da Federica Fontana – prematuramente scomparsa nello scorso maggio – e, grazie al suo lavoro condotto nell’area, ha portato sia a importanti risultati per la ricostruzione di un tassello della forma urbis di Aquileia, sia alla formazione di nuove generazioni di professionisti archeologi. Gli obiettivi principali di questa campagna si sono concentrati su due aspetti fondamentali: da un lato la verifica della suddivisione originaria dell’insula a stratigrafia complessa e, dall’altro, la comprensione del rapporto stratigrafico e funzionale tra la Casa dei Putti Danzanti e le strutture rinvenute in anni precedenti, in particolare il complesso abitativo noto come Casa del Fondo RitterZàhony, scoperto da Giovanni Brusin negli anni Trenta del Novecento e poi reinterrato. Grazie allo scavo è stato possibile riscoprire una serie di ambienti che per caratteristiche e dimensioni

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corrispondono a quelli individuati proprio da Brusin nel secolo scorso. Questo risultato ha permesso non solo di ampliare la comprensione del sito, ma anche di georeferenziare gli interventi effettuati in passato, verificando la corrispondenza tra i resti archeologici e i dati d’archivio, tra cui piante, fotografie e disegni: una strategia di ricerca fondamentale per la ricostruzione puntuale della storia urbana di Aquileia. Un altro risultato significativo riguarda la revisione cronologica di alcuni pavimenti musivi, precedentemente datati sulla base di analisi stilistico-tipologiche e ora riconsiderati grazie ai nuovi dati stratigrafici e all’associazione con i materiali rinvenuti. Questo

In alto: Aquileia, via Gemina. Pavimento a mosaico con tessere in bianco e nero. Nella pagina accanto: un settore dell’area indagata dai recenti scavi. In basso: uno degli ambienti pavimentati già scoperti da Giovanni Brusin negli anni Trenta del Novecento e riemerso durante le nuove indagini.

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n otiz iario

Particolare del mosaico policromo con raffigurazione di Eroti alati.

approccio multidisciplinare ha permesso di proporre nuove ipotesi di datazione che potrebbero risalire a periodi differenti rispetto a quanto supposto in precedenza, fornendo cosí una visione piú precisa della sequenza storica e dell’evoluzione architettonica della zona. Uno degli aspetti piú interessanti emersi dai recenti scavi è la

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possibile connessione tra i resti rinvenuti negli anni Trenta e quelli della Casa dei Putti Danzanti, che potrebbero costituire, a seguito di interventi di restauro e rifunzionalizzazione, un settore di rappresentanza della residenza. L’estensione di questa ricca domus, di cui non è ancora stato individuato il limite, sembra

interessare l’intera insula, confermando la monumentalità e la centralità della lussuosa abitazione: «È verosimile – spiega la nuova direttrice dello scavo per l’UniTS, Emanuela Murgia – proporre la presenza di piú ingressi: il principale (non ancora individuato) doveva aprirsi verso la via Gemina, da alcuni indicata come il


decumano principale della città antica, posta a sud della strada moderna, mentre un’area di accesso secondaria, dotata di corte lastricata e di un pozzo, è stata in parte scavata sul lato orientale della domus, in rapporto con il cardine che delimitava a est l’insula. Ciò che si evince con grande evidenza dalla lettura planimetrica della Casa è l’accostamento paratattico di nuclei di ambienti raccolti attorno ad almeno tre corti scoperte collegate da corridoi, ma in qualche modo autonomi e definiti da destinazioni diverse». Realizzato nei decenni centrali del IV secolo d.C., il complesso edilizio, che si inserisce tra i piú interessanti contesti di natura residenziale tardo-antica dell’Italia settentrionale, apparteneva con molta probabilità a un funzionario imperiale o a elementi dell’aristocrazia locale. «L’ipotesi circa l’elevato status

Anello in argento raffigurante i volti di due sposi. In basso: statuetta in marmo raffigurante Dioniso, rara testimonianza dell’arredo scultoreo della Casa dei Putti Danzanti. sociale, economico e culturale del proprietario della domus, già formulata sulla base di altri parametri (come le scelte topografiche, architettoniche, decorative) – precisa Murgia – sarebbe confermata dal ritrovamento di una coppa diatreta in vetro dicroico, che costituisce, attualmente, l’unica testimonianza di rilievo di questa produzione di lusso nella città alto-adriatica (sono conservati nel Museo Archeologico Nazionale di Aquileia pochi frammenti di forme non ricostruibili). Al pari di altri prodotti suntuari, i vasa diatreta erano riservati a funzionari o notabili in rapporto con la corte imperiale, se non a esponenti della stessa, destinazione che potrebbe ben spiegare anche la rarità delle attestazioni di tale classe. Indicativo, in tal senso, sarebbe il fatto che alcuni vasa diatreta siano stati rinvenuti nelle capitali tardo-antiche, come Roma, Treviri e Milano». L’edificio subí importanti fasi di ristrutturazione, sia nella seconda metà del IV secolo, sia, forse, nel corso del secolo successivo, periodo al quale risalirebbero il restauro e la realizzazione di alcune

pavimentazioni musive della casa e la costruzione di intramezzi murari per suddividere grandi ambienti in spazi piú piccoli. Tra le scoperte piú rilevanti avvenute con le recenti indagini figura un piano in cocciopesto, individuato a piú di un metro di profondità al di sotto di un riporto in argilla, la cui cronologia è ancora in fase di definizione, ma che potrebbe risalire a un periodo anteriore alla metà del I secolo d.C. Il ritrovamento è avvenuto in un ambiente che, per l’assenza di pavimenti musivi, potrebbe essere stato destinato a giardino. Inoltre, durante lo scavo, nell’area è stata recuperata anche una pregevole statuetta in marmo raffigurante Dioniso, rara testimonianza dell’arredo scultoreo della domus. I risultati finora ottenuti aprono la strada a future campagne di scavo, che potrebbero ulteriormente chiarire la configurazione e l’uso degli spazi in questo settore centrale della città antica. Le indagini continueranno il prossimo anno, con l’obiettivo di definire con maggiore precisione i limiti della Casa dei Putti Danzanti e di approfondire la conoscenza delle fasi insediative precedenti e successive alla sua costruzione. Giampiero Galasso

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ALL’OMBRA DEL VULCANO di Alessandra Randazzo

BANCHETTI SÍ, MA NON PER TUTTI UNITO AL CONFRONTO CON LE NOTIZIE RIPORTATE DALLE FONTI, LO STUDIO DEI MATERIALI ORGANICI RINVENUTI NELLE CITTÀ VESUVIANE PERMETTE DI RICOSTRUIRE LA DIETA DI CHI LE ABITÒ. E L’ASSORTIMENTO DELLE PIETANZE DIPENDEVA, COM’È FACILE INTUIRE, DALLE DISPONIBILITÀ ECONOMICHE

P

ossiamo farci un’idea di come doveva svolgersi una tipica cena romana attraverso il racconto del Satyricon di Petronio Arbitro, nel quale, al gusto ricercato e allo sfarzo manifestati dal padrone di casa, il liberto arricchito Trimalchione, si accompagnano una certa pacchianeria e un generale senso del ridicolo. Non era forse questo lo scenario tipico di Pompei, ma di certo, pur nell’esagerazione letteraria, non mancavano anche qui banchetti

eccezionali, serviti nelle bellissime e preziose sale da pranzo delle domus piú ricche, come quella dei Vettii o quella oggi chiamata delle Nozze d’Argento o, ancora, quelle dotate di sontuosi giardini, come la Casa di Loreio Tiburtino. I preziosi servizi di argenteria ritrovati a Pompei nella Casa del Menandro e a Boscoreale nella Villa della Pisanella, ciascuno dei quali è composto da oltre cento pezzi di argento finemente lavorati, sono testimonianza del lusso che anche In alto: zucche coltivate nel vivaio della Casa di Pansa. A sinistra: particolare di un affresco pompeiano raffigurante pesci e anguille. Nella pagina accanto, da sinistra: mandorle coltivate all’interno del Parco; affresco raffigurante una natura morta con uova e pollame.

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in un centro di provincia come Pompei rappresentava un largo margine sociale di ricchezza diffusa. L’accesso al cibo risultava comunque difficoltoso per buona parte della popolazione, anche se la base alimentare rimaneva la medesima per ricchi e poveri; i problemi di reperimento, preparazione e consumo generavno forti squilibri sociali, soprattutto perché molti non disponevano di una cucina propria in cui preparare i pasti. Le strutture in legno delle case erano facile preda dei frequenti incendi e il focolare, se non ben governato, rappresentava un luogo ad altissimo rischio. Le classi piú modeste, che occupavano spesso piccoli e angusti appartamenti ai piani superiori, quando non


ambienti di fortuna, consumavano un pasto rapido, il prandium, nei locali che servivano cibo veloce in ogni quartiere della città; il contenuto e la qualità del prandium dipendevano, ovviamente, dal... borsellino. Molti consumavano solo una colazione, lo jentaculum, a base di pane, aglio e formaggio, oppure con miele e frutta, datteri e miele, a volte anche carne.

FARINE POCO RAFFINATE La base dell’alimentazione era costituita da pane e vino – il primo realizzato con farina, poco raffinata, di ghiande, farro oppure orzo –, a cui si aggiungevano ortaggi e legumi (soprattutto fave, piselli, lenticchie, lupini, bieta, cavoli, lattuga, cipolle, porri...) e frutta (noci, olive, uva, prugne, meloni, fichi, pere…). Questo regime alimentare, simile all’attuale dieta mediterranea – sebbene quest’ultima sia rappresentata dall’applicazione di uno stile di vita piú che dall’impiego di determinati cibi –, si completava anche con proteine di origine animale derivate da latte, uova, formaggi e, piú di rado, con carne, per lo piú di maiale. Piú raro era il consumo di carne bovina, cucinata solo in casi eccezionali o in occasione di sacrifici pubblici. Nelle aree costiere, alla dieta si aggiungeva anche il pesce, ma solo i piú abbienti potevano praticare la piscicoltura o l’ostricoltura e, addirittura, l’allevamento in casa di pesci rari come le murene (che richiedono acqua marina); anche prelibatezze come le ostriche

rimanevano appannaggio solo di alcuni ricchi che potevano offrire queste pietanze durante i loro magnifici banchetti. Alla base composta da pane e vino si aggiungeva l’olio d’oliva – come insaporitore piú che come base di cottura, per via dei suoi costi elevati –, la cui produzione in Campania era abbondante e pregiata. Non poteva poi mancare il garum, la celebre salsa a base di pesce, di cui i Romani erano ghiotti. Il gusto romano aveva una certa preferenza per gli alimenti molli e grassi rispetto a quelli croccanti, piacevano molto il salato e il dolce mescolati insieme e usando il miele per dolcificare, dato che lo zucchero da canna, di origine tropicale e già testimoniato da Alessandro Magno, doveva essere una vera rarità. Il largo uso di spezie e salse piccanti insaporiva cibi bolliti, arrostiti o fritti e probabilmente vi si faceva ricorso anche per coprire i forti odori di cibi mal conservati. Il cibo bollito era spesso scondito e il garum serviva proprio a dare una spinta di gusto alla pietanza. Il menú delle taverne era spesso composto da pane, vino e pulmentarium, una sorta di stufato di legumi secchi molto simile alle antiche polente, quelle a base di orzo o di farro, al quale si aggiungevano carne di maiale stracotta, salsicce o altri preparati. È stato possibile ricavare molte informazioni sulla dieta pompeiana

grazie ai rinvenimenti di materiali organici provenienti dai siti vesuviani e oggi conservati presso il Laboratorio di Ricerche applicate del Parco Archeologico di Pompei.

ALLA MANIERA ANTICA Il nucleo piú consistente è costituito da vegetali carbonizzati, a partire dai quali – e sulla base dello studio delle fonti antiche e grazie al lavoro scientifico del Primo Giardiniere del Parco, Maurizio Bartolini –, l’area funzionale «Cura Aree Verdi» ha avviato la coltivazione delle specie antiche della flora pompeiana, adottando le tecniche di coltivazione del tempo, presso il vivaio della Casa di Pansa, nella Regio VI. Si tratta di luogo unico e suggestivo, nel quale si possono scoprire fiori, frutti, ortaggi, legumi della dieta antica ed è anche un centro di ricerca e sperimentazione in cui si studiano le caratteristiche delle specie antiche e della loro coltivazione, non solo per conoscenza storica, ma per comprenderne le risorse di adattabilità alle attuali condizioni climatiche, secondo il motto: «studiare il passato per capire il presente e produrre il futuro». Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico; Instagram: PompeiiParco Archeologico; X: Pompeii Sites; YouTube: Pompeii Sites.

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FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese

RITORNA VINCITOR! È LA RISPOSTA IN CUI CONFIDAVANO I GENERALI INTERROGANDO L’ORACOLO DELL’AQUA SALVIA, NELL’AREA SACRA REPUBBLICANA, UN CONTESTO FATTO OGGETTO DI IMPORTANTI RESTAURI E NUOVE INDAGINI

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razie a uno speciale finanziamento europeo, l’Area Sacra Repubblicana di Ostia antica è tornata a risplendere dopo un complesso intervento di sistemazione monumentale e di restauro. La lunga storia del santuario – scoperto nel 1938 durante gli scavi per l’Esposizione Universale di Roma del 1942 – è stata chiarita nel corso dei decenni: fondato probabilmente nel III secolo a.C. per il culto oracolare di Ercole Invitto, il complesso sorse all’esterno del primitivo insediamento, lungo la strada che collegava la città alla foce del Tevere. Qui si trovava una sorgente, l’Aqua Salvia, presso la quale i generali interrogavano l’oracolo prima di partire per le spedizioni militari. Spesso i condottieri donavano al santuario il frutto delle loro conquiste, come fece probabilmente Silla al termine della prima guerra mitridatica (89-85 a.C.), dedicando al santuario alcune statue depredate ad Atene. Con l’instaurazione del principato e l’allontanamento della flotta militare da Ostia, il santuario perse gradualmente la sua importanza, ma venne ancora frequentato e restaurato fino alla fine del IV secolo d.C. L’area è dominata dalla mole del Tempio di Ercole, costruito

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su alto podio in blocchi di tufo, e da due templi minori dei quali non si conoscono con certezza le divinità titolari: verso sud il Tempio dell’Ara Rotonda, forse dedicato a Vulcano e sontuosamente rivestito di marmi in età domizianea, e sul margine nord il Tempio Tetrastilo, probabilmente riservato al culto di Esculapio/Asclepio.

PIENA ACCESSIBILITÀ I recenti interventi di restauro si sono concentrati sul Tempio di Ercole e sul Tempio dell’Ara Rotonda: nel primo si è provveduto a consolidare i resti della pavimentazione musiva, pertinenti a due fasi distinte, e a realizzare un


nuovo piano di calpestio in conglomerato di malta e ciottoli, che ha reso finalmente accessibile l’interno dell’edificio. Qui i visitatori potranno ammirare le basi e i capitelli tuscanici in tufo di Grotta Oscura, pertinenti alla decorazione della cella di epoca tardorepubblicana. Nell’adiacente Tempio dell’Ara Rotonda si è invece provveduto a sostituire la copertura esistente, ormai obsoleta, con nuove lastre di alluminio trattato; la pavimentazione del pronao è stata ripristinata chiudendo i vecchi saggi e realizzando un nuovo accesso per il pubblico, che potrà affacciarsi all’interno dell’edificio alla quota della fase domizianea. Tutti i rivestimenti marmorei sono stati ripuliti e consolidati, mentre alcuni lacerti di mosaico sono stati ricollocati all’interno della cella. L’accesso all’area è stato garantito con un nuovo percorso per disabili realizzato in battuto di malta e terra, che si armonizza con l’adiacente basolato romano. Si è inoltre provveduto a scongiurare il pericolo di allagamenti, una piaga che ha spesso interessato l’area nei decenni passati: a questo scopo è stata completamente scavata e svuotata una canalizzazione del II secolo d.C. che corre ai piedi della scalinata del Tempio di Ercole,

Dall’alto, a sinistra, in senso orario: un operatore dell’associazione A.S.S.O. durante i lavori di svuotamento del pozzo; due immagini dell’oggetto imbutiforme rinvenuto nel pozzo. Nella pagina accanto, dall’alto: l’Area Sacra Repubblicana al termine dei recenti lavori di sistemazione; lo scavo della canalizzazione ai piedi del Tempio di Ercole. collegata alla grande cloaca sotto a via della Foce. La fognatura antica aiuterà quindi a mantenere i templi repubblicani all’asciutto, grazie anche a una canaletta di scolo rivestita in blocchi di tufo, che riprendono la cromia dell’area.

IL POZZO DELLE SORPRESE Infine si è provveduto a consolidare e mettere in sicurezza il pozzo nel piazzale, realizzato in blocchi di tufo e risalente all’età tardorepubblicana: durante il suo svuotamento – effettuato grazie all’associazione speleologica A.S.S.O. – sono tornati in luce interessanti manufatti databili al I-II secolo d.C., apparentemente non disturbati da interventi moderni. Si tratta di un discreto numero di anforischi, ceramica da fuoco, ossa di suini, ovini e bovini, resti che fanno pensare ai banchetti sacri in

onore delle divinità qui venerate. Insieme a questi oggetti si sono miracolosamente conservati alcuni elementi lignei, in particolare vari tappi di anfora, un manico cilindrico costolato e un oggetto imbutiforme ancora in corso di studio: potrebbe trattarsi di un elemento di mobilio, oppure di parte di uno strumento musicale, o (piú semplicemente) di un imbuto vero e proprio, forse uno degli utensili usati per il culto. Il fatto che tutti gli oggetti trovati siano pertinenti al I e al II secolo d.C. suggerisce che il pozzo sia stato sigillato poco dopo, forse in seguito a un rito di chiusura. I ritrovamenti e la sistemazione del complesso, finalmente restituito alla fruizione del pubblico, saranno presto oggetto di un’estesa pubblicazione, contribuendo a gettare nuova luce sulla storia del santuario. Dario Daffara

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n otiz iario

MOSTRE Toscana

I TESORI DI RACHU KAKUNAS

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razie alla collaborazione con il Museo Archeologico Nazionale di Firenze, il Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» di Vetulonia ha potuto accogliere nuovamente Rachu Kakanas e il suo splendido corredo funerario, protagonisti della mostra «Il ritorno del condottiero: Principi etruschi nella Tomba del Duce di Vetulonia». L’evento si svolge a vent’anni di distanza dalla prima esposizione della tomba al MuVet e a dieci dalla rimessa in luce nel sottobosco della macchia mediterranea della struttura funeraria. Qui, all’interno di un «circolo di pietre bianche», erano racchiuse le deposizioni dei membri emergenti di un nucleo familiare gentilizio che doveva ricoprire un ruolo di rilievo nella compagine sociale vetuloniese della prima metà del VII secolo a.C.

Come ha spiegato il direttore del MAF, Daniele Maras, «Le gallerie della sezione topografica etrusca del museo sono state svuotate, e, piuttosto che chiudere in deposito il materiale archeologico, abbiamo deciso di riportare a Vetulonia i corredi della Tomba del Duce, per un periodo di tempo adeguato a rinsaldare il rapporto tra il nostro patrimonio e le comunità dei residenti e dei turisti. La nuova mostra consente al Museo di proiettarsi all’esterno per raggiungere uno dei luoghi in cui si svolse la parabola storica della civiltà etrusca e di seguire la sua vocazione originaria come punto di riferimento della ricerca archeologica etrusca. A questa iniziativa ne seguiranno altre simili: questo è l’obiettivo del Museo in tutto l’antico territorio etrusco, laddove si troveranno

In alto: coperchio di incensiere in bronzo, dalla Tomba del Duce. VII sec. a.C. In basso: l’urna in argento sbalzato della Tomba del Duce. VII sec. a.C.

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Amministrazioni locali cosí tenacemente disponibili a impegnarsi per la promozione della cultura come nel caso di Castiglione della Pescaia». L’evento segna quindi una tappa fondamentale nel rapporto di collaborazione tra i due musei, accomunati dall’interesse per il patrimonio archeologico etrusco vetuloniese. (red.)

DOVE E QUANDO «Il ritorno del condottiero: Principi etruschi nella Tomba del Duce di Vetulonia» Vetulonia, Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» Info tel. 0564 948058; www.museoisidorofalchi.it



A TUTTO CAMPO Marco Valenti

VEDERE L’INVISIBILE L’ABBAZIA CISTERCENSE DI SAN GALGANO, NEL TERRITORIO SENESE DI CHIUSDINO, È UNA DELLE GRANDI METE TURISTICHE DELLA TOSCANA. MA IL COMPLESSO MONUMENTALE OGGI VISIBILE, PUR IMPONENTE, OFFRE SOLO UN’IMMAGINE PARZIALE DEL VASTO CONTESTO ORIGINARIO

L’

area di Chiusdino nell’alta Val di Merse, a sud-ovest di Siena, è da circa trent’anni oggetto di ricerca della cattedra di archeologia medievale dell’Università di Siena, culminata nella redazione della carta archeologica e approfondita dallo scavo di due siti: l’incredibile contesto di Miranduolo, la cui storia inizia nel VII e termina agli inizi del XIV secolo, e l’altro, piú recente, dell’abbazia di S. Galgano (vedi Archeo nn. 452 e In alto: ricostruzione virtuale della cittadella monastica: in bianco gli edifici al momento solo ipotizzabili. A sinistra: veduta aerea del complesso monumentale di S. Galgano. 453, ottobre e novembre 2022; on line su issuu.com), costruita nel primo ventennio del XIII e in crisi progressiva dalla fine del secolo successivo, sino alla sua trasformazione in fattoria in età Moderna e ai restauri integrativi del primo Novecento. Questo secondo complesso è meta di importanti flussi turistici e costituisce una delle cartoline della Toscana, ben presente nell’immaginario collettivo per la grande chiesa priva di tetto – che immerge in atmosfere «gotiche» – e

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per la celebre «spada nella roccia» nella cappella dell’adiacente Montesiepi: qui il cavaliere Galgano Guidotti aveva posto il suo eremo nella seconda metà del XII secolo, conficcando la spada nel suolo, un gesto che è stato collegato alle origini del ciclo bretone arturiano. Le azioni di scavo nell’abbazia, la piú potente fondazione cistercense in Toscana, hanno l’obiettivo di comprenderla nella sua complessità: rendere cioè visibile l’invisibile, perché la realtà di S. Galgano, ben piú estesa di ciò che è oggi osservabile e visitabile, è ancora conservata nel sottosuolo.

GLI SCRANNI DEI MONACI Le indagini sono iniziate nella primavera 2019 e hanno interessato piú di 800 mq, che corrispondono al 14% della chiesa abbaziale e al 7% dell’intera particella catastale comprendente il monumento. Le aree analizzate all’interno dell’edificio, oltre a rivelare la presenza di una monumentale «scala notturna» in muratura, mostrano la consistenza delle pavimentazioni in mattoni e del tetto, che pare essere stato ricoperto da tegole e coppi. In particolare, si sono riconosciuti nell’area presbiteriale i cosiddetti sedilia, cioè gli scranni dei monaci officianti, oltre a una tomba con altare sovrastante, già presente nelle fasi di costruzione di XIII secolo; la tomba, tuttavia, è apparsa vuota: circostanza che crea incertezza sul fatto che il corpo sia stato traslato altrove, oppure si tratti di un cenotafio (= tomba vuota), allestito per ragioni rituali. All’esterno dell’edificio si stanno mettendo in luce le componenti della cittadella monastica: il refettorio (28,5 x 12 m), con il pulpito e il palchetto e l’area delle cucine (20 x 11,7 m), con i settori riservati alla cottura e al lavaggio di cibi e stoviglie. Tramite analisi sulla concentrazione di azoto, potassio e

A sinistra: frammento di boccale in maiolica arcaica (fine XIII-inizi del XIV sec.), con probabile raffigurazione di Galgano Guidotti-san Galgano. A destra: ricostruzione del refettorio, con la disposizione dei tavoli. fosforo nel suolo, abbiamo ricreato il «fantasma chimico» del tavolo dell’abate, posto sul palco e nella parte meridionale del refettorio, mentre lo spazio restante ospitava i tavoli dei monaci; in prossimità del pulpito era collocata una croce astile (una croce su asta usata nelle processioni) in ottone, forse di fattura francese. In generale, l’alimentazione dei monaci si basava su zuppe di cereali consumate in piccole olle monoporzione, su molto pesce e poca carne, soprattutto di pecora, che compone il 73% del campione delle ossa rinvenute. È interessante il consumo ittico, nella quasi totalità composto da specie marine, tra le quali emerge per quantità la spigola, probabilmente allevata nella peschiera di Grado (tra Grosseto e Castiglione della Pescaia), donata a S. Galgano nel 1298, oppure proveniente dalla grancia di Vignale: in entrambi i casi a due giorni di cammino dall’abbazia. Le dotazioni ceramiche evidenziano contatti stretti con gli ambienti urbani di Siena, ma non mancano prodotti «esotici», come i catini in maiolica arcaica umbrolaziali o quelli in cobalto manganese di produzione tunisina della prima metà del XIII secolo, oltre al catino in monochrome slip

ware, databile tra gli anni Trenta del XIII e la metà XIV secolo, di probabile origine siciliana. Si segnala, inoltre, un frammento di boccale in maiolica arcaica, riconducibile a produzioni del XIII secolo inoltrato, con decorazione antropomorfa: un giovane che ricorda le immagini di Galgano, nell’abito e nell’acconciatura, mentre la pennellata nera sul fianco sinistro potrebbe alludere all’elsa di una spada.

L’ABBANDONO Nei primi decenni del Quattrocento il refettorio risulta abbandonato e al suo interno viene impiantata una fornace da campane, attribuibile al campanaio senese Giovanni di Tofano di Magio, che nel 1420 è incaricato di fondere la nuova campana di Montesiepi. S. Galgano è un contesto complesso, di cui sfuggono ancora dettagli rilevanti, ma che lascia già trapelare la notevole consistenza monumentale: la ricognizione di superficie, integrata con voli di drone dotato di termocamera e i risultati preliminari dello scavo mostrano un’abbazia articolata in varie componenti. Il prosieguo delle indagini mostrerà senza dubbio un complesso decisamente diverso da quello oggi visibile. (marco.valenti@unisi.it)

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INCONTRI Roma

QUANDO IL COLOSSEO SI TINGE DI ROSA

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ello scorso ottobre il Colosseo si è tinto di rosa, per una notte, e sul monumento correva la scritta «La prevenzione è il nostro capolavoro», slogan di Komen Italia, l’associazione no profit per la ricerca sui tumori al seno, affiliata alla casa madre statunitense creata a Dallas nel 1982, per iniziativa di Nancy G. Brinker, in memoria della sorella, Susan Komen, scomparsa prematuramente appunto a causa di un cancro alla mammella. «L’arte si mette al sevizio della prevenzione – ha commentato nell’occasione Alfonsina Russo, direttrice del Parco Archeologico

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del Colosseo – e noi vogliamo dare il nostro contributo a una campagna di informazione fondamentale per la guarigione di milioni di donne». «Il seno – spiega il professor Riccardo Masetti, fondatore di Komen Italia e direttore del dipartimento di chirurgia senologica al Policlinico Gemelli di Roma – è la parte piú delicata e simbolica dell’identità femminile: per questo il tumore alla mammella ha una valenza particolare nell’ambito dell’oncologia e la senologia va considerata come la piú umana delle discipline mediche».

In effetti, i tumori non sono nati, come molti credono, con la civiltà moderna. La loro cura ha sollecitato l’ingegno e la fantasia di medici e guaritori in tutti i tempi. La prima descrizione di cancro alla mammella compare in Egitto, ed è contenuta nel Papiro Edwin Smith (1600 a.C.) – un vero trattato chirurgico –, che descrive otto casi di tumori e ulcere alla mammella rimossi mediante cauterizzazione con uno strumento chiamato sonda di fuoco. Apprendiamo dal Papiro Ebers (1500 a.C.) – il piú esteso testo sanitario allora conosciuto – che gli Egizi conoscevano piú di 320 malattie e 180 farmaci.


In alto: l’accensione del Colosseo in occasione della campagna di prevenzione promossa da Komen Italia. Da sinistra: Bianca Casieri, Eliana Naso, Violante Guidotti Bentivoglio, Riccardo Masetti, Alfonsina Russo, Marina Giuseppone, Daniele Piacentini e Daniela Terribile. A sinistra: il Colosseo «in rosa», con lo slogan di Komen Italia. Il prezioso documento racconta come in quel periodo esistesse una gerarchia medica definita, con tre categorie ben distinte: medici, chirurghi e guaritori. La formazione dei medici avveniva presso le «case della vita», poste vicino ai templi e alle biblioteche. I medici si dovevano attenere alle pratiche tradizionali e si rifiutavano di trattare i malati terminali. Contro tumefazioni infiammatorie e tumori maligni alla mammella, il Papiro Ebers consiglia incisioni, medicamenti e trattamenti magici. Gli Egizi conoscevano i mezzi per praticare una sorta di anestesia con una speciale pietra estratta vicino a Menfi che veniva ridotta in polvere e applicata sulla parte dolorante. Venivano usati a scopo anestetico, anche gli effetti sedativi della polvere di carrubo, del coriandolo e dell’oppio. Sembra inoltre che gli Egizi si servissero del pane

ammuffito contro le infezioni perché risultava efficace per la sua azione antibiotica! «Esiste una malattia che divora i tessuti», si legge a proposito del cancro, sul Papiro Kahun (1800 a.C.), il piú antico compendio di ginecologia finora ritrovato in Egitto. Nella prima traduzione, pubblicata in Inghilterra, la versione riporta i termini dell’anatomia femminile in latino invece che in inglese, perché ritenuti poco consoni al lettore. «Se il dolore è posizionato fra l’ombelico e le natiche» è dichiarato incurabile. Si parla anche di stupro (paragrafo 2: «una donna sofferente nelle parti intime e che sia stata maltrattata»), anche se la prescrizione di assumere olio di oliva per bocca fino alla guarigione, lascia perplessi. Accanto ai sistemi per facilitare la gravidanza (incenso, olio fresco, datteri e birra),

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n otiz iario abbiamo anche i contraccettivi: escrementi di coccodrillo sciolti in latte acido, oppure l’inserimento in vagina di un tampone con miele, spine di acacia tritate e natron (indicato come efficace per uno, due o tre anni). E in effetti le spine di acacia contengono acido lattico, tuttora usato per creme e gelatine contraccettive! Il metodo per determinare se una donna fosse fertile – l’inserimento di una cipolla in vagina per una notte, controllando se l’alito sappia di cipolla il giorno seguente – fu ripreso da Ippocrate ben 1500 anni piú tardi. Oltre ai sistemi piú

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bizzarri, la fumigazione della vagina era molto praticata: si prescrive di sottoporre «le parti in questione» al fumo di carne arrostita o di una miscela di incenso grasso birra e datteri per favorire la fertilità e risolvere i problemi ginecologici. Non esistevano tracce archeologiche di questo tipo di trattamento fino al 2016, quando una équipe spagnola portò alla luce nella necropoli di Qubbet El-Hawa il sarcofago di Sattjeni, una nobildonna vissuta nella XII dinastia (1800 a.C. circa). Sattjeni aveva il bacino fratturato, che le provocava forti dolori. E fra le sue

gambe, vicino alla zona pelvica, era stata deposta una ciotola in ceramica con evidenti segni di bruciature, compatibili con le fumigature che avrebbero mitigato le sue sofferenze anche nell’aldilà… Solo nel V secolo a.C., con Ippocrate e la scuola medica di Coo (sua isola natale), si giunge a una descrizione piú precisa del cancro e una sua prima classificazione. La teorizzazione dei quattro umori del corpo – bile nera, sangue, bile gialla, flegma –, il cui equilibrio determina lo stato di salute, getta le fondamenta della medicina occidentale. Ippocrate usa il


termine karkinos (da cui carcinoma) per descrivere il tumore alla mammella che, con prolungamenti radiati simili a chele, ricorda la sagoma di un granchio. «Nei santuari etrusco-italici, dal IV fino al II sec a.C. – osserva Alfonsina Russo –, ritroviamo molti ex voto anatomici a forma di mammella, generalmente appartenenti alla sfera riproduttiva, come protezione di fertilità. Ma alcuni esemplari tipologicamente piú rari, come le mammelle doppie, appartengono alla sfera della sanatio, e si distinguono per la minuta raffigurazione di uno stato patologico, probabilmente dovuto al ragadismo, o forse al tumore». I medici di epoca romana identificarono in effetti vari tipi di cancro. Celso (25 a.C.-45 d.C.), attivo al tempo di Augusto, riconosce persino le metastasi e il coinvolgimento dei linfonodi nella diffusione della malattia. E Galeno (129-200 d.C.), grazie alle acquisizioni scientifiche sull’anatomia ottenute dai medici

alessandrini – anche con metodi vietati, come la vivisezione dei carcerati –, fornisce la prima vera descrizione di un tumore mammario. Introduce il termine sarcoma, per indicare i tumori carnosi, oggi detti tessuti molli. «Nel 2019 un team di archeologi della Sapienza Università di Roma, guidati da Domenico Palombi – racconta Alfonsina Russo – ha portato alla luce, sotto la basilica di Massenzio, proprio il celebre laboratorio di Galeno di Pergamo, che arrivò a Roma alla metà del II secolo d.C. e, divenuto medico di corte, si distinse anche per aver salvato la famiglia imperiale dalla grande peste che, tra il 160 e il 190, aveva decimato la popolazione. In veste di medico dell’imperatore, Galeno utilizzava una apotheca, probabilmente situata sulla via Sacra, presso gli Horrea Piperataria, i magazzini in cui venivano stipate le spezie provenienti da tutti i domini dell’Impero, usate per la preparazione di droghe e pomate. Sappiamo che Galeno frequentava

questi magazzini, dove si potevano acquistare farmaci, composti già pronti e materiale chirurgico, come i lacci emostatici e da sutura. Intorno a questa zona, presso il tempio della Pace, lo stesso Galeno testimonia lo svolgimento di dimostrazioni anatomiche, spettacoli piuttosto forti, ma molto apprezzati dal pubblico colto: la dissezione e la vivisezione animale. Il laboratorio del famoso medico con tutti i suoi tesori, preziosi libri e aromi, bruciò alla fine del 191 d.C., nall’incendio che distrusse la città, dal Foro della Pace fino al Palatino». Ancora a proposito del cancro alla mammella, Galeno osservava che raramente venivano colpite da questa malattia le donne vivaci. Una tesi già sostenuta prima di lui da Ippocrate, il quale affermava che si ammalavano di cancro le persone melanconiche. Queste antiche convinzioni oggi trovano dimostrazioni scientifiche. «Dati sempre piú robusti nella letteratura scientifica – spiega il professor Masetti – confermano che uno stato

Nella pagina accanto: un foglio del Papiro Edwin Smith. 1600 a.C. circa. New York, The New York Academy of Medicine. In basso: foto ricordo scattata in occasione dell’accensione del Colosseo per la campagna di Komen Italia.

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permanente di malessere psichico o di stress cronico negativo può concorrere allo sviluppo o alla progressione sfavorevole di un tumore. Lo stress cronico può ostacolare i processi di riparazione del DNA, inibire l’attività di alcune cellule del sistema immunitario e ridurre la resistenza dell’organismo ad alcuni oncogeni, favorendo cosí la trasformazione delle cellule sane in cancerose». Aezio di Amida (502-575 d.C.), medico alla corte di Giustiniano, ci fornisce la prima stupefacente illustrazione tecnica di una mastectomia, eseguita secondo il metodo di due talentuosi medici greci dell’epoca, Leonida e Sorano. «Ieri come oggi – osserva Masetti – il talento del chirurgo si avvicina a quello dell’artigiano, e si esprime a livelli piú o meno alti anche in relazione a qualità innate di creatività e di estro di cui l’artigiano può essere piú o meno dotato. Nel caso dell’artigiano-chirurgo, a queste doti se ne aggiungono altre: la prudenza, il buon senso, la lucidità e la capacità di individuare rapidamente soluzioni adeguate nell’affrontare situazioni d’emergenza». Dobbiamo constatare come l’evoluzione dell’arte chirurgica nel passato non sia stata il frutto di un processo evolutivo lineare, bensí un susseguirsi di apogei e declini. Cosí appare decisamente poco talentuosa, rispetto a quella descritta da Aezio di Amida, la singolare e cruenta tecnica di mastectomia effettuata circa mille anni dopo da Johannes Scultetus, umanista chirurgo di Stoccarda (1595-1645): per favorirne l’amputazione, la mammella veniva dapprima trafitta e poi sottoposta a trazione con una corda; non meno feroci gli strumenti impiegati da

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I resti degli Horrea Piperataria rinvenuti sotto la basilica di Massenzio e nei pressi dei quali Galeno aprí il suo studio di medico di corte. Govert Bidloo (1649-1731), medico anatomista olandese, che asporta la mammella dopo averla infilzata con un forchettone o con uno spadino. Seducenti principesse e grandi regine si sono ammalate di cancro. Atossa, per esempio, figlia di Ciro il Grande e moglie di Dario (VI secolo a.C.), soffriva di un tumore al seno che era riuscita a nascondere fino a quando non era diventato troppo voluminoso. Fu curata e guarita dal medico greco Democede. Non fu altrettanto fortunata la regina di Francia e madre di Luigi XIV, Anna d’Austria, che andò incontro a una atroce e staziante agonia per un tumore avanzato alla mammella: quando entrò in gangrena, i medici asportavano giornalmente la carne infetta dal seno malato e Anna – si scrisse – sopportava tutto con pazienza e dolcezza ammirevoli! Quasi sempre idealizzato nei capolavori dei grandi artisti,

troviamo tuttavia alcune opere del Rinascimento che rappresentano il seno femminile nella sua imperfezione. È il caso della Notte di Michelangelo posta sul sarcofago della tomba di Giuliano de’ Medici nella Sagrestia Nuova della chiesa di S. Lorenzo a Firenze. La scultura evidenzia i segni fisici di un tumore alla mammella: la rientranza, il gonfiore del capezzolo e il bozzo. Cosa voleva trasmettere Michelangelo scolpendo il seno malato? Poiché la statua doveva fornire l’immagine del tempo che logora tutto, gli studiosi ritengono che proprio per questo motivo l’artista scelse di utilizzare i segni di una malattia che lentamente logora e irrompe nel corpo. E lo stato malinconico del personaggio – già descritto dal Vasari – conferma la convinzione dell’epoca in cui si pensava che tale stato d’animo predisponesse al cancro. Daniela Fuganti



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MOSTRE Veneto

L’INIZIO DI UNA NUOVA VITA

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ttraverso oltre 100 capolavori concessi in prestito dal Museo Egizio di Firenze (Museo Archologico Nazionale) e distribuiti in cinque sezioni tematiche, la mostra racconta il viaggio verso l’immortalità del popolo egiziano. Gli oggetti esposti coprono un vasto arco cronologico: dal Medio Regno (2065-1797 a.C.) fino al periodo tolemaico (successivo all’invasione di Alessandro Magno) e all’epoca greco-romana (conclusasi nel 313 d.C.). Oltre 2000 anni di storia raccontati attraverso autentiche mummie antiche imbalsamate migliaia di anni fa, sculture in legno e bronzo, meravigliosi gioielli in oro e faïence blu, e stele funerarie A destra: statua in legno stuccato e dipinto di Ptah-Sokar-Osiride. Epoca Tarda (656-332 a.C.). In basso: cassetta per ushabti in legno stuccato e dipinto di Nekhtamontu. Nuovo Regno (1550-1070 a.C.).

finemente incise. Le antiche divinità, come Anubi, Osiride, Iside e Horus, rivivranno a Palazzo Sarcinelli, assieme alle storie documentate di grandi personalità, il cui corpo e i cui oggetti funerari sono arrivati fino a noi dopo 3000 anni dalla loro morte. Ampio spazio è riservato al corredo funerario che veniva depositato accanto al defunto. Gli Egizi credevano che la morte non costituisse la fine della vita, ma che questa continuasse sotto un’altra forma. L’anima del defunto però, per continuare a vivere, doveva potersi reincarnare nel proprio corpo: da ciò derivava la necessità di rendere non deperibile il corpo e quindi la ricerca di metodi sempre piú sicuri e perfezionati di imbalsamazione, che venne praticata dagli Egizi fin dalle prime dinastie della loro storia millenaria. Spesso il pubblico, attratto da questo tema con un misto di mistero e orrore, ha acquisito delle idee distorte riguardo alla ricerca dell’immortalità da parte degli antichi Egizi. Infatti, all’interno delle convinzioni religiose di questo popolo, è opportuno mettere in risalto proprio questa aspirazione alla vita eterna: tutti i rituali funebri, perfino i piú macabri, non miravano semplicemente alla preservazione del corpo del defunto, bensí ad assicurare il proseguimento della vita nell’aldilà. (red.)

DOVE E QUANDO «Egitto. Viaggio verso l’immortalità» Conegliano, Palazzo Sarcinelli fino al 6 aprile 2025 Orario me-ve, 10,00-13,00 e 14,0019,00; sa, do e festivi, 10,00-19,00; chiuso lunedí e martedí Info www.artika.it

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ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

UN PONTE FRA I CONTINENTI Quando parliamo di «via della Seta», il pensiero corre subito a Marco Polo (1), al diario di viaggio Il Milione e ai viaggi da Venezia alla Cina e viceversa lungo la «sua» via della Seta (2). In realtà, la mostra in corso al British Museum (vedi alle pp. alle pp. 84-105), tende a dimostrare che non era proprio cosí come il titolo già evidenzia («Le vie della Seta»): infatti si sottolinea che è piú opportuno parlare al plurale e non di una sola rotta commerciale tra Est e Ovest, poiché le vie della seta erano una serie di direttrici sovrapposte e intersecantesi, che collegavano città, paesi e popoli diversi in ben tre continenti: Asia, Africa ed Europa (3). La mostra, è incentrata sui terminali dell’Europa settentrionale, in particolare dall’Asia all’Inghilterra e addirittura dal Madagascar alla Scandinavia; inoltre il progetto espositivo è stato circoscritto a un periodo storico ben preciso tra il 500 e il 1000 d.C. illustrando come queste «vie» siano esistite per millenni e che, durante quei cinquecento anni, siano stati compiuti passi da gigante nei contatti tra le comunità dei diversi 4 continenti, con il focus su due paesi in particolare Tagikistan e Uzbekistan. Si tratta quindi di testimonianze assai anteriori al XIII secolo del nostro Marco Polo. Con la nostra selezione passiamo in rassegna alcune delle località toccate dalle «vie», andando verso ovest e partendo dalla Cina, dove citiamo le Grotte di Longmen (4), un complesso di santuari rupestri della provincia di Henan, nella parte centro-orientale del paese. Proseguendo verso 6 occidente, entriamo nel Kirghizistan e troviamo la montagna sacra di Suleiman-Too (5), vicino alla città di Osh, che incrocia una delle strade della seta dell’Asia centrale e ancora la Torre di Burana (6), a circa 80 km dalla capitale Bishek. Piú a ovest la via della seta si inoltra nel Tagikistan ove c’è la città di Hisor (7) e, scendendo verso sud-ovest, si entra nell’Uzbekistan, la terra forse piú ricca di siti legati alle vie della seta: Samarcanda (8), Bukhara (9), e 10 Khiva (10). Da citare infine, nel Turkmenistan, l’antica Merw (11). La mostra londinese riunisce molti reperti archeologici provenienti da località legate alle vie della seta e rinvenuti in varie città europee, fra ceramiche, gioielli, armi, suppellettili, dipinti e tessuti, simili a quelli che qui mostriamo: Cina, una 13 ceramica della dinastia Tang (12); India, i granati di Taxila (13); Uzbekistan, oggetti di varia foggia e tipologia (14, 15, 16). Attraversando deserti, montagne, fiumi e mari le vie della Seta raccontano insomma una storia di contatti tra culture e continenti avvenuti secoli prima della formazione del Segreteria c/o mondo globalizzato che oggi conosciamo. IL CIFT Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

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Sergio De Benedictis Corso Cavour, 60 - 70121 Bari segreteria@cift.club oppure

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Luciano Calenda C.P. 17037 - Grottarossa 00189 Roma lcalenda@yahoo.it www.cift.it



CALENDARIO

Italia ROMA Teatro

Autori, attori e pubblico nell’antica Roma Museo dell’Ara Pacis fino al 17.11.24 (prorogata)

Un museo per l’École

La collezione di antichità dell’École française de Rome École française de Rome, Galleria (piazza Navona, 62) fino al 20.12.24

BOLZANO Etruschi

Artisti e artigiani Centro Trevi-Trevilab fino al 02.02.25

CARRARA Romana marmora

Storie di imperatori, dèi e cavatori CARMI, Museo Carrara e Michelangelo fino al 12.01.25

Penelope

Parco archeologico del Colosseo, Tempio di Romolo e Uccelliere Farnese fino al 12.01.25

CENTURIPE (ENNA) Il rapporto tra Roma, gli Italici e la Sicilia Museo Archeologico Regionale fino al 09.01.25

Göbeklitepe

L’enigma di un luogo sacro Parco archeologico del Colosseo, Anfiteatro Flavio, secondo livello fino al 02.03.25

DeVoti Etruschi

Da Veio a Modena e ritorno Museo delle Antichità etrusche e italiche. Sapienza Università di Roma fino al 31.03.25

CONEGLIANO (TREVISO) Egitto Viaggio verso l’immortalità Palazzo Sarcinelli fino al 06.04.25

FIRENZE 170 000 anni fa a Poggetti Vecchi

I Neanderthal e la sfida del clima Museo di Antropologia e Etnologia dell’Università degli Studi di Firenze-Museo Archeologico Nazionale fino al 12.01.25

FORTE DEI MARMI (LUCCA) Gli Egizi e i doni del Nilo Fortino Leopoldo I fino al 02.02.25

GAVARDO (BRESCIA) L’età del Legno. 4000 anni fa al Lucone ARICCIA (ROMA) La riscoperta della Domus Aurea: Smuglewicz, ovvero «Francesco Polacco» Incisioni dalla collezione Marigliani Palazzo Chigi fino al 24.11.24 30 a r c h e o

Manufatti in legno e tessuti dal sito palafitticolo dell’età del Bronzo Museo Archeologico della Valle Sabbia fino al 31.12.24

ORVIETO Volsinio capto. 265-264 a.C. Museo Etrusco «Claudio Faina» fino all’08.12.24


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

PITIGLIANO (GROSSETO) Guerra e Pace

Significati e simboli del rango e del potere nei contesti funerari vulcenti Museo Civico archeologico «Enrico Pellegrini» fino all’08.12.24

POMPEI L’altra Pompei

Vite comuni all’ombra del Vesuvio Parco Archeologico di Pompei, Palestra grande fino al 15.12.24

TRENTO Con Spada e Croce

Longobardi a Civezzano Castello del Buonconsiglio fino al 12.01.25

VETULONIA Il ritorno del condottiero Principi etruschi nella Tomba del Duce di Vetulonia Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino al 02.02.25

Francia REGGIO CALABRIA Gli dèi ritornano

I Bronzi di San Casciano Museo Archeologico Nazionale fino al 12.01.25

PARIGI Nella Senna

Ritrovamenti dalla preistoria ai giorni nostri Crypte archéologique de l’île de la Cité fino al 31.12.24

Il Met al Louvre

Dialoghi di antichità orientali Museo del Louvre fino al 29.09.25

NÎMES Achille e la guerra di Troia Musée de la Romanité fino al 05.01.25

Paesi Bassi SESTO FIORENTINO Archeologia svelata a Sesto Fiorentino

Momenti di vita nella piana prima, durante e dopo gli Etruschi Biblioteca Ernesto Ragionieri fino al 16.03.26

TAORMINA Da Tauromenion a Tauromenium Palazzo Ciampoli fino al 30.11.25

LEIDA L’età del Bronzo

Fuochi di cambiamento Rijksmuseum van Oudheden fino al 16.03.25

Regno Unito LONDRA Le vie della Seta British Museum fino al 23.02.25

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GUTU AR ID R CH A C EO AI M HI LO U A GI SEI CI

IL NUOVO SPECIALE DI ARCHEO

TURCHIA

CIVILTÀ DELL’ANATOLIA GUIDA AI MUSEI ARCHEOLOGICI


La sala del Museo delle Civiltà Anatoliche di Ankara nella quale è esposta la statua in calcare di un re di Malatya, Tarhunazi o forse Mutallu, da Arslantepe. 1200-700 a.C.

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ei confini della moderna Turchia è conservato un patrimonio archeologico di eccezionale ricchezza, esito di una frequentazione cominciata in età preistorica, molti millenni prima dell’era cristiana. Sono dunque innumerevoli le testimonianze che ancora oggi si possono vedere, in località i cui nomi, fin dall’antichità, divennero noti a tutti, trasformandosi in sinonimi di leggenda, come Troia o Efeso. E quasi ovunque, accanto agli scavi, ai resti imponenti di edifici civili e religiosi, a teatri o a poderose fortificazioni, sorgono musei che custodiscono opere d’arte e reperti recuperati a seguito di esplorazioni avviate ormai da oltre un secolo. Collezioni a cui si uniscono le grandi raccolte nazionali, come quelle di Istanbul e Ankara, grazie alle quali si può ripercorrere l’intera vicenda delle molte civiltà succedutesi in terra anatolica. Storie avvincenti, che fanno da filo conduttore del nuovo Speciale di Archeo, pensato per accompagnare il lettore alla scoperta di un palinsesto davvero ricco ed estremamente variegato, nel quale si spazia dagli insediamenti stratificati delle prime comunità urbane agli eleganti mosaici di Zeugma, dalle strabilianti manifatture in bronzo rinvenute nelle tombe di Alaçahöyük agli enigmatici monoliti di Göbeklitepe... Tasselli di un mosaico di culture che hanno giocato ruoli di primo piano nella storia del mondo antico.

GLI ARGOMENTI

• I MUSEI ARCHEOLOGICI DI ISTANBUL • IL MUSEO DELLE CIVILTÀ ANATOLICHE DI ANKARA • GÖBEKLITEPE E KARAHANTEPE • SIDE, ASPENDOS E PERGE • TROIA • MALATYA/ARSLANTEPE • SPLENDORI DI EFESO

in edicola

• BOGAZKÖY-HATTUSA

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VULCI • TUMULO DELLA CUCCUMELLA

IL GIGANTE

DI VULCI

CON I SUOI SETTANTA METRI DI DIAMETRO, IL TUMULO VULCENTE DELLA CUCCUMELLA È UNA DELLE PIÚ GRANDIOSE ESPRESSIONI DELL’ARCHITETTURA FUNERARIA ETRUSCA. NELL’OTTOCENTO OGGETTO DI RIPETUTE ESPLORAZIONI, NON SEMPRE SVOLTE SECONDO CRITERI SCIENTIFICI, I RESTAURI E LE RICERCHE DEGLI ANNI RECENTI HANNO, INVECE, PERMESSO DI RICOSTRUIRNE IN DETTAGLIO IL CONTESTO. E DI RIVELARE LE VARIE FASI DELLA SUA REALIZZAZIONE di Alessandro Mandolesi 34 a r c h e o


Il Tumulo della Cuccumella, monumento funerario fra i piú imponenti dell’architettura etrusca, nella necropoli orientale di Vulci. Fine del VII sec. a.C.

D

urante le visite a Vulci e alle importanti scoperte avvenute nelle necropoli orientali della città, l’archeologo tedesco Wolfgang Helbig (1839-1915), a chiusura di un suo resoconto del 1881 per il Bullettino dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica di Roma, sintetizza cosí le suggestioni provate e le incertezze che ancora avvolgevano uno dei monumenti piú insigni: «Per ora dunque la Coccumella sorge ancora sulla pianura di

Vulci, simile a una Sfinge che propone enimmi indecifrabili. Ma sembra vicino l’Edipo che l’indovinerà». Rispetto a quella lontana data, grazie alla ricerca archeologica oggi disponiamo di maggiori conoscenze sul principale tumulo di Vulci, sebbene permangano ancora alcune incertezze sulla sua ricostruzione architettonica e allestitiva. Alla Cuccumella spetta di fatto il primato di aver svelato, per la prima volta al mondo erudito dell’Otto-

cento, la grandiosità dei tumuli etruschi, grazie a memorabili campagne di scavo avviate nel 1829 da Luciano Bonaparte, principe di Canino (1775-1840), in seguito proseguite, con discontinuità e parzialità, pr ima da Alessandro François (1796-1857; lo scopritore dell’omonima tomba affrescata) e poi da Francesco Marcelliani, per conto della famiglia Torlonia. Le esplorazioni del tumulo attirarono immediatamente le attenzioni a r c h e o 35


VULCI • TUMULO DELLA CUCCUMELLA

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36 a r c h e o

Pisa

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degli archeologi, oltre che per le Nella pagina ragguardevoli dimensioni della co- accanto, dall’alto: struzione anche per l’inaspettato e ricostruzioni svariato numero di statue a soggetto grafiche ideali animale in pietra vulcanica (nenfro) dell’impianto che originariamente lo adornavano. urbanistico di Una magnificenza architettonica da Vulci durante essere perfino paragonata a quella l’epoca arcaica, del gigantesco tumulo di Aliatte, e, in evidenza, al descritto da Erodoto come meravidi fuori del glia della Lidia, non senza qualche circuito murario, allusione al fantastico mausoleo del Tumulo della chiusino di Porsenna. Cuccumella. La pronta divulgazione delle scoperIn basso: te vulcenti ha generato un’immagielaborazione di ne stereotipata del grande tumulo una foto etrusco, presto trasferita a quelli di satellitare Cerveteri e Tarquinia, dove però il dell’area di Vulci bestiario scultoreo accessorio mucon la posizione tuato da Vulci non era cosí ben dodel Tumulo della cumentato. Allo scopo di intercettaCuccumella e re le camere regali con le «ceneri de’ degli altri Lucumoni di Vulci», come confidacontesti va il François, celate al di sotto della archeologici.

Blera

Gravisca

Pyrgi

Sutri Falerii

Veio

Vei

Cerveteri Kaisra

Roma


collina artificiale, nella seconda metà dell’Ottocento furono esplorati oltre due terzi del monumento mediante imponenti trincee e un’intricata serie di profonde gallerie (il cosiddetto «labirinto»), che drasticamente deturparono buona parte della costruzione, fra cui le singolari torri-cippo a pianta circolare e quadrata svettanti sulla sommità del tumulo, e gli ingressi alle due tombe comprese al suo interno. Le camere funerarie sono state esplorate in tempi diversi, nell’arco di quasi due secoli di tormentate vicende, per le quali ci si è concentrati sulla raccolta dei preziosi dati d’archivio e di scavo, limitando però la ricerca dei confronti o delle comunanze architettoniche con altri complessi d’Etruria.

BLOCCHI E MENSOLE Gli interventi di restauro, svolti negli anni 2003-2006 e coordinati da Anna Maria Moretti, sono stati l’occasione per analizzare piú approfonditamente alcuni elementi della struttura della Cuccumella, qualificata da un diametro di circa 70 m e un tamburo foderato da grandi blocchi quadrangolari di nenfro infissi in appositi alloggiamenti creati nella crepidine scavata nella roccia, cosí come li aveva già raffigurati Raniero Mengarelli (1865-1944) in occasione di un’indagine condotta nel 1928-1929 insieme all’archeologo-mecenate Ugo Ferraguti (1885-1938), coronati da larghe mensole aggettanti orizzontali, secondo una modalità d’esecuzione conosciuta a Vulci e a Tarquinia. Specifici riscontri di questo paramento del tamburo, a livello di tumuli sovradimensionati, si hanno, per esempio, nella coppia tarquiniese della Doganaccia (del Re e della Regina), circoscritti da fodere composte da lastre quasi dello stesso modulo, ma in calcare locale, concluse da una cornice aggettante continua rappresentata, nel caso del Tumulo della Regina, da mensole

orizzontali in nenfro sagomate verso l’esterno. Alla Cuccumella l’andamento abbastanza regolare del pianoro su cui si imposta l’intera costruzione richiese solo interventi limitati per mantenerla in quota, e le piante delle due tombe incluse nella collina artificiale sono state sagomate e fondate nella roccia.

Nel settore meridionale del tumulo, dove il profilo curvilineo del tamburo pare quasi annullarsi e assumere un andamento rettilineo, si aprono le due sepolture a camera disposte praticamente l’una accanto all’altra, quasi a mo’ di larga facciata sull’area funeraria antistante, con gli ingressi dall’orientamena r c h e o 37


VULCI • TUMULO DELLA CUCCUMELLA

1

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Dall’alto: 1. Pianta del Tumulo della Cuccumella. 2. Pianta del tumulo disegnata in occasione degli scavi FerragutiMengarelli (1928-1929), con il cosiddetto «labirinto» di gallerie indicato a tratteggio. 3. Confronto tra le planimetrie dei vestiboli delle Tombe B e A della Cuccumella (A), del Tumulo del Re (B) e del Tumulo della Regina di Tarquinia (C). Nella pagina accanto in basso: vista zenitale del Tumulo della Cuccumella dopo i restauri degli anni 2000.

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MAESTRANZE ITINERANTI Quello tarquiniese sembra essere un filone architettonico differenziato e parallelo durante la fase avanzata dell’età orientalizzante (seconda metà

del VII secolo a.C.), quasi alternativo in chiave monumentale, al piú fecondo e maturo insegnamento ceretano, ben documentato a Vulci con differenti soluzioni. Uno degli esiti piú macroscopici della scuola ceretana è la perduta Tomba del Sole e della Luna all’Osteria, realizzata da una dinamica maestranza itinerante a cui spetterebbero altre due tombe dall’impianto analogo, la Campana 1 di Cerveteri e il tumulo Cima di San Giuliano (Barbarano Romano). Quindi, analogamente all’esempio ceretano, i capomastri o la manodopera tarquiniese arrivata a Vulci avrebbe prestato allo stesso modo le proprie conoscenze e rifiniture a una potente gens locale, forse in qualche forma rapportata per via parentelare o politico-economica a un paritario gruppo tarquiniese, allo scopo di realizzare, proprio sulla via Tarquiniese in uscita da Vulci, il piú imponente dei monumenti dell’Orientalizzante locale. In alto: pianta e sezioni della Tomba del Sole e della Luna nella necropoli dell’Osteria di Vulci, qui definita Sepolcro dei pilastri scanellati, incisione di Luigi Canina. 1849.

to all’incirca parallelo allo scopo di mantenere bene a vista i prospetti delle due sepolture.

DANNI IRREPARABILI La tomba B (a ovest), probabilmente la prima a essere realizzata in rapporto diretto con l’impianto primitivo del tumulo, come dimostrerebbe l’organico inserimento della pianta della camera nella sua circonferenza, è la piú deturpata dalle vecchie escavazioni e pertanto la meno documentata dal punto di vista archeologico. L’ampio vestibolo quadrangolare a cielo aperto che la caratterizza verso l’esterno (7 m circa di larghezza e 6,50 di lunghezza) anticipa l’unica camera funeraria, formata da due stanze in asse, secondo uno schema planimetrico e dimensionale attestato nel piú antico Tumulo del Re di Tarquinia, dove la camera è però a stanza unica. Non si è rinvenuta purtroppo alcua r c h e o 39


VULCI • TUMULO DELLA CUCCUMELLA

probabilmente di soddisfare una fronte al quale si concentravano le precisa volontà della committenza cerimonie funebri. del monumento. L’impianto planimetrico delle due tombe della Cuccumella, caratteUNA DOPPIA GRADINATA rizzato da ampi vestiboli aperti Anche il vestibolo della Tomba A è all’esterno che precedono le camemolto ampio rispetto alla camera, re funerarie, sembra ispirarsi – cooccupato anteriormente, per quasi me ha ravvisato l’etruscologo Gioun terzo della sua lunghezza, da una vanni Colonna, e apparentemente doppia gradinata intagliata diretta- confermato negli scavi dei tumuli mente nella roccia, alta circa 2 m, e gemelli della Doganaccia – alle foderata nella parte superiore da esperienze architettoniche dei mouna muratura quasi isodoma a bloc- numenti tarquiniesi. chi parallelepipedi piú regolari ri- In particolare, la Tomba A replica e spetto all’altra tomba. Gli ultimi tre rielabora l’organizzazione teatrigradini della gradinata si prolunga- forme del vestibolo del Tumulo no sulle pareti laterali della piatta- della Regina, contraddistinto dalla forma, a mo’ di banchina, interrom- imponente e continua gradinata, pendosi solo in corrispondenza del- fortemente incassata nella roccia, le due cellette che si aprono ai lati che immette nella piattaforma della camera principale, distinte da quadrangolare: questo spazio culuna copertura a profilo ogivale con tuale si connota come luogo d’infenditura centrale sigillata da lastro- contro munito di doppia banchina ni. In questo assetto cruciforme del- che, a differenza della Tomba A la pianta della tomba, la banchina della Cuccumella, si sviluppa su risparmia il prospetto centrale, di tutti i lati, ma allo stesso modo si interrompe in corrispondenza delQui sotto: disegno degli antenati scolpiti ad altorilievo nel vestibolo della tomba le cellette laterali. Non conosciamo pur troppo la configurazione a camera detta «delle Statue» di Ceri. Prima metà del VII sec. a.C. dell’accesso alla camera centrale In basso, sulle due pagine: un’altra veduta del Tumulo della Cuccumella. della Tomba A, che doveva assumere un aspetto vistoso, con un imponente portale costruito e sigillato da lastroni decorati a intaglio geometrico, i cui resti sono stati rintracciati negli scavi. Colonna sottolinea come l’impianto teatriforme di provenienza tarquiniese «sopravvive» proprio alla Cuccumella, la cui edificazione è databile agli ultimi decenni del VII secolo a.C. Nel solco della tradizione delle tombe vulcenti, distinta dalla presenza davanti alle camere di ampi vestiboli trasversali a cielo aperto detti «cassoni», è ipotizzabile che la realizzazione delle due varietà di vestibolo della Cuccumella sia l’esito di un progetto derivato direttamente dalle esperienze tarquiniesi, elaborato da architetti o maestranze maturate forse sui cantieri della Doganaccia, e in seguito in parte trasferite a Vulci, na traccia materiale relativa alla notizia ottocentesca della presenza, all’interno di questo vestibolo, di una doppia banchina costruita e addossata alle pareti laterali, nel caso destinata, come illustrato a Tarquinia, ad accogliere i partecipanti alle cerimonie officiate in questo spazio cultuale dinnanzi all’ingresso alla camera, fulcro ideologico degli onori funebri. Entro una generazione al massimo, forse nel giro 10-20 anni, venne costruita la seconda tomba (A, a est), distinta dalla prima per la singolare configurazione «teatriforme» del vestibolo che precede la camera, incassato nel banco roccioso (circa 8,65 m di larghezza e 6,50 di lunghezza) e servito dall’esterno, rispetto alla tomba precedente, da un lungo dromos di accesso. La nuova sepoltura si inserisce un po’ trasversalmente rispetto all’andamento generale del tamburo, nel tentativo di allinearsi all’altra tomba e quindi

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come si percepisce dal confronto generale dei monumenti. Mentre per lo spazio libero del vestibolo della Tomba B si riscontra l’analogia con il Tumulo del Re, quello teatriforme della Tomba A condivide con il Tumulo della Regina la planimetria cruciforme della tomba di origine ceretana, impostata sul «piazzaletto» affiancato da camerette laterali a falsa volta. Le Qui sotto: disegno acquerellato di Augusto Volpini con la ricostruzione fantasiosa della Cucccumella, commissionato da Luciano Bonaparte al tempo degli scavi.

In alto e al centro, a sinistra: documentazione eseguita in occasione degli scavi del Tumulo della Cuccumella condotti da Francesco Marcelliani su incarico del principe Alessandro Torlonia. Roma, Archivio Centrale dello Stato. Dall’alto, sezioni del vestibolo della Tomba A e di parte del tumulo; pianta della Tomba A.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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VULCI • TUMULO DELLA CUCCUMELLA

poche differenze riscontrabili fra le due coppie architettoniche tarquiniesi e vulcenti scaturiscono presumibilmente, tenuto conto dell’eccezionalità costruttiva della Cuccumella, da distinzioni di rappresentazione gentilizia e da adeguamenti alle istanze culturali locali, che comportano una variazione al modello tarquiniese costituita in primo luogo dall’inserimento del lungo dromos di accesso alla Tomba A. Nel vicino tumulo della Cuccumelletta, di circa 30 m di diametro, un dromos immette allo stesso modo in un vestibolo a cielo aperto per una tomba sempre a pianta cruciforme, concepita con toni monumentali nello stesso volgere di tempo della Cuccumella, con la quale condivide tecniche costruttive e statuaria in pietra, anche se in questo specifico caso appare piú significativa l’influenza di Cerveteri nell’articolazione della pianta ipogea e nella fisionomia degli interni intagliati nel tufo.

ABILI ARTIGIANI Con la scoperta della Cuccumella, oltre al recupero dell’immagine di un grande tumulo etrsuco, Vulci si rivela quasi inaspettatamente il capoluogo della scultura funeraria etrusca, grazie alla feconda attività di abili artigiani specializzati nella lavorazione della pietra che si organizzano in gruppi o botteghe sul finire del VII e l’inizio del VI secolo a.C., a servizio di una fervida domanda locale. Verosimilmente, proprio il grande cantiere del tumulo stimola l’avvio di questa esperienza artistica, che prevede, insieme al progetto planimetrico, un impegnativo programma decorativo, articolato in una ventina di statue a tutto tondo realizzate fra l’età tardo-orientalizzante e alto-arcaica. Un ciclo iconografico senza precedenti in Etruria, chissà quanto stimolato dall’arrivo di artigiani itineranti se non stranieri accolti nella comunità urbana, 42 a r c h e o

LA FIRMA DELL’ARCHITETTO? Durante gli scavi condotti da Ferraguti e Mengarelli (1928-1929) è stata vista, sul bordo esterno di una delle mensole a coronamento del rivestimento orientale del tamburo della Cuccumella, un’iscrizione incisa, mini kaviena zineke (CIE 10162), oggi purtroppo non piú rintracciabile. In un primo momento fu riferita ai proprietari della Tomba A, ma recentemente è stata considerata da Massimo Morandi e Alessandro Naso come la citazione dell’artefice del tumulo. Il nome dell’eventuale architetto o capomastro Kaviena attivo a Vulci sullo scorcio del VII secolo a.C., alla luce delle similitudini architettoniche riscontrate fra la Cuccumella e i tumuli tarquiniesi, sembrerebbe confortare per la costruzione vulcente la tesi del richiamo al modello tarquiniese, in quanto questo nome mostra le piú antiche attestazioni in Etruria in qualità di gentilizio proprio a Tarquinia, nella seconda metà del VII secolo a.C., al tempo della costruzione dei grandi tumuli.

sull’esempio di quanto proposto per Cerveteri già dall’inizio dell’Orientalizzante (prima metà VII secolo a.C.), con l’esempio della Tomba delle Statue di Ceri, per la quale si è pensato all’opera di un artigiano di formazione levantina nella realizzazione delle due grandi immagini di antenati ad altorilievo affrontate nel vestibolo coperto. Attorno alla Cuccumella si concen-

In alto: particolare di una delle mensole a coronamento del rivestimento orientale del tamburo della Cuccumella, con l’iscrizione incisa recante forse il nome dell’architetto del tumulo. Qui sopra: disegno dell’iscrizione su una delle mensole a coronamento del rivestimento del tamburo della Cuccumella, dai taccuini di Raniero Mengarelli.


trano sforzi mai visti prima a Vulci, orientati verso un’architettura sor- I SECOLI DEGLI ETRUSCHI prendente, supportata da un complesso sistema di immagini fantasti- X-fine dell’VIII sec. a.C. da Corinto, del Pittore della Sfinge che, costituito da statue uscite da Prima età del Ferro Barbuta (ceramografi) una composita bottega influenzata (facies villanoviana) Inizi del VI-inizi del V sec. a.C. dallo stile del tempo detto «dedali- Fine dell’VIII-inizi del VI sec. a.C. Età arcaica co-peloponnesiaco», dal carattere Età orientalizzante Seconda metà del VI sec. a.C. compatto e vigoroso, nel cui reper- 657 a.C. circa Arrivo in Etruia di maestri (e torio predominano le raffigurazioni Arrivo a Tarquinia del mercante manufatti) greco-orientali e di animalistiche reali e fantastiche, corinzio Demarato con un seguito capolavori della ceramica attica mentre le imagines maiorum (degli di artisti Prima metà del V-IV sec. a.C. antenati) paragonabili agli altorilievi 630 a.C. circa Età classica di Ceri non sembrerebbero invece Arrivo a Vulci del Pittore delle Fine del IV-II sec. a.C. trovare posto, nonostante la tradi- Rondini, dalla Grecia orientale, e, Età ellenistica zione vulcente dei busti stilizzati (sphyrelata) di gusto sub-geometrico, corrispondenti a immagini celebra- Disegni di Luigi Maria Valadier realizzati all’epoca degli scavi di Luciano tive degli aristocratici (quasi dei Bonaparte: a sinistra, pianta e alzato delle torri-cippo; a destra, pianta parziale pupazzi) ricreate con materiali di- e sezione del vestibolo della Tomba A. versi all’interno delle tombe.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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VULCI • TUMULO DELLA CUCCUMELLA

La consistenza del ciclo scultoreo della Cuccumella ha aperto una discussione sulla sua distribuzione nell’ambito del monumento. La prima e vistosa posizione delle statue doveva essere quella sommitale, destinata a esaltare la verticalità del tumulo, non sappiamo ancora se accessibile dall’esterno, come accade per i tumuli ceretani, vista la totale assenza finora di tracce di rampe addossate o di apposite strutture accessorie. Il vertice della Cuccumella è inteso come una proiezione celeste della tomba, architettonicamente movimentata da basamenti a sviluppo verticale (torri-cippo) tridimensionalmente popolati da esseri ultraterreni, vivificati dalla policromia. Nella fantasiosa raffigurazione del pittore Augusto Volpini, in un disegno acquerellato commissionato da Luciano Bonaparte al tempo degli scavi del tumulo, appaiono quattro leoni montati sulla torre centrale e coppie di grifi su altre due laterali; nella stessa illustrazione sono presenti altre sculture che all’epoca (erroneamente) si immaginava ornassero il bordo superiore del tamburo. L’esatta destinazione delle statue è rimasta insoluta, a causa delle scarne informazioni disponibili sulle loro giaciture originali, condizionate dalle pesanti manomissioni subite nel corso del tempo dal tumulo.

COME UNO STATUARIO Luciano elegge come base operativa dei suoi scavi la residenza di Musignano, sulla via di Canino, dove riunisce, organizza e restaura il materiale dissepolto dalle necropoli vulcenti; è certo che alcune sculture recuperate alla Cuccumella sono rimaste a Musignano anche dopo l’acquisto del complesso da parte della famiglia Torlonia, finite in una sala del piano terra a forma44 a r c h e o

In alto: Raniero Mengarelli accanto al tamburo della Cuccumella appena messo in luce e sezione ricostruttiva del suo paramento con mensole. Qui sopra: veduta della Cuccumella prima degli scavi condotti da Ugo Ferraguti e Raniero Mengarelli nel 1929-1930.

re una sorta di statuario, e in altri casi poste già da Luciano a decorare l’esterno della residenza. In base alle notizie disponibili, oggi è possibile riferire al tumulo un nutrito gruppo di statue disperse fra musei e collezioni italiane e straniere, parzialmente note da disegni e fotografie del XIX e XX secolo. Marisa Bonamici, in un primo lavoro di ricostruzione delle sculture della Cuccumella, ha riconosciuto alcune opere del ciclo emerse nei

vecchi scavi: al tempo di Luciano furono scoperte almeno otto statue, di cui cinque-sei «sfingi o lionesse alate di grandezza naturale» recuperate nello sterro del vestibolo della Tomba A, mentre «Due altre figure simili» furono trovate nel dromos, forse in seguito finite a ornare l’ingresso di Musignano. Altre statue vennero alla luce con i successivi scavi del principe Alessandro Torlonia, sull’onda delle suggestioni e dei consigli formulati dal


François. Si ritornò sui lavori di Luciano, allargati a entrambe le tombe del tumulo, e si recuperarono ancora resti di sculture, fra cui due leoni ai lati della porta della camera centrale della Tomba A e una sfinge nella stanza interna, mentre altri «due avanzi di leoni» erano affiorati ai lati della porta della Tomba B.

L’ALA DI UN LEONE Già dai ritrovamenti ottocenteschi, si riconosce chiaramente per la Cuccumella la presenza di un organizzato e articolato apparato decorativo di difficile ricostruzione nel suo aspetto allestitivo. Nei lavori novecenteschi condotti da Ferraguti e Mengarelli, per migliorare la comprensione della Cuccumella, sono state trovate ulteriori statue in stato frammentario, in parte trasferite al Museo di Villa Giulia, fra cui un’ala con parte del corpo di un colossale felino alato rinvenuta presso uno degli ingressi alle tombe; altri recuperi del programma decorativo sono avvenuti in punti diver-

In alto: foto della Tomba A scattata durante gli scavi FerragutiMengarelli, dalla camera verso il vestibolo teatriforme. A sinistra: un tratto del tamburo scoperto durante gli scavi FerragutiMengarelli del 1928-1929.

si della Cuccumella durante i restauri fatti dalla Soprintendenza archeologica dell’Etruria meridionale negli anni 1980 e 2000. François riteneva che sulla sommità del tumulo fosse presente una grande piattaforma circolare con svettanti torri-cippo affollate di statue; dal punto di vista archeologico questa apparecchiatura è identificabile con un coronamento-altare che concettualmente fungeva da proiezione dell’intera costruzione verso la sfera celeste. La straordinarietà scultorea della Cuccumella è amplificata da un secondo ordine di opere, disposte questa a r c h e o 45


VULCI • TUMULO DELLA CUCCUMELLA

LA BOTTEGA DELLA CUCCUMELLA E LA PRIMA STAGIONE DELLA SCULTURA VULCENTE Il maggiore dei tumuli vulcenti, situato nella necropoli orientale, presso la strada per Tarquinia, era arricchito da uno straordinario ciclo di sculture di animali immaginari, una ventina di opere in nenfro fra sfingi, leoni e pantere dallo stile eclettico e vigoroso, che nell’ideologia tardo-orientalizzante etrusca si pensava popolassero la sfera ultraterrena. Alla decorazione del monumento attese

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una bottega composta da diversi scalpellini, impegnati nell’esecuzione di un repertorio iconografico ispirato soprattutto al bestiario corinzio, conosciuto mediante la ceramica importata e soprattutto la presenza in città di ceramografi provenienti dalla Grecia continentale e insulare (Pittore della Sfinge Barbuta e Pittore delle Rondini). Con il grande cantiere della Cuccumella, allargato alla vicina Cuccumelletta, si apre la prima stagione artistica della scultura vulcente, che, oltre ad avere una lunga durata grazie alla vivacità dei suoi artefici, fu un riferimento anche per i centri confinanti. Il filone scultoreo di Vulci continua all’inizio dell’età arcaica con una rinnovata influenza corinzia, celebrata nel Centauro di Poggio Maremma, opera di grande plasticità

evocante i kouroi greci, per poi lasciare gradualmente spazio allo stile greco-orientale (da Samo, Mileto), a cui afferiscono le coppie di leoni del cosiddetto Gruppo Amburgo conservati a Musignano, al Museo Gregoriano e all’Istituto Germanico di Roma. Dalla metà del VI secolo a.C. il repertorio si integra di nuove figurazioni sempre connesse all’ultimo viaggio del defunto, come gli ippocampi con o senza cavaliere, e assorbe progressivamente il caratteristico linguaggio ionico che segna la produzione della fase matura dell’arcaismo (ultimo quarto del VI secolo a.C.). Con l’età tardo-classica e nel primo ellenismo Vulci torna a essere una protagonista indiscussa della statuaria in pietra, con versioni legate all’architettura funeraria influenzate dal colto ambiente magno greco-tarantino. La storia della scultura vulcente sarà presto raccontata in un museo in fase di realizzazione a Montalto di Castro (complesso di San Sisto) da parte del Parco di Vulci e della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la provincia di Viterbo e per l’Etruria Meridionale.


tumulo, avvenuti con la costruzione della piú recente Tomba A, per accogliere le spoglie di un illustre personaggio, e forse dei suoi cari, di una importante gens vulcente. Nel ciclo della Cuccumella si intuisce qualche diversità di mani nell’esecuzione delle statue, indicata da variazioni stilistiche o certi dettagli grafici, condizionati talora da conservatorismi o da una maggiore sensibilità verso nuovi modellati di area mediterranea. Nella serie iconografica rientrano, come esempio, almeno tre sculture dello stesso tipo, corrispondente a un leone alato dalla posizione ibrida, ovvero in una postura intermeA sinistra: disegno di Luigi Maria Valadier dei leoni alati provenienti dallo scavo della Cuccumella di Luciano Bonaparte; con A e B il leone tipo Musignano. Nella pagina accanto: statue funerarie in nenfro, dalla necropoli vulcente di Poggio Maremma. In alto, un cavaliere su ippocampo (550-540 a.C.); in basso, un centauro (590-580 a.C.). Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. In basso: disegno di Albert Lenoir che mostra il cancello d’ingresso di Musignano decorato con due dei leoni alati ancora conservati. Parigi, Museo del Louvre, Archivio disegni.

volta in corrispondenza dei due vestiboli che precedono la camere funerarie, probabilmente sistemate scenograficamente alle testate d’ingresso e ai bordi superiori dei due spazi cultuali a cielo aperto, cosí come appaiono nei caratteristici vestiboli trasversali delle tombe «a cassone» arcaiche. Il repertorio animalistico si manifesta senza significativi scostamenti stilistici al suo interno, secondo un piano concepito e completato nel volgere di pochi decenni nell’ambito degli aggiornamenti generali del a r c h e o 47


VULCI • TUMULO DELLA CUCCUMELLA

dia fra la seduta e la assisa, sicuramente opera di una stessa personalità. Il leone alato è raffigurato in una tavola eseguita dall’architetto Luigi Maria Valadier dedicata alle scoperte di Luciano, poi ripreso in una foto dei primi del Novecento, e corrisponde al cosiddetto «tipo Musignano», qualificato da precise notazioni formali. Il muso della fiera è rivolto in avanti con grandi occhi a mandorla, fauci spalancate sormontate dal grosso naso rialzato a narici dilatate e corte orecchie ribassate triangolari, mentre delle solcature segnano le parti anatomiche salienti del corpo; le cosce posteriori sono compatte di conformazione trapezoidale, l’ala è falcata con estremità aderente al collo. Due esemplari di questo tipo di leone della Cuccumella erano stati 48 a r c h e o

Variazioni sul tema Vestiboli a confronto: in alto, da sinistra, la Tomba B e la Tomba A del Tumulo della Cuccumella; in basso, da sinistra, il Tumulo del Re e il Tumulo della Regina di Tarquinia.

montati da Luciano Bonaparte sui piloni dei cancelli d’ingresso di Musignano, cosí come risulta in un disegno di Albert Lenoir.

COLORI VIVACI Un aspetto interessante di questa fiera è costituito dal contributo pittor ico dato all’opera, come l’ingubbiatura biancastra che riveste le fauci, dipinta in rosso nelle parti circostanti corrispondenti alla mandibola. Questi leoni prevedevano quindi una vivace poli-

cromia nella bocca e nelle porzioni principali del corpo, con colori rosso, nero, bianco e forse giallo oggi sostanzialmente perduti per via della prolungata esposizione e usura. Quello della policromia è un importante aspetto della statuaria vulcente, che sottolinea ancor di piú la complessità degli apparati decorativi concepiti per la Cuccumella, un effetto osservato in seguito per altre sculture realizzate dalle maestranze vulcenti itineranti, chiamate a realizzare appariscenti architetture funerarie del territorio. Da Musignano è conosciuto un secondo leone in posizione accucciata, ripreso ancora una volta in una foto e identificato con un esemplare che formava una coppia di felini dallo stesso stile – insieme


Vulci: uno stile peculiare da paragonare, per la stilizzazione della figura, alle coppie di leoni sempre vulcenti conservate al Museo Gregoriano Etrusco e all’Istituto Germanico di Roma. Questa serie di fiere, nonostante delle piccole variazioni, sono riferibili a un unico atelier (cosiddetto Gruppo Amburgo), composto prevalentemente da leoni e sfingi. Anche i due leoni di Musignano sono stati probabilmente concepiti per ornare un unico monumento, in modo scenografico, non sappiamo se corrispondente all’ingresso della Tomba A o, piú probabilmente, a un’altra importante sepoltura vulcente. Il tipo iconografico del leone accucciato e ruggente avrà successo a un leone rappresentato al passo cumella, entro il secondo quarto a Vulci e nel suo territorio in età arcaica e soprattutto, con formula–, rinvenuto da Luciano e ripro- del VI secolo a.C. dotto su una tavola dei Monumen- Si tratta dell’opera di scultori di una zioni diverse, in età tardo-classica e ti inediti pubblicati dall’Instituto generazione successiva al primo ci- nel primo ellenismo. di Corrispondenza Archeologica, clo decorativo del tumulo, ormai attribuito con incertezza all’ulti- sedotti dalla nuova cifra stilistica PER SAPERNE DI PIÚ mo utilizzo funerario della Cuc- greco-orientale ben documentata a In alto: tavola di Luigi Canina con alcuni ritrovamenti vulcenti, fra cui, in basso, a sinistra, il leone tipo Musignano, e, al centro, a destra, il leone accucciato del cosiddetto Gruppo Amburgo. A sinistra: tavola di Luigi Canina, con, in basso, i resti e la pianta della Cuccumella e, in alto, la sua ricostruzione fantasiosa, da L’Antica Etruria marittima, 1849.

Francesco Buranelli, Ugo Ferraguti. L’ultimo archeologo-mecenate. Cinque anni di scavi a Vulci (19281932) attraverso il Fondo fotografico Ugo Ferraguti, Giorgio Bretschneider Editore, Roma 1994 Giulio Paolucci, Archeologia romantica in Etruria. Gli scavi di Alessandro François e Adolphe Noel des Vergers, Edizioni Quasar Roma 2014 Anna Maria Moretti, Tumuli a Vulci, tumuli a Tuscania, in La delimitazione dello spazio funerario in Italia dalla Protostoria all’età arcaica. Recinti, circoli, tumuli, Annali Fondazione Faina XXII, 2015; pp. 597-636 Alessandro Mandolesi, La Cuccumella di Vulci: contributo alla conoscenza scultorea e proposta di attribuzione architettonica, in Scritti in onore di F. Delpino per il suo 80° compleanno, Mediterranea. Quaderni annuali dell’Istituto di Studi sul Mediterraneo Antico, suppl. 2, 2022, pp. 291-309

a r c h e o 49


SCOPERTE • ALBANIA

LA LUNGA VITA

DI UNA VALLE

50 a r c h e o


Un momento delle attività di ricognizione di superficie condotte nella media valle della Vjosa, nel comparto di Qesarat (Albania), da una missione archeologica italo-albanese.

UNA MISSIONE ARCHEOLOGICA ITALO-ALBANESE STA INDAGANDO UNA VASTA PORZIONE DEI TERRITORI BAGNATI DAL FIUME VJOSA. LE RICOGNIZIONI DI SUPERFICIE, ACCOMPAGNATE DA PROSPEZIONI E DALL’IMPIEGO DELLA MAGNETOMETRIA, RESTITUISCONO UN QUADRO DI NOTEVOLE INTERESSE, SEGNATO DA PRESENZE CHE COPRONO UN AMPIO ORIZZONTE CRONOLOGICO, DALLA PREISTORIA ALL’ETÀ MEDIEVALE di Giampiero Galasso

S

i è conclusa nello scorso settembre la campagna 2024 della missione di indagine congiunta italo-albanese «Archeologia dei paesaggi nella media valle dellaVjosa: ricerca storica e comunità di patrimonio», attivata nel comparto di Qesarat (Memaliaj, provincia di Tepelenë), un villaggio adagiato lungo la catena collinare che si estende fino al corso del fiume Vjosa, culminando nelle alture di Rabia. Il progetto scientifico è coordinato dal Dipartimento di Ricerca e Innovazione Umanistica dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro (che ne garantisce il finanziamento) a r c h e o 51


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SCOPERTE • ALBANIA

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A sinistra, dall’alto: cartina dell’Albania moderna e dell’area in cui si svolgono le ricerche del progetto congiunto italoalbanese. A destra, sulle due pagine: veduta panoramica della Vjosa all’alba, ripresa dal sito della «villa» all’imbocco settentrionale della valle. Nella pagina accanto, in basso: la media valle della Vjosa e la localizzazione di Qesarat in una immagine da Google Earth.

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e dall’Istituto di Archeologia dell’Accademia delle Scienze d’Albania di Tirana, potendo contare sul patrocinio delle Municipalità albanesi di Memaliaj e Tepelenë. La direzione scientifica è di Silvio Fioriello, per l’ateneo barese, e di Eduard Shehi e Sabina Veseli, per l’Istituto di Archeologia di Tirana. L’indagine ha coinvolto allievi e ricercatori di entrambe le istituzioni ed è fortemente sostenuta dal Ministero della Cultura della Repubblica d’Albania sotto l’egida del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale della Repubblica Italiana, che l’ha ufficialmente riconosciuta quale «missione archeologica italiana all’estero». 52 a r c h e o


È stata realizzata una vasta operazione di survey, in forma di ricognizione intensiva sistematica a copertura uniforme e condotta da una dozzina di operatori tra docenti, allievi dell’Università di Bari, nonché archeologi, restauratori e personale di supporto tecnico-scientifico.

UN TERRITORIO DA SCOPRIRE «La ricognizione – spiega Silvio Fioriello – ha portato alla verifica autoptica del comparto definito dai limiti poderali e colturali riconosciuti dalle foto aeree di Google Earth-Maps, in assenza, per la zona, di una cartografia istituzionale adatta alle esigenze euristiche». Eduard a r c h e o 53


SCOPERTE A destra: area a mezza costa del villaggio di Qesarat, in località Horan. Anomalie di strutture rilevate dalla geoprospezione magnetometrica condotta nel settembre del 2024 da Laura Cerri e applicata ad aree dotate di alta suscettività archeologica. In basso: sito interpretato come villa o area di culto (UT26): allineamento dei materiali significativi effettuato in situ. Da notare, nel riquadro, l’antefissa fittile, ben conservata, databile alla prima età imperiale.

Shehi ribadisce che «si tratta di un’ampia fascia di territorio indiziata sia da radi e poco o per nulla documentati rinvenimenti archeologici, avvenuti dalla metà del secolo scorso, sia dallo scavo stratigrafico di emergenza condotto nel 2017 e sollecitato dai lavori di ampliamento del sedime pavimentale della Strada Statale SH4/E853». La ricognizione ha coperto finora circa 130 ettari, schedato 76 Unità Topografiche e isolato, plausibilmente, 21 siti, quasi tutti pluristratificati. L’impegno sul campo è stato 54 a r c h e o


sostenuto e accompagnato da una articolata strategia di prospezioni geofisiche espressa sia con diagnostica georadar, focalizzata sull’area del sito intercettato nel 2017, sia mediante l’attivazione di un complesso progetto di geognostica magnetometrica condotto dall’archeologa Laura Cerri, esteso per quasi tre ettari e mirato alle aree che hanno restituito maggiori elementi archeologici nel corso delle ricognizioni di superficie, collocate sia lungo le balze del colle di Qesarat, sia a ridosso delle anse del fiume.

VILLA O LUOGO DI CULTO? «Le ricognizioni sistematiche e le indagini non invasive – racconta Fioriello – stanno suggerendo la lettura di notevoli contesti di elevato interesse archeologico». Tra le scoperte si segnalano: un esteso e articolato edificio di età imperiale romana dotato di ambienti termali connessi alle sue fasi di vita di età tardo-antica, già intercettato e parzialmente indagato nel 2017; una ricca villa o, con piú probabilità, un luogo di culto, sulle pendici collinari, entro un contesto scenografico sulla valle fluviale, occupato dall’età medio/tardo-repubblicana, da cui provengono numerose tessere musive lapidee, lacerti di intonaco bianco, una grande quantità di frammenti ceramici, laterizi e di opus doliare, nonché una ben conservata antefissa fittile. E ancora, in località Horan, è stato individuato un nucleo insediativo di età romana imperiale che rinvia a una ricca dimora impostata su una precedente fattoria di età tardo-ellenistica. Il complesso esprime un considerevole apparato decorativo con pavimenti musivi e pitture parietali: secondo il professor Shehi, esso potrebbe identificarsi in quel «monumento e mosaico» segnalato dalle fonti orali locali, alla metà del Novecento, per la scoperta casuale di statue, alcune delle quali custodi-

Statua in marmo di Eros, dal complesso architettonico di età romana (UT33, 37-39, 65) individuato in località Horan. I-II sec. d.C. a r c h e o 55


SCOPERTE • ALBANIA

UNA FINESTRA SULLA PREISTORIA L’importante sito neolitico scoperto a Qesarat ha restituito una notevole quantità di materiale archeologico: ceramica, industria litica, nonché una statuetta e uno stampo fittili. Il vasellame, che si caratterizza per superfici brunite o lisciate, presenta varie forme e decorazioni, con prevalenza di contenitori a corpo rotondo, a fondo piatto e di dimensioni medio-grandi rispetto a quelli di forma carenata e a piede alto. I manici sono costituiti da pomelli forati e a cinghia, di forma anulare piú spesso che tubolare. Prevale la decorazione impressa, mentre sono meno attestate quella incisa e quelle «a barbottina» e a granuli. Si tratta

56 a r c h e o

quindi di manufatti destinati alla vita quotidiana, utilizzati principalmente per cucinare, servire, trasportare e conservare cibo. I dati acquisiti segnano dunque due fasi di occupazione del sito: la predominanza di ceramica impressa rinvia alla facies del Neolitico antico dell’Albania occidentale e della parte orientale della costa adriatica, mentre altre, piú rade caratteristiche (carenatura, brunitura nerastra, decorazione granulata) nonché lo stampo guardano al Neolitico medio. L’assemblage litico appare piú omogeneo e propone, in associazione alle altre evidenze culturali, il profilo insediativo del

sito. Le superfici fresche e i numerosi indicatori di produzione (nuclei e supporti in selce funzionali alla gestione volumetrica) denotano la produzione locale. Il metodo di scheggiatura predominante è la riduzione lamino-lamellare, a sezione trapezoidale e triangolare, registrata in tutte le sue fasi, sia sui nuclei sia sulle cicatrici dei prodotti (dal decorticamento all’inizializzazione da cresta o da angoli, dall’esercizio dei piani di percussione e delle convessità – laterali e distali – fino alla disattivazione). La produzione di supporti ricavati da nuclei in selce coinvolge


schegge, blocchetti e talvolta lamine preparate sotto forma di tavolette da poter scalfire, denotando l’approvvigionamento di materia prima dai banchi rocciosi

esposti sui vicini versanti della valle della Vjosa oppure da affioramenti connessi a depositi primari intercalati a orizzonti carbonatici. I metodi di

scheggiatura e gli aspetti morfotecnologici, associati alla ceramica impressa, suggeriscono per i reperti litici l’inquadramento cronoculturale entro il Neolitico antico.

In alto: veduta panoramica della Vjosa, a valle del villaggio di Qesarat, nei pressi del villaggio neolitico (UT61-64). Nella pagina accanto: i materiali significativi raccolti nell’area del villaggio neolitico di Qesarat. Si notino la manifattura fittile decorata e l’ampia articolazione tipologica dell’industria litica in selce.

te nei musei di Tirana e Tepelenë, come la Demetra in pietra calcarea e l’Eros in marmo. L’incrocio delle analisi sul terreno e dell’indagine geofisica ha portato all’individuazione di altre due cospicue villae, plausibilmente riconosciute nelle partes dominica, fructuaria e rustica, attive dall’età tardorepubblicana fino all’epoca tardoantica e situate all’inizio e alla fine della piccola valle antistante Qesarat. Altre sei fattorie risultano invece in uso solo durante la prima fase della romanizzazione della zona, tra III-II e I secolo a.C., con brevi riprese successive. Sensazionale è poi la scoperta in un vasto areale di un sito pluristratificato, da cui sono state recuperate industria litica e ceramiche datate al Neolitico, con sporadiche frequentazioni nell’età del Bronzo e poi in età romana, e che, con molta probabilità, è destinato a rivelarsi tra i

maggiori villaggi capannicoli preistorici dell’intera Albania e dei Balcani sud-occidentali. Finora su una superficie di quasi due ettari sono stati raccolti oltre 1100 strumenti litici in selce e 378 frammenti di ceramica, per lo piú decorata con motivi impressi e incisi (vedi il box in queste pagine e le foto alle pp. 56 e 58).

MOSAICI POLICROMI L’attività di controllo del territorio ha poi consentito il recupero di numerosi e minuti brani pertinenti uno o piú tappeti in mosaico policromo, distrutti presumibilmente sette anni fa, durante i lavori di ampliamento della strada a scorrimento veloce SH4/E853, che collega il distretto di Fier a quello di Argirocastro. Il lacerto maggiore, che raffigura una figura femminile, e parte di una iscrizione in tabula ansata, redatta in caratteri greci, e gli altri, recanti motivi decorativi di non facile

lettura, per lo piú di tipo geometrico o aniconico, sono stati già restaurati da un’équipe italo-albanese. Il quadro preliminare delineato offre una nuova visione del contesto insediativo, valorizzando al meglio il lavoro finora svolto e conferendo una maggiore rilevanza a una zona territoriale poco conosciuta. In particolare, i reperti del periodo neolitico provenienti dal sito in località Thelëza, lungo la Vjosa, rivelano una duplice natura: da un lato, una dimensione produttiva, evidenziata dalla ricca e variegata industria litica in selce; dall’altro, una dimensione stanziale, sostenuta dalla fertilità del suolo. Quest’ultima è testimoniata dai raffinati contesti di cultura materiale in ceramica e dalle necessità di sussistenza garantite dalla vicinanza del fiume e dalle piccole stagionali lagune che esso forma, le quali potevano diventare anche un funzionale spazio di caccia. a r c h e o 57


SCOPERTE • ALBANIA

UN’AREA STRATEGICA E PERCIÒ COSTANTEMENTE OCCUPATA Il territorio nel quale è in corso la ricerca, compreso tra Kalivaç e Mezhgoran, si sviluppa lungo una catena collinare che culmina nei monti di Rabia (996 m) e si affaccia a ovest sul massiccio del Griba. Questo settore è noto per la sua lunga frequentazione, dalla preistoria al periodo ottomano. L’assetto geomorfologico ne disegna la posizione privilegiata con il transito di importanti strade e collegamenti tra i diversi distretti. Le numerose valli sono state segnate da tracciati naturali di attraversamento, attivati nel volgere dei secoli e percorsi da una strategica maglia viaria mediana tra l’Adriatico, il settentrione egeogreco e l’arco balcanico:

58 a r c h e o

fondamentale risulta la valle della Vjosa, per la quale di certo passava l’arteria principale di penetrazione tra il litorale marittimo e l’areale interno, aperta verso l’Epiro e la Macedonia, anche se ancora ignota è la sua identificazione sul terreno. Le testimonianze archeologiche della zona delle ricerche sono ancora poche. Le informazioni sulla facies preistorica e protostorica contano su una quindicina di siti individuati, ma ancora inediti. In età classica la perdurante condizione di «zona di confine», dilatata tra distinte unità politicoterritoriali, ha reso nel tempo questo comprensorio dipendente e integrato, a geometria variabile, rispetto sia ai grossi poli demici

dominanti, quali Amantia, Antigonea e Byllis, sia alle antiche circoscrizioni coro-etnografiche: dagli Atintanii (Hasan Ceka ne decretava l’estensione tra i fiumi Vjosa e Osum), ai Chaoni (insediati, secondo le fonti antiche, nel territorio oggi appartenente al distretto di Tepelenë e al bacino della Vjosa), agli Amantini e ai Byllidenses, il cui confine naturale meridionale è considerato il fiume Luftinja. La documentazione di epoca tardoantica esprime nuclei di nuova impostazione ovvero in continuità topografica con siti precedenti, alcuni dotati di spiccata funzione difensiva. Il Medioevo pure circoscrive una fascia cronologica


Per quanto riguarda l’età storica, il contesto organizzativo di epoca classica-ellenistica appare limitato, caratterizzato da piccoli nuclei abitativi sparsi, probabilmente destinati a produzioni per l’autosufficienza alimentare e focalizzati sulla gestione della pastorizia transumante.

UNA CORONA DI SITI «Tuttavia – spiegano Fioriello e Shehi – è il periodo romano a delineare la struttura del palinsesto insediativo, a partire dalle fasi della romanizzazione, soprattutto dopo le guerre macedoniche: i dati preliminari raccolti tracciano una cornice piuttosto resiliente, in cui emerge un modello monocentrico e polinucleato del polo demico indagato. Pochi contesti di alto profilo costruttivo segnano, infatti, In questa pagina, dall’alto: frammenti di vasellame ceramico e strumenti in selce recuperati nell’area del villaggio neolitico di Qesarat. Nella pagina accanto: un’altra immagine delle ricognizioni.

cui rinviano non pochi ritrovamenti: si pensi agli edifici di culto a Dashaj, Sinanaj, Leshnje, cosí come alla «grotta dell’eremita» a Kalivaç. Ricco è il periodo della dominazione ottomana, in cui risalta la fase legata al governo di Ali Pasha (secoli XVIII-inizio XIX): tra le testimonianze monumentali emblematici restano il castello di Tepelenë e il complesso architettonico sulla rupe di Ylynec nonché i numerosi ponti – spesso ridotti a condizione ruderale –, come quello gettato sulla Vjosa proprio sotto la fortezza di Tepelenë, costruito nel II secolo d.C. e ricostruito da Ali Pasha.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

in modo mirato e sistematico, sia la parte iniziale e finale della fascia territoriale semilunata incisa dal fiume davanti il colle di Qesarat, sia gli spalti naturali occupati dall’attuale villaggio. Essi descrivono cosí un ordito insediativo a corona che abbraccia un vasto ambito topografico dominato da una serie di siti di piccole dimensioni e con

vocazione produttiva (fattorie, casae, tecta), dotati talora di ampia continuità insediativa che lambisce il tardo-antico, e di rado si dilata ai periodi posteriori». «Qualità e quantità della cultura materiale – prosegue Fioriello – guardano a un orizzonte di matrice mediterranea consolidato soprattutto tra periodo ellenistico (“illirico”) a r c h e o 59


SCOPERTE • ALBANIA

Statua in calcare locale raffigurante la dea Demetra, dal complesso architettonico di età romana (UT33, 37-39, 65) in località Horan. II-I sec. a.C.

60 a r c h e o


e tardo-antico. Manifatture fittili da mensa e da dispensa, anfore e poche lucerne tradiscono talora importazioni dall’area italica e piú tardi dal quadrante nordafricano e orientale, ma lasciano ampio spazio alle produzioni locali.Tra queste spiccano la

ceramica pesante e i laterizi, nonché i «tipici» materiali fittili d’uso comune con superficie interna rivestita di bitume impermeabilizzante, attinto evidentemente alle “fonti” presso la vicina città di Apollonia (colonia greca di inizio VI secolo

Mosaico policromo raffigurante un volto femminile. Il manufatto, acquisito in giacitura secondaria, fu sottratto ai lavori di sterro per l’ampliamento della arteria stradale SH4/E853 che hanno coinvolto il complesso di età imperiale e tardo-antica individuato da uno scavo di emergenza: vi si possono associare i lacerti qui riprodotti, recuperati dal butto in cui furono abbandonati (UT67).

a.C., la magna urbs et gravis di ciceroniana memoria): sorgenti legate a un Nymphaeum e a un oracolo della divinità Pan, consultato pure da L. Cornelio Silla, nell’84 a.C., con scarsa fortuna».

NUOVE FORME DI OCCUPAZIONE «È dunque plausibile ritenere che, dopo la stasi insediativa seguita al periodo pre-protostorico, la gestione del territorio definita dalla compagine demoetnografica illirica e invalsa fino ad avanzata età storica abbia ceduto all’impostazione di un agglomerato rurale romano: forse un sito di servizio (una mansio?), impostato a valle, lungo il percorso naturale di attraversamento della Vjosa oppure uno spazio sacro di antica, autorevole e consolidata ascendenza, costruito lungo le pendici collinari, poi nel tempo irrobustito da fenomeni di frammentazione indotta da opportunità di sfruttamento del territorio (dall’agricoltura intensiva all’incolto produttivo fino all’economia della selva) associate a evidenti – ancora oggi – possibilità di amena residenzialità, capace dunque di assimilare le diverse destinazioni funzionali degli apprestamenti finora restituiti alla conoscenza archeologica». Si segnala, infine, il riconoscimento di reperti riconducibili al secondo conflitto mondiale e, in particolare, alla presenza del Regio Esercito Italiano: verosimilmente indizi e oggetti (un elmetto, due borracce da campo, la canna di un fucile) rinviano alla 3a Divisione Julia, dislocata sul fronte greco-albanese, e alla 151a Divisione di Fanteria Perugia di stanza nelle vicine Tepelene e Argirocastro, dove conobbe una tragica sorte, nell’autunno del 1943, quando fu smembrata nelle operazioni convergenti ordite da Tedeschi e da partigiani albanesi che ne decretarono la fine. a r c h e o 61


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MOSTRE • LOMBARDIA

UN ANTICO CAMPIONE DI VERSATILITÀ 64 a r c h e o


SEBBENE SI CONSERVINO SOLO IN CONDIZIONI PARTICOLARI, I MANUFATTI IN LEGNO FURONO CERTAMENTE UNA PRESENZA COSTANTE NELLA VITA QUOTIDIANA DELLE COMUNITÀ UMANE FIN DALLA PREISTORIA. UNA SPETTACOLARE CONFERMA IN TAL SENSO VIENE DAI MATERIALI RESTITUITI DALLO SCAVO AL LUCONE DI POLPENAZZE, ORA PROTAGONISTI DI UNA MOSTRA NEL MUSEO ARCHEOLOGICO DELLA VALLE SABBIA DI GAVARDO, NEL BRESCIANO di Cristina Ferrari

N

ella periodizzazione della preistoria e della protostoria, si adottano denominazioni coniate a partire dai materiali tradizionalmente ritenuti fondamentali nel progresso tecnologico delle comunità umane, cioè la pietra (e dunque Paleolitico, Mesolitico e Neolitico) e i metalli (con le età del Rame, del Bronzo e del Ferro). «In realtà, però – spiega Marco Baioni, direttore scientifico dello Scavo al Lucone D e, dal 2004, del Museo Archeologico della Valle Sabbia di Gavardo (Brescia) –, il materiale in assoluto piú utilizzato, fin dal Paleolitico, è il legno. Un ramo fu il piú antico strumento dei primi ominidi, il legno serví a creare il fuoco, a catturare gli animali e a costruire i primi ripari. Data la sua importanza dovremmo interpretare l’intera storia umana come un’unica età del legno, fino alla recente introduzione della plastica». E «L’Età del Legno. 4000 anni fa al Lucone» è appunto il titolo della mostra proposta dal MAVS, Museo Archeologico della Valle Sabbia (Gavardo, Brescia), ispirato al saggio L’età del legno di Roland Ennos, che riconosce l’importanza di questo materiale e dimostra come la capacità di sfruttarne le proprietà abbia modellato le società umane.

«Un’importanza spesso sottovalutata – continua Baioni –, in quanto si tratta di un materiale altamente deperibile, che normalmente non si conserva, se non in ambienti estremi: luoghi molto aridi e caldi (deserti), freddi (ghiacciai e zone circumpolari), o umidi privi di ossigeno, come le torbiere. Gli oggetti in legno alle nostre latitudini sono stati rinvenuti in rari e fortunati casi in alta quota (come l’attrezzatura di Ötzi), piú comunemente in ambiente umido, come le torbiere intorno al Garda» e, quindi, negli insediamenti palafitticoli. Come, appunto, quello del Lucone di Polpenazze (Brescia; vedi «Archeo» n. 444, febbraio 2022; on line su issuu.com) che ha A destra: manico con decorazione a triangoli campiti e due fori sul fondo, dai quali usciva verosimilmente un laccio. A oggi, è l’unico manufatto decorato trovato nello scavo. Nella pagina accanto: un particolare dell’allestimento della mostra «L’Età del legno. 4000 anni fa al Lucone», in corso al MAVS di Gavardo. Tutti i reperti riprodotti in queste pagine provengono dallo scavo del sito palafitticolo del Lucone di Polpenazze (Brescia). a r c h e o 65


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Lago di Como

Ti

restituito piú di 200 manufatti in legno oltre a elementi strutturali delle abitazioni, circa 60 dei quali sono stati restaurati e sono ora esposti, insieme a reperti di altri materiali, tra cui tessuti. Gli oggetti provengono dal Lucone D (scoperto nel 1986 e oggetto di scavo dal 2007), un insediamento palafitticolo grande circa un ettaro e databile alla prima fase del Bronzo Antico (attivo dal 2034 al 1967 a.C., ±10), di cui sono stati indagati circa 350 mq, divisi in 2 settori. «Il legno – dice ancora Baioni – era utilizzato per un grandissimo numero di manufatti, dalle strutture abitative ai piccoli oggetti della vita quotidiana. In legno erano i mezzi di trasporto (carri e piroghe), gli attrezzi per coltivare i campi (aratri, gioghi, zappe). In legno erano i manici degli strumenti in metallo (come asce, lesine e pugnali), in palco

Cremona

Emilia-Romagna

Piemonte

Veneto

Og

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Mantova M

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Po

Po

Liguria

di cervo (come zappette), in selce (come falcetti e frecce). In legno potevano essere bastoni, mazze, archi e clave, ma anche pettini e og-

A destra, in basso: strumenti definiti come «pareggiatori» di terreno: il loro uso è legato alle attività agricole, ma se ne ignora l’esatta funzione.

getti ornamentali come perline di collana. Forse le stesse abitazioni avevano decorazioni in legno». Tutti materiali esposti nella mostra.

ASCE E ACCETTE Parlando delle asce, uno degli oggetti-simbolo dell’età del Rame, lo stesso termine viene usato per indicare in realtà due strumenti diversi, ovvero l’ascia vera e propria (che ha il taglio perpendicolare al manico) e l’accetta/scure che ha il taglio parallelo al manico. Oltre a numerose immanicature per ascia, dal Lucone provengono anche manici di pugnale (uno dei quali presenta ancora un chiodino, anch’esso in legno), e attrezzi totalmente in legno, utilizzati per battere, che vanno dalle semplici mazze a strumenti che ricordano vagamente grandi martelli. Come immanicatura viene inter66 a r c h e o


pretato anche l’unico oggetto decorato ritrovato nel sito, un manico con decorazione a triangoli campiti e con due fori sul fondo, da cui quasi sicuramente usciva un laccio. Importanti sono i recipienti in legno di vario utilizzo che comprendono vasi, tazze, scodelle, tappi, taglieri, vassoi, mestoli, piccole vasche e frullini (forse usati per lavorare il latte e produrre una sorta di cagliata o burro), ma anche vasi ricavati da ingrossamenti della pianta, oppure secchi con doppio foro. Da notare un anello in legno interpretato come base per vasi con fondo arrotondato (tipici della cultura di Polada), un recipiente in ceramica riparato con mastice vegetale e uno con un «sottovaso», anch’esso in mastice, creato in antico. All’agricoltura (e talvolta di complessa interpretazione) rimandano

Materiali affioranti dal deposito stratigrafico. In particolare, si riconosce un falcetto che conserva gli elementi taglienti in selce fissati con il mastice.

mazze, zappe, zappette o strumenti particolari – detti «pareggiatori di terreno» (totalmente in legno o, a volte, con la parte lavorante in palco di cervo) –, bastoni, oggetti in legno desinenti a due punte, che probabilmente avevano piú di un uso. Quasi sicuramente diversa funzione, a seconda della tipologia, avevano anche i falcetti in legno con lame di selce trattenute da mastice, riferibili al tipo del cosiddetto coltello messorio (di forma rettilinea, con una corta impugnatura e un’appendice curvilinea) e a quello «a mandibola», di forma arcuata con lungo manico, che risultano in uso nello stesso periodo. «Interessante è poi uno strumento dal lungo manico ricurvo con parte funzionale a cucchiaio, inserita in

una fessura e trattenuta da un piolo e dunque sostituibile. Si tratta di un manufatto d’uso incerto che non trova al momento altri confronti, ma mostra una grande maestria nella lavorazione del legno».

TRAVI GEMELLE Numerosi sono i reperti che in origine erano elementi strutturali di edifici oppure facevano parte del mobilio, tra cui vari tipi di travi di fondazione o plinti con uno o piú fori, travi rastremate per essere inserite nei fori, travi con fori passanti posti con differente orientamento, terminazioni di palo o di trave forate e assi con segni di incastro e foro quadrangolare.Tra questi, nella mostra sono esposte due travi di quercia gemelle, lunghe circa 8 m con a r c h e o 67


MOSTRE • LOMBARDIA

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IL RESTAURO DEL LEGNO La presenza di numerosi reperti in materiali deperibili come legno e fibre vegetali comporta la necessità di un immediato intervento di stabilizzazione e di lunghi e complessi restauri. I manufatti rinvenuti al Lucone vengono portati subito nella Cella Frigorifera del Museo Civico Archeologico «G. Rambotti» di Desenzano e, in seguito, trasferiti al Centro per il Trattamento del Legno Bagnato di Milano. Qui, dopo essere stati puliti dal terreno, vengono sottoposti a un’analisi del degrado (CNR IBE di Firenze) per definire le modalità del trattamento. «Sono quindi riposti in una vasca e sottoposti a un lungo processo di impregnazione, per cui si usa glicole polietilenico (PEG) a diversi pesi molecolari in concentrazione al 10% in acqua demineralizzata. Per garantire una temperatura intorno ai 40°C, necessaria a conferire la giusta fluidità alle soluzioni, nella vasca è inserito un elemento riscaldante da immersione e pompe per il ricircolo della soluzione consolidante. Poi i reperti, ripuliti meccanicamente

Sulle due pagine: immagini della porta rinvenuta nel 2020. Da sinistra, il manufatto in situ, subito dopo la sua scoperta; la sua ricostruzione; il reperto originale, composto da tre assi, tenute insieme da travetti e cunei orizzontali.

dal PEG in eccesso, sono trasportati presso l’Istituto Superiore per la Conservazione e Restauro di Roma, dove vengono congelati e sottoposti a liofilizzazione, cioè un’essiccazione controllata che si attua per sublimazione del ghiaccio contenuto nei reperti». A processo ultimato, dopo un’ulteriore operazione di pulizia e di restauro, possono venire esposti al pubblico.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

25 fori passanti di forma quadrangolare, rinvenute nel 2015-16, parte dell’alzato di una struttura, la cui funzione era di tenere bloccati un certo numero di travetti. Non se ne conosce il reale utilizzo: «Poteva trattarsi – spiega Baioni – di una scala, di un pontile o della parete di una casa. È possibile che fosse una soluzione ingegnosa per connettere i travetti del tetto con quelli delle pareti». Le travi, se davvero elementi tra tetto e parete, a r c h e o 69


MOSTRE • LOMBARDIA

ERANO ANCHE ABILI METALLURGI «L’indagine condotta nel 2023 nel Settore D dell’ex lago Lucone di Polpenazze, che interessa il villaggio palafitticolo dell’età del Bronzo Antico – spiega Marco Baioni –, ha rivelato vari strati di frammenti di ceramica, dai quali si è potuto ricostruire centinaia di vasi di diverse tipologie. La presenza di questi strati ha permesso di formulare due ipotesi, ovvero un evento traumatico (l’abitato è stato distrutto da un devastante incendio nel 2034 a.C.) oppure un abbandono intenzionale, probabilmente dovuto a uno spostamento del villaggio, un fatto piuttosto comune, che comportava la difficoltà di trasporto di materiali ingombranti e/o fragili, quali appunto i contenitori ceramici, che venivano di conseguenza lasciati nel vecchio sito». Il settore presenta strati maggiormente conservati verso il

In alto: lo scavo di una cesta in fibre vegetali intrecciate, forse una nassa per la pesca di piccoli pesci. A sinistra: lesina in bronzo con il suo manico in legno. In basso: una piccola tazza in legno che, a differenza di quanto accadeva in genere, è stata perfettamente rifinita.


lago, a testimonianza della fase piú recente della palafitta. «Nel 2023, abbiamo portato a termine lo scavo degli strati di frammenti ceramici e abbiamo potuto iniziare a indagare quelli sottostanti con gli elementi del crollo delle strutture. In particolare è stata indagata un’area che conteneva i resti di un focolare collassato, vicino al quale sono stati trovati reperti molto interessanti che ci hanno rivelato nuovi aspetti della vita quotidiana del villaggio». Tra questi due lesine in bronzo, di cui una in perfetto stato, con ancora il suo manico di legno, e una tazza in legno rifinita (i vasi in legno erano generalmente lasciati grezzi). Importante è che molti reperti ceramici presentano riparazioni eseguite in mastice, per poter venire ancora utilizzati dopo essere stati rotti. «I ritrovamenti piú importanti riguardano una fossa con la stratigrafia tipica della presenza di acqua, che documenta il probabile uso di scavare buche nello strato torboso durante il periodo secco, quando l’acqua si ritirava. Da qui provengono una dozzina di “cucchiaini” in terracotta di dimensioni variabili tra i 5 e i 12 cm circa, utilizzati come crogioli per

fondere piccole quantità di metallo e/o come dosatori per aggiungere minerali o altri metalli (per esempio lo stagno) nelle diverse fasi della lavorazione». Questi ritrovamenti testimoniano quindi la presenza di un’attività metallurgica. «Il fatto straordinario è che l’area dove avveniva la fusione era collocata non sulla terraferma, ma sulla palafitta lignea, nella parte che dava verso il lago, nonostante il rischio di incendio. I materiali, gettati dall’alto, si accumulavano nella fossa, la cui funzione rimane comunque dubbia, scavata forse per contenere gli oggetti stessi. Nella stessa buca erano inoltre conservate numerose perline per collana in faïence verdi e azzurre», circostanza che fa ipotizzare che nella «fucina» potesse venire prodotto anche questo materiale. Dallo scavo provengono anche interi strati pieni di semi di corniolo, frutti utilizzati quasi sicuramente per la preparazione di bevande alcoliche e «confetture». «Infine, vanno citati un bottone di tipo Montgomery e una cesta formata da fibre vegetali intrecciate, forse una nassa per la pesca di piccoli pesci».

permettono anche di stabilire che le abitazioni fossero strutture lunghe almeno 8 m. Comunque la casa tipica del Lucone D era a due navate con una fila centrale di pali che sostenevano il colmo del tetto e una facciata larga circa 5 m che si affacciava su una piattaforma di legno, e tetto forse coperto di fascine di erba palustre o con scandole (tegole di legno) in corteccia e pareti fatte con ramaglie intrecciate (incannucciato) e ricoperte d’argilla, anche se la maggior parte degli intonaci rinvenuti mostra tracce di tavole in legno. All’interno c’era il focolare, utilizzato per cucinare ma anche fonte di luce e calore, costituito da uno spesso strato di argilla stesa in una sorta di cassetta di legno.

LA PRIMA PORTA D’ITALIA Straordinaria è anche una porta, scoperta nel 2020. Il manufatto, che può essere considerato la porta in legno piú antica d’Italia, è riferibile a una tipologia molto rara di porta composita, di cui si conoscono solo altri due esempi provenienti da palafitte svizzere (Zurigo e Pfäffikon), ed è realizzato con una tecnica che consentiva di creare una tavola delle dimensioni volute senza uso di chiodi. La struttura era tenuta insieme da tre assi, connesse con travetti e cunei orizzontali, attraverso A sinistra: un grande vaso in ceramica di forma biconica. Qui accanto: perline ed elementi di collana in vari materiali.

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MOSTRE • LOMBARDIA Nella pagina accanto: vasca monossile, ricavata dal tronco di un ontano e forse utilizzata per tingere i tessuti, come ha suggerito il ritrovamento, al suo interno, di semi di zafferanone (Carthamus sp.). In basso: un vassoio in legno, sotto il quale giace un vaso in ceramica.

maniglie scavate direttamente nel legno e presenta dimensioni piuttosto piccole (140 cm d’altezza e 77 di larghezza), probabilmente per limitare la dispersione di calore. Interessante è anche l’uso di diverse tipologie di legno, un fatto che testimonia la grande conoscenza del materiale e la maestria degli antichi abitanti del Lucone: le tavole sono in legno di ontano, i travetti in nocciolo e i cunei che bloccano i travetti in frassino, mentre la tavola centrale, in quercia, potrebbe costituire una riparazione antica. L’uso di differenti essenze vegetali per specifici utilizzi è ben documentato nell’antico abitato: da legno di quercia venivano ricavati praticamente tutti gli elementi strutturali, quelli scolpiti erano in ontano, per i frullini venivano usate conifere (forse per la presenza di rametti già nella giusta posizione).

FIBRE E TESSUTI In intreccio di fibre vegetali sono invece realizzati cesti (spesso in salice), nasse e gerle, nonché fini tele di lino, di cui sono stati rinvenuti numerosi frammenti. «I frammenti di tessuti conservano spesso bordi rinforzati (cimose) e bordi con le frange, a testimonianza dell’estrema finezza della tessitura e dell’esistenza di particolari tecniche di filatura e di giunzione tra le fibre (splicing). Il tipo di lavorazione piú usato era l’armatura a tela, consistente nel passaggio del filo di trama sopra e sotto un filo di ordito. Interessante è il ritrovamento di una spoletta

UN ANTICO STRUMENTO DI TINTORIA? Nel 2007 è stata ritrovata una vasca monossile (ricavata cioè da un solo tronco), molto rovinata, costituita da un largo tronco d’ontano scavato, lungo 1,60 m e largo 0,50 m circa. Si tratta, a oggi, di un unicum, e l’oggetto piú simile per forma finora rinvenuto è una vaschetta provvista di forellini alla quale si poteva fissare un tessuto, interpretata come uno strumento per filtrare o

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spremere liquidi, restituita dagli scavi condotti nel sito palafitticolo di Fiavè (Trento). Inizialmente la vasca è stata interpretata come un abbeveratoio oppure come un grande recipiente per impastare sostanze, ma il rinvenimento di semi di Carthamus sp. (zafferanone) nel terreno al suo interno ha suggerito che potesse essere utilizzata nella tintura dei tessuti.



MOSTRE • LOMBARDIA

d’osso con avvolto ancora il filo in corso di lavorazione». Nella mostra vengono presentate anche strutture in impasto di limo e argilla cotto al sole, rinvenute in piú esemplari in punti diversi dello scavo, in corrispondenza del livello dell’incendio che nel 2020 a.C. circa ha distrutto l’abitato, di forma tronco-conica, assemblate utilizzando una sorta di mattoni in argilla seccata al sole impilati con una tecnica simile a quella detta

A destra: una zappa in corso di scavo. In basso: una zappetta con immanicatura in legno e parte lavorante in corno di cervo.

A destra: una zappetta in corso di scavo. Nella pagina accanto, in basso: la ricostruzione di una casa palafitticola con le sue suppellettili.

«della colombina». Questi oggetti, che alla base presentano ampie scanalature parallele, forse derivanti da una superficie realizzata a rami accostati e trattenuti da intrecci, e che talvolta presentano nell’impasto tracce di ramaglie, vengono interpretati come contenitori per sementi (silos) o come arnie. 74 a r c h e o


Insomma, molti reperti di diversa tipologia e utilizzo, talvolta di difficile inter pretazione, ma che spesso, invece, trovano analogie con oggetti della nostra eredità contadina o paralleli etnografici, a chiara testimonianza dell’abilità e delle conoscenze dei gruppi umani di ogni tempo. DOVE E QUANDO «L’Età del Legno. 4000 anni fa al Lucone» Gavardo (Brescia), MAVS, Museo Archeologico della Valle Sabbia fino al 31 dicembre Orario lu-ve, 9,00-13,00; gio, 14,00-17,00; do, 14,30-18,30; chiuso sabato e giorni festivi Info tel. 0365 371474; e-mail: info@ museoarcheologicogavardo.it; www.museoarcheologicogavardo.it a r c h e o 75


ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/16

L’ETRUSCOLOGO INCONSAPEVOLE ORIGINARIO DI TARQUINIA E DUNQUE DI UNA DELLE PRINCIPALI CITTÀ DELL’ETRURIA, IL POETA E SCRITTORE VINCENZO CARDARELLI AFFIANCÒ A UNA VASTA E FORTUNATA PRODUZIONE LETTERARIA L’INTERESSE PER LA STORIA DELLA GRANDE CIVILTÀ PREROMANA. DELLA QUALE SI CONSIDERAVA FIGLIO E DI CUI SEPPE INTUIRE DINAMICHE E FENOMENI POI RICONOSCIUTI DAI PIÚ AUTOREVOLI STUDIOSI DELLA MATERIA di Giuseppe M. Della Fina

I

l nome del poeta e scrittore Vincenzo Cardarelli suona oggi forse poco familiare, ma fino a pochi decenni fa godeva invece di grande notorietà ed era ben vivo il ricordo del ruolo significativo da lui avuto nelle vicende letterarie italiane tra gli anni Venti e Cinquanta del Novecento. Mi sembra quindi necessario spendere qualche riga per tracciarne la figura, pur limitandomi a qualche cenno. Vincenzo Cardarelli (il cui vero nome era Nazareno Caldarelli) era nato a Tarquinia il 1° mag76 a r c h e o


Il poeta e scrittore Vincenzo Cardarelli (1887-1959), terzo da sinistra, con alcuni amici, in visita a uno scavo archeologico. Nella pagina accanto: urna cineraria biconica con coperchio. Cultura villanoviana, IX-VIII sec. a.C. Columbia, University of Missouri, Museum of Art and Archaeology.


ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/16

SACRALIZZARE UNA TERRA Nel giudizio di Cardarelli gli Etruschi assunsero un ruolo speciale nella penisola italiana. Nel suo racconto Gli Etruschi, inserito nel libro Il cielo sulle città, osserva che essi: «Per riguardo ai morti, che essi miravano a seppellire intatti, come per una lenta rigenerazione, si affezionarono alla terra che li custodiva; e tutto quel che fecero gli Etruschi non fu, in sostanza, che una grande opera di ricognizione e consacrazione del suolo italiano».

In questa pagina, dall’alto: le prime edizioni de Il cielo sulle città (Bompiani, 1939) e de Il viaggiatore insocievole (Cappelli, 1953). 78 a r c h e o

gio del 1887. Da lí, all’inizio del 1907, si era trasferito a Roma svolgendo vari mestieri, uno dei quali davvero singolare: quello di «addetto a vigilare l’andamento delle sveglie in un deposito d’orologi a via Tor de’ Specchi». Contemporaneamente iniziò la collaborazione con giornali e riviste letterarie, di cui la prima significativa fu col Marzocco. Nel frattempo, dal 1909, era divenuto redattore all’Avanti!, testata per la quale si occupò di vari argomenti. Collaborazioni con diversi altri giornali (Il Tevere, Il Resto del Carlino, Corriere della Sera, Il Messaggero, per limitarsi a qualche esempio) seguirono negli anni successivi. Nel 1916 venne pubblicato il suo primo volume di poesie, Prologhi. Nel 1919 ebbe inizio l’avventura della rivista La Ronda. Nel 1920 uscí Viaggi nel tempo, mentre è del 1925 Favole e Memorie. Nel 1929 fu pubblicato Il sole a picco, che gli valse il Premio Bagutta, e nel 1931, dopo una lunga gestazione, videro la luce due testi di critica: Parole all’orecchio e Parliamo dell’Italia. Nel 1934 uscí la raccolta di poesie Giorni in piena, seguita da una seconda edizione, arricchita e variata, nel 1936, con il titolo definitivo di Poesie, destinata ad avere edizioni ulteriori presso Mondadori. Nel 1939 venne stampato il Cielo sulle città, per la casa editrice Bompiani, riedito con modifiche nel 1943. Nel 1948 vide la luce il libro Villa Tarantola, con il quale lo scrittore vinse il Premio Strega.

Nell’anno successivo venne data alle stampe una nuova edizione, ancora rinnovata, del Cielo sulle città. Cardarelli assunse la direzione della rivista Fiera Letteraria. Nel 1952 Mondadori pubblicò l’edizione definitiva del Sole a picco e, nel 1953, l’editore bolognese Cappelli diede alle stampe Il viaggiatore insocievole. Nell’anno successivo, ancora per i tipi di Mondadori, vide la luce Viaggio d’un poeta in Russia, che accoglie – con alcune rielaborazioni – gli articoli su un viaggio compiuto in Russia negli anni 1928-1929 scritti per Il Tevere e, nel 1958, si ebbe l’edizione definitiva del volume mondadoriano Poesie. Vincenzo Cardarelli morí a Roma il 15 giugno del 1959.

UNA PRESENZA COSTANTE Per Cardarelli gli Etruschi non furono un interesse momentaneo, o un tema da affrontare occasionalmente, come per altri scrittori italiani del Novecento, ma ritornano spesso nei suoi testi. Sembra considerarli sia alle sue radici, sia a quelle dell’Italia. Innanzitutto le fonti, che dichiara di avere letto e approfondito: il volume Notizie storiche archeologiche di Tarquinia e Corneto di Luigi Dasti (I ed.: Roma 1878; II ed: Roma 1910), che giudicò «opera dotta e letteraria pregevole». In esso lo colpí soprattutto la trascrizione del racconto della scoperta di una tomba intatta avvenuta nel 1823 a opera di Carlo Avvolta e delle conseguenze della sua apertura. Cosí ne parla nel racconto La tomba


Qui sopra: la copertina di Notizie storiche archeologiche di Tarquinia e Corneto di Luigi Dasti, opera che Vincenzo Cardarelli scrive di avere letto e consultato. In alto: una sala del Museo Etrusco Tarquiniese, inaugurato nel 1878 e costituito a partire dalla raccolta comunale arricchita dai reperti affluiti dagli scavi promossi da Luigi Dasti. In basso: l’ingresso della casa natale di Vincenzo Cardarelli a Tarquinia.

del Guerriero, scritto in prima stesura nel 1937 per il giornale La Gazzetta del Popolo e poi riproposto nel Il cielo sulle città due anni piú tardi: «Via via che l’aria entrava nella tomba, il corazzato guerriero, quasi fosse impastato dello stesso elemento, si dileguava, non lasciando alla fine su quel giaciglio che una vaghissima traccia della sua millenaria presenza, mirabilmente confermata, incredibile a dirsi, da qualche brandello di tunica gialletta, e le armi che, fiancheggiandolo d’ambo i lati, rendevano la sua sparizione piú impressionante». Una scena – quella

dell’antico che si dilegua all’incontro con il contemporaneo – ripresa piú volte anche nel cinema.

TESTI ERMETICI Un autore letto con frequenza risulta essere Pericle Ducati, ricordato come «illustre archeologo». Su altri autori consultati rispetto al rapporto tra Villanoviani, Etruschi, Latini e Italici osserva, nel racconto I Villanoviani, pubblicato in Il viaggiatore insocievole (1953): «sono riuscito a trarre qualche frutto dalle mie veglie su certi libri, piú ermetici della poesia ermetica». Presta

A ROMA, CON SETTE LIRE IN TASCA Nel racconto Primi passi, inserito poi nel volume Il sole a picco, il poeta e scrittore Vincenzo Cardarelli (1887-1959) ricorda di quando, dalla nativa Tarquinia, si trasferí a Roma: «Sono venuto a Roma a diciannove anni con sette lire in tasca, e non avevo altre conoscenze che un avvocato socialista abruzzese (...) fratello d’un monsignore che ricopriva un’alta carica in Vaticano».

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ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/16

UN MISTERO NATURALE Vincenzo Cardarelli si soffermò piú volte sulle necropoli dell’Etruria e, in particolare, su quelle di Tarquinia, ma si interessò anche di altre evidenze archeologiche. Nel racconto La tomba del guerriero, inserito nel libro Il cielo sulle città, cosí descrive il pianoro su cui si estendeva la città etrusca di Tarquinia e che le ricerche archeologiche hanno in parte riportato alla luce: «La Civita è un mistero naturale e paesistico, una grossa macchinazione della fantasia religiosa e politica degli Etruschi, i quali annettevano tanta importanza a questa loro metropoli che non si unirono contro Roma se non quando videro in pericolo Tarquinia».

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In alto: la parete di fondo della Tomba dei Leopardi, nella necropoli dei Monterozzi di Tarquinia. 480-470 a.C. Nella pagina accanto: altorilievo raffigurante una coppia di cavalli alati, dal tempio dell’Ara della Regina, i cui resti sono stati individuati sul pianoro della Civita di Tarquinia. IV sec. a.C. Tarquinia, Museo Archeologico Nazionale. A destra: particolare delle pitture della Tomba della Caccia e della Pesca, nella necropoli dei Monterozzi di Tarquinia. 530-520 a.C.

credito alla divisione tra Villanoviani ed Etruschi e, al tempo, non sarebbe stato possibile altrimenti, ma osserva: «E in realtà, tra le piccole urne cinerarie, i grandi elmi, le lunghe larghe spade, e tutto l’armamentario e il vasellame etrusco dei secoli piú luminosi, il passaggio avviene cosí gradatamente, per le a r c h e o 81


ARCHEOLOGIA E LETTERATURA

sale del museo di Tarquinia, che ogni cosa che si vede là dentro sembra testimoniare il cammino d’un medesimo popolo». Possiamo affermare che aveva intuito una realtà storica che la ricerca scientifica dimostrò anni dopo. Il nome di Massimo Pallottino non viene esplicitato, ma si può presumere con certezza che sia stato tra le sue letture, se non altro per l’interesse del grande studioso verso Tarquinia (del 1937 è la sua monografia Tarquinia, pubblicata nei Monumenti Antichi dei Lincei) e per la centralità assunta negli studi etruscologi negli anni Cinquanta del Novecento. La conoscenza degli Etruschi per Vincenzo Cardarelli sembra passare soprattutto attraverso le necropoli, in ciò fotografando bene lo stato delle ricerche al suo tempo. A una tomba, in particolare, quella della Caccia e della Pesca, rinvenuta nel 1873, dedica un’attenzione particolare: «Veramente nuova, emersa appena dal caos, appare la terra in questo bellissimo poema pittorico. Gli scogli marini sono ancora fioriti di corallo. Il pittore ha dato il massimo spazio al mare, al cielo e alle loro creature (...) le figure umane sono piccole, inevitabilmente comiche e quasi perdute nel vasto universo che le circonda» (in Vita delle tombe etrusche, in Il cielo sulle città). L’interesse va anche verso la coroplastica: «Ho rivisto gli Etruschi, che manipolarono la creta con ricercata grossolanità e lesta bravura; e fecero della scultura casareccia, non altrimenti di come fa il panettiere il pane e il pasticciere i dolci» (Il mio paese, in Il sole a picco). Dietro la prosa di scrittore si possono intravedere le posizioni critiche del suo tempo rispetto all’arte etrusca, espresse ovviamente in maniera personale. L’altro aspetto evidenziato è la religiosità del mondo etrusco, intuita soprattutto attraverso le loro pratiche funerarie, se «la storia non conosce un popolo piú fermo, piú radicato, fu soltanto perché in loro 82 a r c h e o

LE BATTUTE E I SILENZI DI UN POETA Nel 1973 uscí, postumo, La solitudine del satiro di Ennio Flaiano, con articoli che lo scrittore aveva iniziato a raccogliere in una cartella pensando alla loro pubblicazione in un volume. In un pezzo, datato aprile 1952, offre un ritratto di Vincenzo Cardarelli ormai anziano, a Roma, in via Veneto: «Il poeta Cardarelli va a sedersi tutte le mattine nell’unica poltrona della Libreria Rossetti e intralcia non poco il commercio con le sue battute e piú ancora con i suoi silenzi, che mettono a disagio i clienti. Rossetti ha l’aria di non averla a male». In alto: Vincenzo Cardarelli al tavolo di un bar di via Veneto, a Roma. 1957. Nella pagina accanto: la facciata di Palazzo Vitelleschi, oggi sede del Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia.

l’amore della terra si confondeva risolve a suo modo, ipotizzando una con la religione dei morti» (Gli distinzione tra Tirreni e Etruschi: «Una vecchia favola di mia particoEtruschi, in Il cielo sulle città). lare invenzione, mi dice che i Tirreni, progenitori degli Etruschi, venLA QUESTIONE nero dal mare. Chi li vuole autoctoDELLE ORIGINI Nelle riflessioni di Cardarelli non ni o calati dalle Alpi non s’è forse poteva mancare la tematica delle domandato che cosa portano con sé origini, in quegli anni al centro del i Tirreni venendo in Italia, non pendibattito. Anche in questo caso se- sa ch’essi recarono la luce meditergue quanto era maturato nel mon- ranea fin nelle piú remote caverne do dell’archeologia sino ad allora – dell’Appennino, ciò che basterebbe prima della lezione di Massimo ad accusarne l’origine». Pallottino verrebbe da dire –, ma Poi prosegue: «Gli Etruschi apparintroduce alcune considerazioni tengono all’Italia. Si sono fatti su questa terra. Le loro divinità sono con caratteri di originalità. Il dilemma tra origine orientale, tutte indigene e locali come le pieautoctonía e provenienza da nord lo tre e i metalli che lavorano. Ma nel


contatto degli avventurosi Tirreni coi laboriosi Umbri nacque la civiltà etrusca» (Gli Etruschi, in Il cielo sulle città). In fondo – a pensarci un poco – con un approccio diverso non scientifico ma emotivo, con parole forse meno puntuali ma piú evocative, Cardarelli arriva a una conclusione non molto diversa da quella che sosteneva la necessità di spostare l’attenzione dal tema delle «origini» a quello della «formazione» del popolo etrusco. Un’intuizione – va detto – che si trova già, sempre su base narrativa, nelle pagine di Etruscan Places di David Herbert Lawrence (vedi «Archeo» n. 461, luglio 2023; on line su issuu.com), un’opera postuma (Londra, 1932) e che nasce da una serie di articoli pubblicati dopo un viaggio dello scrittore inglese in Etruria nella primavera del 1927: «È difficile immaginare che un popolo intero, una vera e propria schiera, si sia messo in mare improvvisamente nelle fragili imbarcazioni dell’epoca, per andare a occupare un’Italia centrale ancora poco abitata». Cardarelli arriva a ipotizzare un momento per l’arrivo dei Tirreni in Etruria: «La loro apparizione in Grecia, in Egitto, e finalmente in Italia, ha a vedere, nella mia fantasia, con la caduta di Ilio. Il loro viaggio fu quello stesso d’Enea» (Gli Etruschi, in Il cielo sulle città). Anche qui il poeta e scrittore sembra anticipare posizioni recenti che tendono a retrodatare l’inizio della formazione del popolo etrusco.

uomini ha gareggiato col tempo nell’oltraggiare questa che fu una delle piú splendide lucumonie etrusche e forse la capitale dell’Etruria, atteso ché gli Etruschi non conoscevano unità se non religiosa e Tarquinia fu appunto la loro mecca. Una bellissima leggenda vuole che il dio etrusco, rivelatore dei segreti dell’aruspicina, sia nato nel suo territorio» (La tomba del guerriero, in Il cielo sulle città). Resta da segnalare la funzione che, secondo lo scrittore, gli Etruschi hanno svolto nella storia della penisola italiana. In particolare, mi sembra che meritino d’essere evidenziate due affermazioni, che riescono in poche righe a dare il senso profondo di una vicenda storica. Dal racconto Gli Etruschi (in Il cielo sulle città) – piú volte richiamato – si possono trarre queste righe: «Co-

minciò allora quel viaggio senza ritorno che è la colonizzazione etrusca in Italia: favola del paesaggio italiano, storia naturale, antefatto necessario alla storia di Roma, che pare desunto dai golfi, dai promontori, dai fiumi e dalle rocce del nostro paese». E ancora: «In mezzo alle giovani popolazioni autoctone dell’Italia antica, la vecchia Etruria sacerdotale, impolitica, magica, dispotica, fa pensare a Bisanzio. Ma Bisanzio è lo spettro di Roma, laddove l’Etruria ne è la spirituale matrice. La semplicità romana fiorisce su quest’abisso». Come si potrebbero riassumere meglio, in poche righe, le caratteristiche e la funzione storica della civiltà etrusca? NELLA PROSSIMA PUNTATA • Wisława Szymborska

TARQUINIA, CAPUT MUNDI Un altro aspetto da sottolineare è la centralità attribuita a Tarquinia nella sua lettura della civiltà etrusca: una certezza che nasce dall’oggettiva importanza della città, ma anche dal fatto di essere il suo paese natale. Per Cardarelli il primato di Tarquinia nel mondo etrusco sembra legato soprattutto all’aspetto religioso: «L’incuria degli a r c h e o 83


SPECIALE • LE VIE DELLA SETA

CAROVANE CARICHE DI STORIA

Una carovana di cammelli in viaggio in una delle aree desertiche attraversate dalla Via della Seta. 84 a r c h e o


I PLURISECOLARI RAPPORTI FRA L’ASIA E IL RESTO DEL MONDO SI SONO DIPANATI LUNGO MOLTEPLICI DIRETTRICI, VEICOLANDO NON SOLTANTO IL PREZIOSO TESSUTO RICAVATO DAI BACHI, MA ANCHE IDEE, DOTTRINE RELIGIOSE, MODELLI CULTURALI, NONCHÉ UNA GAMMA INFINITA DI MATERIE PRIME E MANUFATTI. AL BRITISH MUSEUM UN VIAGGIO AFFASCINANTE SUI PERCORSI DELLE «VIE» DELLA SETA di Sue Brunning, Luk Yu-ping e Elisabeth R. O’Connell

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SPECIALE • LE VIE DELLA SETA

Il British Museum di Londra propone, fino al prossimo 23 febbraio, una mostra in cui viene indagata e documentata la storia della Via della Seta, concentrandosi soprattutto sul perché sia piú opportuno ragionare in termini di «vie» e non di una singola direttrice. Concetti esplicitati nel testo che qui pubblichiamo, tratto dal volume che accompagna l’esposizione.

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Nella pagina accanto, in alto: particolare degli affreschi che ornavano la Sala degli ambasciatori dell’antica Afrasyab (Samarcanda). VII-VIII sec. Samarcanda, Museo Archeologico di Afrasyab. A sinistra: statuetta in bronzo del Buddha, da Helgö (Svezia). Fine del VI-metà del VII sec. Stoccolma, Historiska museet.

L

a figura che vi guarda dolcemente dalla prima pagina di questo Speciale ha le sembianze inconfondibili del Buddha. Alto poco piú di 8 cm, era in origine d’oro brunito, il colore naturale del bronzo in cui è stato fuso millecinquecento anni fa. Il Buddha è raffigurato seduto, in perfetta calma su un doppio fiore di loto con le gambe incrociate e i piedi rivolti verso l’alto. La sua mano destra poggia sul ginocchio nel varadamudra, il gesto buddista che esprime la realizzazione del desiderio, con il palmo rivolto verso l’esterno e le dita rivolte verso il basso. La mano sinistra, sollevata, afferra il suo sanghati, una veste monastica, che lo fascia in morbidi drappeggi. L’espressione del Buddha è l’immagine della serenità, con labbra sorridenti e occhi che guardano dolcemente davanti a sé.

UN SEGNO BENEAUGURANTE Il bronzista ha evidenziato queste caratteristiche servendosi di argento, stagno e niello nero, in contrasto con la pelle, un tempo dorata, quasi a voler enfatizzare l’aspetto tranquillo del Buddha. Gli occhi stessi potrebbero aver brillato originariamente tra le palpebre semichiuse, come suggeriscono i residui di rame e vetro trovati all’interno. Sulla fronte, il piccolo «bottone» a rilievo, l’urna, un segno di buon auspicio, era anche accentuato da uno strato di metallo prezioso, verosimilmente oro, che tuttora luccica. Dal punto di vista dell’iconografia, la figura appartiene alla tradizione artistica della valle dello Swat, nell’odierno Pakistan, dove fu probabilmente realizzata tra la fine del VI e la metà del VII secolo. La valle fu un centro importante del buddhismo primitivo, una dottrina che si diffuse dal subcontinente indiano alla Cina nei primi secoli dell’era cristiana. La figura, tuttavia, non viene dalla valle dello Swat, né da altri centri buddisti allora conosciuti. È stata infatti trovata sulla piccola isola lacustre di Helgö in Svezia, a circa 5000 chilometri dallo Swat. La sorprendente scoperta, fatta durante gli scavi archeologici di edifici databili intorno all’anno 800, invita a riflettere sulla reale portata delle interconnessioni stabilite nel passato e sull’effettivo ruolo svolto dalla cosiddetta «Via della Seta» in questa storia.


In basso: monete in oro battute nel regno di Mercia (Inghilterra centrale), al tempo del re Offa, a imitazione dei dinari arabi, da Roma. 773-796. Londra, British Museum.

UN CONCETTO MODERNO I laghi e le foreste della Svezia sono lontani anni luce dall’immagine popolare della Via della Seta, che di solito è fatta di carovane di cammelli che trasportano il prezioso tessuto dalla Cina verso ovest, lungo piste desertiche, oppure di spezie multicolori in vendita a Samarcanda, o ancora di Marco Polo che conversa con Qubilay Khan alla corte mongola. In realtà, questa visione è un concetto moderno, che ha preso forma per la prima volta nel XIX secolo. L’invenzione del termine «Via della Seta» (in lingua tedesca, Seidenstrasse) viene generalmente attribuita al geografo Ferdinand von Richthofen (18331905), che l’avrebbe coniata nel 1877, sebbene recenti scoperte rivelino che era già in uso prima di allora. Tuttavia, Richthofen forní una definizione piú precisa basata su fonti storiche. Apparve nella sua opera in cinque volumi

intitolata China, nel testo vero e proprio e nella didascalia di una Mappa dell’Asia centrale: panoramica dei collegamenti di trasporto dal 128 a.C. al 150 d.C. Su questa mappa furono tracciate due linee, in rosso e blu, per distinguere i percorsi ipotizzati, basati rispettivamente su fonti greche e cinesi. La linea rossa, identificata come «die Seidenstrasse» («la Via della Seta»), correva da Chang’an (l’odierna Xi’an) fino al margine sinistro della mappa, raggiungendo quello che oggi è l’Iran. Per il geografo tedesco, il termine «Via della Seta» era inteso in un’accezione ristretta della definizione. Si riferiva, infatti, innanzi tutto alle rotte commerciali lungo le quali la seta si spostava verso ovest dalla Cina della dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.) all’Asia centrale e oltre. Richthofen scriveva in un periodo in cui l’Asia centrale era al centro della rivalità fra l’impero britannico e quello a r c h e o 87


SPECIALE • LE VIE DELLA SETA

russo, ed entrambi erano interessati allo sfruttamento delle opportunità commerciali nelle regioni occidentali della Cina appena riconquistate. Dietro la sua mappa e i suoi rilievi c’era una potenziale ferrovia transcontinentale che avrebbe collegato l’Europa alla Cina.

Tan Tan a a Ven Ve e en ne ezi ez zziia Gen G Ge enov en ova ova va V Pis P iis sa Fiirre Fir F enz en nz nze Nap Na N ap a poli poli ollii ol

Cos Cos Co osttan ta antin an tin ti iinopo nopo op op po oli (Issta (Is ttan an a nbul b ) bu

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Statuetta in ceramica smaltata raffigurante un cammello battriano, da Luoyang. Epoca Tang (618-907). Londra, British Museum. L’animale trasporta varie merci, fra cui si riconoscono seta arrotolata, una brocca dell’Asia occidentale o centrale e sacchi coperti con maschere mostruose. 88 a r c h e o

Qom Q Qo o om


Le «Vie» della Seta Percorso principale Itinerario descritto nel manuale per mercanti di Francesco Balducci Pegolotti (1330-1340) Percorsi alternativi Il canale imperiale in epoca Yuan (1279-1368)

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Rotte marittime

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Copia di una mappa del regno del Ghana disegnata dal geografo arabo al-Idrisi. 1300-1500. Oxford, Bodleian Libraries.

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SPECIALE • LE VIE DELLA SETA Planisfero tratto da un codice manoscritto del Nuzhat al-mushtaq di al-Idrisi. 1533. Oxford, Bodleian Libraries. La mappa segue una tradizione della cartografia islamica che pone il centro del mondo alla Mecca. L’Arabia è parte del piú ampio comparto afro-euroasiatico e, attraverso l’Oceano Indiano, è connessa anche alla Cina.

La popolarità della Via della Seta crebbe grazie agli scritti di viaggio degli anni Venti e Trenta

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In basso, sulle due pagine: altri particolari degli affreschi della Sala degli ambasciatori di Afrasyab (Samarcanda). VII-VIII sec. Samarcanda, Museo Archeologico di Afrasyab.

All’inizio del XX secolo, esploratori e archeologi stranieri come Mare Aurel Stein (18621943) intrapresero spedizioni intorno al bacino del Tarim (regione del Turkestan cinese od orientale, oggi nella regione autonoma Uighur del Xinjiang, n.d.r.). Raccolsero grandi quantità di reperti che sarebbero finiti nelle collezioni museali di tutto il mondo, incluso il British Museum, e sarebbero arrivati a rappresentare aspetti chiave della Via della Seta in pubblicazioni e mostre successive. La mostra in corso al British Museum e il volume che la accompagna non fanno eccezione.

LO SVILUPPO TURISTICO Gli scritti di viaggio degli anni Venti e Trenta del Novecento, in particolare The Silk Road di Sven Hedin (pubblicato per la prima volta nel 1936 in svedese e poi rapidamente tradotto in tedesco e inglese), contribuirono a far conoscere il termine a un pubblico piú vasto. Da quel momento in poi, l’espressione «Silk Road» iniziò a essere tradotta anche in lingue non europee. Un altro fattore che contribuí alla sua crescente popolarità fu l’industria del turismo. Ferrovie, piroscafi e autostrade resero i viaggi a lunga distanza piú accessibili ai turisti europei e americani, alimentando l’interesse per la Via della Seta e la sua romantica associazione con l’avventura in terre esotiche.

Tuttavia, solo sul finire del XX secolo il termine «Via della Seta» ottenne un vero riconoscimento globale. Dopo la seconda guerra mondiale e poi della guerra fredda, e con la formazione di nuovi Stati sovrani decolonizzati in Asia, la Via della Seta acquisí importanza nello sviluppo delle identità nazionali e nella rivisitazione delle relazioni interregionali e internazionali. L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura, la Comunicazione e l’Informazione (UNESCO), fondata nel 1945, svolse un ruolo chiave nella promozione della Via della Seta come mezzo per incoraggiare l’apprezzamento reciproco e lo scambio tra i Paesi. Il Giappone fu uno dei primi sostenitori di queste iniziative, poiché cercò di ricostruire la sua immagine internazionale e i legami diplomatici con i suoi vicini dopo il secondo conflitto mondiale. Il concetto di «Via della Seta marittima» divenne parte di queste discussioni piú ampie. L’interesse per la Via della Seta continuò a crescere negli anni Ottanta, sostenuto da pubblicazioni, conferenze, mostre, viaggi di studio, progetti di conservazione, film documentari e altri eventi artistici e culturali. Ciò si estese alle politiche governative sul commercio e gli investimenti transfrontalieri. Gli Stati Uniti hanno proposto una

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SPECIALE • LE VIE DELLA SETA

New Silk Road Initiative negli anni 2010 per l’impegno con l’Afghanistan e l’Asia centrale. Nel 2013 la Cina ha lanciato politiche che sarebbero diventate la Belt and Road Initiative, un piano che reinventa le storiche vie della seta terrestri e marittime come una delle principali strategie di sviluppo infrastrutturale globale. L’iniziativa ha inoltre promosso la diplomazia del patrimonio sotto forma di programmi di collaborazione culturale e cooperazione intergovernativa nella candidatura di siti storici della Via della Seta alla Lista del Patrimonio mondiale dell’Umanità dell’UNESCO. Questa breve storia del termine «Via della Seta» prova che, dalla fine dell’Ottocento in poi, l’espressione è stata profondamente coinvolta in mutevoli programmi economici e geopolitici. Contemporaneamente, il concetto si è espanso ben oltre la linea rossa tracciata sulla mappa di Richthofen. Un importante e recente saggio sull’argomento, che copre l’Afro-Eurasia da circa il 200 a.C. al 1400

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d.C., si apre con una mappa che difficilmente potrebbe apparire piú diversa da quella del geografo tedesco, che mostra una rete di rotte che si estende a ovest verso la Gran Bretagna e l’Irlanda, a sud verso il Madagascar, a est verso il Giappone e a nord verso la Scandinavia e la Siberia. Il Buddha di Helgö diventa nient’altro che un pixel in questo concetto espanso di «Vie della Seta», che le definisce come una rete transcontinentale che si estende in tutte le direzioni.

UN CONCETTO UTILE? In quanto invenzione moderna con significati mutevoli, l’utilità analitica del termine «Via(e) della Seta» è oggetto di discussione. I critici ne hanno sottolineato i limiti e le carenze, in quanto esso enfatizza eccessivamente la seta come merce, a scapito della miriade di oggetti, nonché di persone e idee, che venivano veicolati, dando anche la falsa impressione di una rotta terrestre fissa, che si estendeva ordinatamente e ininterrottamente attraverso l’Eurasia. L’attenzione, soprattutto nei primi studi, sullo scambio est-ovest e sui termini convenzionalmente intesi della Via della Seta in Cina e in Europa ha fatto sí che siano state trascurate le interazioni fra nord e sud e quelle fra regioni che hanno legami significativi, come l’Asia centrale e l’India. L’incerta cronologia della(e) Via(e) della Seta pone ulteriori sfide interpretative. I resoconti cinesi tendono a iniziare con la spedizione del diplomatico imperiale della dinastia Han Zhang Qian (167-114 a.C.) in Asia centrale, a partire dal 138 a.C. Altri potrebbero guardare piú indietro, alle campagne militari di Alessandro Magno (336323 a.C.) in Asia centrale e nel subcontinente indiano nord-occidentale, o al movimento millenario di gruppi nomadi indoeuropei come parte della storia della Via della Seta. Le cronologie possono insomma fermarsi a diversi periodi storici o continuare fino al 1800 e oltre. Tuttavia, il termine «Via della Seta» è sopravvissuto alle sfide accademiche grazie al suo status iconico e alla sua praticità, simile a una scorciatoia per lo scambio interculturale in questa parte del mondo. Questa ampia accezione si presta anche all’attuale interesse per la ricerca sulle storie umane che enfatizzano il contatto e le connessioni,

Nella pagina accanto, in alto: spilla al centro della quale è incastonato un sigillo islamico, da Ballycotton Bog (contea di Cork, Irlanda). 780-850. Londra, British Museum. Nella pagina accanto, in basso: coppa in argento di produzione carolingia con motivi di ispirazione sassanide, dallo Yorkshire del Nord. Metà del IX sec. Londra, British Museum.

anziché rappresentare società isolate, mantenendo divisioni disciplinari. Il suo riconoscimento popolare e il suo continuo fascino possono aiutare a far conoscere a un pubblico piú ampio nuove idee, prospettive e scoperte interdisciplinari su storie fra loro connesse. La ricerca ha anche dimostrato che gli studi mirati sulla «Via della Seta» possono avere sfumature diverse. Mentre il termine potrebbe, per alcuni, evocare immagini stereotipate di cammelli e spezie, esso evoca anche nozioni di scambio transcontinentale, che sono principi fondamentali all’interno della concettualizzazione piú complessa di oggi. Di conseguenza, nonostante i suoi limiti, il termine conserva la sua attrattività e richiama idee che sono sia pertinenti che evocative. Appare peraltro probabile che la sua applicazione sia destinata a protrarsi, anche se in una forma leggermente diversa: i lavori recenti tendono a utilizzare sistematicamente il termine plurale «Vie della Seta»,

Fiasca del pellegrino proveniente dal monastero di Abu Mena (Egitto) e ritrovata nel Kent, in Inghilterra. 480-560. Londra, British Museum.

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SPECIALE • LE VIE DELLA SETA

una semplice modifica che evoca la mag- attraversare grandi distese fosse una pratica giore complessità con cui il concetto è ora semplice e di routine. In effetti, ci sono poche presentato e compreso. prove che suggeriscono che gli individui viaggiassero personalmente da un’estremità all’altra della mappa e solo alcuni gruppi semAMPLIARE GLI ORIZZONTI In un’accezione allargata delle Vie della Seta, brano aver viaggiato per distanze significative. i collegamenti afro-euroasiatici non sono li- Recenti ricerche sui meccanismi di scambio mitati alle sabbie del deserto o persino alla e l’interconnettività hanno portato a identifiterraferma in generale. Le rotte marittime care i percorsi di viaggio come elementi covengono ora considerate arterie critiche, co- stitutivi all’interno di reti regionali che si inme dimostrano gli importanti studi sul ruolo tersecavano tra loro in hub chiave, come i del Mar Baltico come porta europea verso est centri urbani, i porti e i mercati. Qui, le o quelli sul Mar Rosso e l’Oceano Indiano, merci potevano essere scambiate tramite stafche collegano l’Asia orientale all’Africa, fette, da una rete all’altra, creando una catena all’Europa mediterranea e oltre. Anche i fiumi di viaggi segmentati che, alla fine, si sommaerano connettori fondamentali, come le vie vano a un passaggio molto esteso. Pertanto, d’acqua dell’Europa orientale, della Russia e coloro che operavano lungo le reti potrebbedell’Ucraina, che facilitavano gli scambi tra ro non aver viaggiato su lunghe distanze, ma l’Europa settentrionale e il mondo bizantino ciò che maneggiavano poteva attraversare e islamico almeno a partire dal VII secolo. I l’intero mondo conosciuto. Gli scambi a dicollegamenti nord-sud, in particolare la rela- stanza, il cui fascino ha da sempre attirato zione tra società pastorali nomadi o semi- un’attenzione esagerata, sono stati in realtà nomadi e sedentarie, erano importanti tanto trainati dagli scambi regionali e locali. Le singole reti erano soggette a fluttuazioni quanto i viaggi in direzione est-ovest. Percorsi di ogni genere si unirono fino a ga- nel tempo. I segmenti si chiudevano, si aprirantire una sorprendente copertura transcon- vano, si espandevano, si contraevano e si altinentale, con merci che spesso si trasferivano ternavano in risposta a eventi dal forte imtra percorsi diversi per raggiungere la loro patto, come, in particolare, la diffusione destinazione finale. Le visualizzazioni di linee transcontinentale dell’Islam dal VII secolo in che si intersecano ordinatamente sulle mappe poi, ma anche la fine dell’impero romano possono far nascere l’idea che, nel passato, d’Occidente nell’Europa del V secolo. Gli

Gli scambi su lunghe distanze avvenivano anche grazie a ripetuti passaggi di mano dei beni

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Stendardo in seta rinvenuto in una delle grotte di Mogao (Dunhuang, Cina): 492 templi scavati nella roccia che conservano una collezione imponente di arte buddhista cinese. 700-800. Londra, British Museum. In basso, sulle due pagine: corno potorio in vetro blu di produzione longobarda, che però tradisce influenze bizantine, da Sutri (Viterbo). 550-600. Londra, British Museum.

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SPECIALE • LE VIE DELLA SETA

studi hanno dimostrato che non tutte le reti afro-euroasiatiche erano collegate allo stesso modo nello stesso momento e lo scambio aveva un impatto diverso sulle regioni, secondo fattori diversi, tra cui la distanza e l’accessibilità fisica. I percorsi disegnati sulle mappe sono utili per visualizzare la connettività, ma creano anche l’illusione che fossero rotte monolitiche e permanenti, piuttosto che variabili e organici. Di conseguenza, uno studioso ha proposto di reimmaginare le Vie della Seta come un insieme di paesaggi intrecciati piú che come una costellazione di linee. Un altro approccio identifica i nodi principali (grandi insediamenti), i segmenti di percorsi che li uniscono loro e corridoi piú ampi di «movimento e impatto». Com-

binando queste idee, si potrebbe contribuire a far emergere la sensazione che il mondo delle Vie della Seta fosse collegato, ma non limitato, alle rotte che lo attraversavano.

TESTIMONIANZE INTANGIBILI Come accennato in precedenza, è ormai ampiamente riconosciuto che la seta era solo una delle merci scambiate in Afro-Eurasia, e non necessariamente la piú significativa. Una pletora di materiali, oggetti, persone e idee ha attraversato confini geografici e culturali e ha cambiato mano in una serie di contesti, tra cui il commercio, ma anche la guerra, la diplomazia, l’apprendimento, il pellegrinaggio e altro ancora. Tra le sopravvivenze tangibili ci sono le ombre di innu-

In basso e nella pagina accanto, a sinistra: due immagini tratte da un album che illustra le varie fasi della coltivazione e produzione della seta. Dinastia Qing, XIX sec. Brooklyn, Brooklyn Museum.

TUTTO COMINCIÒ CON UNA FARFALLA La seta nasce dalla secrezione delle larve di un lepidottero, il Bombyx mori, che si nutrono del gelso bianco (Morus alba). Gli arbusti venivano tagliati, nei primi anni, a 50 cm circa da terra, per permettere la crescita fino a quasi 2 m d’altezza. È stato calcolato che ci vogliono 30 piante di gelso per ricavare poco meno di 3 kg di seta dipanata. Le ghiandole sericigene del bruco iniziano a secernere filamenti liquidi ricoperti da una sorta di gomma (sericina) che li salda in unico filamento, solidificandosi al contatto con l’aria. II bruco si chiude in questo filo continuo che diventa il bozzolo. Alcuni vengono conservati per la riproduzione, attendendo che il bruco si trasformi in farfalla e deponga le uova; altri bozzoli invece forniscono 96 a r c h e o

la seta «dipanata», quelli rovinati la seta «filata di scarto». Perché il filamento sia continuo è necessario uccidere la crisalide: i bozzoli vengono immersi in un bagno d’acqua calda che dissolve la sericina, saldando tra loro tutte le spire del filamento. Nell’acqua tiepida vengono afferrate le estremità di questi fili, unendone sei o sette per ottenere un sottile filo di seta, mentre ne occorrono fino a venti e trenta per un filo piú consistente. Tale operazione si effettua con un aspatoio rotativo azionato a pedali, il saosiji, macchina per dipanare e filare. Si ottiene un filo continuo, resistente, brillante, morbido e di un’elasticità estrema.


Al centro della pagina, a destra: un baco da seta (Bombyx mori) secerne i filamenti che danno vita al suo bozzolo e dai quali si ricava poi il filo di seta.

merevoli scambi intangibili, i cui passaggi sono piú difficili da ricostruire. Prove archeologiche e documentali, insieme ad analisi scientifiche, hanno rivelato una serie di materie prime in movimento lungo percorsi incrociati via terra, fiume e mare: pietre preziose e semipreziose, come zaffiro e granato; minerali, tra cui giada e cristallo di rocca; resine, come l’ambra; prodotti animali, come avorio, perle, conchiglie e pelliccia; metalli di base e preziosi; vetro grezzo; coloranti e pigmenti; cibo e bevande, come spezie, noci, frutta, vino e miele; sostanze aromatiche e medicinali; e poi piante, raccolti, alberi, legname e semi. I prodotti artigianali che sappiamo avere viaggiato includono monete; recipienti per cibo e bevande; indumenti e

I Cinesi inventarono, quindi, la manovella e una sorta di mulinello che consentiva di raccogliere il filo in matasse. Del resto, la seta si

accessori per abiti, tra cui copricapi e calzature, gioielli e altri ornamenti; elementi architettonici; opere d’arte, come sculture, incisioni e figure; parafernalia religiosi; e testi letterari e documentari. Anche gli animali venivano scambiati, in particolare cavalli, elefanti, cani da caccia, uccelli rapaci, volatili ornamentali come i pavoni e altre creature destinate a voliere e serragli. I beni di lusso hanno a lungo attirato le maggiori attenzioni, ma ora i beni piú umili, in particolare la ceramica di uso quotidiano, sono molto considerati come prove degli scambi intessuti. Il vasellame, infatti, non solo sopravvive in gran numero, ma spesso conserva residui di beni di consumo che indicano cambiamenti nei metodi di cottura e di ali-

commerciava spesso in questa forma (non ancora tessuta). Le matasse venivano colorate con tinture d’origine vegetale. Col tempo furono utilizzati

telai assai elaborati, dotati di cinghie per convertire il movimento rotatorio in rettilineo, longitudinale e viceversa. Si arrivò quindi alla creazione del telaio detto «a bacchette», attrezzato con un sistema paragonabile a quello dei telai a spolette, in uso da tempi molto antichi, e quello detto «a navetta», che consentiva il disegno su trama (e non in ordito), realizzato a partire dal VI secolo, e che velocizzò i tempi di tessitura. a r c h e o 97


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Fronte e retro di tre manoscritti bilingui (pothi), in cinese e khotanese, con figure per metà umane e per metà animali, dalle grotte di Mogao (Cina). 800-900. Londra, British Museum. Nella pagina accanto, in alto: fermaglio in oro con inserzioni di pietre preziose, comprendenti rubini indiani e gemme dello Sri Lanka, da Sutton Hoo. Fine del VI-inizi del VII sec. Londra, British Museum.

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mentazione, oppure trattamenti superficiali no state interpretate come cinghie per appencome la smaltatura, suggerendo trasferimenti dere il Buddha a un muro oppure al corpo di di nozioni tecnologiche e modelli stilistici. una persona, suggerendo che la statuetta venisse trattata come una curiosità esotica o come un pezzo da esposizione, il cui significaNUOVI SIGNIFICATI Molti oggetti scambiati lungo le Vie della to originale non era sopravvissuto al lungo Seta erano realizzati per funzioni specifiche, viaggio verso nord. Tuttavia, una recente procome pagare beni o conservare cibo, oppure posta di identificazione ha paragonato le fasce avevano significati intenzionali, come evocare di cuoio a quelle trovate con idoli di legno di una figura spirituale. Tuttavia, questi valori divinità scavate nelle zone umide scandinave, non viaggiavano necessariamente con loro. In suggerendo che una qualche conoscenza del alcuni casi, segni visibili di riuso o adattamen- significato spirituale del Buddha fosse stata to segnalano un cambiamento di utilizzo o trasmessa e fosse stata quindi «riconfezionata» significato. Altri casi richiedono analisi piú per il contesto religioso norreno. approfondite, in particolare quando un ogget- Purtroppo, le fasce di cuoio del Buddha di to si è spostato lontano dal suo luogo di ori- Helgö non si sono conservate, escludendo la gine e in un contesto culturale diverso. Un possibilità di effettuare analisi scientifiche esempio eloquente è proprio la statua del dalle quali sarebbero potuti scaturire ulterioBuddha citata in apertura. Quale significato ri indizi. Tuttavia, casi come questo sollevano può avere avuto per chi l’ha posseduta in interrogativi sull’intersezione tra scambi tanScandinavia? Che tipo di storie potevano gibili e intangibili lungo le Vie della Seta. In generale, comunque, le idee si muovevano essere raccontate a riguardo? Una fotografia scattata dopo lo scavo alimen- lungo reti, proprio come facevano gli oggetti ta piú di una ipotesi. L’immagine mostra in- fisici. Credenze religiose di ogni portata, prifatti che la figura è stata trovata con spesse me fra tutte buddismo, Islam e cristianesimo fasce di cuoio attorno al collo e al polso sini- attraversavano i continenti. Cosí come sistemi stro, che si pensa siano state aggiunte dopo il politici e gerarchie; costumi spirituali e cultusuo arrivo in Svezia. Inizialmente, le fasce so- rali; lingue e scritture; saperi, come scienza,


medicina, geografia e diritto; stili, iconografie e altre arti, come musica e poesia; metodi economici, dalla monetazione ai pesi e alle misure; mode, acconciature e cosmetici; e tecnologie, tra cui lavorazione dei metalli, fabbricazione del vetro, fabbricazione della carta e idraulica e, naturalmente, moricoltura e sericoltura, vale a dire la coltivazione di alberi di gelso e bachi da seta domestici nutriti con foglie di gelso per produrre seta (vedi box alle pp. 96-97). Naturalmente, anche le persone viaggiavano. Gli studi sulla mobilità e le migrazioni hanno generato un ritratto sfumato delle persone in movimento in tutta l’Afro-Eurasia. Le strutture socioeconomiche, politiche e di altro tipo interagiscono con l’iniziativa individuale nelle storie di migrazione. I numeri delle persone coinvolte variavano da singoli individui a intere popolazioni. Tra coloro che potrebbero essersi spostati per scelta vi sono commercianti, artigiani, pellegrini, missionari, studiosi,

esploratori, diplomatici e mercenari. Altri furono costretti a spostarsi, per esempio da disastri naturali, cambiamenti climatici, guerre, persecuzioni e coercizione statale, come nel caso dell’espulsione di rivali politici.

Cofanetto in osso di balena decorato con episodi della storia ebraica, della tradizione cristiana e miti romani e nordici, da Auzon (Francia). 700 circa. Londra, British Museum. a r c h e o 99


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Probabilmente, il gruppo piú significativo in questa categoria era costituito da esseri umani ridotti in schiavitú che, come ha spiegato in modo toccante la storica Susan Whitfield, venivano comprati e venduti nei mercati in tutta l’Afro-Eurasia. Un commercio di cui furono vittime milioni di individui. La sua diffusione può essere spiegata, almeno in parte, dal suo incredibile valore non solo per i mercanti che effettuavano le transazioni, ma anche per i molti governi e regioni che beneficiavano dei proventi di queste transazioni, della loro tassazione e della manodopera fornita dagli stessi popoli schiavizzati.

Si è a lungo sostenuto che la tratta degli schiavi è «archeologicamente invisibile» e che può essere meglio analizzata attraverso prove documentali, che vanno dagli annali e dalle biografie alle carte, ai contratti e alle fatture di vendita. Studi recenti, tuttavia, hanno proposto nuove chiavi di lettura, affrontando la questione da nuove angolazioni: per esempio, attraverso confronti con il successivo commercio transatlantico; esame dei presunti siti di mercato; sepolture di individui «subordinati», sottoposti a restrizioni della libertà personale oppure malnutriti; nonché Statuina in terracotta con residui della coloritura originaria raffigurante una suonatrice di liuto. 671-730. Oxford, Ashmolean Museum. Nella pagina accanto, in alto: veste da cavaliere, da Sheikh Ibada (Egitto). 450-550. Berlino, Bode-Museum.

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occupandosi delle merci con le quali gli schiavi venivano probabilmente scambiati, in particolare monete d’argento islamiche e perle di vetro nel mondo vichingo. Nel frattempo, l’analisi di grandi siti fortificati nell’Europa orientale, insieme agli insoliti assetti demografici di cimiteri nei quali si riscontra una carenza di adolescenti, sembrano supportare prove scritte e linguistiche secondo le quali le regioni slave e i loro popoli sarebbero stati un obiettivo privilegiato di chi catturava le persone da ridurre in schiavitú, soprattutto nel X secolo. Altre ricerche hanno sottolineato una dimensione religiosa del commercio medievale, almeno in teoria: per esempio, la legislazione relativa al sequestro e alla vendita di correligionari richiedeva alle autorità bizantine e islamiche di cercare popolazioni da schiavizzare rispettivamente al di fuori dei territori cristiani e musulmani.

In basso: scacchi in avorio di probabile produzione indiana, da Afrasyab. 700 circa. Samarcanda, Museo Archeologico di Afrasyab.

probabilmente provenienti dall’Asia e trasmesse molto probabilmente dalle pulci che infestavano i roditori a bordo di trasporti mercantili, militari e di rifornimenti alimentari. In effetti, la cosiddetta peste di Giustiniano fu registrata per la prima volta nel 541 in un porto chiave, Pelusio, in Egitto, che collegava il Mediterraneo e il Mar Rosso. Riferimenti in Cina a una peste con sintomi molto simili a quelli della peste bubbonica compaiono in un compendio

CONTAGI E PESTILENZE Tutti coloro che si spostavano erano potenziali vettori di un altro importante viaggiatore: la malattia. Ondate di peste bubbonica travolgevano le reti delle Vie della Seta, a r c h e o 101


SPECIALE • LE VIE DELLA SETA

medico datato intorno al 610. Agghiaccianti resoconti scritti tracciano la diffusione della peste in tutto il mondo mediterraneo, nell’Asia occidentale e in Europa, fino all’Irlanda, fino all’VIII secolo. La sua ineluttabilità anche in remote aree rurali è evidenziata dalla scoperta dello Yersinia pestis, il batterio responsabile della peste bubbonica, in resti umani provenienti da Spagna, Germania, Francia e Inghilterra. L’archeologia ha fornito contributi decisivi per gli studi sulle Vie della Seta. Le tecniche analitiche che rivelano l’identità, la composizione, la data e la provenienza di materiali, manufatti e resti umani sono state in grado di indicare movimento, riciclaggio, adozione, adattamento e altri comportamenti associati alle interazioni culturali. In alcuni casi, hanno confermato informazioni precedentemente note solo da fonti scritte e altre fonti non archeologiche. Per esempio, le tecniche di fluorescenza a raggi X (XRF) e ablazione laser hanno dimostrato che i gioielli in argento dei Vichinghi erano realizzati riutilizzando i dirham (monete) islamici, confermando l’attendibilità delle fonti arabe contemporanee, secondo le quali i mercanti

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scandinavi realizzavano collane per le loro mogli ogni volta che ne acquisivano una quantità sufficiente. Simili analisi hanno anche confermato come il vetro dell’impero sasanide avesse raggiunto il Giappone. In altri casi, l’archeologia ha portato alla luce vicende che altrimenti sarebbero forse rimaste per sempre sconosciute. Un esempio degno di nota riguarda una giovane ragazza sepolta all’inizio del VII secolo a Updown, nell’Inghilterra sud-orientale. Il suo corpo fu sepolto con i tipici corredi locali, ma il DNA estratto dal suo scheletro indica un 33% di discendenza dall’Africa occidentale, il che suggerisce che i membri della sua famiglia erano arrivati in Inghilterra come migranti transcontinentali.

DAL 500 AL 1000: LE RAGIONI DI UNA SCELTA Per affrontare un argomento cosí vasto, la mostra e il libro che la accompagna approfondiscono solo un piccolo segmento della lunga storia delle Vie della Seta, concentrandosi sui cinque secoli che vanno tra gli anni 500 e 1000. Si tratta di un periodo forse poco conosciuto per quanti abbiano una qualche fa-

Nella pagina accanto: parte di un abito in seta di produzione bizantina trovato forse in Egitto. 600-900. Londra, British Museum. In basso: coppa aurea ottagonale decorata con figure di musici e danzatori, di probabile produzione centro-asiatica, dal cosiddetto Relitto Tang, individuato nel 1998 600 km a sud-est di Singapore. 830 circa. Singapore, Asian Civilisations Museum.


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SPECIALE • LE VIE DELLA SETA

miliarità con l’argomento, poiché si tratta di un orizzonte cronologico che precede di diversi secoli i viaggi di Marco Polo in Asia. Ma crediamo vi siano valide ragioni alla base di questa scelta. Il periodo analizzato coincide approssimativamente con la presenza di diverse importanti entità politiche, tra cui la dinastia Tang cinese (618-907); l’avvento di nuovi Stati islamici, a partire dal califfato di Rashidun (632-661); una Bisanzio risorta, dal regno di Giustiniano I († 565) a Basilio II († 1025); e l’impero carolingio (800-887), in particolare sotto Carlo Magno († 814). Questi regni e imperi, e molti altri Stati piú piccoli sulle Vie della Seta in quel periodo, ospitavano popoli diversi, che interagivano tra loro, parlavano numerose lingue e praticavano varie fedi. Infatti, anche durante questo periodo, le principali religioni uniIn basso: la missione di Sir Aurel Stein nel Taklamakan, in una illustrazione del Journal des Voyages dell’aprile 1910.

versalizzanti del buddismo, del cristianesimo e dell’Islam si diffusero e furono adottate da vari governanti, collegando persino le estremità insulari dell’Eurasia, la Gran Bretagna e il Giappone, al continente. Inoltre, la scala del commercio organizzato durante questo periodo superò quella dei tempi precedenti, mentre il movimento so104 a r c h e o


Sulle due pagine: uno scorcio dell’oasi di Turfan (Xinjiang), nei pressi del tempio rupestre di Bezeklik.

stenuto e su larga scala delle persone, in risposta a diversi stimoli, contribuí a riconfigurare il mosaico delle culture. L’arrivo dei Vichinghi scandinavi a Terranova intorno all’anno 1000, che portò le Americhe alla portata dell’Afro-Eurasia, offre un termine appropriato alla cronologia, dopo il quale iniziò una nuova fase di connettività.

DOVE E QUANDO «Le Vie della Seta» Londra, British Museum fino al 23 febbraio 2025 Orario tutti i giorni, 10,00-17,00 (venerdí apertura serale fino alle 20,30) Info www.britishmuseum.org a r c h e o 105


TERRA, ACQUA, FUOCO,VENTO Luciano Frazzoni

LE MILLE VIE DELLA MAIOLICA L’AVVENTO DELLE CERAMICHE SMALTATE NON È SOLTANTO L’ESITO DI UNA VERA E PROPRIA RIVOLUZIONE TECNOLOGICA. MA È ANCHE IL FRUTTO DI SCAMBI AD AMPLISSIMO RAGGIO, FRA ORIENTE E OCCIDENTE E VICEVERSA

I

n Italia, le prime produzioni di ceramiche smaltate (ossia ricoperte da un rivestimento a base di silice e stagno di colore bianco, piú o meno lucido; i colori si ottenevano con ossidi di rame per il verde, manganese per il bruno, ferro per il giallo, n.d.r.) vengono convenzionalmente denominate «protomaioliche» e sono caratterizzate da uno smalto bianco e da decorazioni prevalentemente dipinte in bruno e verde, ma in alcuni casi si trovano anche il giallo e il blu. I primi centri produttori sono Savona, dove si produceva anche la graffita arcaica tirrenica (o graffita arcaica savonese), e alcune località dell’Italia meridionale e della Sicilia. La protomaiolica campana, prodotta a Napoli, si caratterizza per decori geometrici e vegetali disposti entro una larga fascia sul bordo delle ciotole, mentre al centro compaiono motivi geometrici come il «nodo di Salomone», o vegetali (rosette, svastiche fiorite, fiori a petali); piú rare sono le raffigurazioni zoomorfe, con pesci o uccelli, resi in bruno, giallo e verde. Questi motivi presentano stretti contatti con le protomaioliche pugliesi, in particolare di Lucera. Una produzione particolare, destinata probabilmente ai monasteri, presenta una decorazione monocroma in bruno sul fondo delle coppe, con croci gigliate o potenziate. Oltre all’ingobbiata sotto vetrina (l’ingobbio è un rivestimento

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costituito da argilla diluita molto depurata di colore biancastro, poi ricoperta da una vernice trasparente a base di silice e piombo, che dopo la cottura assume un aspetto vetroso, n.d.r.), in Puglia viene prodotta anche ceramica smaltata, sia nell’area del Tavoliere – dove erano attive officine a Lucera, Fiorentino, Torrione del Casone e forse Ordona nel Foggiano –, che nella parte meridionale, a Brindisi. La produzione di Lucera – ciotole, piatti, scodelle e un tipico boccale con breve corpo tronco-conico e largo collo svasato – è da mettere probabilmente in relazione con una numerosa colonia di Saraceni, qui deportata a forza da Federico II dall’Agrigentino, nel 1223 e nel 1246, che avrebbe portato in Puglia il suo bagaglio di conoscenze nella realizzazione di ceramica smaltata. La produzione lucerina dovrebbe iniziare dunque nel secondo quarto del XIII secolo, per continuare fino alla distruzione della città da parte di Carlo II d’Angiò, nel 1300. Gli artigiani saraceni furono poi trasferiti a Napoli, e questo potrebbe spiegare le somiglianze con la protomaiolica del Tavoliere con quella campana.

UN CENTRO PRECOCE Caratteristico della produzione di protomaiolica brindisina, oltre all’uso del blu cobalto, è il motivo del «gridiron», costituito da un cerchio campito a reticolo e circondato da altri motivi geometrici come trattini, puntini,

In alto: scodella in protomaiolica di tipo Gela 3. 1233-1275 circa. Caltagirone, Museo della Ceramica. Qui sopra: boccale in maiolica arcaica. XIII sec. Pisa, Museo Nazionale di San Matteo.


archetti, mentre piú rari sono i motivi zoomorfi (quadrupedi, uccelli, pesci) e a figura umana. Un piatto è decorato con una grande nave a vele latine, e trova confronto con un pezzo rinvenuto a Corinto. Brindisi sembra essere stato un centro molto precoce per la protomaiolica, attestata già nei primi anni del Duecento, e viene esportata in vari centri dell’Italia ma soprattutto nel Mediterraneo orientale, in Epiro, Grecia, e nel Regno Latino di Gerusalemme. In Sicilia, l’inizio della produzione di ceramiche smaltate, è collocabile nella prima metà del XIII secolo; tale produzione non sarebbe nata dalla sperimentazione delle nuove tecniche, ma è opera di maestranze che ne avevano già piena padronanza; non è però chiaro se si tratti di ceramisti locali che avevano appreso le nuove tecnologie di rivestire le ceramiche con una vetrina stannifera da contatti fuori dell’isola, o di ceramisti immigrati dalle aree di cultura islamica dove tali ceramiche erano già prodotte, dal Maghreb o dalla penisola iberica. I centri di produzione si possono localizzare a Gela (dove si produce la cosiddetta Gela ware), e forse in altri siti della Sicilia centroorientale (Caltagirone, Siracusa), mentre sembra da escludere una produzione nella parte occidentale. È da notare che già dalla seconda metà del XII secolo si importava stagno dalla penisola iberica, indispensabile per la realizzazione della copertura a smalto. Inoltre, per quanto riguarda la circolazione di maestranze che introducono le nuove tecniche nel rivestimento delle ceramiche, si può ricordare l’arrivo in Sicilia, alla fine degli anni Trenta del XIII secolo, di comunità ebraiche dal Nord-Africa, provenienti dalla penisola iberica, qui condotte da Federico II per la carenza di manodopera agricola e artigianale, dopo le deportazioni volute sempre dall’imperatore, di

popolazioni musulmane dalla Sicilia alla Puglia, in particolare a Lucera, dove avrebbero avviato la produzione di ceramiche smaltate. La ceramica tipo Gela comprende soprattutto scodelle, ciotole, piatti, catini, boccali, ed è decorata con motivi zoomorfi con pesci e uccelli, vegetali e geometrici, in bruno, giallo ferraccia e verde. Caratteristici sono un motivo a occhio circondato da puntini, posto a riempimento tra i soggetti zoomorfi, e quello ad archetti intrecciati riempiti da punti gialli e verdi. La produzione gelese ha un terminus post quem nella data di fondazione della città (chiamata Eraclea) da parte di Federico II, intorno al 1233, e sembra proseguire fino alla metà del secolo successivo, forse cessando con la peste nera del 1348. Una produzione costituita da ceramiche sia invetriate che smaltate è la cosiddetta «ceramica laziale», realizzata nelle stesse botteghe a partire dalla prima metà del XIII secolo e fino alla prima metà del successivo, a Roma e nell’Alto Lazio viterbese. Le forme sono le stesse (ciotole, truffette e soprattutto boccali con beccuccio a mandorla), rivestite da vetrina o da uno smalto molto povero di ossido di stagno, con decorazioni in bruno, verde e giallo. Questa produzione ha una circolazione modesta, circoscritta al Lazio, dove successivamente viene realizzata la maiolica arcaica.

LA MAIOLICA ARCAICA Il primo centro a produrre maiolica arcaica in Italia, a partire dal XIII secolo, è Pisa. In questo periodo la città, che conosce una forte crescita economica e politica, possedeva miniere all’Isola d’Elba, in Sardegna e nel Campigliese, da dove provenivano il piombo e lo stagno necessari per la lavorazione dei rivestimenti ceramici. I rapporti commerciali instaurati da Pisa con i

Piatto in protomaiolica tarda di Lucera raffigurante un soldato. XIII sec. centri islamizzati del Mediterraneo occidentale, in particolare della Spagna e delle Baleari, da dove la città toscana importava ceramiche rivestite già a partire dall’XI secolo (il termine «maiolica» deriva da Maiorica, ossia Maiorca, dove si producevano ceramiche smaltate decorate in verde e bruno), potrebbero aver portato nella città toscana, assieme ai prodotti, anche maestranze, che, grazie alle loro conoscenze, avrebbero elaborato nuove forme e decori, istruendo anche gli artigiani locali alle nuove tecniche di rivestimento. Tra le forme, spiccano i boccali su alto piede o quelli globulari con collo svasato, mentre le forme aperte comprendono catini e scodelle. La caratteristica che distingue la maiolica arcaica dalle protomaioliche è che le seconde presentano le parti non in vista prive di rivestimento, mentre nella maiolica arcaica queste sono impermeabilizzate con un rivestimento a vetrina trasparente o marroncina, ossia la parete esterna delle forme aperte e quella interna e il piede di quelle chiuse. Contemporaneamente alla maiolica arcaica, agli inizi del XIII secolo viene prodotta a Pisa, negli stessi ateliers, anche una ceramica depurata e invetriata, colorata in verde (su catini, boccali, orcioli,

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lucerne) o giallo-beige (su ciotole, scodelle), che arriva fino alle soglie del XV secolo, mentre, secondo studi recenti, la maiolica arcaica pisana sembra arrivare addirittura ai primi decenni del XVII secolo. Attraverso l’Arno, da Pisa le nuove tecniche insieme alle maestranze, potrebbero essere giunte in altri centri come Montelupo, Firenze, e poi Siena, Arezzo, Pistoia, Prato, e in Emilia Romagna a Bologna, Faenza, Ravenna, dove si ha una precoce produzione già nella metà del XIII secolo. Nello stesso periodo, un altro centro di produzione di maiolica arcaica è Assisi. È probabile che maestranze impegnate nel cantiere della basilica di S. Francesco, abbiano poi attraversato gli Appennini attratti dalla importante committenza per la realizzazione della chiesa di S. Francesco a Bologna, dove i bacini sulla facciata della chiesa dedicata al santo di Assisi costituiscono i primi esempi di maioliche arcaiche emiliane. In Umbria, un altro centro che ha prodotto maiolica arcaica in grande quantità è Orvieto. Maioliche arcaiche orvietane, provenienti dagli scavi dei numerosi pozzi da butto della città effettuati già dai primi anni del Novecento, sono presenti in collezioni pubbliche e private di tutto il mondo.

Concludendo, sebbene, come si è visto, l’introduzione delle ceramiche rivestite realizzate in doppia cottura abbia conosciuto in Italia dinamiche complesse legate a vari fattori (rapporti commerciali, importazioni di prodotti e di maestranze alloctone), si può semplificare questo processo nel seguente modo. Sembra accertato che la tecnica della maiolica compaia nel IX secolo nei territori dell’impero abbaside del bacino mesopotamico, per poi diffondersi nei secoli successivi in varie zone del mondo islamico, come il Maghreb, la penisola iberica, e l’Italia, dove si sviluppa, a partire dagli inizi del XIII secolo, una produzione locale in Sicilia, Puglia, Liguria, Toscana, Alto Lazio.

VERSO LA TERRA SANTA Come già accennato, Brindisi fu verosimilmente uno dei primi centri di produzione della protomaiolica. Questo si spiega con il fatto che questa città, tra XII e XIII secolo, costituiva con il suo porto la testa di ponte dell’Europa crociata verso il Mediterraneo orientale e la Terra Santa. È probabile che le protomaioliche diffuse in Grecia e in Terra Santa facessero parte del bagaglio dei pellegrini e dei crociati e che, secondo un’ipotesi di Stella Patitucci Uggeri,

A sinistra: scodella in graffita arcaica savonese. Prima metà del XIII sec. A destra: scodella in protomaiolica di produzione pugliese. 1200-1250 circa.

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venissero esportate per soddisfare le richieste degli occidentali che risiedevano in quest’area del Mediterraneo. La diffusione di questa ceramica «resta legata ai porti dove facevano scalo le navi italiane, e solo eccezionalmente penetrò all’interno». In Liguria, nei maggiori centri mercantili come Genova e Savona, si assiste a partire dalla fine del X e con maggiore intensità tra il XII e il XIII secolo, all’importazione di ceramiche prodotte nelle aree del Mediterraneo con cui i porti liguri avevano rapporti commerciali, sia di ambito islamico che bizantino. Dalla Tunisia giungono ceramiche smaltate e decorate con cobalto e manganese, mentre dal Mediterraneo orientale provengono ingobbiate dipinte e ceramiche graffite bizantine. Nel corso del XIII secolo sembrano cessare, o comunque diminuire, le importazioni dall’area islamica e bizantina, mentre si ha una preponderanza della produzione ligure, con la graffita arcaica tirrenica prodotta a Savona, dove si realizza anche la protomaiolica ligure, e che influenza anche la protomaiolica siciliana di Gela. Questo processo, che prevede l’utilizzo in ambito locale di nuove tecniche produttive, da collocare alla fine del XII-inizi del XIII secolo, avviene in tempi molto ridotti, ed è quindi dovuto, probabilmente, all’introduzione di maestranze straniere – islamiche o bizantine – che introducono nella produzione ligure le loro conoscenze. Già nella prima metà del XIII secolo, Savona diventerà un importante centro produttore di ceramica, che viene a sua volta esportata in Toscana, in Sardegna, in Corsica, in Provenza, nel Lazio, in Sicilia e nel Nord Africa. Un quadro complesso, legato ad avvenimenti storici, scambi commerciali e culturali, in cui la ceramica ha un ruolo importante come vettore di conoscenza.



L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

MATRIMONI EROICI LA MEDAGLIA CONIATA PER CELEBRARE LE NOZZE TRA LA PRINCIPESSA MARIA CLEMENTINA SOBIESKA E GIACOMO III STUART EVOCA LA RAFFIGURAZIONE DI UN LEGGENDARIO AMORE DI ERCOLE

D

a quando si è iniziato a coniare la moneta, il potere delle immagini che la contraddistinguono e il loro uso a scopo propagandistico – come abbiamo piú volte sottolineato in questa rubrica – è stato sempre al centro dell’attenzione dell’autorità statale che la emette. Ciò vale anche per le medaglie e i medaglioni, che, fin dall’epoca romana, hanno rappresentato creazioni di pregio, con raffigurazioni celebrative, e sono stati pensati come doni esclusivi per personaggi eminenti dell’entourage del principe. In età moderna e contemporanea tale uso persevera e la forza ideologica delle medaglie, riproducibili in grandissima quantità, assicurandone cosí la larga circolazione, costituisce un mezzo politico, propagandistico e celebrativo di straordinaria efficacia. Tra gli innumerevoli esempi possibili, si vogliono qui trattare alcune medaglie create per la principessa polacca e «regina senza regno» di Gran Bretagna Maria Klementyna Sobieska-Stuart (1701-1735), realizzate per commemorare i momenti piú importanti della sua vita. Maria Klementyna, il marito Giacomo III Stuart, pretendente cattolico al trono d’Inghilterra dove regnava il protestante Giorgio I, e i due figli trascorsero gran parte della loro vita in Italia e soprattutto a Roma, come sovrani in esilio, ma provvisti di una vera e propria corte, sempre aspirando alla riconquista del trono

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inglese (vedi «Archeo» n. 462, agosto 2023, on line su issuu.com). Nel corso della sua breve esistenza, la donna affrontò diverse traversie, da quando fu scelta quale sposa perfetta per Giacomo III Stuart: la

giovane, romantica, accettò la proposta di nozze e si innamorò dello sfortunato re, di 14 anni piú grande di lei. Riuscita a sposarsi dopo rocambolesche avventure nel 1719, la coppia ebbe due figli, Carlo

Nella pagina accanto: medaglia in bronzo di Ottone Hamerani per le nozze Stuart-Sobieski. 1719. Al dritto, i busti degli sposi; al rovescio, Ercole e Venere. In basso: rilievo funerario con Ercole e Onfale e le fatiche dell’eroe, da Roma. II sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.


ed Enrico, i quali alla loro nascita furono celebrati – cosí come il padre – quali aspiranti legittimi al trono d’Inghilterra. Alla famiglia reale furono dedicate numerose medaglie, per lo piú emesse a Roma e realizzate dal celebre medaglista Otto Hamerani (16941768), su incarico dei papi Clemente XI e Benedetto XIV; l’artista lavorò come incisore anche per Giacomo III Stuart. Le medaglie che da tempo celebravano gli eventi importanti della corte Stuart in esilio, contribuivano a diffondere la memoria delle loro vicende tra coloro che li sostenevano in Gran Bretagna e a Roma. Le raffinate e attente incisioni dei conii presentano al dritto i profili della coppia, o dei loro figli, in ricchi abiti ed elaborate pettinature; la legenda riporta sempre la titolatura reale. Al rovescio compaiono invece complesse immagini evocative, redatte secondo modelli iconografici ispirati spesso al mondo classico, che simboleggiano le virtú eroiche della coppia e la loro legittima pretesa al trono d’Inghilterra, Irlanda e Scozia.

XV, 122) fu associata anche in tempi moderni al matrimonio e compare spesso nelle allegorie quale simbolo di fedeltà, amore eterno e fecondità. La dea stringe la mano a un possente Ercole, coperto di leontea e appoggiato a una clava. A sinistra compare un putto, forse un piccolo Eros senza ali, con in mano il caduceo, simbolo di pace e prosperità. La legenda celebra la regia unione, con la data alle calende di settembre, ovvero il primo giorno del mese, e l’anno 1719.

MODELLI CLASSICI

VENERE ED ERCOLE Una delle medaglie create per le nozze Stuart-Sobieski reca al dritto i busti affiancati della coppia, contraddistinti dall’elegante abbigliamento e acconciatura di Giacomo, mentre Clementina, bellissima, è leggermente defilata. La titolatura riporta IACOB III R – CLEMENTINA R, dove la R sta per

re e regina. Sotto il busto del re compare la firma Hamerani. Al rovescio, su un prato, una vezzosa Venere rivolta verso l’osservatore e con un ricco panneggio, tiene in mano un rametto di mirto. La pianta, sacra alla dea e definita da Plinio coniugalis (Naturalis Historia,

Questa scelta iconografica si rifà a modelli di ispirazione classica, in cui gli sposi sono paragonati alla dea dell’amore e all’eroe semidivino, riportando alla mente di chi scrive una splendida e originale lastra funeraria in marmo di II secolo d.C. rinvenuta a Roma nel XVIII secolo nella Vigna Casali, sul Celio. Qui compaiono, affiancati, Ercole e Onfale dove la regina, di tipo afrodisiaco, tocca la spalla dell’eroe. Intorno corrono 12 piccoli riquadri con le celebri fatiche di Ercole. Alla base ci sono l’arco e la faretra del semidio sotto Onfale e il cesto per la filatura della regina sotto Ercole; sovrastante, l’epigrafe dedicatoria a CASSIA MANI FILIA PRISCILLA FECIT. Questo magnifico rilievo, che dobbiamo immaginare vivacemente colorato, fu recuperato dai Carabinieri del nucleo TPC nel 1988 ed è attualmente esposto al Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

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I LIBRI DI ARCHEO

Silvio Campus

LA CIVILTÀ NURAGICA Uno splendido isolamento Mimesis Edizioni, Sesto San Giovanni (Milano), 204 pp. 20,00 euro ISBN 979-12-2231-030-5 www.mimesisedizioni.it

È sufficiente scorrere la vasta bibliografia inserita a chiusura del testo per intuire come, pur nel suo «splendido isolamento», la Sardegna sia stata e continui a essere oggetto di studi e ricerche, in larga parte rivolti proprio al fenomeno, la civiltà nuragica, che è protagonista del volume. L’opera di Silvio Campus si inserisce dunque nella scia di una lunga tradizione e lo fa con l’intento, riuscito, di offrire una panoramica ampia e aggiornata, che si rivela accessibile anche ai non addetti ai lavori. Obiettivo piú volte sottolineato dall’autore è anche quello di sgombrare il campo da ipotesi fantasiose che hanno a piú riprese 112 a r c h e o

ostacolato la corretta lettura del fenomeno nuragico. La trattazione si sviluppa quindi in vari capitoli, i primi dei quali ricostruiscono il contesto storico e culturale in cui le comunità alle quali si deve la costruzione dei nuraghi – e non solo – si svilupparono, seguiti dall’esame sistematico delle diverse tipologie architettoniche a oggi individuate. Né mancano approfondimenti su casi di particolare rilevanza, come quello delle statue rinvenute a Mont’e Prama. Utile corollario sono infine le schede fotografiche, che danno un «volto» alle molte storie narrate nel volume. Giacomo Baldini, Valerj Del Segato, Andrea Marcocci e Matteo Milletti (a cura di)

GLI ETRUSCHI DI CASENOVOLE Passato remoto di una comunità Quaderni del Museo Archeologico e d’Arte della Maremma 4, Effigi Edizioni, Arcidosso (Grosseto), 348 pp., ill. col. e b/n 26,00 euro ISBN 978-88-5524-709-2 www.cpadver-effigi.com

Come annunciato (vedi «Archeo» n. 466, dicembre 2023; on line su issuu.com), è uscito il quarto titolo dei Quaderni del Museo Archeologico e d’Arte della Maremma, imperniato sulla necropoli etrusca di Casenovole, scoperta nei pressi di Casale di Pari, nel comune di Civitella

IMPORTRELIQUIEN IN ROM VON DAMASUS I. BIS PASCHALIS I. Palilia 36, Deutsches Archäologisches Institut, Abteilung Rom, 244 pp., ill col. + 3 cartine 89,00 euro ISBN 978-3-447-11946-7 www.harrassowitz-verlag. de

Paganico (Grosseto). La pubblicazione non si limita al catalogo dei materiali restituiti dallo scavo delle tombe del sepolcreto, ma accoglie contributi che ricostruiscono il quadro storico in cui la sua realizzazione si colloca. Una ricostruzione arricchita da interventi sulla storia delle ricerche, sull’attività dell’Associazione Archeologica Odysseus – alla quale si deve il lavoro svolto sul campo –, cosí come da considerazioni sulle testimonianze epigrafiche e da schede sui dati ricavati dalle analisi antropologiche e dallo studio dei resti paleobotanici. Dati e notizie che offrono un quadro completo di una delle piú importanti acquisizioni degli ultimi anni per la conoscenza di questo comparto dell’Etruria.

DALL’ESTERO Adrian Bremenkamp, Tanja Michalsky e Norbert Zimmermann (a cura di)

Esito del convegno internazionale svoltosi nel 2020 sul tema affrontato, il volume – di taglio specialistico – propone i contributi che dunque analizzano il fenomeno dell’importazione a Roma delle reliquie di santi stranieri nei primi secoli del Medioevo. Fra gli aspetti piú caratterizzanti, vi sono la ricezione di pratiche cultuali tipiche dell’Oriente, ma anche quella sorta di «occidentalizzazione» dei vari personaggi. Leucio, Tecla, Giacomo Minore e molti altri divengono destinatari di sincera devozione e nel loro nome, auspici i papi, sorgono nuove chiese. (a cura di Stefano Mammini)






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